venerdì 9 aprile 2021




GLOSSE ALLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI LUKACS (IV)


Con questo post si conclude il mio commentario alla “Ontologia dell’essere sociale” di Gyorgy Lukacs, una delle opere più importanti, se non la più importante, che un filosofo marxista abbia scritto nel Novecento. Come ho chiarito nella prima puntata, non era mia intenzione, non essendo chi scrive un filosofo accademico, produrre un’analisi filologica, né tanto meno una esegesi accurata e completa, dell’ultimo fondamentale lavoro del grande pensatore ungherese. Il mio obiettivo, più modesto, ma forse più utile e interessante sul piano ideologico, era simile a quello del commentario ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci che ho inserito in un mio recente libro (1), vale a dire estrarre dai quattro volumi della Ontologia i passaggi che ritengo più stimolanti per interpretare la realtà contemporanea, ma soprattutto più adatti a fornire indicazioni teoriche – da intendere marxianamente come guide per la prassi – per restituire motivazioni alla lotta di classe, in un momento storico in cui l’offensiva del capitale sembra avere ridotto ai minimi termini le nostre capacità di resistenza. Se e in che misura ci sia riuscito lo giudicheranno i lettori. Aggiungo solo che l’insieme dei materiali pubblicati in queste quattro puntate ha le dimensioni di un saggio di media lunghezza, di cui potrebbe rappresentare la prima stesura, da rivedere e correggere nel caso decidessi di pubblicarne una versione cartacea, ma devo ancora capire  se valga la pena di farlo .  



5. Libertà, socialismo, utopia 


Nella quarta sezione abbiamo esaminato la critica lukacsiana delle ideologie associate ad alcune sfere dell’essere sociale, come la religione e il diritto (che tuttavia, come si è visto, Lukacs non liquida come dimensioni ”illusorie”, prive di consistenza ontologica) . Nella stessa sezione abbiamo ripreso il tema – già affrontato nella seconda e nella terza sezione – della critica del concetto di necessità storica elaborato dal materialismo volgare. Nella prima parte di questa quinta e ultima sezione torneremo su quest'ultimo argomento a partire dalla critica all’antitesi fra necessità e libertà posta dal pensiero orientato in senso idealistico. Contro questa impostazione, Lukacs sottolinea che il problema della libertà può essere posto in maniera sensata soltanto in un rapporto di complementarietà con la necessità. Se nella realtà non ci fosse nessuna necessità, non sarebbe possibile neppure la libertà, la quale però non esisterebbe nemmeno in un mondo dominato dal determinismo di Laplace, dal <<ritorno dell’identico>> di Nietzsche, e così via (vol. IV, p. 350). 

L

’opposizione fra necessità e libertà, da cui muove il pensiero orientato in senso logico-gnoseologico identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di <<se…allora>> (vedi seconda e terza sezione). In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (…) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale (vol. III, p. 117). Viceversa, chi voglia impostarlo nella sua forma autentica, argomenta Lukacs, deve ricercarne il fondamento reale nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete; se la questione viene portata a un più alto livello di astrazione distaccandola del tutto dal concreto, essa perde ogni contatto con la realtà, diviene una vuota speculazione (vol. III, p. 113). Dopodiché, più in  basso nella stessa pagina, avverte che più complicato è rispondere alla domanda fino a che punto il determinismo esterno o interno alla decisione può essere inteso come criterio della sua libertà. Se l’antitesi fra determinismo e libertà viene concepita in termini astratto-logicistici, si viene a dire che soltanto un dio onnipotente potrebbe davvero essere interamente libero, il quale però, data la sua essenza teologica, poi esisterebbe oltre la sfera della libertà. Ma nell’uomo, che ”vive nella società e socialmente agisce”, la libertà non è mai del tutto priva di determinismo (ivi). 


Lukacs ripropone quest’ultimo principio anche laddove critica l’illusoria convinzione che i singoli possano compiere “atti soggettivi puri”. Si può credere che esista qualcosa del genere solo nella misura in cui gli atti in questione vengano considerati “nella loro immediatezza semplificata ed estremizzata”. Ma la verità è che, a metterli in moto, è sempre in ultima analisi l’impulso a produrre una <<risposta>> a domande poste dalla società,  dal momento che l’uomo non può mai agire in situazioni umanamente vuote, anzi ciascuna delle sue azioni, anche la più bizzarra (…) non può non provenire da comunità umane e in qualche maniera sfociare in esse (vol. I, p. 69). Tanto meno l’opposizione fra libertà e necessità si regge laddove venga formulata come opposizione fra sfera dell’agire orientato allo scopo e sfera delle relazioni causali, fra intenzionalità umana e legalità naturale, fra teleologia e causalità: contrapporre queste dimensioni come momenti dell’essere è dal punto di vista ontologico privo di senso, argomenta Lukacs, in quanto la causalità può esistere e operare senza teleologia, mentre questa può avere essere reale nel gioco con la causalità, soltanto come momento di tale complesso, presente solo nell’essere sociale (vol. IV, p. 336). Ancora una volta la libertà può dunque essere concepita solo come esito del fatto che l’agire teleologico produce nel mondo fenomenico campi “liberi”, la cui libertà, tuttavia,  è possibile solo all’interno delle legalità del campo (vol. IV, p. 376). 


Come si vede, il modello concettuale all’opera dietro ogni argomentazione di Lukacs continua ad essere quello del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura (vedi prima sezione). Teleologia e causalità si mettono in relazione nell’essere sociale esattamente come avviene nella prassi lavorativa: i processi le situazioni, ecc. sociali sono bensì in ultima analisi prodotti di decisioni alternative degli uomini, ma non va dimenticato che acquistano rilievo sociale solo quando mettono in funzione serie causali che si muovono più o meno indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha poste, secondo legalità specifiche ad esse immanenti. L’uomo che agisce praticamente nella società si trova perciò di fronte a una seconda natura (ricordiamo che Lukacs precisa che il concetto di seconda natura è da intendersi in senso metaforico), verso la quale egli, se vuole gestirla con successo, deve comportarsi come con la prima, cioè deve cercare di trasformare in un fatto posto da lui il corso delle cose che è indipendente dalla sua coscienza, deve, dopo averne conosciuto l’essenza, stamparci l’impronta di quel che egli vuole (vol. III, p, 125). 


Ciò detto, quello che qui ci appare come un campo “libero”, ancora più esteso e dalle conseguenze ancora più significative di quello generato dalla prassi del lavoro, incontra il proprio limite nella misura in cui l’analisi ci mostra un ulteriore momento significativo del determinismo del soggetto dell’alternativa: la necessaria ignoranza delle sue conseguenze o almeno di una parte di esse. Del resto è facile vedere come sia anzitutto la vita quotidiana che di continuo pone davanti ad alternative inattese e spesso bisogna trovare una risposta immediata, pena la rovina; in tal caso il carattere essenziale dell’alternativa medesima è che bisogna decidere non conoscendo la maggioranza delle componenti della situazione, delle conseguenze, ecc. Quindi dobbiamo arguire che l’ignoranza delle conseguenze dell’agire rimuove ogni elemento di libertà da quest’ultimo? No perché, prosegue Lukacs,  anche così resta un minimo di libertà della decisione; anche in questo caso (cioè l’azione dettata dalla necessità di reagire immediatamente di fronte ad alternative inattese) - come caso limite – si tratta pur sempre di una alternativa e non di un evento naturale determinato da una causalità puramente spontanea (vol. III, p. 114). 


La tensione fra l’apertura del campo delle alternative possibili che si offrono all’agire del  soggetto umano, e i vincoli posti dalla legalità del contesto sociale in cui esso opera, attinge a livelli parossistici di fronte all’enorme sviluppo della potenza tecnico scientifica alimentato dal capitalismo contemporaneo. Quest’ultimo sembra fare dell’individuo “un plasmatore sovrano di tutte le cose”, di fronte alla cui volontà plasmatoria non c’è nessun mondo dell’essere che risulti indipendente, e tuttavia al tempo stesso ogni uomo diventa un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione (2). L’aspetto più rilevante della nostra epoca, per quanto concerne il rapporto fra teleologia (libertà) e necessità (determinismo), può quindi essere descritto come il coesistere di una onnipotenza astratta e di una concreta impotenza (3).


Questo paradosso, tuttavia, non è il risultato di tendenze puramente “oggettive”, di dispositivi meramente causali, bensì dell’agire egemonico dell’ideologia (intesa nel senso chiarito nella sezione precedente, cioè come necessaria espressione di interessi determinati) dei gruppi dominanti: Basta ricordare con quale forza l’attuale capitalismo manipolato, con i suoi interventi <<regolati>> sul mercato dei consumi e dei servizi, con i suoi mass-media, agisca nel senso di restringere la possibilità di decisioni veramente personali (proprio mediante l’apparenza propagandistica del loro massimo dispiegamento) (vol. I, p. 185). E, accanto a (e in sinergia con) i meccanismi manipolativi della comunicazione pubblicitaria e mediatica operano quelli del sistema educativo: ogni educazione è per l’appunto diretta a sviluppare nell’alunno possibilità molto determinate, che nelle date circostanze appaiono socialmente importanti, e a reprimere o modificare quelle che vengono considerate dannose per tale situazione (vol. I, p. 187). 


Per dirlo con altre parole: le alternative cui veniamo messi di fronte – e che delimitano il campo delle nostre scelte e quindi l’ampiezza della nostra libertà – non sono mai semplicemente “date” (prodotto cioè di vincoli meramente “oggettivi”) ma vengono sviluppate con consapevolezza più o meno giusta oppure si tenta di reprimerle, per formare un essere umano utile e utilizzabile per la società (ivi). Quanto appena detto vale, ovviamente, tanto per la società capitalista quanto per quella socialista, intesa come transizione verso il comunismo, mentre quest’ultimo, nella prospettiva utopistica delineata da Marx, dovrebbe proiettarsi al di là delle modalità di relazione fra libertà e necessità sin qui descritte, verso una nuova dimensione del concetto di libertà umana. Ed è appunto del modo in cui Lukacs affronta il tema dei rapporti fra necessità e libertà nel socialismo e nel comunismo che discuteremo nella seconda parte di questa quinta e ultima sezione.  


A fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo. Questa capacità del lavoro, prosegue Lukacs, crea la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero e, dopo avere aggiunto che, analogamente, è tale capacità che ha consentito il cammino storico delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale questo valore d’uso della forza-lavoro diviene la base dell’intero sistema, Lukacs conclude il ragionamento ricordando che “quale che sia l’orrore ideologico che prende qualche teorico di fronte all’espressione pluslavoro” anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore (vol. III, p. 136). 


Ho ritenuto opportuno sottolineare come i passaggi dall’una all’altra forma sociale siano qui posti sotto la categoria della possibilità, e non sotto quella della necessità, per ribadire quanto già appurato in tutte precedenti sezioni, vale a dire il fatto che, per Lukacs - come per Marx (4) – non esiste una direzione necessaria, immanente al processo storico e scandita dagli automatismi evolutivi delle forze produttive, bensì appunto il progressivo allargamento del campo di possibilità disponibili sotto forma di alternative poste di fronte alla soggettività umana.  


In primo luogo, occorre ricordare che, se si accetta il punto di vista marxiano sul tema, il regno della libertà si potrà realizzare solo nel comunismo, come Lukacs ricorda citando quanto scrive Marx nel III libro del Capitale: <<il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria>>. Viceversa, nel socialismo come prima fase del comunismo la libertà <<può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa >> (5). 







Da questo passaggio Lukacs deriva, fra le altre cose, la considerazione che l’economia (intesa in senso generale) è e rimane anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell’uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni e riprodurre la propria vita, non può, per principio, cambiare dati i suoi fondamenti ontologici (vol. IV, p. 510). Al tempo stesso, ne fa discendere il fatto che, nella misura in cui riconfigura forma e contenuto della relazione fra necessità (l’economia come ricambio organico fra uomo e natura) e libertà (che ora si configura come controllo consapevole dei produttori associati sull’economia), il socialismo prepara le condizioni per la transizione al comunismo. Ma, di nuovo, precisa che il processo in quanto tale, dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo (vol. IV, p. 511). 


Se il comunismo dovrà essere, secondo Marx, la forma sociale in cui il lavoro sarà <<non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita>>, al socialismo spetta il compito di preparare le condizioni perché ciò possa avvenire, perché allo sviluppo illimitato delle forze produttive possa essere sottratto il senso economico, anche se oggi possiamo vedere soltanto certe tendenze – che non è possibile interpretare in modo del tutto univoco – in tale direzione (vol. IV, p. 513). Da notare che Lukacs non considera tutto ciò esclusivamente come tendenza verso un futuro possibile, ma mette in luce come la storia abbia già prodotto esempi almeno parziali di un simile orientamento:  dalle semplici economie contadine, in circostanze relativamente favorevoli, fino all’artigianato del tardo medioevo e del Rinascimento, ci sono state ripetutamente situazioni nelle quali il lavoro ha potuto avere questa funzione nella vita degli uomini. Ma sempre in maniera transitoria, perché fino a oggi lo sviluppo economico ha sempre per forza di cose (6) distrutto tali realizzazioni soggettive fondate sull’arretratezza delle forze produttive (vol. IV, p. 512). Il fatto poi che l’impulso emotivo dell’uomo a trovare nel lavoro il senso della propria vita sia inestirpabile, come argomenta Lukacs a conclusione del passaggio appena citato, è probabilmente ciò che altrove lo induce ad affermare che certe rappresentazioni positivo nostalgiche del passato ovviamente con riadattamenti adeguati ai tempi, abbiano in periodi di crisi un grande peso e svolgano una funzione positiva (vol. IV, p. 798), non siano cioè automaticamente liquidabili come rigurgiti ideologici di segno conservatore o francamente reazionario (7). 


A questo punto dobbiamo porci un interrogativo: in che misura Lukacs crede realmente nella possibilità reale, concreta, della realizzazione dell’utopia marxiana, e in quale misura non la valorizza piuttosto come strumento per l’azione politica,  come una “ideologia”, nel senso positivo che abbiamo chiarito nella precedente sezione? Come vedremo è difficile dare una risposta netta, perché nel testo lukacsiano non mancano elementi di ambiguità. Un’ambiguità che emerge, per esempio, laddove Lukacs si occupa della funzione ideologica dell’utopia, scrivendo che l’impossibilità di tradursi in realtà di quest’ultima non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità (vol. IV p. 522). 


A questo punto l’interrogativo formulato poco sopra potrebbe essere liquidato come irrilevante, dal momento che Lukacs ci dice che, dal punto di vista della prassi politica, la concreta realizzabilità dell’utopia è un problema ininfluente. Ma ciò non renderebbe giustizia all’impegno che Lukacs profonde nel misurarsi con la “verità” dell’utopia marxiana. È pur vero che egli dedica poco spazio a un altro tema che gli intellettuali marxisti appartenenti alle correnti libertarie considerano cruciale, qual è la previsione marxiana in merito  all’estinzione dello Stato nella società comunista realizzata, scrivendo che l’estinzione è questione dello sviluppo futuro, che non è prevedibile (vol. III, p. 220), per cui anche qui fa capolino l’ipotesi che l’utopia possa essere per lui un mero strumento di lotta politica, ma è altrettanto vero che in altre circostanze sembra prendere invece molto sul serio la visione marxiana delle mutazioni antropologiche associate all’avvento del comunismo realizzato. Per esempio, dopo avere ricordato come per Marx l’avere rappresenti nella vita degli individui un forte motore per l’estraniazione, Lukacs inserisce (vol. IV, p. 573) questa lunga citazione dai Manoscritti economico-filosofici : << La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così “umanizzati”) si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano>>. (8) 


È chiaro che questa citazione riflette un punto di vista che attribuisce all’uomo comunista del futuro un forte connotato di “autenticità”, nella misura in cui prevede che egli possa compiutamente emanciparsi da ogni forma di estraniazione. E Lukacs sembra fare propria questa visione, laddove critica quelle correnti filosofiche (qui il bersaglio sono verosimilmente gli esistenzialisti) che non considerano l’estraniazione una caratteristica peculiare della società borghese e capitalistica, ma la trasformano in una “condition humaine” universale e sovrastorica, dove ad esempio l’uomo si contrappone alla società, il soggetto alla oggettività, ecc. (vol. IV, p. 568). Dunque Lukacs è convinto, al pari di Marx, che ogni e qualsiasi tipo di estraniazione sia destinata a sparire nel comunismo realizzato? Non suonerebbe questa come una sorta di profezia di “fine della storia”, in palese contraddizione con la concezione lukacsiana della storia che abbiamo fin qui tentato di esporre? Lasciamo in sospeso questo interrogativo, che proveremo ad affrontare nella seconda parte.


Glosse 


La prima parte dei materiali che ho selezionato e raccolto in questa sezione contiene una serie di argomentazioni critiche contro il concetto astratto di libertà. Molte di esse mi paiono sufficientemente chiare, tanto da non richiedere particolari apporti esplicativi, per cui mi concentrerò solo su quegli aspetti che ritengo propedeutici alla discussione del tema al centro di questa seconda parte, vale a dire la transizione dal capitalismo al socialismo come passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Inizio provando a evidenziare il filo rosso che connette questi due piani del discorso lukacsiano, identificabile, a mio parere, nel tema dell’estensione del campo di possibilità che il lavoro – inteso come dimensione dell’agire teleologico, intenzionale del soggetto umano – viene progressivamente generando a mano a mano che avanza il processo di socializzazione dell’essere sociale. Questo processo non è lineare, né univocamente direzionato da un qualche tipo di teleologia immanente, ma consiste in una serie di scelte che mettono in moto catene causali – il cui esito è in larga misura imprevedibile per il soggetto che opera tali scelte (e questa è la breccia attraverso cui  la necessità torna a imporre pedaggio alla libertà) – le quali, a loro volta, dischiudono un nuovo campo di possibilità e quindi pongono il soggetto di fronte a alternative inedite, concedendogli un nuovo spazio in cui esercitare una libertà che, tuttavia, è possibile solo all’interno delle legalità del campo. 


Ovviamente il soggetto cui qui si riferisce Lukacs non è il soggetto individuale che sta al centro della concezione liberale del mondo e della politica. Un soggetto che, secondo tale concezione, è portatore esclusivamente di libertà “negative”, “libertà da”, nella misura in cui il fardello della necessità viene espulso dall’orizzonte quotidiano di vita e proiettato sul Leviatano, cioè sul corpo artificiale della soggettività collettiva incarnato dallo Stato, secondo la raffigurazione di Hobbes (per inciso, è per questo che l’ideologia liberale non può tollerare la “libertà di”, intesa come limitazione delle libertà individuali – in primis la libertà associata al diritto di proprietà privata – laddove queste entrino in conflitto con esigenze e bisogni collettivi, perché ciò comporta l’intrusione del Leviatano nella sfera privata del singolo) (9). Per Lukacs questo soggetto, è una costruzione artificiale che letteralmente non esiste: nessuno può compiere “atti soggettivi puri” (anche se è possibile crederlo quando ci si limiti a considerarli “nella loro immediatezza semplificata ed estremizzata”), per la semplice ragione che ogni atto soggettivo è sempre e solo una “risposta” a domande poste dalla società. Proiettare lo spettro della necessità sul Leviatano non può impedire che le “leggi” generate dalla totalità delle relazioni intersoggettive – tanto fra singoli che fra gruppi sociali – impongano vincoli stringenti all’azione di chiunque, operando come una sorta di “seconda natura”.


Ma l’ideologia liberale può contare su un’arma particolarmente affilata per alimentare il perpetuarsi dell’illusione, può contare cioè sull’enorme sviluppo della potenza scientifica e tecnologica che, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, e con un’accelerazione formidabile negli ultimi decenni,  ha sgombrato il campo da gran parte parte degli ostacoli che la “prima” natura pone alla libertà umana. La celebrazione del progresso tecnologico e scientifico alimenta una sfrenata euforia, sistematicamente amplificata dalla narrazione dei mass media e dal sistema educativo, che induce a rappresentare, scrive Lukacs, il moderno soggetto umano come “il plasmatore di tutte le cose”, che concentra l’attenzione sul continuo proliferare di inedite possibilità di comunicazione a distanza, di cure mediche, di viaggi veloci, di consumo di prodotti e servizi di ogni genere, ecc. mentre proietta un cono d’ombra sulle contraddizioni generate dagli effetti imprevisti e imprevedibili di tale accelerazione: dal degrado ambientale, alla progressione geometrica delle disuguaglianze economiche e sociali. Nel contempo, l’immagine del Leviatano – fonte di una necessità incarnata in un insieme di regole, valori, procedure e principi  percepiti come arbitrarie imposizioni - , subisce una ulteriore negativizzazione consentendo al “capitalismo manipolato” (10) di addebitare all‘invadenza dello Stato il perpetuarsi di vincoli all’agire individuale che la scienza e la tecnica sarebbero ormai in grado di rimuovere (11). Nasce così quella coesistenza fra onnipotenza astratta e concreta impotenza che fa sì che ogni uomo diventi un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione. 


Il filo rosso che connette l’analisi appena esposta al discorso sul socialismo come regno della libertà sta qui, ma qui stanno anche le contraddizioni e le problematicità con cui questo filo è intessuto. Lo scenario appena descritto non mette forse in discussione il dogma in base al quale, quanto più elevato è il livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto dal modo di produzione capitalistico, quanto più si avvicina la concreta possibilità della transizione al socialismo, il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà? È pur vero che Lukacs, contrariamente ai marxisti volgari, concepisce tale transizione come una possibilità, non come una necessità dettata da presunte “leggi” del processo storico, il quale dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. E tuttavia: basta questo spostamento del punto di vista a riscattare il dogma della transizione al socialismo come prodotto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione? Basta cioè che la contraddizione non sia più presentata come motore “oggettivo” del processo bensì come condizione di possibilità? 


Per abbozzare una risposta, occorre inquadrare storicamente il discorso di Lukacs sul socialismo. Il filosofo ungherese scrive l’opera di cui stiamo discutendo negli anni Sessanta, in un’epoca in cui il socialismo reale, che di lì a poco sarebbe entrato in crisi, si era già lasciato alle spalle mezzo secolo di storia e aveva dovuto aggiornare più volte i concetti su cui fondava la propria autogiustificazione, quindi la riflessione lukacsiana risente necessariamente di questo lungo e complesso travaglio ideale, di cui non è possibile rendere pienamente conto nello spazio limitato di questo lavoro. Sfruttando un recente contributo di Vladimiro Giacché (12), siamo tuttavia in grado di sintetizzare alcuni passaggi fondamentali del dibattito teorico sul socialismo dagli anni 70 del secolo XIX ai giorni in cui Lukacs scrive la sua Ontologia.  


Giacché  prende le mosse dall’ Anti Duhring di Engels (13) un’opera uscita alla fine degli anni 70 che, come La Critica al Programma di Gotha scritta da Marx qualche anno prima, aveva fra gli altri scopi quello di fare chiarezza sulla questione del socialismo che, in quel periodo, era oggetto di divergenze all’interno del Partito Socialdemocratico tedesco. Nel suo lavoro Engels afferma chiaramente che la società socialista non è caratterizzata solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. In altre parole, quelle che più tardi verranno descritte come caratteristiche del comunismo realizzato, vengono qui associate al socialismo come prima fase del comunismo. A ulteriore conferma di quanto appena affermato, riprendo qui di seguito alcuni passaggi da due lunghe citazioni dal testo di Engels inserite nell’articolo di Giacché: <<La lotta per l’esistenza individuale cessa, l’uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza umane>>; <<Per la prima volta (gli uomini) diventano coscienti ed effettivi padroni della natura in quanto padroni della propria organizzazione sociale>>; <<Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia>>. Engels scrive inoltre che sparisce il valore lavoro e la contabilità sociale si basa sulla << sola misura naturale, adeguata, assoluta, il tempo>>. 







Mi pare non sussistano dubbi: per Engels il passaggio dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà – o almeno il suo primo, decisivo passo – si compie già nella società socialista. Questa visione, ricorda Giacché, non era condivisa dal solo Marx, ma anche da esponenti di primo piano della Socialdemocrazia tedesca e della Seconda Internazionale, come Kautsky e Hilferding; quest’ultimo negava ad esempio qualsiasi ipotesi di gradualismo nell’attuazione del programma delineato da Engels, come si evince da quest’altra citazione di Giacché: <<Un tale rovesciamento può verificarsi solo in modo subitaneo, sottoponendo l’intera produzione a un consapevole controllo>>. Né questo punto di vista verrà messo in discussione da Bucharin e Lenin negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917. Fino al 1919/20 Lenin pensava ancora che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la sostituzione totale del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano. Tuttavia, già negli anni 1921-23 (siamo alla NEP), Lenin critica in un primo tempo la convinzione per cui si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo senza un periodo di transizione in cui adattare la vecchia economia alle esigenze della nuova, dopodiché ammette esplicitamente che, per arrivare al socialismo, sarebbe stata necessaria una lunga fase di transizione, caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari.


Nel periodo staliniano le caratteristiche che da Engels al Lenin ante NEP erano associate alla società socialista verranno proiettate nell’indefinito futuro della società comunista realizzata (14), mentre la società socialista verrà riconosciuta come un autonomo e specifico modo di produzione, nel quale, assieme ai rapporti mercantili e monetari, persistono anche la legge del valore e il suo ruolo nella regolazione degli scambi economici (15). Infine, nell’epoca post staliniana in cui scrive Lukacs, i Paesi socialisti sono al centro di una serie di tentativi di riforme economiche, con le quali si tenta di razionalizzare e risolvere i conflitti e le contraddizioni generate dalla coesistenza fra piano e mercato. In che misura questo tormentato processo si rispecchia nelle riflessioni filosofiche di Lukacs? 







Nella prima parte abbiamo evidenziato come il nostro prenda le mosse, anche nel discutere i temi della transizione, dal lavoro: il regno della libertà è possibile solo in quanto il lavoro contiene in sé la dynamis che gli consente di produrre pluslavoro, cioè più del necessario per riprodurre il soggetto che lo compie. Quindi la possibilità della transizione al socialismo si fonda, né più e né meno di quella dalla schiavitù al feudalesimo e di quella dal feudalesimo al capitalismo, su questa proprietà dell’attività lavorativa. Ciò detto, Lukacs ci dice che, visto che l’economia in senso generale, metastorico – cioè l’economia intesa come ricambio organico fra uomo e natura – non  può discostarsi dai suoi fondamenti ontologici, ne discende che essa rimane il regno della necessità anche nel socialismo, per cui siamo già di fatto nell’ordine del “realismo” dell’ultimo Lenin, allorché costui accantona le aspettative engelsiane sulla società socialista come regno della libertà. 


È pur vero che Lukacs non sembra negare che, in linea di principio, possano realizzarsi condizioni che consentano all’essere sociale di proiettarsi “oltre la sfera della produzione materiale vera e propria” (per dirla con Marx), di sottrarre cioè allo sviluppo illimitato delle forze produttive il suo significato economico. Tuttavia è sintomatico il fatto che, per descrivere il comunismo, il regno della libertà in cui <<il lavoro sarà non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita>>, il mondo che realizzerà <<la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutte le qualità umane>>, Lukacs eviti di riferirsi ai sopracitati scritti “politici” – di Engels, Lenin, ma anche dello stesso Marx – preferendo citare i Manoscritti e i passaggi più “filosofici” delle opere maggiori come il Capitale o i Grundrisse. Per questo motivo, come anticipato in precedenza, ritengo sia legittimo ipotizzare che, rilanciando l’orizzonte utopistico del comunismo, Lukacs compia un gesto “ideologico” più che compiere una previsione sull’evoluzione dell’essere sociale. In primo luogo, perché altrimenti cadrebbe in contraddizione con l’intero impianto argomentativo dell’Ontologia che, come si è visto, nega l’esistenza di qualsiasi teleologia immanente al processo storico, ma soprattutto perché tutti gli annunci in merito all’avvento di una umanità “autentica”– dal tono a dir poco profetico – che abbiamo sentito citare poco sopra da Giacché, somigliano troppo ad altrettante profezie di “fine della storia” per risultare compatibili con l’impianto filosofico che ho fin qui tentato di descrivere. infine perché, come anticipato nelle pagine precedenti, quel passaggio in cui Lukacs scrive che l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità, mi sembra un indizio risolutivo  della tacita intenzione di assumere l’utopico regno della libertà soprattutto, se non esclusivamente, come strumento di lotta ideologica. 


Si potrebbe concludere dicendo che, mentre nell’Ontologia la critica dell’impostazione idealista del rapporto fra necessità e libertà appare un compito brillantemente risolto, la questione del socialismo come regno della libertà rimane impaniata in una serie di tensioni contraddittorie che, in buona sostanza, riflettono le contraddizioni irrisolte del sistema socialista in cui Lukacs ha trascorso la vita intera. Eppure proprio quelle tensioni possono rivelarsi proficue per affrontare un tema di bruciante attualità: come collochiamo il socialismo cinese nel quadro concettuale appena abbozzato? Sul fatto che la Cina socialista non rappresenti il regno della libertà non possono sussistere dubbi, anche perché sono gli stessi intellettuali comunisti di quel Paese ad escluderlo (16). Ma che dire dell’atteggiamento della grande maggioranza dei marxisti occidentali contemporanei, i quali, di fronte allo straordinario successo dell’esperimento del socialismo di mercato cinese (o con mercato, secondo altre definizioni) (17), che in pochi decenni ha consentito a un Paese ex coloniale di divenire la seconda potenza economica mondiale e di riscattare dalla povertà un miliardo di esseri umani, rifiutano di chiedersi se questo fenomeno sposti radicalmente i termini della definizione stessa di cos’è una società socialista?


Conosciamo gli argomenti con cui costoro giustificano tale atteggiamento: in Cina c’è un capitalismo di stato che sta rapidamente regredendo verso una società capitalista tour court (18); non è possibile costruire il socialismo in un solo Paese (questa litania trotskista ha ormai contaminato la totalità degli intellettuali marxisti occidentali, i quali, stregati dalla globalizzazione capitalistica, vanno blaterando che oggi più di ieri vale il principio secondo cui la rivoluzione socialista può essere solo mondiale - forse si preparano a sincronizzare gli orologi sull’ora X);  la Cina è un Paese totalitario (19), ecc. Per tacere di quelli che risfoderano gli argomenti di Engels, Kautsky e Hilferding (vedi sopra) che immaginavano il socialismo come transizione immediata a una società senza mercato e moneta (e perché no, senza stato). 


Conosciamo anche gli argomenti con cui i comunisti cinesi replicano a queste critiche: la transizione al socialismo è un processo di lunga durata, che implica avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte, in cui non solo permangono relazioni di mercato, ma permane anche la lotta di classe, dal cui esito dipende se il processo andrà avanti o sarà bloccato. Un processo che, malgrado le riforme e le concessioni ai capitalisti nazionali e internazionali, rimane sotto lo stretto controllo dello stato/partito che garantisce che a trarre beneficio dallo sviluppo economico siano in primo luogo le classi subalterne. 


Qual è l’unità di misura che consente di verificare se tale garanzia è reale? Per rispondere torniamo a Lukacs e al suo discorso sul pluslavoro come conseguenza della caratteristica ontologica del lavoro di produrre più del necessario alla riproduzione del lavoratore: è questa caratteristica che permette di concepire la transizione al “regno della libertà”, e in quel passaggio Lukacs definisce tale regno come possibilità di un tempo libero sensato, mentre altrove scrive economia di tempo, in questo si risolve infine ogni economia (vol. III, p. 144).  Analogamente David Harvey (20), dopo avere giustificato le riforme postmaoiste come una scelta inevitabile, imposta dalla necessità di sottrarre centinaia di milioni di cittadini alla povertà, conclude che i propositi dello stato/partito di fondare su quella formidabile accelerazione dello sviluppo la transizione al socialismo verranno messi alla prova dalla capacità del sistema di non produrre solo benessere,  ma anche possibilità di un tempo libero sensato, per usare le parole di Lukacs. 







Ciò detto è interessante notare che il Partito Comunista Cinese, malgrado il suo pragmatismo, descrive il comunismo realizzato esattamente negli stessi termini in cui lo descrivevano Marx, Engels e Lenin. Confesso che mi importa poco stabilire in che misura ci credano realmente, o utilizzino piuttosto questo immaginario utopistico come arma ideologica. Quello che conta veramente, a mio avviso, è il riconoscimento del persistere del conflitto di classe nel socialismo (ciò che nei Paesi del blocco sovietico veniva sistematicamente negato): è questo il vero pilastro su cui si fonda la catena di inedite possibilità che, secondo Lukacs, si presentano a ogni passaggio storico cruciale. È lì che l’essere sociale può fare passi - non verso il “regno della libertà”, al quale,  in quanto rappresentazione irenica di un mondo senza conflitti, credo personalmente assai poco – ma verso un mondo in cui tutti possano disporre “di un tempo libero sensato”.



Note


(1) Cfr. “Appunti sparsi sui Quaderni di Antonio Gramsci” in C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019, pp. 204 e segg. 


(2) Mi pare che questa immagine dell’uomo ridotto a un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione confermi le assonanze, già evocate in precedenza, fra il pensiero di Lukacs e alcuni temi caratterizzanti degli autori della Scuola di Francoforte.


(3) Poche righe sotto Lukacs mette in relazione questa condizione con certi sviluppi della teologia moderna: <<Poiché alla ontologia tradizionale delle religioni quasi più nessuno ci crede davvero, questo annientamento teorico dell’essere ha offerto la possibilità di formulare il bisogno religioso d’oggi in termini tali da produrre un accordo con la scienza più moderna circa il non- essere dell’essere. (Si pensi a Teilhard de Chardin e Pascual Jordan)>>.


(4) Mi riferisco alla nota replica di Marx all’economista che aveva recensito l’edizione russa del Capitale in cui leggiamo: <<Egli (il recensore) sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto>>. Il lettore trova un mio commento in merito nel post che ho dedicato all’antologia di scritti di Marx ed Engels India, Cina Russia in un post precedente.  


(5) a p. 144 del III volume, troviamo citata quest’altra frase di Marx, tratta dai Grundrisse: <<Economia di tempo, in questo si risolve infine ogni economia>>. Si tratta di un leitmotiv della riflessione lukacsiana, che in tutta l’opera che stiamo discutendo pone al centro la contraddizione fra tempo di lavoro come fonte del valore e tempo di lavoro come misura della relazione fra necessità e libertà. 


(6) Questo “per forza di cose” suona come una concessione eccessiva al determinismo economista che, invece, abbiamo visto che Lukacs contrasta decisamente. Che certe forme economiche precapitaliste siano necessariamente destinate a soccombere alla potenza dissolutrice del mercato capitalistico è messo in dubbio dallo stesso Marx, nel corso del suo confronto con le teorie dei populisti russi in merito al possibile passaggio diretto delle comunità contadine russe al socialismo senza passare dalla fase capitalista (vedi alcuni dei testi raccolti nell’antologia India Cina Russia, citata nella nota 5 e discussi in mio precedente post ). 


(7) Sempre sulla capacità di resilienza di certe forme comunitarie precapitaliste e sul loro possibile ruolo nella lotta anticapitalista (e quindi non solo fonte di nostalgie conservatrici) vedi quanto scrive A. G. Linera a proposito del contributo delle comunità indigene andine alla rivoluzione boliviana (Forma valor y forma comunidad, Traficantes de sueños, Quito 2015. 


(8) MEGA, I. 3, p.120 (trad.it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329)


(9) L’evoluzione in senso antistatalista dell’orientamento ideologico delle sinistre radicali ne ha di fatto determinato il progressivo allineamento con l’antistatalismo di matrice liberale, dando origine a una tendenza culturale che ha il suo interprete più coerente nell’area dei Libertarian statunitensi e che, altrove, ho definito anarcocapitalista (cfr. Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013).


10) Anche questo concetto evoca assonanze francofortesi, si pensi alla categoria di “desublimazione repressiva” elaborata da Marcuse (cfr. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967).


(11) Manifestazioni tipiche di questa illusione di onnipotenza del soggetto individuale, alimentata dalle possibilità di manipolazione tecnologica del mondo, sono, fra le altre, i miti transumanisti su un futuro caratterizzato dall’ibridazione uomo macchina e dalla conseguente possibilità di attingere all’onniscienza e all’immortalità (cfr. C. Formenti, Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000); la negazione della determinazione biologica del genere sessuale da parte dell’ideologia queer e transgender, alcune forme di manipolazione tecnologica delle funzioni riproduttive (fecondazione assistita, maternità surrogata, ecc.). Tutti fenomeni associati all’idea di un indefinito ampliamento delle libertà (e dei diritti, vedi quando discusso nella sezione precedente), laddove trattasi in larga misura di comportamenti ed esigenze sovradeterminati dall’intreccio sistemico fra tecnologia, mercato e comunicazione.  


(12) Cfr. V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’ Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno,  n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125. 


(13) Cfr. F. Engels, Antiduhring, Editori Riuniti, Roma 1971.


(14) E’ difficile non cogliere l’analogia fra questa procrastinazione del passaggio dal socialismo al comunismo e l’allontanamento in un futuro indefinito della parusia. Il che potrebbe inspirare un parallelismo anche fra i conflitti che hanno opposto partiti comunisti ufficiali e eresie rivoluzionarie negli anni Settanta e i quelli fra Chiesa e sette,  descritti nei passaggi dedicati alle ideologie religiose della sezione precedente. 


(15) Cfr. G. Stalin, Problemi economici del socialismo, Edizioni Rinascita, Roma 1953


(16) Cfr. Zhang Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona, Edizioni Marx Ventuno, 2019.


(17) Sulla distinzione fra i due concetti, cfr. R. Herrera, Z. Long, La Chine est-elle capitaliste? Editions Critiques, Paris 2019. Sul dibattito in merito alla natura del sistema cinese (socialista o capitalista?) vedi A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s  Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020. Infine sulla critica del concetto secondo cui la presenza del mercato connoterebbe automaticamente in senso capitalista un sistema economico, cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.  


(18) A chi attaccava la NEP sostenendo che essa implicava la regressione dal socialismo al capitalismo di stato, Lenin replicava così: <<il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano>> (citato in Gabriele, op. cit.).


(19) Per una argomentata critica della definizione della Cina come sistema totalitario, vedi D. A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019. 


(20) Cfr. D. Harvey, The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.   

           

                

  

               

             

 

       

    

     

martedì 6 aprile 2021


IL FANTASMA BIFRONTE DI PERON




Nei miei ultimi libri (1) ho dedicato ampio spazio al tema del “socialismo del secolo XXI”, occupandomi delle cosiddette rivoluzioni bolivariane (termine appropriato soprattutto per quella venezuelana, quella ecuadoriana si autodefinisce revolución ciudadana e quella boliviana socialista tout court). In quelle pagine ho esaminato i motivi del fallimento delle sinistre tradizionali (sia socialdemocratiche che rivoluzionarie, queste ultime nelle loro molteplici varianti ideologiche: stalinisti, trotskisti, maoisti, ecc.) in contrappunto al successo dei populismi di sinistra capeggiati da leader come Chavez, Correa e Morales (successo oggi in discussione su tutti i fronti). Ho inoltre tentato di evidenziare le peculiarità del contesto socioeconomico e della composizione  di classe ed etnica dei Paesi interessati, e di analizzare il dibattito teorico associato ai fenomeni politici in questione, con particolare attenzione alle teorie di Laclau sul populismo e al marxismo “eretico” di Linera. 

L’influenza che le esperienze appena citate hanno esercitato su movimenti come lo spagnolo Podemos, che ha tentato di “clonarle” nel contesto europeo (2), è all’origine del successo che le teorie del filosofo argentino Ernesto Laclau (3) hanno ottenuto negli ultimi anni, anche in casa nostra. Chi mi conosce sa che, pur apprezzando il contributo che questo autore ha dato alla comprensione di alcuni aspetti del fenomeno populista, non ho mai condiviso tale entusiasmo (soprattutto se associato alle tesi della sua amica e sodale, Chantal Mouffe, che, nei suoi ultimi lavori (4), ha “purgato” il discorso di Laclau delle sue implicazioni sovversive e antagoniste, e  dalle influenze gramsciane che ne ispiravano il pensiero, unitamente alla filosofia strutturalista e post strutturalista). 

Rinvio chi sia interessato ad approfondire gli argomenti con cui ho criticato il pensiero di Laclau ai lavori citati in nota 1; qui voglio piuttosto approfittare dello spunto offertami dalla lettura di un libretto - inedito in italiano e ormai pressoché introvabile in altre lingue - dello scrittore argentino Ernesto Sabato, curato da Alessandro Volpi (L’altro volto del peronismo, Rogas Edizioni), lettura assai utile per mettere a nudo le radici concrete della filosofia di Laclau, che affondano nella storia argentina dal secondo dopoguerra a oggi. 





Prima di entrare nel merito del testo di Sabato, tuttavia, è opportuno premettere un paio di cose che possono favorirne una migliore comprensione. In primo luogo, va evitato lo strabismo (tipicamente eurocentrico) di coloro che considerano il subcontinente latinoamericano come una sorta di blocco omogeneo sul piano storico, socioeconomico e politicoculturale, dimenticando che le differenze fra i Paesi del Cono Sud, della dorsale andina, dell’area caraibica e il Brasile sono molte e radicali (il che significa che i temi che andremo ora a discutere sono riferibili soprattutto, anche se non esclusivamente, al concreto contesto argentino). Ciò detto, va aggiunto che uno degli elementi caratterizzanti – forse il più importante – di tale contesto è la particolare torsione, caratterizzata dalla mescolanza fra opposte ideologie – non solo conservatori e progressisti, ma anche estremismi di destra e sinistra – che il peronismo ha impresso al fenomeno populista. 

Ne è derivata quella peculiare ambiguità di atteggiamento che le sinistre argentine – anche le più radicali – hanno sempre tenuto nei confronti della figura di Peron e del peronismo in generale, non arrivando mai a condannarlo in toto. Segnalo in particolare due contributi che possono aiutare a capire le ragioni del fenomeno: il primo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/16486-carlo-formenti-quando-la-fiat-parlava-argentino-e-l-ambiguita-radicale-del-peronismo.html (Camillo Robertini, Quando la Fiat parlava argentino, Le Monnier) è una ricerca che dimostra fino a che punto il peronismo avesse messo radici nella classe operaia argentina; il secondo https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/16282-carlo-formenti-argentina-perche-la-terza-via-peronista-continua-a-sedurre.html (Manolo Morlacchi, La linea del fuoco, da Peron alla lotta armata, Mimesis) è una biografia di Roby Santucho, leader storico del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, che più di altri militanti di sinistra seppe interpretare le contraddizioni socioculturali del suo Paese. Ma veniamo a Sabato.

L’altro volto del peronismo è una lettera aperta (pubblicata nel 1956) dello scrittore a Mario Amadeo, intellettuale conservatore e peronista “pentito” (si schierò con la Revolución Libertadora, il colpo di stato che rovesciò Peron nel settembre del 1955). In questo breve ma denso testo, Sabato, ex militante comunista che si era opposto al peronismo impegnandosi in particolare nelle battaglie per la difesa della democrazia e dei diritti politici e civili, invita le sinistre a non demonizzare le masse popolari che avevano aderito al regime, e a capirne piuttosto le ragioni, per evitare il perpetuarsi dello “storico divorzio” fra élite intellettuali e classi lavoratrici.      

Nella sua presentazione, il curatore del libro, Alessandro Volpi, prende le mosse proprio dal tema del divorzio “fra dottori e popolo”, evidenziando come Sabato accusi gli intellettuali in generale, e quelli di sinistra in particolare, di guardare alla realtà del loro Paese esclusivamente attraverso le lenti del razionalismo e dell’illuminismo, e di esprimere disprezzo nei confronti delle masse (liquidandole come un coacervo di sottoproletari, gauchos, descamisados, e rimuovendo il fatto che anche i “veri” proletari amavano Peron), senza impegnarsi minimamente a integrarne le pulsioni irrazionali e violente dentro un processo di civilizzazione. Dopodiché Volpi ritiene di riconoscere in questo approccio un’anticipazione di alcuni elementi caratterizzanti del discorso di Laclau: da un lato, la riemersione del “lato pulsionale” del popolo (Sabato si riferisce soprattutto al popolo argentino, mentre Laclau estende la riflessione ai popoli in generale, ma per entrambi si tratta di un fenomeno da comprendere e non da denigrare); dall’altro lato, la rivalutazione dell’elemento libidico (che per Sabato viene da Freud mentre per Laclau viene da Lacan) e delle dimensioni passionali e del mito, da valorizzare in quanto fattori cruciali della vita politica. 

Entrerò ora nel testo di Sabato che, come cercherò di mostrare, contiene effettivamente una serie di aspetti accostabili al pensiero di Laclau – fatti salvi gli adeguamenti di contesto storico –, e non solo: contiene, più in generale, evidenti analogie con la cultura degli attuali movimenti populisti di sinistra, con i quali condivide le stesse radici socio culturali, di classe e ideologiche (sempre salvo gli adeguamenti di contesto storico), e proprio in ragione di tali analogie consente, a mio avviso, di evidenziare limiti e contraddizioni di tutti i discorsi politici che condividono questa matrice.

Parto dalla critica ai “dottori” incapaci di capire e apprezzare il popolo. Sabato punta il dito contro la oligarchia porteña (con questo appellativo gli argentini chiamano gli abitanti di Buenos Aires) che è sempre stata “esterofila” (per inciso, nei miei soggiorni a Buenos Aires – che risalgono alla fine dei Novanta - ho potuto constatare che lo è tuttora, o almeno che era ancora tale in quegli anni), in snobistica adorazione delle (e velleitaria identificazione con) le élite europee (in particolare francesi, inglesi e tedesche) e colma di disprezzo per la rozza (in)cultura della provincia “gaucha”, e dei suoi immigrati nei sobborghi della capitale (per inciso: ove si consideri che nel centro di Buenos Aires già quando scrive Sabato si concentrava la quasi totalità degli strati sociali medio alti, si potrebbe dire che l’Argentina ha anticipato il conflitto fra metropoli gentrificata e periferie povere che a quei tempi, in Europa, non aveva ancora raggiunto le dimensioni attuali, dato il permanere di ampi strati proletari nelle aree metropolitane) (5).  

Del resto questo paradossale eurocentrismo della borghesia argentina non era appannaggio esclusivo delle élite dominanti, coinvolgeva anche gli intellettuali di sinistra, comunisti compresi. Per esempio, parlando dei suoi ex compagni, Sabato (che nel momento in cui scrive era uscito dal partito da diversi anni) ironizza sui loro sforzi di “traslare astrattamente le teorie e i procedimenti europei nella singolare struttura latinoamericana”. Una delle conseguenze di tale atteggiamento era un’astratta postura “internazionalista” che faceva sì, ricorda Sabato, che “da giovani comunisti ci vergognavamo a usare parole come patria e libertà, soprattutto se con la maiuscola”. Un comportamento paradossale, ove si consideri che il patriottismo rivoluzionario era un tratto distintivo delle sinistre latinoamericane schierate contro l’imperialismo yankee (un sentimento fortemente condiviso da Sabato, il quale, a un certo punto scrive: <<La penetrazione imperiale incontrollata e infine onnipotente ha corrotto la nostra vita politica, ha comprato le nostre coscienze, ha piegato l’economia nazionale ai suoi fini (…) ha distrutto l’industria regionale, ha annichilito o pervertito il federalismo, ha monopolizzato ferrovie e comunicazioni (…), ha sviluppato mostruosamente la capitale e, infine, ha esposto al pericolo del naufragio la nostra incipiente nazionalità nell’anonimo oceano del cosmopolitismo>>). 

Armati del loro catalogo di principi astratti i marxisti argentini, prima si erano illusi che quel demagogo filofascista di Peron, che diceva tutto e il contrario di tutto, che faceva appello alle pulsioni irrazionali, alla “pancia”, del sottoproletariato, della “plebe” argentina, non avrebbe mai potuto conquistare i “veri” operai (sulla penetrazione del peronismo nella classe operaia vedi invece il libro di Robertini sopra citato); poi, quando il dittatore viene rovesciato, non dal popolo ma da un golpe, hanno fatto fronte comune con le altre forze antiperoniste per celebrare la fine del regime, senza accorgersi che quella notte del settembre 1955, scrive Sabato, mentre “noi dottori, possidenti e scrittori” festeggiavamo la caduta del tiranno <<Milioni di diseredati  e di lavoratori stavano versando lacrime in quegli istanti, per loro duri e tetri>>.      

Ancora una volta, i “dottori” non si erano resi conto che <<non è la ragione che governa il mondo ma la passione, non il libro ma l’amore e l’odio, non l’educazione scolastica ma l’istinto. E le masse, che sono femminili, si innamorano di un leader e in questo amore non c’è calcolo né sensatezza, come in qualsiasi amore>> (dovremo tornare su questo passaggio, perché contiene uno dei noccioli duri della mentalità populista). Se i canoni della razionalità politica non avevano funzionato <<in paesi tanto avanzati come la Germania e l’Italia, come avrebbero potuto non fallire in questi barbari territori dell’America del Sud>> (torneremo anche su questo contrappunto fra civiltà europea e barbarie latinoamericana che, paradossalmente, ripropone l’esterofilia da lui tanto criticata). Invece, argomenta Sabato, contro il demagogo Peron che impugnava le bandiere dell’antimperialismo e della giustizia sociale, si sarebbe dovuto costruire un movimento popolare che ne smascherasse il fascismo e rivendicasse per sé quelle bandiere (6). Ma per questo sarebbe stato necessario capire le masse in misura sufficiente per per riuscire ad arrivare alle loro teste, ma soprattutto ai loro cuori. 

Prima di passare a una disamina critica dei discorsi appena esposti, è il caso di esaminare  un ultimo, fondamentale passaggio. Nella parte finale della Lettera, Sabato, preoccupato del fatto che la caduta di Peron possa innescare una catena di risentimenti e vendette, e che la retorica “classista” delle sinistre marxiste possa subentrare a quella populista del peronismo (in effetti, già allora si avvertivano i primi segni della nascita di un peronismo di sinistra – vedi in proposito il libro di Morlacchi citato in apertura), elabora quello che si potrebbe definire una sorta di appello interclassista per il governo dei “migliori”, di cui cito qui di seguito tre passaggi. 1) <<Stiamo attenti a non ritornare a questa dottrina neoperonista, secondo la quale l’unica cosa che conta, l’unica reale è il popolo, intendendo la massa lavoratrice>>, dopodiché si ammonisce che questo significherebbe cancellare il contributo di milioni di appartenenti alle classi medie e alte , di studenti, artisti e intellettuali, e delle <<creazioni dei nostri spiriti più alti>>. 2) <<Anche con grandi principi e con nobili parole d’ordine si può svegliare il fervore del popolo>>. 3) <<È pericoloso che una rivoluzione sociale sia invocata e diretta da quelli che hanno tutto da guadagnare. E anche qui, in Argentina, abbiamo l’esempio di ciò che succede quando è diretta da risentiti e delinquenti. Speriamo che in questi momenti i migliori spiriti della nostra borghesia comprendano la missione che storicamente le spetta>>. Procedo a commentare il tutto per punti. 


Ernesto Sabato 



1) Sulla puzza sotto il naso e sul dogmatismo degli intellettuali di sinistra 

Su questo è indubbio che Sabato avesse ragione, e non solo nei confronti dei suoi colleghi argentini degli anni Cinquanta ma, per quanto ho potuto constatare a Quito e a Città del Messico (ma non a L’Avana!), anche ai giorni nostri e in altri Paesi latinoamericani. Non a caso, come ho già sottolineato altrove (vedi nota 1), le formazioni marxiste “ortodosse” (aggettivo appropriato non solo nei confronti degli eredi della Terza Internazionale staliniana, ma anche di trotskisti e altre correnti ideologiche) raramente hanno giocato un ruolo determinante nei processi rivoluzionari del subcontinente. E tuttavia è sbagliato generalizzare. Da Mariategui (7) (cui si deve, fra l’altro, l’attenzione che il pensiero di Gramsci riscuote tuttora in America Latina), a Alvaro G. Linera, passando per Guevara, sono stati tutt’altro che rari gli apporti creativi alla teoria marxista (poco e male conosciuti dai marxisti europei che ignorano i contributi teorici provenienti dagli altri continenti con lo stesso snobismo con cui gli intellettuali porteños incensano quelli europei). 

Come esempio di uno di questi apporti “eretici”, cito quello dell’ex vicepresidente boliviano Linera il quale, criticando la tesi dei marxisti ortodossi (8), secondo cui le comunità indie tradizionali, che non conoscono la proprietà individuale della terra , dovrebbero trasformarsi in piccoli proprietari privati e braccianti salariati e uscire così dal loro stato di “arretratezza” socioeconomica e culturale, prima di poter partecipare come alleati del proletariato industriale alla lotta anticapitalista, ha viceversa spiegato come la resistenza di quelle forme sociali alla colonizzazione da parte del mercato capitalistico rappresenti a tutti gli effetti una forma di lotta di classe, ancorché specifica di un concreto contesto storico, etnico e culturale. Questo riconoscimento è stato il cemento del blocco sociale che ha consentito sia il successo della rivoluzione socialista, sia la sua capacità di resilienza dopo un golpe di destra.

Sempre in Bolivia, come è successo in Venezuela e altrove, le sinistre radicali “europeggianti”, hanno invece spesso osteggiato il regime, accusandolo di pratiche “antidemocratiche”. Così come hanno manifestato nei confronti delle masse indie, del proletariato inurbato e del sottoproletariato degli slum metropolitani, e delle moltitudini degli “sdentati” (Hollande dixit) lo stesso distacco, se non disprezzo, che Sabato rimproverava agli antiperonisti nei confronti dei descamisados (e qui il pensiero corre immediatamente all’orrore “politicamente corretto” delle sinistre nordamericane nei confronti degli elettori di Donald Trump, figura politica dotata di caratteristiche non lontane da quelle che Sabato attribuiva a Peron). 


2) Elitismo di un anti elitista

Anche a una lettura superficiale del testo di Sabato, salta agli occhi come il suo anti elitismo sia intriso di paternalismo nei confronti del popolo che vorrebbe difendere dal disprezzo dei suoi pari. Quando spiega perché il popolo piangeva dopo la caduta di Peron (un amore che, ricordiamolo, è proseguito fino alla sua morte), Sabato da assai poco spazio alla capacità del presidente di venire incontro alle esigenze e ai bisogni concreti delle classi subalterne (fra l'altro, fu addirittura lui a garantire la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale - vedi il libro di Morlacchi sopra citato) – politiche che il nostro liquida sbrigativamente come “demagogiche”. Si dilunga invece sul fatto se il nazifascismo aveva potuto vincere nella “avanzata” Europa, a maggior ragione poteva farcela nella “selvaggia” America del Sud (ho già sottolineato questo “lapsus” che rivela come Sabato non sia poi tanto meno eurocentrico degli intellettuali che critica). Ma soprattutto si dilunga sul concetto secondo cui il popolo è “femmina”, ragiona con la pancia, si innamora di un  leader e l’amore, come si sa, non ha bisogno di motivazioni razionali, ecc. A parte la battuta sul “popolo femmina” – da far inorridire le femministe (e non solo loro) -, quello che emerge da questo discorso è una visione “psicologista” dei processi storici, in cui gli interessi materiali e le ideologie spariscono, sostituiti dalle pulsioni e dall’adorazione tribale per il capo (il tentativo di interpretare la storia con le categorie della psicoanalisi è stato spesso foriero di clamorosi svarioni scientifici). Non solo: questa lettura contrappone implicitamente la razionalità dell’intellettuale alla irrazionalità delle masse, invitando il primo a non disprezzare la seconda ma a incanalarla nella giusta direzione. 

In questo senso, Volpi ha ragione nel riconoscere in Sabato un antesignano di Laclau. Infatti i populismi di sinistra che si ispirano alle teorie del filosofo argentino adottano esattamente questo atteggiamento nei confronti del popolo cui si rivolgono. Podemos è nato come progetto studiato a tavolino da un gruppo di intellettuali dell’Università di Madrid - esattamente come la Revolución ciudadana ecuadoriana è nata dal progetto di un gruppo di intellettuali dell’Università Flacso di Quito (9) -, ed è nato celebrando le virtù del movimento popolare del 15M ma, al tempo stesso, prendendone le distanze in quanto lo giudicava  incapace di dare sbocco politico al proprio impulso. In questo senso si potrebbe provocatoriamente parlare di una visione leninista (un leninismo borghese, come vedremo più avanti parlando di classi sociali). Senonché Lenin ha costruito il successo della Rivoluzione del 17 sulla parola d’ordine “terra e pace”, mossa geniale perché, come spiega Lukacs (vedi in proposito quanto ho scritto nel mio ultimo post su questo blog), ha saputo sfruttare il fatto che le élite russe non potevano oggettivamente esaudire quelle richieste (in sé per nulla sovversive); ma anche e soprattutto sulla ferrea organizzazione di un gruppo di rivoluzionari di professione. Podemos ha a sua volta ripreso le parole d’ordine dei movimenti, ma ha scommesso tutto non sull’organizzazione ma sulla comunicazione, sulla “pancia” delle masse e sull’amore per un leader come Iglesias, costruito attraverso un talk show televisivo. 

E' solo questione di diversi contesti storico culturali? Non proprio: dietro queste scelte c’è una filosofia che va al di là della contingenza storica, una visione che ipotizza – seguendo Laclau - l’esistenza di una relazione strutturale, di una “forma” ideale, fra leadership intellettuale e popolo. E questa ipotesi, come ho cercato di mostrare in varie occasioni, ha portato al fallimento sistematico di pressoché tutti i movimenti populisti di sinistra.               

 

3) Dalla classe al popolo e ritorno

Il paternalismo di Sabato ha ben definite radici di classe. Del resto è lui stesso a dircelo esplicitamente nelle parti conclusive della sua Lettera. Lo abbiamo già messo in luce citando i passaggi in cui esprime preoccupazione per il delinearsi di una variante di sinistra del peronismo, della quale sembra paventare una sorta di sincretismo fra populismo del dittatore deposto e classismo delle opposizioni di sinistra (presagio che troverà conferma storica nel ruolo svolto da un movimento come i Montoneros nella resistenza al regime dei generali). E qui Sabato rivela la sua anima squisitamente borghese, sia allorché invita a non identificare il popolo esclusivamente con la massa lavoratrice e a estenderne i confini alle classi medie e alte, oltre che agli intellettuali (la sua critica ai vizi della sua categoria non arriva a fargli assumere il ruolo del transfuga), e ancor più quando si appella “ai migliori spiriti della nostra borghesia” perché non abdichino al loro ruolo storico (che resta s’intende quello delle élite); per tacere della sua denuncia della pericolosità di una rivoluzione sociale fatta da coloro che “hanno tutto da guadagnare” (cioè dai proletari, visto che i borghesi hanno tutto da perdere) categoria che il nostro identifica con i “risentiti”, anticipando un tema caro alle anime belle di oggi, le quali, a ogni attacco ai privilegi dei super ricchi, gridano ai cattivi umori dettati dal risentimento (e a un gradino ancora più in basso troviamo l’odio di classe, foriero di istinti criminali). Dopodiché, dimentico delle precedenti filippiche sulla necessità di accettare e riconoscere gli istinti pulsionali che agitano le masse, indossa la veste talare per dirci che <<anche con grandi principi e con nobili parole d’ordine si può svegliare il fervore del popolo>>. 

Fino a che punto possiamo riconoscere in questo atteggiamento un’anticipazione del discorso di Laclau? Forse se pensiamo all’approccio interclassista con cui quest’ultimo affronta il problema della costruzione politica del popolo, che fonda sulla unificazione di catene equivalenziali di rivendicazioni disparate provenienti dai più diversi strati sociali, e forse anche in quel richiamo di Sabato ai grandi principi e alle nobili parole d’ordine (anche se Laclau svuota il pathos di termini come Giustizia, Libertà ecc. definendoli  “significanti vuoti”, meri strumenti retorici). Assai meno laddove Sabato esprime una franca diffidenza borghese nei confronti della “cattiveria” e del “risentimento” delle masse che inseguono solo i loro interessi particolari, di classe appunto. Laclau invece, pur avendo voltato le spalle al marxismo, resta, forse a causa degli influssi gramsciani, simpatetico nei confronti dei piani bassi della piramide sociale, degli ultimi e degli esclusi, e conserva una visione francamente antagonista del popolo come prodotto del tracciamento di un confine amico/nemico nei confronti delle élite. 


Laclau e Mouffe



Non così Chantal Mouffe, la quale, sepolto - prima metaforicamente e poi nella realtà – Laclau, ha preso definitivamente commiato da Gramsci (del quale conserva solo più il concetto – depotenziato fino all’inservibilità – di egemonia) e dalla concezione antagonistica della lotta politica, cui contrappone un “agonismo” che riconduce il conflitto sociale nei confini (sia pure ampliati) della democrazia liberale (mentre delle classi sociali non si fa più nemmeno cenno, neppure come tema accademico). 

Ebbene, non è un caso se i fan di Laclau – un po’ meno quelli di Podemos più decisamente quelli di casa nostra – fanno ormai riferimento al discorso della Mouffe più che a quello del maestro. Con i disastrosi esiti politici denunciati da Manolo Monereo (11). Per concludere: è vero che oggi il marxismo ha un serio problema di rinnovamento critico, e di pulizia del proprio edificio teorico da un ingombrante ammasso di residui dogmatici (12), così com’è vero che uno dei compiti più urgenti cui si trova di fronte è proprio quello di ragionare sulla forma populista che la lotta di classe ha assunto ai giorni nostri (senza dimenticare che le classi esistono ancora, anche se è tutta da ridefinire la loro struttura socioeconomica e da ricostruire la loro unità politico culturale); è però altrettanto vero che la parabola populista che si è sviluppata da Sabato a Laclau, per approdare melanconicamente alla Mouffe, ha esaurita la sua spinta propulsiva in tempi storici relativamente brevi, e difficilmente potrà offrire al nostro futuro soluzioni che fuoriescano dal recinto della realtà sociale in cui viviamo da qualche secolo, che era, è, e resterà, finché non verrà rovesciato, una realtà di classe. 


Note

(1) Vedi, in particolare, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2018 e Il socialismo è morto, viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. Per quanto riguarda la rivoluzione ecuadoriana, vedi Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2014.

(2) Cfr.  F. Campolongo, L. Caruso, Podemos e il populismo di sinistra, Meltemi, Milano 2021. All’evoluzione di Podemos ho dedicato due recenti post che trovate negli Archivi di questo blog. 

(3) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; vedi anche E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008 e Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(4) cfr. C. Mouffe, Sul politico, Bruno Mondadori, Milano 2005; C. Mouffe, C. Errejon,  Construir pueblo, Icaria, Barcellona 2015; C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari 2018.

(5) La “vera” Buenos Aires, per i porteños delle classi medie è Capital Federal, il centro storico circondato da sterminati slum periferici. Sull’antagonismo di classe fra metropoli gentrificate e province cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014. 

(6) Critica analoga a quella che Karl Radek rivolse al Partito Comunista Tedesco negli anni Trenta, rimproverandogli di non aver saputo contrastare i nazisti sul loro stesso terreno, cioè assumendo la direzione della lotta del popolo tedesco contro le condizioni capestro imposte dei vincitori della Prima guerra mondiale, ma dando loro un’impronta di classe invece che nazional sciovinista. 

(7) Cfr. Obras de José Carlos Mariategui, Ediciones La Biblioteca Digital.

(8) Cfr. A. G. Linera,  La potencia Plebeya, Clacso/Prometeo libros, Buenos Aires 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015. 

(9) Nel corso di un soggiorno a Quito nel 2013 ho avuto modo di ricostruire quella storia con alcuni di coloro che ne furono protagonisti, ne accenno in Magia bianca magia nera, cit. 

(10) Vedi Il socialismo è morto…cit.; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020; vedi infine alcuni miei interventi su Podemos pubblicati su questo blog.

(11) Cfr. M. Monereo, Oligarquia o Democracia, El Viejo Topo, 2020.

(12) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.