domenica 20 giugno 2021

 DALL'EGITTO ALLE LOTTE DELLA LOGISTICA IN NORD ITALIA 

LA STORIA DI MOHAMED ARAFAT

(in onore di Alik Belakhdim)



Negli stessi giorni in cui la cronaca ci consegna la notizia dell’assassinio del sindacalista di origine marocchina Adil Belakhdim, travolto da un camionista che cercava di forzare il picchetto organizzato dai militanti dello SiCobas davanti ai cancelli di un centro logistico della Lidl a Biandrate (Novara), esce il libro Arafat va alla lotta di Maria Elena Scandaliato, una giornalista Rai che ha raccolto la storia (vera) di Mohammed Arafat, un giovane immigrato egiziano che, in capo a un’odissea durata anni, durante i quali ha vissuto tutte le vicissitudini cui è destinato un lavoratore clandestino sbarcato sulle nostre coste, ha ritrovato la propria dignità quando – maturata una coscienza politica e sindacale – è diventato il leader della lotta di trecento lavoratori di un’impresa che opera nel settore della logistica in provincia di Piacenza.   


Manifestazione per Alik Belakhdim



Prima di raccontare la sua storia (che l'autrice ha scelto di esporre in prima persona, come se fosse lo stesso Arafat a parlare, evitando così di sovrapporre la propria voce a quella del protagonista) Maria Scandaliato spiega che il caso di Arafat è particolarmente interessante perché cozza con lo stereotipo del “migrante povero e negletto”. Mentre a destra i migranti vengono presentati come una minaccia da sventolare in campagna elettorale, a sinistra, scrive l’autrice,   “il migrante è una specie da salvare, come il panda o l’orso bianco. Anzitutto, va protetto mentre cerca di raggiungere la “Fortezza Europa”, con buone probabilità di annegare in mare o di congelare nell’inverno balcanico; se sopravvive, va difeso dalla retorica destrorsa, che semina razzismo (…) In entrambi i casi, il nostro immigrato è un soggetto indefinito, impalpabile, senza voce né storia: può essere una maschera nera che fa paura o una spilletta colorata da appuntarsi al petto. Non sappiano cosa voglia, a cosa aspiri, e ignoriamo le ragioni che l’hanno spinto a trasferirsi qui”. Tutto ciò nella più assoluta mancanza di analisi sul suo ruolo nel nostro sistema produttivo, e su quali siano le connessioni fra i nostri rispettivi Paesi. Il racconto di Arafat non si presta al pietismo da Ong perché non siamo di fronte a un povero disgraziato, ma al rampollo di una famiglia della piccola borghesia egiziana, dotato di strumenti culturali che gli hanno consentito di non vivere passivamente le sue traversie, ma di comprendere sempre più lucidamente i meccanismi del sistema in cui era finito, fino ad assumere una coscienza politica che ne ha fatto un leader della lotta per i diritti suoi e degli altri lavoratori (italiani compresi).    


Maria Elena Scandaliato



Ma passiamo al racconto del suo viaggio allucinante dall’Egitto all’Italia, passando per la Libia e i barconi nel Mediterraneo, e alle successive avventure, che assumono spesso il tono di un vero e proprio “romanzo di formazione”. Figlio di un ingegnere agricolo e di una insegnante di matematica, il ventenne Arafat, nel momento in cui decide di partire per l’Italia, sta per laurearsi alla facoltà di Servizi Sociali. Il lavoro che lo attende non gli dispiace affatto, ma lui desidera di più. Ci ricorda che in quegli anni (siamo nel periodo in cui stanno maturando le condizioni per l’esplosione delle Primavere Arabe) “la gioventù egiziana fremeva”, non solo perché la svolta liberista degli anni Novanta aveva drasticamente peggiorato le condizioni di vita e di lavoro, ma anche perché il regime di Mubarak era vissuto come una cappa opprimente. 

La descrizione della sua lotta per vincere la resistenza della famiglia (la rabbia del padre e il dolore della madre) è interessante, perché evoca ricordi della ribellione dei giovani occidentali contro il doppio giogo dell’autoritarismo familiare e sociale nel 68. Alla fine Arafat la spunta, strappando alla famiglia un duro sacrificio (di cui si renderà conto più tardi, portandone il rimorso) per finanziare il suo viaggio, con 4000 euro che andranno ai trafficanti più altri 700 che porterà con sé per le spese del viaggio. 

Sarà probabilmente questo investimento a risparmiargli le condizioni bestiali (delle quali, per sua fortuna, farà appena in tempo a rendersi conto) in cui la maggioranza degli altri emigranti, poverissimi e provenienti dall’Africa nera, vengono detenuti nei campi in attesa di venire imbarcati. Di fatto lui riesce a partire quasi subito e, tormentato dal mal di mare e dalla paura di affogare (come la maggior parte dei migranti non sa nuotare), si pentirà più volte di essere partito, arrivando a implorare i trafficanti di farlo tornare indietro (e ottenendo di farsi puntare contro un fucile per zittirlo). Sul barcone, Arafat incontra il primo degli “angeli custodi” che negli anni seguenti lo aiuteranno a superare i momenti peggiori: un compagno di avventura più anziano ed esperto che lo aiuta a vincere l’angoscia (non avrà mai più occasione di incontrarlo, né saprà mai il suo nome).

Una volta sbarcato e internato in un campo di raccolta, la paura di essere rispedito in Egitto prenderà il posto della paura di affogare, per cui, alla prima occasione, scappa insieme ad altri e, dopo avere girovagato per le campagne siciliane (che gli ricordano il paesaggio natio, al punto di chiedersi se è davvero arrivato in un altro Paese) riesce fortunosamente a salire su un treno per Milano – dove lo attende uno zio, avvertito dal padre del suo arrivo - munito di regolare biglietto (i soldi che si è portato dietro si rivelano ancora una volta preziosi). 

Ma nemmeno queste prime disavventure hanno smorzato lo spirito inquieto e insofferente che Arafat si è portato dietro dall’Egitto. Non va d’accordo con lo zio, il cui atteggiamento autoritario gli ricorda quello del padre, né gli piace il lavoro che costui gli ha procurato (in un’impresa di pulizie), che considera privo di qualsiasi attrattiva ma soprattutto troppo al di sotto delle sue aspettative (non si è ancora reso conto che l’Italia non è il Paese di Bengodi che aveva sognato come tanti suoi coetanei egiziani, al punto che non è nemmeno in grado di soddisfare le analoghe aspirazioni dei suoi coetanei autoctoni). Lui voleva (e si illudeva ancora di trovare), per usare le sue parole “qualcosa che mi facesse emergere dalla massa dei miei connazionali senza speranze”.

Decide quindi di tornare in Sicilia (della quale gli è rimasto il ricordo di paesaggi simili a quelli del suo Paese, tanto diversi dal grigio e dal freddo milanesi). Ma qui le cose gli vanno decisamente male: assaggia la durezza del lavoro semischiavistico della raccolta nei campi, con i caporali a imporre la loro legge e le disumane condizioni di alloggio. Anche quando trova una situazione meno aspra – si tratta di raccogliere arance - che spartisce con un gruppo di braccianti siciliani, capisce di non potercela fare (guarda basito i carichi impressionati che quei vecchi contadini sono in grado di sollevare, mentre per le sue forze di giovane studente sono proibitivi). Ancora una volta la fortuna lo aiuta facendogli incontrare una coppia di italiani che lo ospitano e lo trattano come un figlio, ma poi,  sentendosi umiliato da una condizione di dipendenza, riprova a trovare lavoro finché si rende conto di vivere una realtà in cui le mafie dettano legge (assiste anche a un omicidio che avviene sotto i suoi occhi).  


raccolta delle arance in Sicilia



Decide quindi di ripartire per il Nord, raggiungendo Piacenza, dove vivono alcuni suoi amici e connazionali. Qui entra nel giro delle finte cooperative che operano nel settore della logistica per conto delle multinazionali dell’e.commerce e della grandi imprese della distribuzione, così ha modo di rendersi conto che le cose, dietro un’apparenza di falsa normalità, non sono poi così diverse rispetto a quelle che ha vissuto al Sud. Le “cooperative” di cui parliamo non hanno più nulla a che fare con il vecchio, glorioso strumento del mutualismo e della solidarietà operaia: sono il “sottoscala” da cui le grandi imprese monopolistiche estraggono una quota consistente dei loro profitti attraverso la più sfrontata e impunita violazione di tutte le regole che dovrebbero governare i rapporti di lavoro: niente assunzioni (si viene arruolati come finti “soci”), niente contributi, salari in nero (e al di sotto di qualsiasi minimo contrattuale), ritmi e carichi di lavoro massacranti, contando sull’impossibilità di ribellarsi perché chi è senza documenti “non esiste”, quindi può essere licenziato senza problemi. Per inciso, Arafat inizia a rendersi conto che questa condizione di sottomissione totale della forza lavoro non riguarda solo gli immigrati ma anche molti lavoratori italiani, indeboliti da decenni di politiche liberiste che ne hanno falcidiato i diritti e la capacità organizzativa, e quindi anche la dignità.    

Finalmente trova un lavoro decente in una ditta dove resta per quattro anni. Dunque alla fin fine l’Italia ha mantenuto le sue promesse, è bastato avere pazienza? Nuova cocente delusione: salta fuori l’infame legge che stabilisce che gli immigrati irregolari che hanno ricevuto più di due decreti si espulsione devono andare in carcere.  Arafat, che i due decreti li ha già ricevuti,  viene arrestato e condannato a otto mesi. Sprofonda nella depressione riuscendo a pensare solo che, una volta scontata la pena, verrà rispedito in Egitto, vanificando tutti i sacrifici che gli avevano finalmente consentito, se non di avverare i suoi ingenui sogni di studente, di ottenere almeno una condizione lavorativa dignitosa. Ma anche in carcere trova – come gli era successo sul barcone – un angelo custode. Un anziano detenuto, anche lui egiziano (Arafat non saprà mai perché si trova in carcere, ma ha capito che dovrà restarvi a lungo), si prende a cuore il destino di quel ragazzo, gli fa capire che in guardina non bisogna lasciarsi andare, bisogna occuparsi, fare attività fisica, leggere, lavorare e gli insegna che anche lui ha diritto a un avvocato, sia pure d’ufficio. 

L’avvocatessa che ne assume la difesa conosce una coppia mista italo-egiziana disposta ad aiutarlo, facendogli ottenere un permesso in attesa di regolarizzazione. Così, una volta uscito (in anticipo, per buona condotta) può riprendere a lavorare. Purtroppo non nel buon posto che aveva trovato, ma rientrando nell’inferno dei subappalti della logistica. Questa volta però Arafat ha maturato abbastanza esperienza e consapevolezza dei propri diritti per non accettare passivamente lo sfruttamento a cui lui e i suoi compagni di lavoro sono sottoposti. Così prova a rivolgersi ai sindacati confederali, ma si scontra con un muro di indifferenza (la sensazione, racconta, era che considerassero situazioni come la sua pure seccature, di cui non valeva la pena occuparsi perché tanto nulla si sarebbe potuto fare per cambiare le cose). Finché sente parlare dei sindacati di base e si rivolge ai Si Cobas.

È la svolta. Da quel momento inizia l’ultima e conclusiva tappa della sua maturazione politica. Ha imparato che finché si cerca di cavarsela da soli non c’è salvezza, che solo con l’unità e con l’organizzazione i lavoratori possono sperare di ottenere salari e condizioni di lavoro dignitosi; ha imparato che non esistono solo sindacalisti opportunisti e privi di ogni reale volontà di lottare, ma anche organizzazioni che, per quanto dotate di scarsi mezzi e prive di riconoscimento istituzionale, sono pronte a spendersi davvero per rappresentare gli interessi dei lavoratori. Questa nuova consapevolezza fa sì  che egli divenga il leader della lotta dei suoi trecento compagni di lavoro. Non arretrerà più, nemmeno di fronte a tutte le manovre con cui padroni e capetti cercheranno di dividerli, nemmeno di fronte a una polizia più preoccupata di garantire che i camion possano comunque entrare nei magazzini dell’impresa (e qui il pensiero corre immediatamente alla morte di Adil) che di indagare sulle illegalità che in essa vengono sistematicamente commesse, nemmeno di fronte alle “mediazioni” di questori, prefetti (e perfino un sottosegretario governativo) convocati per spegnere l’incendio senza indurre i padroni a cedere alle rivendicazioni dei lavoratori. Imparerà, anche, a gestire assieme ai sindacalisti del SiCobas, il rapporto con i media, per sfruttare la visibilità della vertenza come arma per indurre le istituzioni a svolgere il proprio ruolo di terze parti nel conflitto sociale. Alla fine vince, anche se deve ingoiare il ricatto dei sindacati confederali, i quali, chiamati a siglare un accordo per il quale non si sono minimamente spesi, gli imporranno di far iscrivere i suoi colleghi alle loro organizzazioni. Con la cronaca della lotta finisce il racconto di Arafat. Non finiscono qui, invece, le considerazioni politiche che la sua storia ci inspira. Ne riassumo qui di seguito alcune che considero cruciali. 

La prima riguarda il significato emblematico della figura di Arafat. Le sue inquietudini, come l’intolleranza nei confronti dell’autorità paterna, che replicherà nei confronti dello zio una volta giunto a Milano; le aspettative sovradimensionate rispetto all’attività lavorativa che, secondo lui, il “capitale culturale” accumulato avrebbe dovuto garantirgli; l’ambizione individuale, che lo spinge a cambiare continuamente lavoro e luoghi in cerca di “qualcosa che mi facesse emergere dalla massa dei miei connazionali senza speranze”; tutto ciò ci fa capire cosa muoveva le ribellioni delle masse giovanili nordafricane nella stagione delle “primavere arabe”. Si è trattato di una sorta di replica della rivolta degli studenti occidentali che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, insorsero contro le gerarchie familiari, politiche e accademiche, trainate dalla volontà di subentrare alle élite conservatrici e gerontocratiche che occupavano i posti di comando. Con alcune differenze decisive, fra le quali: 1) il fatto che questa nuova rivolta si trova di fronte a regimi ben più duri delle democrazie (ancorché in fase di progressiva sclerosi) occidentali, per cui l’incentivo a lasciare i propri Paesi è elevato; 2) il fatto che la rivolta in Europa si è spenta da tempo, mentre i suoi protagonisti sono entrati a far parte, sia pure in ritardo, delle élite dominanti, diventando sostenitrici del sistema liberal democratico, ancorché declinato in versione “progressista” e “di sinistra”; per cui i giovani nordafricani guardano alla sponda Nord del Mediterraneo come al migliore dei mondi possibili, illudendosi che possa offrire loro non solo spazi democratici, ma anche opportunità di carriera e benessere.  Come abbiamo visto, ad Arafat saranno necessari anni di durissime esperienze per scrollarsi di dosso queste illusioni.


Un  barcone alla deriva nel Mediterraneo



Un altro tema importante che emerge da questa storia è la sostanziale omogeneità delle pratiche di supersfruttamento della forza lavoro immigrata – ma anche di quella italiana - fra Sud e Nord Italia. Alla violenza mafiosa del Sud fa riscontro la violenza “legalizzata” delle finte cooperative del Nord, oscene caricature delle cooperative d’antan. In entrambi i casi l’obiettivo è estendere i margini di profitto, riportando le condizioni della forza lavoro indietro nel tempo, non solo a prima della controrivoluzione liberista, ma addirittura al secolo XIX. 

Particolarmente significativo il caso della logistica che, con l’esplosione dell’e.commerce, la finanziarizzazione dell’economia e lo spostamento del ruolo di traino dall’industria tradizionale al settore dei servizi, è divenuto un nodo strategico dell’accumulazione capitalistica; ma anche un nodo vulnerabile a forme di lotta dure (come il blocco delle merci, che somiglia al blocco della catena di montaggio fordista), per cui il capitale è costretto a fare di tutto per mantenere il controllo sulla forza lavoro. Da qui la necessità di puntare sui lavoratori più ricattabili – immigrati senza documenti, autoctoni impoveriti dalle politiche di deindustrializzazione e decentramento produttivo, ecc.  E da qui la repressione violenta – dalle cariche della polizia contro i picchetti a episodi come quello che è costato la vita ad Alik –, da qui i tentativi di dividere con ogni mezzo i lavoratori, anche con la sostanziale complicità – ben descritta da Arafat - dei sindacati confederali, i quali si prestano a isolare e delegittimare i sindacati di base. Per tacere delle istituzioni e dei media, che si accorgono delle illegalità quando ci scappa il morto e “si scopre” che in questi settori l’illegalità regna sovrana. 

Meritano qualche considerazione anche gli episodi di solidarietà su cui Arafat ha potuto contare nelle circostanze più terribili che si è trovato a dover affrontare. Come si è visto, non sono stati solo i  suoi connazionali ad aiutarlo, ma anche cittadini italiani come le due coppie, una in Sicilia, l’altra a Piacenza, che l’hanno ospitato o aiutato a ottenere un permesso provvisorio. Episodi che confermano come, per fortuna, nel popolo italiano il razzismo non sia tanto diffuso come spesso si è portati a credere. Episodi di solidarietà umana che travalicano l’ideologia, a partire dall’ideologia “pietista” di quelle sinistre che, come denuncia Maria Scandaliato nella Introduzione, si appuntano al petto i nastrini colorati della lotta la razzismo, e invitano gran voce a lasciar entrare nel nostro Paese gli immigrati, ma ignorano le condizioni reali di lavoro e di vita che costoro si troveranno a dover affrontare. 

Un’ultima riflessione: la storia di Arafat ci ricorda la necessità di un’approfondita riflessione sull’urgente compito di ricostruire l’unità politica e sindacale delle classi subalterne, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Arafat ha imparato sulla sua pelle che cosa la democrazia liberale e il sistema capitalistico occidentali possono “regalare”, a chi come lui viene qui con l’illusione di trovare occasioni di promozione sociale. Ha tratto le giuste conclusioni dalla sua esperienza, nel senso che ha capito che occorre rinsaldare nella lotta gli interessi comuni fra immigrati e italiani.  Ma occorre anche capire che, qui da noi, occorre lottare anche e soprattutto perché gli Arafat che ancora vivono in Africa, e in altri Paesi neo coloniali, vengano messi in condizione di migliorare le proprie condizioni senza essere costretti a emigrare. Ciò vuol dire lottare contro l’imperialismo occidentale che sfrutta le risorse dei Paesi del Terzo Mondo, li strangola con la trappola del debito e li devasta con le sue guerre. Il vero internazionalismo proletario è questo, non il pietismo da dame di San Vincenzo per i “poveri” immigrati.