sabato 25 dicembre 2021

COMPOSIZIONE SOCIOECONOMICA E COMPOSIZIONE SOCIOPOLITICA 
QUESTIONI DI METODO

di Carlo Formenti


Rilancio su queste pagine l'articolo che ho scritto per gli amici della rivista "Cumpanis", con il quale ho inaugurato la discussione lanciata sulla stessa testata da Alessandro Testa con un intervento https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/21760-alessandro-testa-l-essenza-per-le-fondamenta.html   sul tema della composizione di classe nel tardocapitalismo


Provo a rilanciare gli  stimoli che ci ha offerto Alessandro Testa con il suo articolo sul tema  della composizione di classe.  In questo intervento mi concentrerò soprattutto su alcune questioni di metodo che, a mio avviso, sono  imprescindibili per dire qualcosa di sensato sull’argomento in questione. Testa parte dalla constatazione di un dato di fatto: l’evoluzione del modo di produzione capitalistico dai tempi di Marx a oggi è stata tale che il modello “classico”, fondato sull’opposizione bipolare capitale-lavoro non è più una chiave interpretativa sufficiente: il secondo fattore del binomio ha subito tali e tante trasformazioni (il che vale anche per il primo fattore, ma identificare le classi dominanti resta relativamente più facile) che solo un’accurata indagine scientifica può aiutarci a darne un’adeguata rappresentazione “oggettiva” (il significato delle virgolette si capirà più avanti). Dopodiché aggiunge che, a rendere ulteriormente difficile l’impresa, contribuisce il fatto che l’apparato scientifico che potrebbe realizzarla – fondi, ricercatori, istituti universitari, ecc. – è totalmente controllato da élite economiche, politiche e accademiche che non hanno alcun interesse a promuoverla (anzi hanno interesse a impedire che ciò avvenga, o a indirizzare la ricerca verso falsi obiettivi). Posto che l’osservazione è corretta, mi viene da osservare che, per quanto utile, il contributo di analisi empirica che ci potrebbe arrivare dalla ricerca accademica, qualora potessimo disporne, potrebbe integrare ma non rimpiazzare l’analisi teorica di una forza politica anticapitalista di orientamento marxista-leninista. 

Sono convinto che uno degli errori più gravi del marxismo dogmatico e accademico sia stato quello di attribuire alle scienze sociali borghesi pari dignità rispetto alle scienze naturali, e ciò in particolare in campo economico, al punto che molti intellettuali marxisti – o sedicenti tali – hanno finito per convertirsi in altrettanti esperti di economia politica, dimenticando che l’intento di Marx non era fondare una nuova economia politica, bensì gettare le fondamenta di una critica dell’economia politica, scoprire, cioè, non le leggi dell’economia capitalistica, bensì le “leggi” della lotta di classe. Le virgolette sono d’obbligo per i motivi chiaritici dal più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukács: per Marx, scrive Lukács, l’unica vera scienza (s’intende sociale) è la storia, le cui “leggi” non possono essere indagate in astratto, a priori, ma solo post festum, a posteriori, ricostruendo - attraverso un’analisi concreta della situazione concreta - le catene causali che hanno indirizzato un determinato processo storico. Ecco perché penso che il vero ostacolo che oggi rende arduo realizzare un’analisi soddisfacente della composizione di classe non è tanto lo stato in cui versano le scienze sociali accademiche, quanto l’assenza di un partito di classe forte, numeroso e sufficientemente ramificato in tutte le parti della società per poter condurre in prima persona le indispensabili inchieste sul campo. 

Quanto appena affermato non può né deve impedire di abbozzare alcune prime riflessioni di metodo da cui partire per dissodare il terreno in vista di successivi approfondimenti. È quanto ha fatto Alessandro Testa attraverso una sorta di percorso circolare che parte dalla - e ritorna alla - affermazione di principio secondo cui appartiene alla classe proletaria: 1) chi vive esclusivamente della vendita della propria forza lavoro, 2) chi, oltre a vivere della vendita della propria forza lavoro, non è in grado di determinarne il prezzo (le star dello sport e dello spettacolo, per esempio, vendono la loro forza lavoro ma sono in grado – chi più chi meno - di determinarne il prezzo). Vediamo le stazioni attraversate dal percorso circolare di cui sopra. 

In primo luogo, Testa si chiede come classificare quei soggetti che, oltre a percepire un reddito da lavoro più o meno corrispondente al costo della propria riproduzione, godono di una piccola rendita aggiuntiva (come l’affitto di un appartamento ereditato o acquistato con i propri risparmi, o un certo numero di buoni del tesoro). La sua risposta è che ciò non è sufficiente (ovviamente a condizione che la rendita in questione non superi una certa dimensione) per negare a tali soggetti lo status di proletari. Sono d’accordo, ma con una precisazione. Thomas Piketty, nelle sue analisi che dividono la popolazione per percentili di reddito e non per classi sociali, ci dice che negli Stati Uniti e in Europa, a parte l’esigua minoranza di super ricchi che concentrano nelle proprie mani gran parte delle risorse, esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che riescono a intercettare rendite sufficienti a garantire un livello di vita medio alto, decisamente superiore a quello che potrebbero permettersi con il solo reddito da lavoro. Di per sé questo dato non inficia la tesi di Testa: ci dice semplicemente che i rentier che possiamo definire come appartenenti alle classi medio alte sono – almeno qui in Occidente - di numero pari, se non superiore, a quello dei proletari che usufruiscono di piccole rendite. Ma la questione non è meramente quantitativa: infatti occorre tenere conto anche del peso psico-antropologico che anche minime quote di proprietà immobiliare e mobiliare giocano nell’inibire l’autopercezione di sé come appartenenti alla classe proletaria (più volte è stata richiamata l’attenzione sul ruolo che l’alta percentuale di italiani che vivono in un’abitazione di proprietà ha giocato nello smussare il potenziale combattivo delle classi subalterne del nostro Paese). Cominciamo così a capire perché ho messo quelle virgolette sull’appartenenza al proletariato come dato “oggettivo”. Ma andiamo avanti.  

Sul secondo criterio introdotto da Testa non mi dilungo perché mi pare incontestabile: la proprietà o meno dei propri mezzi di produzione vale come elemento discriminante solo ove si parli di mezzi di produzione di massa. Nessuno può pensare che lo status sociale del rider è definito dal fatto che la bici o il motorino con cui va in giro sono suoi (quando lo sono, perché non sempre è così). Analoghe considerazioni valgono per altre due questioni affrontate da Testa: il lavoro autonomo non è di per sé un criterio significativo, dal momento che la quota di lavoro fintamente autonomo (vedi gli autisti di Uber e quasi tutte le attività classificabili nell’ambito della cosiddetta gig economy) è in costante crescita in quanto consente alle imprese di sfruttare forza lavoro a cui non deve versare contributi, retribuire i giorni di malattia e ferie, pagare liquidazioni ecc. Idem per quei piccoli o piccolissimi (come gli ambulanti) esercenti che, in molti casi, hanno avviato tali attività dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro dipendente.       

Più intrigante la questione dei quadri intermedi d’impresa, in quanto si tratta di un altro caso in cui identità di classe “oggettiva” e percezione soggettiva della stessa possono divergere (e nella maggioranza dei casi è così). Di questo ho discusso in vari lavori nei quali ho polemizzato con le tesi post operaiste in merito al presunto ruolo di avanguardia dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Com’è noto, gli autori in questione, sostengono che la rivoluzione digitale ha creato un nuovo strato di lavoratori che presentano una elevata propensione alla cooperazione reciproca e all’autonomia nei confronti del comando capitalistico. Questa “classe hacker” disporrebbe di un habitus mentale, oltre che delle competenze e delle capacità necessarie ad assumere il controllo diretto della produzione sociale, appropriandosi del general intellect ed emancipandosi in tal modo dal potere del capitale. Se questi sogni hanno avuto una qualche giustificazione nella fase arrembante delle startup californiane (cioè negli anni Novanta), la crisi dei primi anni Duemila e il conseguente rapido processo di concentrazione monopolistica delle Internet Company li hanno impietosamente spazzati via. Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori di tale settore (programmatori, sviluppatori, web designer, ecc.) sia che operino come autonomi (dispersi in catene di subfornitura caratterizzate da alti tassi di sfruttamento e di feroce competizione fra poveri) sia come dipendenti dei colossi del settore high tech, sono a tutti gli effetti operai come gli altri (cioè non dotati di alti livelli di comprensione del processo produttivo totale in cui operano come piccoli ingranaggi individuali). Viceversa le minoranze di quadri inseriti in grandi imprese come Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft ecc. sono a tutti gli effetti funzionari del capitale il cui ruolo fondamentale consiste – similmente a quello degli ingegneri analisti dei sistemi nell’era taylorista – nello sviluppare modelli di governo, controllo e comando non solo sugli altri dipendenti d’impresa, ma anche sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma (vedi gli algoritmi che controllano il lavoro dei rider), dei consumatori e più in generale dell’insieme dei rapporti sociali. Oggettivamente sono proletari, soggettivamente no. 

Testa inserisce poi un altro elemento di riflessione che consiste nel mettere l’appartenenza di classe in relazione alla posizione occupata all’interno del processo di creazione di plusvalore. Tema che implica altre questioni, come le distinzioni fra lavoro produttivo e improduttivo, manuale e intellettuale, materiale e immateriale, servizi e produzione, creazione e realizzazione del valore, ecc. Questioni intricatissime già ai tempi di Marx (basti pensare al Capitolo VI inedito e al Secondo e Terzo libro del Capitale) ma che appaiono oggi ancora più complicate dall’elevatissimo livello di integrazione raggiunto fra i vari spezzoni delle catene del valore (ricerca e sviluppo, progettazione, produzione materiale e immateriale, distribuzione e commercializzazione, logistica ecc.) reso possibile dalle nuove tecnologie, per tacere dell’impatto dei processi di finanziarizzazione su tutto ciò. Non avendo le competenze per addentrarmi in una discussione in merito alla possibilità di attualizzare la legge del valore lavoro nell’attuale contesto socioeconomico, mi limito ad offrire alcuni spunti.

Parto dal binomio lavoro produttivo-improduttivo. Come notavo già decenni fa , in campo marxista la questione è inquinata da alcune rozze impostazioni (che Marx avrebbe definito materialismo volgare) fondate su una sorta di pregiudizio “morale”, in ragione del quale viene considerato produttivo esclusivamente il lavoro manuale. Nel Capitolo VI inedito Marx sgombra il campo da queste idee: è produttivo il lavoro che genera plusvalore per il capitalista che lo sfrutta, senza alcuna distinzione relativa al tipo di attività svolta. Di più: a mano a mano che la produzione diviene sempre più complessa e integrata, che cresce il livello di cooperazione fra tutte le operazioni di una fabbrica sempre più socializzata, l’attributo di lavoro produttivo va riconosciuto al lavoratore collettivo che la mette in funzione. Fra le altre cose, ciò rende difficile tracciare un netto confine tra produzione e servizi, come nota Testa: “progettare un prodotto, progettare un processo, mettere fisicamente a disposizione un prodotto attraverso una rete logistica globale e fortemente automatizzata sono ormai divenuti elementi strutturali della creazione di valore, elementi senza i quali produrre un telefonino o persino un bullone diviene totalmente inutile ed insensato”. 


Attenzione: quanto appena detto non impedisce che, in una società socialista, il criterio possa mutare radicalmente, nella misura in cui la produttività del lavoro è qui commisurata alla sua utilità sociale, per cui attività come il marketing, la pubblicità, ecc. che per il capitalista sono produttive, divengono improduttive in un mondo socialista. Anche fra lavoratori dei settori pubblici e privati è difficile tracciare nette distinzioni: mentre è interesse dell’ideologia neo liberale accusare in blocco di improduttività il lavoro del settore pubblico (per giustificare i tagli alla spesa e ridurre lo spazio di intervento dello Stato in economia), è chiaro che molti lavori pubblici (non solo nel settore delle infrastrutture) sono indispensabili per il funzionamento della macchina economica, e che anche i criteri di queste distinzioni varieranno nella transizione dal capitalismo al socialismo. Sorvolo invece sul demenziale tentativo di certi teorici post operaisti di invertire la gerarchia fra lavoro materiale e immateriale, rovesciando specularmente il punto di vista materialista volgare cui accennavo poco fa – tentativo che ho criticato in precedenti lavori ai quali rinvio. 


Per tirare le fila di questa prima parte di ragionamento, richiamo brevemente un altro aspetto di cui mi sono occupato negli ultimi anni. Marx aveva intuito già ai suoi tempi che il capitale è in grado di sfruttare vari tipi di “lavoro del consumatore”. Questo fattore si è oggi dilatato a dismisura: basti pensare al fatto che tutti noi, per il solo fatto di connetterci ai social media, produciamo sistematicamente una enorme massa di dati e informazioni (non solo sotto forma di testi, immagini ecc. ma anche e soprattutto di dati sensibili sui nostri comportamenti, fedi politiche e religiose, tendenze sessuali, ecc.) che sono la materia prima, o meglio i semilavorati, del modello di business delle Internet Company che estraggono valore da questo materiale di cui si appropriano gratuitamente. Mi è stato obiettato che queste attività in quanto “libere” volontarie, non finalizzate a generare un reddito e fonte di gratificazione per coloro che le compiono non possono essere classificate come economiche. In un libro ironicamente intitolato “Felici e sfruttati” ho replicato a tale osservazione scrivendo che questo loro carattere “ludico” non inficia l’esistenza di una relazione di appropriazione gratuita di risorse che generano valore economico per chi le sfrutta (per inciso: la quantità di lavoro che non solo le piattaforme digitali, ma anche banche, compagnie aeree, portali commerciali ecc. delegano ai propri utenti è in continua crescita, consentendo alle aziende di alleggerirsi di numerose operazioni che, altrimenti, dovrebbero essere svolte da forza lavoro retribuita). È tuttavia chiaro che ciò non basta per definire come appartenenti al proletariato tutti quelli che in questo modo contribuiscono ad alimentare la catena del valore. 


Non resta dunque che attenersi al criterio generalissimo evocato in apertura: appartiene alla classe proletaria chi vive della vendita della propria forza lavoro e non è in grado di determinarne il prezzo? Sì, ma avendo ben presente che, non appena si scende al di sotto di questo livello di astrazione e ci si addentra nei meandri del mondo della produzione tipico dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, l’impresa di definire chi appartiene “oggettivamente” alla classe si fa progressivamente più complicato. Ma soprattutto: definire l’insieme di coloro che appartengono a quella che Marx definisce “classe in sé”, non equivale a definire l’insieme di coloro che costituiscono la “classe per sé”, cioè l’insieme dei soggetti che una forza politica rivoluzionaria dovrebbe di volta in volta assumere come propri interlocutori privilegiati. Questo compito, come cercherò di argomentare nella seconda parte di questo intervento, attiene a un’analisi di tipo sociopolitico piuttosto che socioeconomico, cioè a un’analisi che antepone il punto di vista storico, l’analisi concreta della situazione concreta – il metodo di Gramsci, Lenin e Mao – alla contemplazione del cielo dell’astrazione. 


Un primo passo da fare, per imboccare la via appena indicata, consiste nell’introdurre nel nostro ragionamento la dimensione spaziale, geografica e geopolitica del conflitto di classe. Già dopo la rivoluzione del 1917 non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti, oggi ciò è ancora più evidente. È grazie all’analisi leninista dell’imperialismo che l’elemento geopolitico ha fatto il suo prepotente ingresso nella teoria marxista. Marx ed Engels avevano assunto a modello il capitalismo ottocentesco inglese, e pensavano che tale modello si sarebbe gradualmente esteso al resto dell’Europa e, se non fosse stato rovesciato da una rivoluzione proletaria, al mondo intero. Tipico, in tal senso, il giudizio sul ruolo progressivo dell’imperialismo britannico in India - giudizio giustificato dal fatto che, ad onta dei suoi mostruosi costi umani, la colonizzazione avrebbe accelerato la trasformazione dell’India da nazione semifeudale a moderna nazione borghese, ingrossando le fila del proletariato mondiale. Viceversa Lenin, avendo potuto osservare la transizione del capitalismo alla sua fase monopolistica, e il ruolo strategico che il colonialismo veniva assumendo nel processo di riproduzione allargata del capitale monopolistico metropolitano, fu in grado di cogliere la contraddizione per cui l’espansione metropolitana non solo non avrebbe innescato lo sviluppo capitalistico delle periferie, ma le avrebbe mantenute in uno stato di arretratezza economica, sociale e culturale, funzionale al dominio del centro. Di qui la geniale intuizione in merito alla natura rivoluzionaria della lotta di liberazione nazionale dei popoli coloniali, e alla necessità di concepirla come parte integrante della lotta di classe contro il capitalismo.


Questa consapevolezza è divenuta patrimonio teorico-politico del regime sovietico - inspirandone la politica internazionale - perlomeno fino agli anni Cinquanta del Novecento. Un patrimonio che è stato ulteriormente arricchito da quella generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, hanno dato vita alla cosiddetta “scuola della dipendenza”. Viceversa, dopo il completamento del processo di decolonizzazione negli anni Settanta, la quasi totalità del movimento marxista occidentale - come denunciato da Domenico Losurdo nei suoi lavori - ha dato per scontato che ormai la questione nazionale avesse perso la caratteristica di parte integrante della lotta di classe a livello mondiale per cui, distolta l’attenzione dallo scontro fra Paesi del Nord e del Sud del mondo, si è regrediti su una posizione che vedeva come unico scenario della lotta di classe lo scontro fra borghesia e proletariato all’interno di ogni singolo Paese (oltre a predicare una fideistica aspettativa in una rivoluzione mondiale fondata su un modello che contrappone un ipotetico proletariato mondiale a una, forse meno ipotetica ma non meno astratta, borghesia mondiale).  


Gli effetti di questa rimozione della dimensione spaziale, geografica, geopolitica della lotta di classe sono stati devastanti: liquidazione di ogni istanza patriottica come di ogni rivendicazione di sovranità popolare-nazionale in quanto espressione di ideologie “di destra” (con buona pace dello slogan patria o muerte, lanciato da quasi tutte le rivoluzioni latinoamericane); allineamento con le politiche imperialiste di Stati Uniti ed Europa che violano il principio di non interferenza negli affari interni di altri Paesi in nome dell’esportazione della democrazia occidentale e della tutela di presunti “diritti universali dell’uomo” (basti pensare a come Antonio Negri, in Impero , arrivi a negare l’esistenza stessa di una politica imperiale americana, dando per acquisita l’unificazione politica del mondo e  declassando a “operazioni di polizia” i conflitti Nord-Sud); limitazione della opposizione alle politiche ordoliberiste della Unione Europea a trazione tedesca a un blando europeismo critico, che ignora le conseguenze della deindustrializzazione dell’Italia e della sua integrazione in posizione subordinata in filiere controllate dall’estero (per tacere dello smantellamento delle industrie pubbliche, dei tagli alla spesa sociale, ai salari e alle pensioni, ecc.) sulle condizioni di vita e di lavoro del proletariato italiano. 


Credo infine che l’effetto più grave di questa chiusura dell’orizzonte politico-culturale delle sinistre occidentali nel cerchio di un ottuso e autoreferenziale eurocentrismo consista nell’incapacità di porsi il seguente interrogativo: perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite non sono avvenute in Paesi industrialmente avanzati (laddove, secondo la dogmatica kautskyana della II Internazionale, sarebbero dovute avvenire nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive), bensì in Paesi economicamente “arretrati” (negli anelli più deboli della catena, secondo la formula “eretica” di Lenin)? E ancora (ed a mio avviso è questo l’interrogativo più importante ai fini della nostra discussione su composizione di classe e lotta per il socialismo): perché ne sono state protagoniste le larghe masse contadine, assieme ad esigui nuclei di classe operaia in formazione e a sezioni della piccola borghesia urbana? Per dare una risposta, dobbiamo tornare alle questioni di metodo introdotte in precedenza. 


Nell’ultimo decennio di vita, Marx assunse posizioni che appaiono oggi quanto meno scomode per i suoi esegeti dogmatici e dottrinari. In primo luogo, commentando la recensione che il traduttore russo del Capitale aveva dedicato alla sua opera fondamentale, scrisse ironicamente che costui gli aveva fatto allo stesso tempo troppo onore e troppo torto, scambiando il suo lavoro per un tentativo di descrivere le leggi universali di sviluppo della storia. Questo perché, dal suo punto di vista, non esiste alcuna necessità immanente che governi come una ferrea legge di sviluppo il cammino della storia, bensì un avanzare complesso e contraddittorio della stessa, che può essere compreso solo attraverso l’analisi dei  contesti concreti - spesso contingenti – che di volta in volta ne determinano l’esito. Ciò significa, fra le altre cose, che Marx non ha mai teorizzato l’esistenza di una successione necessaria di fasi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo) che tutte le società dovrebbero necessariamente attraversare. Tanto è vero che, nella famosa lettera a Vera Zasulic , arrivò ad ammettere che, in determinate circostanze nazionali e internazionali, la comunità contadina originaria russa, l’ obščina, avrebbe potuto funzionare come il nucleo di un balzo diretto al socialismo, senza passare sotto le forche caudine di una fase borghese-capitalistica. 

Questa straordinaria elasticità mentale ha inspirato quei teorici marxisti latinoamericani  che hanno criticato la tesi comune a molti partiti comunisti del subcontinente, secondo cui le masse contadine di origine india, organizzate in comunità definibili come forme di comunismo primitivo, avrebbero potuto divenire parte attiva in un fronte rivoluzionario anticapitalista solo dopo essere passati attraverso la fase della piccola proprietà di tipo borghese. Una visione miope, incapace di cogliere la profonda differenza fra il feudalesimo europeo e il comunitarismo contadino latinoamericano, e quindi di sfruttare il potenziale rivoluzionario di quest’ultimo. Ragionando sulla rivoluzione boliviana, e sul ruolo strategico svoltovi dalle comunità campesindie l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera ha dato un  contributo importante all’allargamento del concetto di classe antagonista, estendendolo a quelle forme comunitarie che, ove costrette a lottare contro i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, possono acquisire una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e universalizzante di quello originario (il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane è non a caso una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità andine).  Questa “etnicizzazione” dello scontro di classe ha fra l’altro fatto sì che gli organismi di democrazia diretta e partecipativa, tipiche delle comunità andine tradizionali, abbiano svolto un ruolo centrale nell’aggregazione del blocco sociale rivoluzionario. 


Ancora più densa di insegnamenti, sotto questo aspetto, si presenta la rivoluzione cinese, della quale le masse contadine sono state di gran lunga il protagonista principale, laddove la classe operaia cinese - numericamente inferiore all’1% della popolazione all’inizio del processo rivoluzionario – appare tutt’oggi  minoritaria, malgrado i giganteschi processi di industrializzazione e di inurbazione che il Paese ha vissuto negli ultimi decenni (basti dire che gli operai sono poco più del 13% degli attuali iscritti al PCC, superati da tecnici, lavoratori del terziario e dei servizi, mentre i contadini, pur ridimensionati,  sono ancora maggioranza relativa). Ciò significa che dobbiamo rimpiazzare il proletariato in quanto soggetto privilegiato di un processo di trasformazione socialista? Evidentemente no, ma certamente significa: 1) che dobbiamo ridefinirne e estenderne i confini (vedi gli spunti contenuti nella prima parte); 2) che dobbiamo immaginare la costruzione di un blocco sociale rivoluzionario non nei termini di una rete di alleanze tattiche, strumentali, bensì come integrazione di una serie di soggetti sociali in un popolo unito da un comune progetto politico anticapitalista, un blocco in cui non necessariamente la classe operaia deve rappresentare, in ogni e qualsiasi concreta contingenza storica, l’avanguardia; 3) che occorre riproporre in tutta la sua pregnanza la distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé, nonché la concezione leninista del partito quale unica organizzazione politica in grado di incarnare gli interessi generali (e non meramente corporativi) della classe per sé, al di là della composizione statistica del partito stesso e del corpo sociale in cui esso si trova di volta in volta a operare. 


Che altro aggiungere? Sull’atteggiamento delle sinistre occidentali che, di fronte alle rivoluzioni “eretiche” avvenute al di fuori del loro universo storico, geografico e culturale, reagiscono negandone il carattere socialista e parlando di capitalismo di stato e autoritarismo, ho già scritto altrove e non intendo qui ritornare sul tema. Chiudo perciò riassumendo le osservazioni di metodo fin qui svolte e aggiungendo quali obiettivi dovrebbero a mio avviso  suggerire a una forza rivoluzionaria. Credo che tutto quanto ho sostenuto possa essere sintetizzato in due tesi di fondo. La prima consiste nell’affermare che la ridefinizione-aggiornamento del concetto di classe in sé alla luce dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico, mentre è decisiva ai fini della comprensione delle nuove modalità di sfruttamento della forza lavoro, non offre indicazioni immediate sull’identità della classe per sé. Detto altrimenti: composizione di classe socioeconomica e sociopolitica non coincidono necessariamente, e i soggetti in grado di elevarsi dalla lotta economica alla lotta politica sono riconoscibili solo analizzando, di volta in volta, la composizione sociopolitica. La seconda tesi rinvia alla necessità di inquadrare il conflitto di classe nel contesto mondiale, declinandolo come conflitto fra nazioni dominanti e nazioni dominate, il che implica rilanciare e aggiornare le teorie leniniste sull’imperialismo. 


Queste tesi si integrano e influenzano reciprocamente, come l’esperienza delle rivoluzioni socialiste avvenute nei Paesi periferici e semiperiferici ampiamente dimostra. Queste esperienze si sono infatti avvalse di due poderose leve storiche: la volontà di riscatto nazionale dei popoli asserviti, oppressi e sfruttati dalle potenze imperialiste occidentali, e la volontà di resistenza alla penetrazione dei rapporti di produzione capitalistici da parte di larghe masse contadine che, perlopiù, non erano passate attraverso una fase feudale di tipo occidentale, per cui conservavano consistenti memorie di culture comunitarie e relazioni economiche di natura precapitalistica. Queste due leve hanno assunto il carattere di lotta anticapitalista laddove il processo rivoluzionario ha potuto contare su partiti marxisti-leninisti radicati in minoranze sociali di operai e intellettuali piccolo borghesi. Partiti che hanno conquistato l’egemonia convincendo le larghe masse popolari che solo il socialismo poteva realizzarne le speranze di indipendenza nazionale e di libertà dallo sfruttamento imperialistico. 


Le due tesi sopra enunciate valgono anche nei Paesi che appartengono ai centri capitalisti metropolitani? Sì, ma con gli opportuni adeguamenti. Partiamo dalla prima: nel contesto occidentale, la disarticolazione del proletariato in frammenti separati da confini generazionali, di genere, regionali, di status economico e contrattuale, ecc. dovuta a decenni di ristrutturazione tecnologica, finanziarizzazione, decentramento produttivo, nonché di progressiva perdita di rappresentanza sindacale e politica, ha raggiunto livelli tali per cui il compito prioritario di un partito comunista consiste nel ri-costruire l’unità di classe. In un certo senso si potrebbe dire che, data l’attuale debolezza del movimento comunista, ricostruire il partito di classe e ricostruire la classe sono parte di un unico processo. Da quanto sostenuto in precedenza deriva che l’analisi della composizione socioeconomica, della classe in sé è, sotto tale aspetto, meno rilevante dell’analisi della composizione sociopolitica, il che, detto in parole povere, significa che l’attenzione e le energie vanno indirizzate in primo luogo nell’individuazione degli “anelli deboli” di questa nuova nebulosa del lavoro (cioè quei settori sociali che, per cause non definibili a priori, manifestano maggiore spirito combattivo), nell’organizzarli e nel convertirli in avanguardia rivoluzionaria. Anche il compito di allargare l’egemonia di tale avanguardia su un più ampio blocco sociale assume carattere inedito: non si tratta tanto – almeno in una prima fase - di costruire alleanze con altre classi sociali, ma di proseguire e rafforzare il processo di ri-costruzione della classe proletaria. Da questo punto di vista, esiste una qualche analogia con quanto sostenuto dal filosofo argentino Ernesto Laclau, laddove parla di “costruzione di un popolo”, riferendosi alla capacità di saldare una serie di rivendicazioni eterogenee in un’unica “catena equivalenziale”. Con la differenza che, per chi vuole mantenere un punto di vista classista, i confini del popolo in questione non possono essere estesi indefinitamente (vedi il discorso sull’integrazione nel blocco dominante di un ampio strato di quadri e rentier, accennato nella prima parte).  


Quanto alla seconda tesi, relativa al conflitto geopolitico come conflitto di classe, è chiaro che da noi pesa meno di quanto abbia pesato nelle rivoluzioni dei Paesi ex coloniali, ma la sua importanza è tutt’altro che irrilevante. Basti pensare alle contraddizioni che l’integrazione dell’Italia nella Ue ha generato per il nostro Paese: smantellamento dell’industria di Stato, tagli drammatici al welfare e alla spesa pubblica, de industrializzazione, aumento della disoccupazione, annullamento dei diritti del lavoro, crescenti disuguaglianze e aggravamento delle differenze fra Nord e Sud, fra regioni ricche e regioni povere. Insomma: il conflitto di classe si inscrive potentemente nello spazio, sia all’interno che verso l’esterno dei confini nazionali. All’interno lo vediamo, fra le altre cose, con i processi di gentrificazione dei centri delle grandi città, e con la conseguente espulsione delle classi lavoratrici verso le periferie, e ancor più lo vediamo con la desertificazione produttiva, sociale e culturale del Meridione che va ad accrescere le fila di quello che Nicola Zitara chiamava “proletariato esterno”. Nei rapporti con l’esterno lo vediamo con la rabbia popolare generata dalle politiche economiche imposte dai principi ordoliberali dell’Europa a trazione tedesca. Una rabbia che si estende a settori di piccola e media imprenditoria e gonfia le vele dei populismi di destra, il che dovrebbe farci capire – con buona pace delle sinistre cosmopolite – come il tema della sovranità nazionale e popolare non sia appannaggio esclusivo delle rivoluzioni cinese, vietnamita e cubana ma possa giocare un ruolo strategico anche in Paesi come il nostro.

 




 

domenica 21 novembre 2021

PREFAZIONE
AL VOLUME I DELLE OPERE DI COSTANZO PREVE

di Carlo Formenti









In questa Prefazione mi occuperò del primo dei testi riuniti in questo volume, (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di tale testo leggiamo la seguente citazione: “Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico”. Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve. 


Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”(ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in  questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evidenziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore. 


Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce). Per usare una metafora un po’ scontata: si sono precipitati ad azzannare il dito per distogliere l’attenzione dalla luna che il dito indicava. Si tratta dello stesso atteggiamento che la maggior parte degli intellettuali “di sinistra” hanno assunto nei confronti di una serie di “eretici” come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo e altri, accomunati dal “peccato” di avere preso le distanze dalla via social liberale imboccata dal marxismo occidentale, caratterizzata, in particolare, dalla demonizzazione del socialismo reale e dall’esaltazione del sistema liberal democratico. Tuttavia, va preso atto che, fra tutti questi autori “messi all’indice”, Preve è senza ombra di dubbio quello che ha subito un  vero e proprio linciaggio, un autodafé che è riuscito a cancellare quasi del tutto il suo contributo alla comprensione della drammatica epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo.  


Prima di entrare nel merito del modo in cui Preve sviluppa il tema di De Benoist, vale la pena di citare un episodio che lui stesso ci racconta: un suo vecchio amico “di sinistra” gli aveva fatto notare che il concetto di nemico principale è il parto di un filosofo come Carl Schmitt, per cui è inequivocabilmente “di destra”. Ammesso che Il contributo di un genio come Schmitt, al pensiero geopolitico contemporaneo, possa essere liquidato con questa etichetta, Preve ha buon gioco nel ribattere che Schmitt non è l’inventore di un concetto che appare più  appropriatamente riferibile ad autori come Marx, Lenin e Mao (nomi “proibiti” che, alle orecchie del suo amico “di sinistra”, dovevano suonare non meno “sinistri” – mi si perdoni lo scontato gioco di parole – di quello di Schmitt).

Ma passiamo alle definizioni dei quattro nemici principali. Nel trattare il nemico principale sul piano economico, Preve preferisce sostituire il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete, ma soprattutto preferisce concentrare l’attenzione sul termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, dal momento che lo scambio mercantile è una prassi che può convivere tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche ma anche (e sulle implicazioni di questa osservazione dovremo tornare con attenzione nel finale) con formazioni sociali postcapitalistiche. Viceversa il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile “il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali” (Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974). Una centralità ossessiva e fondante che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzare appunto la società di mercato quale “nemico globale e complessivo del Genere Umano in quanto tale”. 


Vediamo ora alla definizione del nemico principale in politica, vale a dire quel liberalismo che secondo Preve è, con la società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Qui Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre convertite al verbo social liberale (il riferimento a Norberto Bobbio non è casuale), consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto (anzi come il Male Assoluto) il Fascismo anche dopo che – a partire dal 1945 – questo regime è irreversibilmente tramontato, per non più ripresentarsi nelle sue forme classiche. L’antifascismo senza fascismi, argomenta Preve, è sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita “di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa”, la principale delle quali è appunto l’esaltazione degli “immortali valori dell’antifascismo”. La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse assunzioni dell’individualismo come peccato mortale dell’anima liberale. La prima appartiene a Michéa, laddove questi ripropone la sentenza di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali e rafforzare il dominio di classe. La seconda chiama in causa la definizione di Castoriadis, che nel liberalismo riconosce le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione. La terza rinvia al detto di Mo Ti (antico filosofo cinese) che recita: “in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze”.



Costanzo Preve




Quanto al nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione (per inciso: qui il discorso andrebbe allargato a una disamina dei limiti dello scheletrico schema bipolare borghesia/proletariato della sociologia marxiana, ma è un compito che esula dagli obiettivi di questo testo). In primo luogo perché osserva che il processo di produzione capitalistico può essere messo in moto da soggetti non-borghesi. Una verità empirica che la realtà sociale contemporanea consente di verificare oltre ogni dubbio, per cui oggi il termine più corretto da adottare sarebbe “oligarchie capitalistiche”. Inoltre perché (e qui il ragionamento si fa più sottile) la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti (a partire dallo stesso Marx) a criticare/rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura (tipica del militante della sinistra postmoderna) di quelle “anime belle” che “trasformano l’impotenza in supremo valore morale”. 


Anima bella che, ovviamente, si tiene accuratamente lontana da una disciplina sporca e triviale – dedita com’è all’analisi dei rapporti di forza fra nazioni, popoli e culture – come la geopolitica. Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, mi limito qui a citare la sua argomentazione: 


“E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta ‘posizione del missionario’ (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale.”


Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale e sulla sua applicazione ai differenti contesti economico, politico, sociale e geopolitico, è giunto il momento di affrontare una serie di argomenti che, in parte si dipanano parallelamente, in parte attraversano il tema principale fin qui esaminato, e che, almeno a mio avviso, appaiono ancora più interessanti. Mi riferisco: 1) ad alcuni spunti critici nei confronti dello stesso pensiero di Marx; 2) alla problematica traducibilità della identità di classe in azione politica; 3) al giudizio storico sul socialismo reale. 


Un altro dei motivi per cui Preve irritava profondamente i soloni del marxismo accademico era il fatto che si permetteva di “fare le pulci” al maestro. Nel testo di cui stiamo parlando questo “vizio” emerge soprattutto in tre circostanze. In primo luogo, Preve respinge con orrore l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula “da a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, che Marx incastona in una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione “naturale” della cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra interessi collettivi. Un miraggio che rischia di coincidere con i sogni individualistici della cultura liberale (da Saint-Simon a Fukuyama).


La seconda presa di distanza critica è l’esito del rifiuto di Preve di accettare la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni. Per Preve il modo di produzione capitalistico coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come “il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico” può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella “divinità idolatrica chiamata Progresso”. Del resto Marx, argomenta Preve, non è esente dalla fascinazione da parte di questa divinità. Prova ne sia (e siamo alla terza critica) il fatto che la sua opera si presta a un uso capitalistico laddove riconosce il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali. “Personalmente, scrive Preve, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche.” 


È pur vero che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato di oggi presenta evidenti caratteristiche parassitarie, ma ciò nulla toglie all’argomentazione di Preve, nella misura in cui non ha minimamente indebolito la capacità del capitale di esercitare la propria egemonia nei confronti dei soggetti che dovrebbero rovesciarlo. Così abbiamo introdotto il nodo della problematica traducibilità dell’identità di classe in coscienza politica rivoluzionaria. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato (della cui attuale composizione Preve non si occupa, ma non è quanto possiamo pretendere dal suo approccio, filosofico più che sociologico). E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori, che demonizzano il Novecento per “prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare”. Dopodiché l’ostacolo principale resta quello ben individuato da Lenin, vale a dire l’incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla “particolarità e prossimità diretta”, di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Incapacità che solo la teoria leninista del partito è riuscita a riscattare (anche qui andrebbe rimarcata l’assenza di una riflessione su come potrebbe configurarsi quella forma partito oggi, ma valgono le stesse attenuanti citate poco sopra rispetto all’assenza di un’analisi dell’attuale composizione di classe). 


Preve non si limita però a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori che gli viene rivolta da destra: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra (fra i quali cita Bettelheim e Bordiga). Quell’esperienza, afferma, va rivendicata come “un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo”. Si è trattato di un gigantesco esperimento di ingegneria sociale che, ad un certo punto, “è finito con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche”. Naturalmente questo giudizio meriterebbe volumi di approfondimento, per cui mi limito a dire che, ammesso e non concesso lo si possa condividere, fatico a capire l’ingenerosità con cui Preve liquida quell’altro gigantesco esperimento sociale che è la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, al contrario di quello sovietico, l’esperimento continua e ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale in grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale” statunitense. Preve sembra mettere la svolta post maoista del 1978 sullo stesso piano della restaurazione post sovietica, arrivando a liquidare l’attuale regime cinese con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”. 


Volendo essere generosi, questo giudizio può essere attribuito a scarsa conoscenza, nel senso che evidentemente Preve ignorava o sottovalutava le argomentazioni di autori come Giovanni Arrighi e Samir Amin, che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica sia verso una più avanzata forma di socialismo. Per inciso, le argomentazioni di Arrighi si riferiscono esattamente a quella distinzione fra economia di mercato e società di mercato che, come si è visto, lo stesso Preve considera dirimente. In particolare Arrighi ed altri sottolineano come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista. Se a questo aggiungiamo lo straordinario risultato di avere ridotto in vent’anni il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione anche nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato proprio grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito e dello Stato ai principi e ai valori del liberismo, sembra da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo. A volere essere meno generosi, non escluderei invece che Preve possa essere rimasto intrappolato da quella visione eurocentrica criticata da autori come Jaffe e Losurdo, che lo ha reso cieco alla specificità storica e geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, fattori che non possono non condizionare il giudizio su un esperimento che i suoi attuali leader, in coerenza con la concezione del tempo tipica delle tradizioni culturali del loro Paese, descrivono come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate. Prima di definire il “socialismo in stile cinese” come una banale formula ideologica escogitata per legittimare un processo di restaurazione capitalistica, sarebbe il caso di capire in che misura la stessa tradizione confuciana, oltre alla cultura anti individualista di quel popolo possano contribuire, quanto e più dell’adozione di una visione marxista del mondo e della storia, a tenere la Cina al riparo da tentazioni “progressiste” (nel senso negativo che Preve attribuiva al termine). Sono tuttavia convinto che, di fronte agli argomenti che ho qui addotto, il nostro sarebbe stato disponibile a rettificare il proprio giudizio. 



     


     

sabato 20 novembre 2021

LA LUNGA MARCIA VERSO IL SOCIALISMO

UNA GUIDA PER RAGIONARE SULLA RIVOLUZIONE CINESE SENZA PREGIUDIZI EUROCENTRICI 

di Carlo Formenti







Nota introduttiva 


A dare la misura dell’incomprensione occidentale nei confronti della realtà cinese è un curioso paradosso: mentre gli intellettuali liberali si arrovellano sui motivi per cui la crescita economica non si sia portata dietro – come speravano e ritenevano inevitabile – la caduta dei comunisti e la transizione a un regime liberal democratico, ragion per cui considerano la Cina come la più grave minaccia alla sopravvivenza del capitalismo, gli intellettuali marxisti (o sedicenti tali) danno per scontato che in Cina non esista più – se mai è esistito – un regime socialista, ritengono che quel Paese rappresenti oggi la seconda potenza capitalistica mondiale e pensano che il dissidio ideologico con l’Occidente mascheri un conflitto interimperialistico. Questa cecità simmetrica replica il doppio abbaglio sulla caduta del regime sovietico: Fukuyama e soci vi scorgevano la conferma della superiorità del capitalismo sull’utopia social comunista, le “nuove sinistre” replicavano che in Russia il socialismo non esisteva più da decenni (per alcuni dalla morte di Lenin per altri da quella di Stalin). 


Nel campo del marxismo occidentale le voci fuori dal coro, libere da dogmatismi dottrinari e pregiudizi eurocentrici, sono rare. Penso, per citarne alcune, a economisti come Samir Amin, Giovanni Arrighi e Vladimiro Giacché (1), a filosofi come Domenico Losurdo (2), a storici come Rita di Leo (3) o, a un livello più militante e limitandomi al contesto italiano, a formazioni politiche e associazioni culturali come il Partito Comunista di Marco Rizzo e le riviste Marx21 e Cumpanis. In precedenti lavori ho cercato di dare una serie di indicazioni bibliografiche (4) utili per fare piazza pulita della selva di luoghi comuni che ingombrano la discussione sul tema. Aggiungo ora a questo elenco l’eccellente lavoro di Diego Angelo Bertozzi Cina Popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi (con una Prefazione di Vladimiro Giacché, Edizioni l’Antidiplomatico) di cui mi occuperò in questo post. Più che di una recensione, si tratta di un riassunto delle parti più significative della ricostruzione storica dell’autore, corredato da una serie di incisi, note e appunti e da un lungo paragrafo conclusivo sulle implicazioni teorico politiche del tutto. 



I. Un percorso storico complesso. 


a) Dall’umiliazione al risveglio nazionale


Alla fine del 1700 il Celeste Impero era ancora il Paese più prospero, ordinato e stabile del mondo, capace di suscitare l’invidia (e gli appetiti) di un’Europa che aveva appena iniziato il cammino verso il dominio sul pianeta. Per ragioni che non ho qui lo spazio di analizzare in profondità, questo suo invidiabile status si fondava però su fattori che ne hanno decretato la rovina non appena è entrato in contatto con l’Occidente. Mi riferisco, in particolare, al modello stazionario e “introverso” della sua economia (nessuna tendenza alla riproduzione allargata e mancato sviluppo degli scambi commerciali via mare), nonché alla scarsa vocazione a proiettare all’esterno la propria potenza politico militare (Bertozzi ricorda come il Celeste Impero preferisse esercitare l’egemonia sui popoli confinanti senza ricorrere all’uso della forza e rifuggisse da conquiste territoriali in stile coloniale, impegnandosi piuttosto a diffondere modelli di governo e ideologici, in una sorta di anticipazione di quello che oggi definiamo soft power). 


Queste caratteristiche erano all’origine di un mal riposto senso di superiorità, non giustificato da adeguate risorse tecnologiche e militari (mentre le continue guerre fra le nazioni europee ne avevano alimentato il rapido avanzamento tecnologico). Così, quando l’Impero inglese, consolidato il proprio dominio sull’India, ha iniziato a guardare a Oriente, presto imitato da altre potenze europee, il destino della Cina era segnato. Le due guerre dell’oppio a metà Ottocento si sono risolte con umilianti sconfitte che hanno comportato, oltre alla cessione di sovranità su alcuni territori,  la concessione di gravosi trattati commerciali. Le radici del risentimento cinese nei confronti della prepotenza straniera affondano in quel periodo storico, come conferma la grandiosa insurrezione dei Taiping (1851-1864) che causò trenta milioni di vittime e arrivò quasi a rovesciare una dinastia, prima di essere soffocata nel sangue. Sempre in quegli anni inizia la pratica della esportazione di forza lavoro cinese semischiavizzata in tutto il mondo (i coolies) e, qualche decennio più tardi, arrivano la sconfitta nella guerra cino-giapponese del 1895 e la rivolta dei Boxer, schiacciata dall’intervento congiunto di tutte le potenze straniere interessate (Italia compresa), due eventi che contribuiscono a rendere ancora più pesante la soggezione dell’economia cinese agli investimenti occidentali e giapponesi e l’indebitamento del Paese nei confronti di consorzi bancari stranieri, appesantito dalle indennità di guerra che la Cina si trovò paradossalmente a dover sborsare pur essendo la nazione aggredita.  


A seguito di questi disastri, che hanno caratterizzato l’intera storia del XIX secolo, viene maturando nelle nuove generazioni di intellettuali che si affacciano all’inizio del Novecento, e guardano con ammirazione al successo del processo di modernizzazione giapponese, la convinzione che l’unica via di salvezza consistesse nell’abbracciare il nazionalismo. Sun Yat-Sen, il leader che incarna con più coerenza e consapevolezza questo zeitgeist, fonda a Tokyo (dove risiede in esilio) un movimento che si raccoglie attorno a un programma fondato su “tre principi del popolo”: nazionalismo, democrazia e benessere. Sono i principi che inspirano la rivoluzione democratico borghese del 1911, e che lo stesso Sun Yat-sen tradurrà, nel 1919-1920, in un progetto politico che, sotto alcuni aspetti, suona come una anticipazione delle riforme che il PCC intraprenderà sessant’anni dopo: collaborare con le potenze industriali occidentali, lasciando balenare le immense opportunità del mercato cinese; “usare” lo sviluppo capitalistico come strumento per creare condizioni atte ad avviare la Cina sulla via del socialismo; sviluppare un’economia mista in cui lo Stato avrebbe dovuto farsi carico di creare le infrastrutture moderne (ferrovie, porti, industrie di base, ecc.). Nel frattempo la Cina aveva partecipato alla Prima guerra mondiale a fianco delle potenze dell’Intesa, anche se il suo contributo si era limitato a fornire mano d’opera per scavare trincee e svolgere altre umili mansioni di retrovia (ma le esperienze maturate dalle migliaia di lavoratori impiegati in quella circostanza si riveleranno importanti nel corso dei successivi eventi storici). La rivoluzione democratico borghese non riuscirà tuttavia a realizzare l’unificazione nazionale della Cina post imperiale, né a evitarne lo smembramento ad opera dei “signori della guerra”, capi militari che si spartiscono il Paese, arrivando a battere monete proprie e praticare politiche fiscali ed estere indipendenti. Sono anni caotici, nel corso dei quali vengono tuttavia maturando le condizioni per la nuova fase del processo rivoluzionario che durerà trent’anni, fino alla vittoria dei comunisti nel 1949. 



Sun Yat Sen 




b) Dalle repressioni degli anni Venti al 1949  


Citando un giudizio di Mao, Bertozzi definisce il movimento (prevalentemente urbano e studentesco) del 4 maggio 1919 come un passo avanti rispetto alla rivoluzione del 1911, a confronto  della quale presenta caratteristiche più coerentemente antimperialiste e antifeudali che risentono dell’influenza della rivoluzione russa. Negli anni successivi nascono i primi sindacati e la stampa operaia, mentre si diffondono le idee marxiste e leniniste nelle quali alcune élite intellettuali riconoscono un’arma efficace per combattere l’arretratezza della Cina e il suo rapporto di subordinazione nei confronti dei paesi occidentali. Nel luglio del 1921 viene fondato il PCC da parte di un gruppo composto da poche decine di militanti che seguono le direttive dell’Internazionale, la quale impone una linea fondata sulla collaborazione fra movimento operaio e borghesia nella lotta di liberazione nazionale. Qualche anno dopo, nel 1925, una nuova ondata di lotte presenta caratteristiche più avanzate: in questo caso, infatti, a guidare lo scontro sono gli operai che sono ora maggioranza nelle file del partito, il quale conta adesso decine di migliaia di iscritti. Questo processo di crescita subisce tuttavia una brusca battuta di arresto nel 1927, anno in cui viene repressa nel sangue l’insurrezione di Shangai.


Da qui inizia la divaricazione fra due linee, con la minoranza maoista convinta della necessità di dotarsi di una base territoriale e di una forza militare autonome, mentre la maggioranza, sostenuta da Stalin, insiste sulla necessità di continuare sulla strada dell’alleanza con l’ala sinistra del partito nazionalista (Kuomintang). Il sesto congresso del PCC si svolge a Mosca, nel 1928, in rappresentanza di una base che conta 130.000 iscritti in maggioranza (70%) contadini, e approva una linea che esclude una politica di espropriazione sistematica delle terre per non mettere a rischio l’alleanza con i contadini medi. Nel frattempo la minoranza maoista si impegna a costruire nei territori sotto il suo controllo un potere statale alternativo, fondato su principi di democrazia diretta, e un esercito che non svolga solo funzioni militari ma anche di propaganda e amministrazione.  


I primi anni Trenta sono teatro di radicali sconvolgimenti. Nel 1930 Il Kuomintang lancia cinque campagne di annientamento contro i comunisti e, mentre le prime quattro falliscono, la quinta costringe questi ultimi a intraprendere la Lunga Marcia (12.000 km) fino a riparare nello Shensi. Bertozzi sottolinea come da questa esperienza sia nata l’intera classe dirigente della futura Cina Popolare, una vera e propria “aristocrazia della rivoluzione” che durerà fino agli anni Novanta, e aggiunge che quell’evento segna il trionfo della linea maoista e l’autonomizzazione dalle direttive di Mosca. Nel 1931 viene proclamata la Repubblica cinese degli operai e dei contadini e, sempre in quell’anno, inizia l’invasione giapponese che si completerà nel 1937 con l’occupazione di Pechino, Tianjin e Nanchino (città martire in cui i giapponesi massacrano 300.000 persone). 


Gli anni che vanno dal 1935 agli anni Quaranta sono caratterizzati da un fronte unito contro l’invasore giapponese che tuttavia non comporta una reale pacificazione fra comunisti e nazionalisti (i due eserciti restano attestati nei rispettivi territori limitandosi a una sorta di tregua armata). Mao lancia comunque un appello a tutti i compatrioti per la resistenza agli invasori e la formazione di un governo popolare di difesa nazionale e stende un programma in dieci punti che recupera e approfondisce i tre principi di Sun Yat-sen: libertà democratiche, confisca dei beni dei collaborazionisti, miglioramento delle condizioni di vita di operai e contadini, pari diritti fra le diverse nazionalità. Attraverso il concetto di “nuova democrazia” si cerca di rassicurare gli strati borghesi, promettendo che la Repubblica popolare non abolirà la proprietà privata né confischerà le imprese della borghesia nazionale, e limiterà gli obiettivi della lotta di classe alla tutela degli interessi operai senza mettere a rischio i profitti. Negli anni Quaranta, durante e immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fronte unito si rompe anche formalmente e inizia la guerra civile e, benché alla fine della guerra il Kuomintang possa contare su una schiacciante superiorità numerica e sull’appoggio degli Stati Uniti, l’Esercito popolare avanza di vittoria in vittoria fino al definitivo trionfo del 1949, l’anno in cui il Kuomintang è costretto ad abbandonare il continente rifugiarsi a Taiwan.



Mao guida la Lunga Marcia




c) Dal 1949 alla morte di Mao 


Le parti del libro di Bertozzi dedicate a questa fase della rivoluzione chiariscono un equivoco: i critici da sinistra (5) del regime, che spesso si proclamano neo maoisti, sostengono che, già nel decennio successivo alla presa del potere, nel PCC sarebbe stata attiva un’ala di destra che aveva come obiettivo l’esautoramento della leadership di Mao. Questa ricostruzione perde attendibilità ove si tenga conto della moderazione dei provvedimenti socioeconomici assunti in quel periodo, con il pieno avvallo di Mao. Già nel 1947, cioè ancor prima della vittoria definitiva, nelle zone liberate viene attuata una riforma agraria che privilegia l’espropriazione politica degli strati borghesi rispetto alla loro espropriazione economica, e anche nelle città si evita di colpire il capitale privato, per tutelare una produzione già ridotta ai minimi termini dalla guerra civile. Fra le altre cose, Bertozzi segnala che il partito doveva fronteggiare una carenza di personale qualificato per la ricostruzione – un problema che aveva assillato anche i bolscevichi nei primi anni dopo la rivoluzione – e che meno del 15% dei quadri possedeva una laurea (come se non bastasse, i pochi che ne erano dotati provenivano dalle fila del Kuomintang). Ecco perché il consenso e le competenze della borghesia nazionale sono ritenute indispensabili e la fuga di capitali e cervelli viene percepita come un pericolo mortale (com’è noto, furono analoghe considerazioni a indurre Lenin a imboccare la via della Nep, rintuzzando le critiche degli “estremisti” di sinistra (6) ). 


Nei primi anni Cinquanta le scelte si radicalizzano, ma senza abbandonare il criterio di una prudente progressività. La riforma agraria del 1950 ridistribuisce 50 milioni di ettari a 300 milioni di contadini, ma evita di applicare un principio di egualitarismo assoluto. Le nazionalizzazioni riguardano banche, ferrovie, industria pesante e commercio estero, mentre nel ‘53, finita la guerra di Corea, si mette in cantiere, con il sostegno e la consulenza dell’Urss, il primo Piano quinquennale. Ad imprimere l’accelerazione, nota Bertozzi, è il timore di essere accerchiati dal sistema di alleanze messo in campo dagli Stati Uniti. Sempre Bertozzi cita la seguente definizione del regime cinese da parte di Mao : “una economia capitalistica di stato di tipo nuovo che esiste non per il profitto dei capitalisti ma per far fronte ai bisogni del popolo e dello stato”. Una frase che sembra letteralmente copiata dalla definizione di capitalismo di stato con la quale Lenin aveva replicato ai critici della Nep (7). 


Nel 56 si celebra l’VIII Congresso di un Partito che può ora contare su 10 milioni e 700mila iscritti (66% di contadini, 13,7% di operai, 15% di intellettuali) ed è in questa occasione che sorgono i contrasti fra Mao, che spinge il pedale sulla collettivizzazione, e l’ala “moderata” (Zhou Enlai, Liu Shaoqi e altri) che vorrebbe una progressione più lenta e ritiene vada data priorità alla meccanizzazione dell’agricoltura. È significativo che, contemporaneamente a questi conflitti, sorgano anche le prime prese di distanza da Mosca: rifiutando la destalinizzazione, il PCC ritiene che la posizione più corretta consista nel valutare errori e meriti del leader sovietico, senza buttare a mare un’intera fase storica (come vedremo più avanti, il dilemma si ripresenterà vent’anni dopo, quando si tratterà di giudicare l’operato di Mao dopo la sua morte). Arriviamo così al Grande balzo in avanti e ai disastri che ne seguiranno a cavallo fra la fine dei ‘50 e l’inizio dei ’60. A indurre Mao alla svolta non sono tanto motivazioni ideologiche, quanto considerazioni geopolitiche (che riprenderemo nella sezione sulla politica estera): la guerra di Corea convince Mao che gli Stati Uniti si preparano ad attaccare la Cina, per cui si rende necessario passare a una sorta di comunismo di guerra simile a quello adottato dai bolscevichi durante la guerra civile contro i Bianchi sostenuti dalle potenze occidentali. Occorre prepararsi a resistere bruciando le tappe della transizione verso il socialismo e, a tale scopo, bisogna compiere su un enorme sforzo di volontà mobilitando le masse contadine. Vengono lanciati slogan come “il rosso domina l’esperto” e “la politica al posto di comando” che, qualche anno dopo, delizieranno le sinistre radicali occidentali (peraltro del tutto digiune di conoscenze sul contesto economico, storico e sociale cinese). Inoltre si cerca di procedere a un’industrializzazione forzata disseminando migliaia di piccole imprese nelle Comuni popolari (le nuove istituzioni create accorpando le cooperative agricole per ottenere economie di scala). I disastri provocati da questa ubriacatura volontarista sono devastanti: dal ’58 al ’62 il Pil cala del 35% e la produzione cerealicola del 30% mentre, anche a causa di una serie di catastrofi naturali, si riaffaccia lo spettro della carestia che provoca milioni di morti (8). 


Fallito il grande balzo, Mao si fa in disparte, lasciando il compito di gestire la ricostruzione ai suoi critici “di destra”. Ma pochi anni dopo (nel 1966) lo scontro fra le due linee riprende: convinto che la lotta di classe continui nella società socialista (discuterò questa tesi nelle conclusioni) e che solo una rivoluzione permanente possa impedire che la Cina “cambi colore”, il Grande Timoniere lancia la Rivoluzione culturale: il bersaglio è la stessa maggioranza del PCC, accusata di avere imboccata la strada della restaurazione capitalista (di qui la celebre parola d’ordine “fuoco sul quartier generale”). Le guardie rosse (in maggioranza giovani studenti) sfuggono al controllo di chi le ha scatenate generando scontri e violenze generalizzate e provocando il collasso delle strutture del Partito e dello Stato, al punto che lo stesso Mao impone il ritorno alla normalità attraverso dure repressioni affidate all’esercito. Accennavo prima all’entusiasmo delle sinistre europee occidentali per gli slogan maoisti: tale entusiasmo tocca il vertice proprio in occasione della Rivoluzione culturale, che resterà per molti un punto di riferimento ideologico anche dopo il suo fallimento. Personalmente ritengo che il fattore che più ha favorito questa identificazione con gli eventi cinesi siano state le analogie di composizione sociale, generazionale e culturale fra movimento delle guardie rosse e movimenti degli anni ’60 e ’70 in Occidente. Al tempo stesso, come scrivevo poco sopra, è il caso di mettere in luce come tale identificazione ideologica sia scattata in assenza di qualsiasi effettiva conoscenza della realtà cinese, un’ignoranza teorico politica che ha fatto sì che, finita la Rivoluzione culturale, si sia dato per scontato che la Cina si fosse incamminata, al pari dell’Unione Sovietica, sulla via della restaurazione del capitalismo. Da quel momento, con le dovute eccezioni, i marxisti occidentali si sono sostanzialmente disinteressati degli sviluppi successivi alla morte di Mao (1976), finendo per allinearsi ai giudizi dei sinologi accademici occidentali sul  “totalitarismo” e sul “capitalismo di stato” tipici del Paese del Dragone.



d) Gli anni delle grandi riforme (dal 1978 a oggi)     


Morto Mao, le sperimentazioni del decennio successivo alla vittoria della Rivoluzione diventano il modello cui si inspira l’ala “moderata” del PCC che, liquidata l’opposizione della “banda dei quattro” (9), torna a conquistare la maggioranza sotto la guida di Deng. Le “quattro modernizzazioni” (agricoltura, industria, difesa nazionale, ricerca scientifica) sono il faro che illumina questo nuovo tentativo di mettere in atto una Nep in salsa cinese (10). La nuova (o meglio la rinnovata) filosofia del Partito esclude fughe in avanti e ripudia l’idea di un egualitarismo che si riduca di fatto a una condizione di povertà condivisa; l’obiettivo strategico è garantire ai cittadini un tenore di vita decente e colmare il gap tecnologico con le potenze occidentali. 



Deng Xiaoping 




Il nuovo processo (che anche marxisti occidentali poco teneri nei confronti del regime cinese considerano una scelta obbligata: con centinaia di milioni di persone sotto la soglia della povertà, e con un Paese costretto a confrontarsi con i successi economici delle “tigri asiatiche”, scrive ad esempio David Harvey (11), era inevitabile prendere atto del principio secondo cui non può esistere libertà in assenza di libertà dal bisogno) attraversa diverse fasi. La prima - che va dal 1978 al 1989 – è probabilmente quella in cui si producono gli scostamenti più radicali nei confronti del passato maoista. La sperimentazione parte dalle campagne, spiega Bertozzi, dove, ferma restando la proprietà collettiva della terra, viene creato un nuovo sistema di responsabilità che assegna la gestione in affitto dei terreni già affidati alle Comuni alle singole famiglie contadine che possono vendere allo Stato il raccolto a prezzi  stabiliti. Successivamente viene estesa la durata degli affitti e i contadini acquisiscono la libertà di vendere i prodotti nei mercati liberi che vengono istituiti nelle città. Grazie a questa politica il reddito agricolo pro-capite aumenta del 70% e la produzione cresce del 7%.  A colpire di più l’immaginario occidentale, tuttavia, è l’apertura delle zone speciali, che concede alle multinazionali occidentali, giapponesi e taiwanesi di effettuare colossali investimenti diretti nelle aree costiere, usufruendo di agevolazioni fiscali e di enormi masse di forza lavoro a basso costo. È la fase in cui la Cina accetta di fatto il ruolo di “fabbrica del mondo”, diventando la meta preferita dei processi di decentramento produttivo dell’Occidente capitalista e, al tempo stesso, inondando il mercato occidentale di merci di bassa qualità e poco costose che consentono ai capitalisti di tenere bassi i salari degli operai dei propri Paesi (un incastro che alcuni hanno definito Wal Mart Economy (12), dal nome della grande catena discount americana). 


È in questo periodo che le accuse di restaurazione del capitalismo sembrano assumere consistenza, anche perché si moltiplicano le accuse, da parte degli oppositori di sinistra interni, di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori così “affittati” al capitale straniero (13). Pur senza negare l’esistenza di gravi problemi sociali (aumento delle disuguaglianze, supersfruttamento della mano d’opera di origine contadina inurbata nelle megalopoli industriali che crescono a ritmo forsennato, riduzione dei servizi sociali, ecc.); Bertozzi sottolinea come il PCC: 1) non abbia mai negato le conquiste dell’era maoista, che aveva costruito le basi infrastrutturali senza le quali lo sviluppo successivo sarebbe stato impossibile; 2) abbia ripetutamente affermato che la liberalizzazione economica e l’importazione di conoscenze tecnologiche e scientifiche non implicavano l’importazione dei valori occidentali; 3) abbia infine sostenuto che lo scopo fondamentale dell’attrazione di capitali stranieri in certe regioni era quello di impadronirsi di tecnologie, conoscenze, e tecniche organizzative e gestionali che sarebbero state successivamente diffuse in tutto il Paese (tecniche che verranno utilizzate anche per riformare le imprese pubbliche, accrescendo il potere del management senza mettere in discussione il diritto di proprietà, che resta in capo allo Stato). 


Le contraddizioni che si accumulano in quegli anni generano tensioni sociali e politiche destinate ad esplodere. La crisi del 1989 nasce, da un lato, dallo scontento degli operai che hanno perso parte delle garanzie sociali di cui disponevano, dall’altra dall’emergere di una classe imprenditoriale che non chiede solo ulteriori privatizzazioni, ma anche riforme democratiche finalizzate a rovesciare il regime comunista. La differenza di motivazioni ha fatto sì che questi due movimenti non abbiano potuto saldarsi (14), ciò non toglie che, anche all’interno del PCC, esistessero posizioni, ancorché minoritarie, che guardavano con  simpatia alle drammatiche trasformazioni che, in quegli stessi anni, stavano provocando il crollo del regime sovietico. La durezza con cui vengono represse queste tendenze dimostra come il principio della espropriazione politica dei ceti borghesi, enunciato già negli anni ’40 e ’50, fosse ancora ritenuto pienamente valido: la Cina non aveva la minima intenzione di “fare la fine dell’Unione sovietica” (15). 


Veniamo così ai fatti di Piazza Tienanmen, a proposito dei quali Bertozzi cita fonti indipendenti – perlopiù occidentali e non sospette di simpatie con il regime  - che, da un lato, sfatano il mito del massacro: pare che nella piazza non vi sia stata nemmeno una vittima, mentre ve ne sono state in aree adiacenti dove l’esercito si sarebbe limitato a reagire dopo essere stato fatto oggetto di attacchi che avevano ucciso diversi militari (uno scenario che si è recentemente ripetuto a Hong Kong); dall’altro lato, esistono fonti altrettanto attendibili che certificano il ruolo attivo svolto dai servizi americani, impegnati a sostenere questo primo esperimento di “rivoluzione colorata”. In ogni caso, alla repressione nei confronti delle destre, non fa eco un analogo comportamento nei confronti dello scontento popolare. Al contrario: nei vent’anni successivi le energie si concentrano sull’obiettivo di recuperare il consenso delle masse. Escludendo a priori qualsiasi importazione del modello occidentale basato sulla competizione elettorale fra partiti, si privilegia una “democrazia consuntiva”, fondata sulla collaborazione fra forze politiche che condividono gli stessi obiettivi. A tale scopo si promuove la nascita di governi popolari eletti a suffragio diretto nelle circoscrizioni di base, dotati di poteri autonomi di controllo sulle ramificazioni provinciali del PCC; si valorizza il ruolo della Conferenza consultiva del popolo che riunisce forze politiche e personalità indipendenti; si moltiplicano i canali di consultazione fra organismi dello Stato, partiti, gruppi politici, organizzazioni di base. Ma soprattutto, a cavallo fra la fine dei Novanta e l’inizio del Duemila, viene lanciato lo slogan della Cina come “società armoniosa”, che allude alla necessaria ricomposizione dei conflitti di classe innescati dallo sviluppo caotico dei decenni precedenti. Usciti da una fase che potremmo definire di accumulazione accelerata, nella quale  si è superato il drammatico ritardo maturato durante gli sconvolgimenti sociali e politici degli anni Sessanta, è ora possibile spostare l’enfasi dall’aumento del Pil all’attenzione nei confronti degli interessi del popolo e a una maggior cura nei confronti di un ambiente che ha pagato a caro prezzo i processi di industrializzazione e di inurbazione. Ma soprattutto è venuto il momento di impegnarsi in una ridistribuzione egualitaria della ricchezza prodotta.  


Modernità e sviluppo, scrive Bertozzi, vengono ora coniugati con le tradizionali istanze socialiste. A partire dal rilancio del welfare: nel 2011 l’assicurazione sanitaria arriva a coprire il 90% della popolazione, mentre è tuttora in atto lo sforzo di garantire a tutti, compresi i senza impiego, l’assicurazione di anzianità.  Si ammette la contrattazione collettiva per difendere l’occupazione e altri diritti dei lavoratori; i salari iniziano a crescere significativamente; viene introdotto l’esonero fiscale per i redditi più bassi; si effettuano massicci investimenti per riequilibrare le condizioni delle regioni povere, viene istituito il Ministero per la protezione ambientale; si scommette sul settore terziario, sull’innovazione tecnologica e scientifica e sull’aumento dei consumi interni, con l’evidente obiettivo di cambiare i motori di una crescita che deve diventare più sostenibile e cambiare radicalmente la collocazione del Paese nella divisione internazionale del lavoro: da fabbrica del mondo a seconda potenza economica mondiale. A sostenere questa rapidissima evoluzione sono anche i massicci investimenti diretti all’estero, destinati in primo luogo ai Paesi in via di sviluppo, che raggiungono dimensioni iperboliche grazie al progetto della Nuova Via della Seta. Benché la via delle riforme imboccata da Deng non venga ripudiata, la marcia verso il socialismo di mercato (16) in stile cinese non mette in discussione il ruolo strategico delle imprese di Stato, che coprono una quota maggioritaria degli IED (Investimenti Diretti all’Estero) e continuano a controllare i beni e servizi pubblici. Nell’analizzare gli ultimi anni presi in esame nel suo lavoro (che arriva più o meno al 2016), già caratterizzati dalla leadership di Xi Jinping, Bertozzi parla di sintesi fra l‘eredità di Mao e quella di Deng. In merito al versante neo maoista di tale sintesi, Bertozzi sottolinea il processo di verticalizzazione attorno alla figura del segretario e la restituzione di una salda presa del PCC sulla cosa pubblica, in controtendenza alla lunga prassi di separazione fra Stato e Partito. Sintomi evidenti di tale svolta sono il ritorno in auge delle campagne di verifica e rettifica, un’etica improntata all’austerità (vengono condannati l’esibizione del lusso e le spese inutili), e la crescente contrapposizione ideologica con l’Occidente. Nel libro mancano gli ultimi anni, caratterizzati dalla nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Cina che imprimono una ulteriore accelerazione del recupero di elementi tradizionali, a conferma del peso decisivo che i conflitti geopolitici hanno svolto e continuano a svolgere sull’evoluzione della rivoluzione cinese.



Xi Jinping




II. Evoluzione della composizione di classe della società cinese e suo impatto sul PCC


Nel 1919 (l’anno del movimento del 4 maggio) la classe operaia rappresenta lo 0,1% della popolazione (circa un milione e mezzo di persone concentrate nelle città) e nel 1921 il PCC (fondato nel luglio di quell’anno) conta poche decine di iscritti, quasi tutti studenti e intellettuali. Tuttavia già nel 1925, anno in cui si verifica una seconda ondata di lotte, il numero degli operai è significativamente aumentato (sempre concentrati nelle grandi città e perlopiù in imprese straniere) e la loro presenza nel partito (che nel 1927 arriva ad avere 58.000 inscritti) è cresciuta in proporzione. In questa fase di concentrazione urbana sono attivi numerosi consulenti bolscevichi e il PCC segue in maggioranza (con l’eccezione di Mao e il suo gruppo) la linea dell’Internazionale, che spinge per l’alleanza con il Kuomintang in vista di una rivoluzione democratico borghese che dovrebbe creare le condizioni per l’attività politica legale del Partito.  


Il massacro di Shangai cambia radicalmente la situazione. Benché il VI Congresso si svolga a Mosca e confermi la linea dell’Internazionale, Mao si avvia rapidamente a conquistare l’egemonia nel Partito e a renderlo consapevole della necessità di acquisire una base territoriale e una forza militare autonome. Negli anni Trenta lo scontro con il Kuomintang evolve rapidamente verso la guerra civile, mentre la base del PCC, che nel frattempo è stato annientato ed espulso dalle grandi di città, è sempre più contadina. Negli anni della Lunga Marcia e fino al trionfo del 1949 questa composizione di classe resta sostanzialmente immutata, anche se i numeri crescono notevolmente: nel ’37 gli inscritti sono 40.000 e i soldati (che non svolgono solo funzioni militari ma anche amministrative e di propaganda) 60.000, mentre nel ’45 gli inscritti sono 1.200.000 e i soldati 1.300.000. In questa fase la rivoluzione cinese, di fatto, è una rivoluzione contadina che unisce la lotta di liberazione nazionale a quella per la riforma agraria, con caratteristiche simili a quelle di altre lotte delle nazioni oppresse contro le potenze coloniali. La differenza consiste nell’enorme dimensione di un Paese che ospita una civiltà millenaria, ma soprattutto nel fatto che, in questo caso, l’obiettivo strategico è quello di approdare a una società socialista. Anche se, come si è visto, sia la riforma agraria del 1947, sia i provvedimenti che vengono assunti subito dopo la presa del potere, sono a dir poco moderati, nel senso che la ridistribuzione delle terre viene fatta in modo da non intaccare gli interessi dei contadini medi e di privilegiare la linea dell’espropriazione politica rispetto a quella dell’espropriazione proprietaria (la stessa linea viene adottata nei confronti della borghesia nazionale delle città, per agevolare la ricostruzione del sistema produttivo). Bertozzi richiama l’attenzione, a proposito di tali scelte, sul fatto che in Cina non esisteva una classe agraria paragonabile a quella dei kulaki in Russia, sta di fatto che la scelta di non imboccare la strada della collettivizzazione forzata segna anche sul piano ideologico una significativa differenza rispetto alla politica staliniana. 


Negli anni Cinquanta il processo di integrazione nel Partito di una classe operaia che è in gran parte “di nuovo conio”, generata cioè dall’industrializzazione accelerata voluta dallo Stato/Partito e concentrata nel settore dell’industria pesante, non mette sostanzialmente in discussione il ruolo centrale della classe contadina, che non solo rappresenta ancora la maggioranza schiacciante della popolazione, ma continua ad avere un peso decisivo nelle fila del Partito: al momento dell’ VIII Congresso, dei 10 milioni e 700mila iscritti, il 66% sono contadini, il 15% intellettuali e solo il 13,7% operai. Ed è ancora sulla base contadina che Mao conterà, non diversamente che nel corso della Lunga Marcia, per lanciare il Grande balzo in avanti che, come abbiamo visto, nasce dalla preoccupazione per una probabile invasione da parte americana, che si sarebbe potuta combattere solo con una guerra popolare basata sull’accerchiamento delle città da parte della campagna (di qui l’idea di dotare le Comuni di un apparato industriale disseminato e autonomo).  


Bertozzi non lo dice chiaramente, ma io credo si possa ipotizzare che, dopo il disastro del Grande balzo e il fallimento del tentativo di un’accelerazione volontaristica verso il socialismo, l’ala moderata del Partito abbia potuto contare, nel suo sforzo di far ripartire lo sviluppo delle forze produttive, sull’appoggio sia della classe operaia urbana che della borghesia nazionale, investite di un rafforzato ruolo egemonico rispetto alle masse contadine. Tanto è vero che, qualche anno più tardi, quando Mao scatena la Rivoluzione culturale contro quella che considera una linea “revisionista” destinata a trascinare il Paese sulla via della restaurazione capitalista, è costretto a contare, più che sugli operai, sulle masse studentesche, quasi in una riedizione del movimento del maggio 1919. 


Fallita questa nuova sbornia volontarista, morto Mao e avviato il processo delle riforme alla fine dei Settanta, come si presenta la situazione sociale nel momento in cui esplode la crisi dell’89? Se da un lato i contadini, che beneficiano delle riforme agrarie grazie alle quali hanno acquisito la libertà di vendere i prodotti sul mercato, continuando nel contempo a conservare l’accesso alla terra, possono considerarsi relativamente soddisfatti; dall’altro lato gli effetti delle riforme sugli operai sono tutt’altro che positivi: il massiccio processo di migrazione dalle campagne ai centri industriali, e la tumultuosa crescita nelle Zone speciali, hanno creato una nuova classe operaia che, soprattutto se immigrata e impiegata da padroni stranieri, appare supersfruttata e del tutto priva di quelle garanzie sociali di cui ancora gode (pur se in misura ridotta) la classe operaia tradizionale, perlopiù residente e impiegata nelle imprese di Stato. Nello stesso tempo nelle città è cresciuta una giovane a rampante classe imprenditoriale che, a differenza della vecchia borghesia nazionale, non accetta l’espropriazione politica e chiede apertamente la fine del regime comunista e la transizione a un regime liberal democratico di tipo occidentale. La repressione dell’89 riesce soprattutto perché gli interessi di classe dei due gruppi appena descritti non sono convergenti, ma è chiaro che se vuole riacquistare il consenso sociale il Partito deve offrire rappresentanza anche alle nuove fette di società generate dalla crescita economica, per impedire che diano vita a forze politiche di opposizione più consistenti del limitato e sporadico fenomeno dei “dissidenti”. In poche parole, il PCC deve riuscire a presentarsi come una forza politica ma anche sociale, capace di rappresentare e armonizzare gli interessi di tutti gli strati della popolazione. L’attenzione si rivolge così a una nuova classe operaia cui vanno garantiti servizi e diritti sociali, oltre a un salario dignitoso, così come dev’essere valorizzato il ruolo della nuova intellettualità – tecnici, esperti in tecnologie, scienziati – generata dalle innovazioni del processo produttivo. Quanto agli imprenditori, Bertozzi sostiene che in Cina non esisterebbe una borghesia trionfante di tipo occidentale, bensì una classe di imprenditori “privi di spirito di classe, molti dei quali condividono gli obiettivi del regime e vivono in simbiosi con le élite politiche”. 


Ignoro se tale tesi sia pienamente condivisibile, quel che è certo è che a chi non rientra in questo profilo “non resta che sottomettersi”, come confermano in recenti provvedimenti di Xi Jinping nei confronti di alcuni “oligarchi” come Jack Ma. I canali attraverso i quali il regime cerca di integrare queste soggettività emergenti sono, da un lato, una serie di organismi di rappresentanza paralleli e associazioni professionali che affiancano le tradizionali strutture di massa, dall’altro l’immissione di queste persone nei ranghi del partito che, tuttavia, appare guidata da criteri prudenziali: delle 19 milioni di richieste di iscrizione del 2006, ne sono state accettate solo 2 milioni e 600mila. Nel 2015 gli inscritti sfiorano i 90 milioni con le seguenti quote:  26 milioni di contadini, 21 milioni di tecnici e quadri di imprese e istituzioni pubbliche, 7 milioni e 300mila operai, 16 milioni di pensionati, 7 milioni di liberi professionisti, 2 milioni e 200mila studenti.  Come si vede la base “popolare” (contadini, tecnici, operai e pensionati) è  tuttora largamente prevalente, ma rispecchia un corpo sociale in via di “terziarizzazione” (con i contadini in calo, seppur ancora in maggioranza relativa, e gli operai nettamente distanziati dai tecnici). È con questa nuova composizione che la svolta neo maoista di Xi Jinping dovrà fare i conti negli anni a venire. 




III. Politica estera e ruolo geopolitico della Cina Popolare


A un esame superficiale, la politica estera del Dragone può apparire ondivaga: negli anni Sessanta rompe con l’Unione Sovietica e pochi anni dopo si riavvicina agli Stati Uniti, che fino a poco prima indicava come un nemico mortale, salvo riavvicinarsi alla Russia post comunista di Putin e trovarsi nuovamente ai ferri corti con Washington; si allea con il Pakistan, lontanissimo dalla Cina tanto sul piano ideologico quanto su quello culturale, mentre ha rapporti tesi con l’India con la quale, sulla carta, dovrebbe condividere non pochi interessi nella lotta per rafforzare le posizioni dei Paesi in via si sviluppo nei confronti delle potenze occidentali; i rapporti con gli altri Paesi socialisti sono tutt’altro che idilliaci (vedi la guerra di confine con il Vietnam e i rapporti altalenanti con la Corea del Nord), ecc. Gli “esperti” occidentali attribuiscono queste capriole a un cinico realismo da grande potenza: la Cina, affermano, decide di volta in volta chi contrastare e chi sostenere in base a interessi contingenti (economici, politici o militari), rispetto ai quali le motivazioni ideologiche e le petizioni di principio non sono altro che banali scuse propagandistiche. Dalla lettura del libro di Bertozzi si esce al contrario con la convinzione che tutte le scelte di cui sopra, anche quelle apparentemente contraddittorie, sono riconducibili ad alcuni fattori di fondo rimasti sostanzialmente immutati dal 1949 ad oggi, benché la Cina in questi settant’anni si sia trasformata, da Paese arretrato e poverissimo qual era, nella seconda potenza economica e politica mondiale (sul piano militare è sopravanzata dalla Russia, oltre che dagli Stati Uniti). Ecco i fattori in questione: 


1. Non  bisognerebbe mai dimenticare il peso di una millenaria tradizione pacifista che ha impedito all’Impero di mezzo di praticare una politica espansiva sul piano territoriale, aggredendo o riducendo a colonie le nazione vicine. Il pacifismo cinese non è di maniera, e lo certifica il fatto che i conflitti con India, Unione, Sovietica e Vietnam sono stati poco più che scaramucce di frontiera, mentre l’unica vera guerra – quella di Corea – è stata una guerra difensiva per impedire che gli Stati Uniti si spingessero fino al confine manciuriano che (vedi la guerra con il Giappone) è sempre stata la “porta” da cui sono penetrati gli invasori.


2. La Cina non dimentica le umiliazioni subite dalle potenze occidentali e dal Giappone nell’800 e nella prima metà del Novecento. Lo sviluppo economico e il quasi totale annullamento del ritardo tecnologico, scientifico e militare nei confronti dell’Occidente non bastano a fugare il timore che il passato possa ritornare. Da ex nazione colonizzata, protagonista di una vittoriosa lotta di liberazione, la Cina si è sempre sentita – e continua a sentirsi - più vicina alle nazioni in via di sviluppo che alle altre grandi potenze. Ciò fa sì che, da Mao a Xi passando per Deng, gli obiettivi prioritari della politica cinese siano sempre stati unità, sicurezza, sovranità e indipendenza. Questo spiega le ragioni che hanno provocato i conflitti di frontiera sopra ricordati. Quello con la Russia, ad esempio, nasce soprattutto dal fatto che la Cina rimproverava all’Unione Sovietica la mancata osservanza del principio di eguaglianza fra Paesi socialisti - accusa lanciata anche da Che Guevara nel noto discorso di Algeri (17). A seguito degli interventi in Europa orientale e dei dissidi ideologici provocati dalla destalinizzazione, i cinesi temono che la Russia possa comportarsi allo stesso modo nei confronti della Cina. Di qui il riavvicinamento tattico con gli Stati Uniti. Quanto al conflitto con l’India erano in ballo, oltre che una ridefinizione del confine himalayano funzionale all’acquisizione di migliori postazioni difensive, l’appoggio indiano all’irredentismo dei Lama, sostenuto anche dalle potenze occidentali (18). La necessità di garantire, ad un tempo, l’unità nazionale e la sicurezza dei confini è il filo rosso che lega la politica cinese sulle questioni del Tibet, dello Xinjiang, di Hong Kong e di Taiwan: per la Cina si tratta di mantenere la propria integrità territoriale, rigettando la politica occidentale che ne fa questioni di “diritti umani” per occultare il vero obiettivo: acquisire teste di ponte per indebolire le difese del nemico. Contro queste velleità, la Cina ha costantemente riaffermato i cinque principi della coesistenza pacifica recentemente riproposti da Xi Jinping: rispetto reciproco, sovranità e indipendenza nazionale, non aggressione, non interferenza negli affari interni, uguaglianza e mutuo beneficio. 


3. Il campo di battaglia principale su cui la Cina forgia gli obiettivi della sua politica estera è sempre stato, e resta tuttora, quello dei rapporti con le nazioni di quello che un tempo si definiva Terzo Mondo, mentre oggi è il campo dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, di cui i Brics rappresentano la punta di diamante. Finché è esistita l’Unione Sovietica si trattava di assumere la leadership dei Paesi poveri che rifiutavano di sacrificare la loro sovranità all’una o all’altra delle due superpotenze. Dopo il crollo del sistema socialista nell’Europa dell’Est e dopo la riduzione della Russia al rango di potenza regionale (ancorché dotata di un poderoso arsenale militare), l’obiettivo fondamentale diventa quello di contenere le pretese egemoniche degli Stati Uniti e il loro tentativo di costruire un mondo unipolare. Il rapporto con la Russia torna quindi ad essere fondamentale (nel 2001 i due Paesi firmano un trattato di amicizia e cooperazione come non era più avvenuto dal trattato fra Mao e Stalin del 1950), ma la Cina continua a guardare soprattutto all’Africa come teatro di un’iniziativa diplomatica, economica e politica che può rafforzarla nel confronto con l’Occidente. È una strategia che già aveva pagato in passato, allorché i voti dei Paesi africani le avevano consentito di entrare all’Onu scalzando Taiwan, ma diventa ancora più efficace nel momento in cui la potenza finanziaria, industriale, scientifica e tecnologica della Cina ha raggiunto livelli tali da consentirle di presentarsi come un’alternativa credibile alla politica degli “aiuti” occidentali. Questa offensiva diplomatica nel continente africano, che Stati Uniti ed Europa cercano di presentare (con la complicità di una certa sinistra) come una forma di imperialismo neocoloniale speculare a quello occidentale, ha successo grazie agli otto principi per l’aiuto economico (relazioni fondate sull’uguaglianza e sul vantaggio reciproco, rispetto della sovranità e del principio di non ingerenza negli affari interni, prestiti senza interesse o a basso interesse, aiuto allo sviluppo di economie indipendenti, investimenti su progetti immediatamente redditizi, fornitura delle migliori attrezzature cinesi, formazione dei tecnici locali, eguale trattamento tecnici cinesi e locali) che offrono un’alternativa decisamente appetibile rispetto agli aiuti gestiti dall’FMI e dalla Banca ,che hanno provocato la crisi dei debiti sovrani. Se a questo si aggiunge lo sforzo di rinsaldare i rapporti con i Brics al fine di costruire una sorta di comunità internazionale alternativa attraverso la creazione di organismi finanziari come la Nuova Banca di Sviluppo, l’Asian Infrastructure Investment Bank e un Fondo di riserva che dovrebbe funzionare come una sorta di mini FMI per i Brics, per tacere del colossale piano di investimenti messo in campo con il progetto della Nuova Via della Seta, diventa comprensibile come il Beijing Consensus abbia guadagnato posizioni rispetto al Washington Consensus.


4. Quanto chiarito ai punti 2 e 3 non mette in discussione l’approccio tradizionale illustrato al punto 1:  la Cina non rivendica un ruolo geopolitico egemone, non mira a sostituirsi agli Stati Uniti in quanto superpotenza dominante, ma punta semplicemente a riformare il sistema internazionale in senso meno unipolare e più collegiale. Ciò non impedisce agli Stati Uniti di percepirla come una minaccia mortale alla propria leadership, al punto che negli ultimi anni Trump, ma ancor più Biden, hanno assunto un atteggiamento che non può essere definito altrimenti che come una vera e propria nuova Guerra Fredda che viene combattuta su più fronti: dall’accusa di aver provocato la pandemia del Covid19, che sarebbe sfuggito da un laboratorio di Wuhan (un’inchiesta della OMS che ha escluso tale possibilità non è servita a tacitare la propaganda dei media occidentali), alle denunce di violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang, dalle provocazioni di navi americane nelle acque del Mar Cinese Meridionale alle minacce di intervento militare a sostegno di Taiwan. Il tutto condito dalle campagne propagandistiche contro l’atteggiamento sempre più “assertivo” della Cina, a partire dal potenziamento della Marina militare cinese che, come nota Bertozzi, appare pienamente  giustificato dal timore che gli Stati Uniti e i loro alleati possano attuare un blocco navale per strangolare l’economia cinese. L’ultimo depistaggio è stato tentato in occasione delle recenti conferenze sul clima del G20 e della Cop26, nel corso delle quali si è fatto di tutto per attribuire alla Cina (e in minor misura all’India) la responsabilità del fallimento di questo ennesimo teatrino pseudoambientalista, in cui la Cina si è limitata a riproporre la propria posizione (condivisa da altri Paesi in via di sviluppo) che riconosce l’esistenza di responsabilità “comuni ma differenti” fra nazioni occidentali e il resto del mondo, al quale si vorrebbe negare il diritto allo sviluppo (evitando che sorgano altri pericolosi concorrenti al dominio dei soliti noti).    



Considerazioni conclusive 


Gli interrogativi che solleva il libro di Diego Angelo Bertozzi sono molti né riguardano solo la storia cinese. Provo a elencarne alcuni. La Cina è un Paese socialista, oppure si tratta di capitalismo di stato governato da un regime totalitario? Questa domanda ne solleva immediatamente altre tre: siamo ancora in grado di attribuire un significato preciso alla parola socialismo? Il termine capitalismo di stato basta a descrivere un sistema economico inedito e complesso come quello cinese? La categoria di totalitarismo è adeguata per definire la realtà politica di quel Paese? E ancora: è possibile dividere la storia della Rivoluzione cinese fra una prima fase, socialista, e una seconda fase, segnata dalla restaurazione capitalista? Posto che nessuno può seriamente pensare che l’esperimento cinese possa essere assunto come modello per una rivoluzione anticapitalista occidentale, siamo sicuri che non ci possa offrire alcuni insegnamenti fondamentali? Non nutro l’ambizione di offrire risposte univoche a interrogativi tanto impegnativi, anche se  in lavori precedenti ho cercato di impostare alcune riflessioni in merito, che cercherò qui di rilanciare avvalendomi degli ulteriori elementi che ho potuto ricavare dal contributo di Bertozzi.    


Parto da una prima constatazione di fatto. La rivoluzione cinese è stata in primo luogo – e sotto molti aspetti continua a percepirsi come tale, come abbiamo visto seguendo l’analisi di Bertozzi sulla politica estera – una rivoluzione anticoloniale e nazional popolare, finalizzata alla conquista dell’indipendenza e della sovranità politica del Paese, nonché al suo autonomo sviluppo economico. È stata anche, come rivendica il Partito Comunista che l’ha guidata in ogni sua fase, una rivoluzione socialista? Non è possibile rispondere senza prendere preliminarmente atto di un secondo dato di fatto: a monte di qualsiasi definizione teorica del termine socialismo, la storia del movimento operaio mondiale ci insegna che non si è mai verificata una rivoluzione socialista in un Paese industriale avanzato laddove, secondo i canoni “classici” del marxismo, le condizioni “oggettive” (sviluppo delle forze produttive, ecc.)  avrebbero potuto/dovuto consentirlo (le uniche eccezioni in tal senso sono i moti in Germania, Ungheria e Italia successivi alla Prima guerra mondiale, tutti falliti prima poter dare vita a un solido potere statuale). Tutte le rivoluzioni socialiste riuscite (la russa, la cinese, la cubana e la vietnamita, per citare le principali) sono state, secondo il noto detto di Gramsci, “rivoluzioni contro il Capitale”, nel senso che si sono svolte in Paesi economicamente arretrati e hanno avuto come protagoniste principali le masse contadine, alleate con settori di piccola borghesia urbana ed esigui nuclei di classe operaia in formazione. Tutti coloro che insistono a indicare nella classe operaia – magari sociologicamente “aggiornata” e ridefinita (vedi concetti come quello di “lavoratori della conoscenza”, “operaio sociale” et similia) – l’unico ed esclusivo Soggetto (con la maiuscola) rivoluzionario, dovrebbero riconoscere che a esercitare tale ruolo sono stati piuttosto quei partiti comunisti che ne hanno rivendicato – secondo alcuni usurpato - il destino storico,  offrendo così un clamoroso esempio di “autonomia del politico”. Ecco perché troskisti, operaisti e altri aspiranti custodi dell’ortodossia  marxista sono indotti a negare la natura socialista di rivoluzioni “spurie” come quelle sopraelencate, che infrangono i dogmi dello sviluppo delle forze produttive, del carattere necessariamente mondiale della rivoluzione, ecc. 


È vero che se assumiamo le definizioni “classiche” del socialismo che ci hanno lasciato in eredità i padri fondatori del movimento marxista (20), dobbiamo accettare il fatto che nessuno dei Paesi socialisti del passato e del presente è riuscito a realizzare qualcosa di diverso da una forma di capitalismo di stato. Il guaio è che “capitalismo di stato” è un termine passepartout che vuol dire tutto e niente. Che tipo di capitalismo? Che tipo di stato? L’intervento diretto dello stato in economia è una pratica condivisa dai regimi nazifascista e sovietico, dal New Deal americano e dall’economia mista italiana del dopoguerra, dal Giappone e dalla Cina: si tratta di fenomeni intercambiabili? Evidentemente no. Lenin, per esempio, replicava così a chi criticava la svolta della Nep: “Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano”(21). Sono parole che ci fanno capire come la questione non sia puramente economica o giuridica, non riguardi cioè solo le forme di proprietà e l’organizzazione del processo produttivo, ma chiami in causa anche e soprattutto la natura e gli obiettivi delle forze politiche che governano la società. 


Il richiamo alla Nep è fondamentale perché ci consente di liquidare la tesi sulle riforme cinesi degli anni Settanta come rottura radicale con il passato, come un “tradimento” dell’eredità maoista. La ricostruzione storica di Bertozzi, infatti, ci aiuta a capire come la politica economica del PCC sia sempre stata, dal 1947 ad oggi, una ininterrotta messa in atto – sia pure con successive varianti - del metodo leninista della Nep. Mao non è stato meno “moderato” di Deng nel tenere conto degli interessi della borghesia nazionale, tanto nelle campagne quanto nei centri industriali, non ha mai imboccato la via della collettivizzazione forzata e della nazionalizzazione integrale in stile sovietico. Ha sempre creduto nella necessità di “usare il capitalismo” per promuovere la crescita e il benessere delle masse. Se ha parzialmente deviato da questa linea,  non è stato per motivi ideologici, bensì per considerazioni di tipo geopolitico: temendo un’aggressione dall’esterno, ha pensato che ci si dovesse preparare a fronteggiarla adottando una sorta di “comunismo di guerra” simile a quello del 1919/20 in Russia. Le riforme successive alla sua morte non rappresentano dunque una svolta di principio rispetto al passato, ma piuttosto – questo sì – un’applicazione su scala assai più vasta del principio dell’uso del mercato come strumento per promuovere lo sviluppo. Che le riforme abbiano introdotto significativi elementi di capitalismo in Cina è un dato di fatto: dall’abbandono delle comuni popolari all’apertura delle zone speciali che ha spalancato le porte a massicci investimenti di capitali privati internazionali. Basta per parlare di fine del socialismo? Dipende se si pensa che la presenza di estese relazioni di mercato sia di per sé un fattore sufficiente per rispondere positivamente. Giovanni Arrighi non la pensa così, nella misura in cui sostiene la tesi – che condivido – che si possono aggiungere a volontà elementi di mercato in un sistema sociale, ma se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo (22). È un punto di vista condiviso da altri autori (23) i quali sottolineano come la Cina mantenga una potente pianificazione ancorché flessibilizzata, come sia dotata di un esteso sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; come le terre (e le banche!) restino in larga misura pubbliche; e infine come il sistema sia caratterizzato da differenti forme di proprietà. 


Vengo alla questione del presunto totalitarismo cinese. Bertozzi –come si è visto – insiste in varie occasioni sul fatto che i leader cinesi negano a priori la possibilità di introdurre nel Paese forme di democrazia analoghe a quelle in vigore in Occidente. Uno studioso canadese che da anni vive e insegna in Cina, Daniel A. Bell, sostiene a sua volta (24) che il sistema cinese è la più clamorosa smentita della tesi secondo cui la democrazia liberale di tipo occidentale è il sistema verso cui ogni Paese evolve “naturalmente”, a mano a mano che sviluppa un’economia di mercato. Cita, fra le altre cose, alcune ricerche che rivelano come i cittadini cinesi non abbiano una idea “procedurale” di democrazia, bensì un’idea sostanziale fondata sulla valutazione delle conseguenze pratiche che un determinato sistema produce. Per il cinese comune, il concetto di democrazia rinvia al grado di tutela e di sicurezza che lo stato e il partito possono garantire, al fatto se fanno o meno gli interessi della maggioranza del popolo; e le stesse ricerche confermano che il livello di legittimità del sistema politico cinese è molto più alto di quello che i cittadini di molti Paesi occidentali riconoscono ai loro governi. Del resto, aggiunge Bell, alla contropropaganda del PCC nei confronti delle accuse occidentali non mancano i buoni argomenti:  dalle percentuali sempre più basse di partecipazione alle elezioni, al peso soverchiante delle élite e delle lobby economiche e finanziarie, che fa sì che esigue minoranze siano in grado di esercitare un’enorme influenza sulle decisioni politiche.


Citando gli stessi canali di partecipazione popolare elencati da Bertozzi, sui quali il regime cinese sta costruendo un esperimento di democrazia consultiva in continua evoluzione anche sul piano legislativo e istituzionale, Bell adotta poi, per definire questo complesso sistema di governance, il termine di “meritocrazia democratica verticale” che, a suo avviso, ben descrive le procedure di selezione della leadership politica del PCC. Il sistema ha lo scopo di selezionare una élite attraverso esami e valutazioni delle prestazioni ai livelli di governo locali. La competitività dei percorsi universitari è il primo ostacolo che devono affrontare i candidati sia alla carriera politica che a quella statale. Il passo successivo consiste nei non meno impegnativi esami per il pubblico impiego, dopodiché si può accedere ai livelli più bassi di governo, e ogni successiva promozione dipende esclusivamente dalla qualità delle prestazioni realizzate. Negli ultimi tempi, la formazione politica dei quadri prevede inoltre che trascorrano lunghi periodi in comunità rurali povere, una sorta di riedizione delle pratiche in auge nel periodo della Rivoluzione Culturale che conferma la rivalutazione di certi aspetti del maoismo da parte di Xi Jinping.  Infine Bell enumera i vantaggi di questo sistema rispetto alla procedure di selezione liberal democratiche , puntando il dito contro la “vista corta” dei politici occidentali, costantemente condizionati dalle scadenze elettorali e dalla necessità di compiacere questa o quella tendenza dell’opinione pubblica senza tenere conto degli interessi generali della società nel lungo periodo; per tacere degli effetti collaterali del processo di mediatizzazione e personalizzazione della politica. I leader cinesi possono al contrario impegnarsi in pianificazioni lungimiranti, svolgendo esperimenti che impiegano anni per dare frutti senza preoccuparsi delle elezioni successive. 


Resta da affrontare l’ultima domanda che sollevavo introducendo queste considerazioni conclusive: posto che le differenze storiche, culturali e sociali fra la Cina e i Paesi occidentali   sono tali da impedirci di pensare che l’esperimento cinese possa essere preso a modello per una rivoluzione anticapitalista alle nostre latitudini, quali insegnamenti possiamo trarne? Non potendo affrontare argomenti che occuperebbero svariati volumi, mi concentro esclusivamente su due elementi: il primo è la necessità di prendere consapevolezza del fatto che il socialismo ha assunto e assumerà forme radicalmente diverse e peculiari nei vari contesti geografici, storici e culturali, tanto diverse da trascendere il punto di vista universalistico, astratto ed eurocentrico connaturato alla nostra tradizione politica; il secondo consiste nel prendere atto che è arrivato il momento abbandonare il mito del comunismo come paradiso in terra. 


Rinunciare al punto di vista universalistico ed eurocentrico implica rinunciare a un’idea che ci accompagna dai tempi del Manifesto di Marx: cioè quella secondo cui l’estensione del dominio imperiale delle metropoli capitalistiche sul resto del mondo avrebbe il “merito” di creare i presupposti per la transizione al socialismo. Questo errore è frutto di un condensato di deformazioni ideologiche: economicismo, evoluzionismo, progressismo, fede in presunte “necessità” storiche, feticismo delle forze produttive, ecc. Tale condensato è divenuto una sorta di pensiero unico delle sinistre radicali, a mano a mano che le analisi dei teorici della dipendenza (25) venivano accantonate con l’accusa di “terzomondismo” e sostituite dalla certezza che solo la sussunzione del mondo intero sotto il rapporto di capitale può creare le condizioni per una rivoluzione mondiale. A smentire tale visione non sono solo le disastrose sconfitte subite dalle classi subalterne occidentali, ma anche il fatto che nel resto del mondo la penetrazione del mercato non si è automaticamente tradotta in omologazione ai valori, ai principi e ai rapporti sociali e politici tipici delle società capitaliste occidentali. 


Non basta più riconoscere il dato di fatto – più volte richiamato nelle pagine precedenti - che le sole rivoluzioni socialiste siano avvenute in regioni del mondo “arretrate”, e che ne siano state protagoniste classi operaie in formazione e larghe masse contadine, alleate con strati di piccola borghesia urbana e sotto la guida di partiti di matrice marxista-leninista: è giunto il momento di riconoscere che difficilmente le cose avrebbero potuto andare altrimenti. Più la classe operaia è sviluppata, organizzata, capace di contrattare migliori condizioni di vita e di lavoro, più essa rischia infatti di ridursi a capitale variabile, a fattore di accelerazione dell’accumulazione capitalistica. Al contrario le masse popolari periferiche e semiperiferiche, soggette all’oppressione coloniale e neocoloniale, oltre che a forme di supersfruttamento, si percepiscono e si considerano come esterne al rapporto di capitale, e si oppongono con tutte le forze alla sua violenza colonizzatrice. 


Assai prima delle riforme cinesi degli anni Settanta, questo rovesciamento di punto di vista era già avvenuto con la Rivoluzione russa del 1917: l’eresia leninista non è consistita solo nell’avere sostituito la tesi dell’attacco all’anello più debole della catena a quella dell’attacco al livello più elevato di sviluppo del capitale: è consistita ancor più nell’aver liquidato negli ultimi anni di vita, le visioni estremiste che pretendevano di applicare il modello “classico” di transizione alla costruzione del socialismo in Russia; nell’avere compreso che imboccare la via del capitalismo di stato, non avrebbe automaticamente significato la restaurazione del capitalismo tout court; sempre a condizione che tutto il potere politico fosse rimasto concentrato nelle mani del partito (26). Come si è visto, la svolta post maoista in Cina presenta chiare analogie con la Nep di Lenin: dopo il fallimento del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, in una situazione che vedeva ottocento milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, si è capito che, per avanzare verso il regno della libertà, ci si sarebbe dovuti in primo luogo sbarazzare dei vincoli della necessità. Certo, i successi cinesi non hanno nulla a che fare con l’avvento del paradiso in terra profetizzato da autori come Ernst Bloch (27). Lo stesso vale per quelli realizzati dai Paesi dell’America Latina impegnati a costruire quello che definiscono il socialismo del secolo XXI  (28).  Delineano però le condizioni di un socialismo possibile, di una lunga transizione dall’esito aperto e imprevedibile, caratterizzata dalla convivenza fra economia pubblica ed economia di mercato e dal persistere della lotta di classe. 


Riconoscere che la società socialista non comporta il superamento di tutti i conflitti economici, politici e culturali, ed è del tutto compatibile con l’esistenza della lotta di classe, vuol dire fare i conti con quello che Costanzo Preve definiva il discorso grande narrativo del marxismo (29), vale a dire con quella visione profetico religiosa del futuro che trova espressione, fra gli altri, nel pensiero di un Bloch, nell’idea del comunismo come mondo emancipato da tutti i conflitti e da tutte le contraddizioni, come transizione dal regno della necessità a un regno della libertà in cui l’umanità potrà attingere la sua “essenza autentica”.  Se vogliamo riscattare almeno in parte quel sogno – che del resto gli stessi comunisti cinesi continuano ad alimentare con la loro visione del futuro della Cina come Società Armoniosa – occorre rivolgersi, come suggeriva ancora Preve, all’ontologia sociale dell’ultimo Lukács (30). In un libro che uscirà il prossimo gennaio per i tipi di Meltemi provo a sintetizzare la lezione lukacsiana in una serie di tesi filosofiche e politiche che riassumo qui di seguito:  


Sul piano filosofico: 1) Lukács assume il lavoro quale unico esempio di attività consapevolmente e finalisticamente orientata esistente al mondo, mentre esclude a priori l’esistenza d’una direzionalità predefinita nel cammino evolutivo della specie umana. Ponendosi obiettivi sempre più ambiziosi per soddisfare i propri bisogni e desideri, ed inventando mezzi sempre più sofisticati per indurre tanto la natura che gli altri esseri umani a collaborare ai loro progetti, gli uomini hanno costruito inconsapevolmente (essi fanno ciò ma non sanno di farlo, scrive Lukács citando Marx) società sempre più complesse e sempre più difficili da trasformare, se non attraverso progetti dall’esito difficilmente prevedibile; 2)  la storia si presenta come una successione di “salti”, descrivibili come aperture di inediti campi di possibilità. Tali salti non configurano una scala ascendente verso il “progresso”, ma solo l’emergere di possibilità di assumere decisioni alternative; che queste decisioni generino un miglioramento o un peggioramento delle condizioni umane, dipende anche da fattori contingenti, il che fa sì che le “leggi” della storia siano analizzabili solo post festum; 3) la libertà non è mai assoluta: si esercita esclusivamente come libertà di scelta socialmente e storicamente determinata, cioè come facoltà di assumere decisioni alternative in un campo di possibilità rigorosamente predefinito dai vincoli di una specifica fase storica;  4) Dal momento in cui il processo storico ha generato una società divisa in gruppi portatori di interessi contrapposti in merito alla gestione del surplus generato dall’attività lavorativa, è nata l’esigenza per i gruppi dominanti di produrre una giustificazione ideale del proprio dominio, identificando i propri interessi con il bene comune; lo stesso vale per i gruppi dominati in cerca di una giustificazione ideale della loro volontà di cambiare lo stato di cose presente. Tali giustificazioni ideali assumono la forma di ideologie che, per Lukács come per Gramsci, non sono riducibili a “falsa coscienza”, ma rappresentano potenze materiali in grado di trasformare in profondità la realtà sociale; 5) la rivoluzione è possibile solo se e quando le classi dirigenti non sono più in grado di difendere lo status quo, cioè quando si è in presenza di una crisi che trascende la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e culturale; essa è un evento la cui radicalità rispecchia il rapporto asimmetrico fra dominanti e dominati, nel senso che ai primi basta la riproduzione normale per mantenere in piedi lo status quo, mentre i secondi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà; nessun dominio crolla da solo: deve esistere una volontà politica organizzata in grado di trasmettere dall’esterno la coscienza politica nelle classi dominate; infine il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà è una possibilità, non l’esito di presunte “leggi” della storia, la quale non può fare altro se non generare il campo di possibilità affinché ciò avvenga. 


Sul piano politico: 1) La concezione lukacsiana della storia liquida le interpretazioni “oggettiviste” del marxismo: le classi subalterne non possono sperare che la propria emancipazione arrivi da presunte “leggi” di sviluppo dell’economia. La storia non contiene alcun principio immanente che la indirizzi necessariamente verso il “progresso”. Al tempo stesso, ciò non significa immaginare la rivoluzione come un puro atto di volontà soggettiva, bensì rendersi conto che le sue condizioni di possibilità incorporano una buona dose di fattori casuali, contingenti e individuali; 2) l’idea di progresso – che è un prodotto della moderna cultura borghese – non va accettata acriticamente, come viceversa hanno fatto quasi tutte le forze politiche di matrice marxista. La rivoluzione socialista non è la prosecuzione/compimento della rivoluzione borghese, la messa in pratica di principi e valori che quest’ultima si è limitata a enunciare senza metterli in pratica, è il passaggio a una forma di vita, a una civiltà, radicalmente alternative; 3) il futuro non matura spontaneamente nel grembo del presente.  La rivoluzione proletaria non può replicare il modello delle rivoluzioni borghesi, perché i rapporti sociali capitalistici non consentono ai proletari di acquisire potere sufficiente per sostituirsi facilmente alle classi dominanti. Si tratta di un’impresa che implica un formidabile sforzo di accumulazione di consapevolezza politica e di mezzi organizzativi (per questo Lukács resta fedele alla concezione leninista del partito rivoluzionario); 4) Il fatto che Lukács valorizzi l’ideologia come fattore materiale di trasformazione dell’esistente non comporta tentazioni di tipo idealistico: egli considera l’ideologia come strumento della lotta di classe, un’arma politica che serve a imporre l’egemonia delle classi dominanti sui dominati. Il fatto che questo rapporto possa essere invertito, il fatto cioè che l’ideologia possa essere usata come arma controegemonica dai dominati, fa sì che il tardo capitalismo compia ogni sforzo per de-ideologizzazione la società e la politica.


Lukács non ha fatto in tempo ad assistere al crollo dell’Unione Sovietica  e all’ascesa della Cina Popolare, né possiamo sapere quale sarebbe stato il suo giudizio su questi eventi storici. Quello che mi sento di affermare è che tanto la sua visione filosofica (rigorosamente materialista quanto lontana da ogni suggestione determinista, aperta al ruolo della progettualità soggettiva ma scevra da tentazioni idealistiche) quanto quella politica (sostanzialmente fedele alla lezione leninista) mi paiono in sintonia con lo spirito della Rivoluzione cinese, per cui credo che il suo pensiero possa funzionare come un buon dispositivo concettuale per tradurre/adattare gli insegnamenti che ci giungono da Oriente al contesto in cui ci troviamo oggi a vivere e lottare. 


Note


(1) Cfr. Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008; vedi anche Samir Amin, L’implosion du capitalisme contemporain, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2014 e, dello stesso autore, Classe et nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015; vedi infine V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’ Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno,  n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125. 


(2) Cfr. D. Losurdo, la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2013; Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017 e infine La questione comunista, opera postuma uscita nel 2021 per i tipi di Carocci. 


(3) Cfr. R. di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012; Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino 2018. 


(4) Cfr. le bibliografie in coda ad alcuni miei ultimi lavori, come Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi,  Milano 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 


(5) Cfr. R. Di Leo,  L’esperimento profano, cit.


(6) Cfr. Lenin. L'estremismo, malattia infantile del comunismo, Edizioni Lotta Comunista, Milano  2005; Vedi anche l’articolo del 1923 “Meglio meno ma meglio”, scaricabile a questo indirizzo web https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm 


(7)  Ecco la definizione in questione: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano”. Il brano è citato in A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s  Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020.


(8) Minqi Li, nel suo The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, Pluto Press, London 2008, insiste sulle cause naturali del fallimento del Grande balzo in avanti, oltre che su presunti sabotaggi da parte dell’ala destra del Partito.  


(9) Bertozzi sottolinea come la propaganda occidentale abbia sfruttato questo evento per dipingere Mao come un mostro e paragonarlo a Hitler, come se le vittime fossero state provocate da un genocidio sistematicamente programmato e attuato, e non dall’effetto congiunto di errori di valutazione e catastrofi naturali. 


(10) I componenti della cosiddetta banda dei quattro erano Jiang Qing, vedova di Mao e sua quarta e ultima moglie, e tre suoi associati, ossia Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen, arrestati dopo la morte di Mao con l’accusa di preparare un colpo di stato. Il loro processo segnò la fine definitiva della Rivoluzione culturale. 


(11) Secondo Rita di Leo (cfr. opp. citt.), se Lenin  fosse vissuto più a lungo e avesse continuato a imporre le politiche economiche della Nep, la Russia avrebbe probabilmente seguito un percorso evolutivo non molto dissimile da quello cinese.  


(12) Cfr. D. Harvey, The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020. 


(13) A usare questa definizione è stato, fra gli altri, G. Arrighi (cfr. Adam Smith a Pechino, cit.). Altri marxisti occidentali hanno utilizzato questa “divisione del lavoro” fra Stati Uniti e Cina come argomento decisivo per dimostrare la piena integrazione di Pechino nel sistema capitalistico mondiale. 


(14) Per un atto d’accusa particolarmente duro sulle condizioni di lavoro degli operai cinesi nelle fabbriche straniere, come la Foxconn (impresa taiwanese che produce semilavorati per la Apple) vedi  Pun Ngai, Morire per un IPhone, Jaca Book, Milano 2016.


(15) A spiegare i motivi di questa mancata alleanza è, fra gli altri, Minqi Li (op. cit.) che partecipò alla rivolta di Tienanmen dalla parte delle destre liberali per poi convertirsi al neo maoismo in carcere.


(16) Non fare la fine dell’Urss è divenuta una preoccupazione ossessiva per il PCC dopo l’89. Anche per questo il Partito si è assiduamente impegnato nell’analizzare le cause del disastro che, secondo Bertozzi, avrebbe individuato nell’abbandono dell’ideologia marxista leninista, nelle spese eccessive sostenute per reggere il confronto con gli Stati Uniti, nella sottovalutazione del ruolo dei settori dei beni di consumo e dei servizi ai fini della conservazione del consenso popolare, nella stagnazione economica, nell’esplosione dei nazionalismi periferici aizzati dagli occidentali, nella corruzione dei gruppi dirigenti e nella spoliticizzazione dell’esercito che ha disarmato il partito. 


(17) Sulle diverse sfumature di significato fra formule come socialismo di mercato, socialismo con mercato ed altre ancora che vengono utilizzate dagli studiosi marxisti di cose cinesi, cfr. R. Herrera, Z. Long, La Chine est-elle capitaliste? Editions Critiques, Parsi 2019 (il volume è ora disponibile in edizione italiana per i tipi di Marx21).


(18) A fare riferimento al discorso in questione è, fra gli altri, Alessandro Visalli nel suo Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.  


(19) Bertozzi si occupa estesamente della questione tibetana, contribuendo a smitizzare le narrazioni occidentali che, anche attraverso libri, film e campagne promosse da attori come Richard Gere e altri artisti americani, hanno presentato il lamaismo come un idilliaco mondo di pace, soffuso di misticismo e vittima della brutalità di Pechino. La verità è che prima dell’integrazione del Tibet nella Cina Popolare i contadini e i pastori tibetani erano schiavi sottoposti al potere di vita e di morte da parte da parte dei loro padroni (che spesso erano monasteri). La politica cinese è stata all’inizio morbida nei confronti della ragione, cui consentiva un certo margine di autonomia, mentre i servizi americani si impegnavano ad alimentare la resistenza anticinese. Infine, negli anni Settanta, la ribellione viene definitivamente schiacciata, dopodiché Pechino attua una serie di riforme che spezzano il potere economico e politico delle vecchie élite locali. 

 

(20) Cfr. quanto scrivo in merito in Ombre rosse, di prossima uscita per i tipi di Meltemi. Vedi inoltre l’articolo di Giacché su Marx21 citato alla nota (1).


(21) per la citazione completa vedi alla nota (7).


(22) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit.


(23) Cfr. R. Herrera, Z. Long, op. cit e a. Gabriele, op. cit.


(24) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.

(25) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(26) Vedi i testi citati alla nota (6).


(27) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll. , Mimesis, Milano 2019.


(28) Cfr. in merito tre lavori dell’ex vicepresidente boliviano A. G. Linera: La potencia plebeya, Clacso/Prometeo Libros, Buenos Aires 2013; Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015 e Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020. Vedi inoltre quanto ho scritto sulle rivoluzioni andine ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi,  Milano 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 


(29) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984


(30) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Pigreco, Milano 2012.