martedì 31 dicembre 2024

APOLOGIA DI LUKACS 







I miei ultimi lavori (1) devono molto alla interpretazione che l’ultimo Lukacs (2) ha dato del pensiero di Marx. Analizzando i concetti fondamentali della ontologia lukacsiana in un ciclo di lezioni che sto tenendo per il Centro Studi Domenico Losurdo (la più recente si può ascoltare all’indirizzo You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g ) mi sono reso conto che, in tutte le cose che ho sin qui scritto e detto su di lui, ho fatto solo brevi accenni alla sua biografia. È vero che, ragionando su un pensiero di grande spessore le considerazioni relative all’opera tendono a prevalere su quelle dedicate alla figura dell’autore, tuttavia, nel caso specifico, tale approccio non è del tutto appropriato. Non solo perché la sua vicenda umana ha incrociato eventi storici di enorme portata - la Prima guerra mondiale, le Rivoluzioni russa e ungherese, lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, l’insurrezione ungherese del 56 – e personaggi della statura di Georg Simmel, Max Weber, Thomas Mann, Ernst Bloch, Lenin e Stalin. Ma perché proprio il fatto di aver attraversato – uscendone indenne – queste grandi prove, ha fatto sì che critici e detrattori abbiano potuto attribuirgli una “prudenza” al limite della pavidità, se non di un vero e proprio opportunismo. Il tutto al fine malcelato di sminuire la portata del suo pensiero. 


È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.


Nato a Budapest nel 1885, in una ricca (il padre dirigeva una banca di investimento) famiglia ebraica (ma pare che in casa vigesse una totale indifferenza per la religione) il piccolo Lukacs manifestò una precoce insofferenza nei confronti di ogni forma di imposizione (rifiutava sistematicamente di sottoporsi al rigido “protocollo” domestico che la madre cercava di imporre). Le aspettative famigliari erano concentrate sul fratello maggiore che però, malgrado l’assiduo impegno nello studio, non ottenne mai grandi risultati, mentre a lui, dotato di una memoria prodigiosa, bastavano poche ore per eccellere a scuola (anche se evitava accuratamente di apparire come il primo della classe). 


Ignorando il desiderio paterno di avviarlo a studi economico-giuridici (la sua prima laurea fu effettivamente in diritto, ma nell’intervista rivela di avere nutrito fin da giovanissimo un profondo disprezzo per il mondo della finanza e per i valori borghesi in generale), si appassionò soprattutto alla letteratura e al teatro (a quindici anni scriveva drammi che bruciò pochi anni dopo) ma ben presto, confessa, dovette prendere atto con sua grande delusione di non avere abbastanza talento per aspirare ad essere uno scrittore o un regista. Il che non gli impedì di continuare a occuparsi di arte e letteratura, come testimoniano testi come L’anima e le forme e Teoria del romanza, anche se la passione filosofica (in particolare per la grande filosofia tedesca - Hegel su tutti – della quale subirà l’influsso per tutta la vita) si accompagnerà sempre più alla passione letteraria, finendo per prevalere. Suo compagno di studi a Berlino, dove ebbe per maestro Georg Simmel (ma Lukacs subì anche l’influsso di Max Weber)  fu Ernst Bloch (un’amicizia destinata a durare tutta la vita, sia pure con momenti di allontanamento reciproco) al quale riconosce il merito di avergli insegnato a “filosofare al modo di Aristotele ed Hegel”. 


L’avvicinamento al marxismo, e più in generale alla problematica politica, fu lento e progressivo. Negli anni precedenti alla Grande Guerra, viene a conoscenza del socialismo francese e riconosce nel teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel “l'unico serio movimento socialista di opposizione”. Sconvolto dallo scoppio della Prima guerra mondiale, assume una posizione di condanna radicale nei confronti del carnaio provocato dalle potenze europee. In quegli anni, racconta, lui e la cerchia dei suoi amici pacifisti pensavano che se i regimi feudali avessero perso la guerra sarebbero caduti ma, a differenza della maggior parte degli altri, egli non condivideva l’auspicio che venissero rimpiazzati da regimi democratici.“Chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale?, pensavo, né ero disposto ad accettare come ideale il parlamentarismo inglese”. Così, quando scoppia la Rivoluzione russa del 1917, capisce immediatamente che quella è la vera alternativa e, a partire da quel momento, il suo interesse si rivolge esclusivamente ai temi etici e politici, cessando di attribuire importanza alle questioni estetiche al centro della sua attenzione nel decennio precedente.


Nel 1918 viene costituito il Partito Comunista ungherese e Lukacs aderisce, anche se non fu fra i fondatori. Nell’intervista dichiara che la sua immagine del comunismo era allora “settaria e ascetica”, cioè fortemente connotata in termini morali e caratterizzata da aspettative “messianiche”, motivo per cui si trovò spesso in contrasto con Bela Kun che, dal suo punto di vista, incarnava la logica burocratica del funzionario di Partito (in alcune occasioni, in seguito a tale conflitto fu indotto a compiere autocritica). In ogni caso durante la Rivoluzione del 1919, in quanto figura intellettuale di spicco, viene chiamato a svolgere l’incarico di Commissario all’Istruzione e assume addirittura il ruolo di commissario politico di una divisione dell'esercito rosso (nell’intervista ricorda che, mentre esercitava tale funzione, ordinò di fucilare otto soldati di un reparto che si era ritirato senza combattere durante la guerra civile con i Bianchi). 


Un manifesto della Rivoluzione ungherese del 1919



Dopo il fallimento della Rivoluzione riparò a Vienna, dove ebbe modo di frequentare dirigenti e intellettuali comunisti di tutta Europa, e dove si rese conto che la sua cultura marxista era ancora insufficiente, e che ancora più era insufficiente la sua comprensione del  leninismo. A posteriori, definisce la sua posizione di allora come “un miscuglio di settarismo e messianesimo” (“credevamo che la rivoluzione mondiale fosse un fatto tanto inevitabile quanto imminente”, racconta). Da un lato, simpatizzava con l’ala sinistra della III Internazionale (di cui facevano parte, fra gli altri, Bordiga e Pannekoek), tanto che fu criticato da Lenin per avere difeso posizioni astensioniste di principio. Ma dall'altro lato, il bagno di concretezza cui era stato costretto dall’esperienza di Commissario della Repubblica ungherese dei Consigli, lo costringeva talvolta a contraddirsi, assumendo posizioni realiste. Come avvenne nel 1928, allorché si trovò di nuovo costretto a fare autocritica per avere scritto le “Tesi di Blum” (uno pseudonimo adottato per l’occasione), nelle quali sosteneva che il Partito avrebbe dovuto opporsi al regime reazionario di Horthy al fianco dei socialdemocratici per instaurare una Repubblica democratica, e solo in un secondo tempo lottare per il socialismo (posizione contraria alla linea sostenuta in quel momento dalla III Internazionale, che di lì a non molto l’avrebbe però cambiata).


Bela Kun parla alla folla



Proiettandoci fino al 28 abbiamo tuttavia saltato un passaggio fondamentale: nel 1923, usciva infatti Storia e coscienza di classe, una raccolta di saggi che ancora oggi rappresenta l’opera di Lukacs più conosciuta (e celebrata) dai marxisti di tutto il mondo. Eppure, nell’intervista autobiografica che sto qui illustrando, come nella Prefazione a una ristampa del 1967 dell’opera in questione (3), e come nei riferimenti che egli le dedica nella Ontologia dell’essere sociale, Lukacs è a dir poco severo nei confronti del lavoro del 23. Pur riconoscendovi un certo valore, perché in esso venivano affrontati per la prima volta alcuni problemi – come quello dell’estraneazione – fino ad allora evitati dal marxismo, e perché inquadrava la teoria leniniana della rivoluzione nella concezione generale del marxismo, il Lukacs maturo la considerava infatti inficiata da residui idealisti (in quelle pagine ero “più hegeliano di Hegel”). 


In particolare, come ho messo in luce in varie occasioni (4), l’ultimo Lukacs punta il dito contro l’ipostatizzazione del ruolo “oggettivamente” rivoluzionario del proletariato (5), ma soprattutto contro la mancata integrazione del ricambio organico fra uomo e natura nell’economia, la quale viene in tal modo ridotta alla forma storicamente determinata che essa assume nella società capitalista,invece di essere concepita come totalità costituiva dell’essere sociale, come prodotto del processo evolutivo che fa derivare dalla natura inorganica la natura organica e da quest'ultima l’essere sociale attraverso il lavoro, che costituisce l’unica manifestazione di un’attività teleologica nell’universo naturale. 


Nelle ultime battute dell’intervista Lukacs sintetizza la propria visione più o meno così: “seguendo Marx io mi rappresento l’ontologia come la vera filosofia basata sulla storia. Storicamente è indubbio che l’essere inorganico viene per primo e che da esso viene fuori l’essere organico. Da questo stato biologico viene fuori attraverso molti passaggi l’essere sociale umano la cui essenza è la posizione teleologica, cioè il lavoro. Questa è la categoria più decisiva perché comprende tutto. Quando parliamo della vita umana parliamo con le più diverse categorie di valore. Qual è il primo valore? Il primo prodotto? Un mazzuolo di pietra o corrisponde allo scopo o non corrisponde nel primo caso è valido, nel secondo non ha valore (…) la seconda differenza fondamentale è il dover-essere cioè le cose non si trasformano da sé ma in seguito a posizioni consapevoli, lo scopo precede il risultato”.


Gyorgy Lukacs



Questa visione ha radicali conseguenze sul modo in cui l’ultimo Lukacs tratta concetti come libertà, necessità, oggettivazione, alienazione, ideologia, ecc. Ma questi temi esulano dallo scopo del presente articolo il quale, come chiarivo all’inizio, consiste nel mettere in luce la coerenza personale, politica, ideale e morale dell’uomo di cui stiamo parlando. I cambiamenti di approccio metodologico e di posizione ideologica sin qui descritti, fanno parte della normale dialettica di un percorso biografico. ma le critiche dei detrattori si appuntano in altre direzioni, sollevando interrogativi associati al fatto che il nostro, dopo l’ascesa al potere di Hitler, ha vissuto ininterrottamente a Mosca dal 1933 alla fine della Seconda guerra mondiale senza incappare in qualche “purga”, e che, pur avendo assunto un incarico ministeriale nel governo Nagy nel 1956, dopo l’invasione sovietica se l’è cavata con un paio d’anni di esilio in Romania, dopodiché è potuto rientrare a Budapest e riprendere il proprio lavoro di insegnamento e ricerca. 


Opportunismo, mancanza di coraggio, complicità con lo stalinismo e più in generale con i regimi di “socialismo reale”? Queste accuse, esplicite o implicite, sono state usate da destra (ma anche da certi ambienti intellettuali della “Nuova Sinistra”) per svalutare e/o rimuovere il contributo di Lukacs al marxismo, per cui mi pare giusto affrontarle a partire da ciò che lo stesso filosofo ungherese racconta sulla seconda parte della propria vita. 


A Mosca Lukacs aderisce  al partito comunista russo e lavora all’istituto Marx-Engels. La sua è un’attività prevalentemente se non esclusivamente teorica, mentre sul piano politico mantiene un basso profilo, evitando di impegnarsi nei conflitti di potere interni alla dirigenza bolscevica. Ciò non gli impediva di nutrire le proprie opinioni in merito, opinioni che espone chiaramente rispondendo alle domande dell’intervistatore. 


Su Stalin, in particolare, afferma che l’idea diffusasi dopo il XX Congresso del Pcus, secondo cui egli avrebbe detto solo cose sbagliate e antimarxiste è un pregiudizio. Ciò detto, egli è radicalmente critico nei confronti della visione filosofica staliniana, che definisce iper razionalista, anche se, a suo avviso, non priva di precedenti nella tradizione marxista. In particolare, la visione di un processo storico che incorpora un principio di necessità logica (Lukacs cita per esempio il concetto di “negazione della negazione” mutuato da Hegel, che egli considera appunto una categoria puramente logica, priva di consistenza reale: “per Marx, dice, un ente non oggettivo è un non ente, l’essere è identico alla oggettività”) era a suo avviso già presente in Engels e negli esponenti della socialdemocrazia tedesca. La storia, analizzata da tale punto di vista, appare come una successione di tappe di un processo determinato da una ferrea legalità immanente (comunismo primitivo, schiavismo. feudalesimo, capitalismo, socialismo) e non come l’esisto di una serie di trasformazioni concrete rese di volta in volta possibili (e non necessarie) da specifici meccanismi causali (ma anche da fattori contingenti e soggettivi). Il materialismo dialettico (diamat) staliniano concepisce solo soluzioni imposte dalle leggi “oggettive” della storia e non scelte fra possibilità alternative, la sua idea di “socialismo scientifico” è ispirata a una legalità simile a quella delle leggi naturali e non contempla, marxianamente, la complessità dinamica dei concreti processi storici.


Sul piano politico, tuttavia, Lukacs non nasconde di essere stato dalla parte di Stalin – contro Trockij – sulla questione del socialismo in un paese solo e, quanto al ruolo della opposizione di sinistra guidata dallo stesso Trockij e da altri esponenti della vecchia guardia bolscevica, come Zinoviev, Bucharin e Kamenev, dichiara di avere condiviso l’opinione di altri amici e compagni che frequentava in Russia: in primo luogo, rimprovera loro di avere offerto argomenti alla campagna antisovietica delle potenze imperialiste occidentali, ma soprattutto esprime la convinzione che una loro dittatura di partito non sarebbe stata diversa, né migliore, di quella imposta da Stalin. Ricorda che a un certo punto Bucharin cercò di contattarlo per coinvolgerlo nella lotta intestina del partito ma egli si negò (per inciso: Lukacs e Bucharin si erano precedentemente scontrati in una polemica sulla questione del ruolo storico dello sviluppo delle forze produttive che Bucharin, sostiene Lukacs, riduceva allo sviluppo tecnologico. Tuttavia il motivo del rifiuto – che con buona probabilità evitò a Lukacs di finire nella tagliola dei processi di Mosca – fu piuttosto il giudizio negativo sul ruolo dell’opposizione appena ricordato). 


Ciò detto, quando l’intervistatore sollecita la sua opinione sui processi di Mosca, Lukacs non si sottrae: “li giudicai una mostruosità”, dice, ma mi consolai dicendomi che in quel momento “stavamo dalla parte di Robespierre” e che il processo contro Danton non era stato meno ignobile. Ma soprattutto afferma che in quel periodo considerava l’annientamento di Hitler come la questione di gran lunga più importante e che gli pareva evidente che solo l’URSS avrebbe potuto garantirlo (6).


Quanto alla rivolta ungherese del 1956, Lukacs afferma di averla interpretata come un grande movimento spontaneo che, sostiene, aveva bisogno di un inquadramento ideologico, per cui non esitò ad accettare l’incarico di ministro anche se Nagy non aveva, a suo avviso, uno straccio di programma politico. In ogni caso, il suo punto di vista non era in alcun modo quello di un rottura con il sistema socialista bensì quello della necessità di riformarlo (vedi la già citata affermazione “meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”), tanto è vero che egli si oppose alla, e votò contro la, proposta di uscire dal Patto di Varsavia. Un atteggiamento che, dopo l’invasione sovietica, lo aiutò a pagare il prezzo relativamente mite di qualche anno di esilio in Romania, prima di tornare a insegnare a Budapest. 


Carri armati russi a Budapest



Opportunismo, mancanza di coraggio? I primi a formulare l’accusa di non avere esplicitamente condannato il socialismo reale sono stati, ahimè, alcuni suoi allievi, lo si evince dal tono malevolo e insinuante di certe domande rivoltegli da Istvan Eorsi (il curatore dell’intervista appena descritta) , ma soprattutto, lo si evince da quanto scrive Nicolas Tertulian nella Introduzione alla Ontologia, facendoci capire perché il testo di quest'opera fondamentale sia apparso con tanto ritardo dalla stesura definitiva, preceduto da recensioni negative di quegli allievi (fra i quali tale Agnes Heller, poi felicemente approdata sulle sponde del liberalismo occidentale) che avevano fretta di certificare la propria volontà di ripudiare il marxismo e il socialismo. 





Lukacs non piace ai comunisti dogmatici, che lo considerano un dissidente filo occidentale camuffato da marxista critico (e lo avrebbero magari volentieri visto sul banco degli imputati dei processi di Mosca). Non piace ai postcomunisti convertiti al liberalismo, che non capiscono la sua ostinazione nel volersi schierare fino alla fine dalla parte del socialismo contro il capitalismo occidentale. Non piace ai marxisti accademici di ogni risma che, dall’alto delle loro cattedre universitarie, si considerano i soli legittimati a interpretare l’autentico lascito di Marx. Non piace agli intellettuali e ai militanti di nuove sinistre e nuovi movimenti, i quali quando leggono affermazioni come “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale , non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsene con intensità sempre maggiore, sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana” (Ontologia, vol IV, p. 649), sospettano che le sue parole potrebbero essere usate contro la loro esaltazione acritica della tecnologia, del consumismo santificato come “nuovi bisogni”, del gusto piccolo borghese della trasgressione, del “diritto di avere diritti” (7), ecc. 


Credo che tutte queste antipatie rappresentino il miglior attestato dell’integrità politica, morale e intellettuale di Lukacs. Concludo limitandomi ad aggiungere che ignoro in che misura i marxisti non occidentali (cinesi, africani e latinoamericani) abbiano avuto modo di conoscere e studiare l’ultimo Lukacs o se conoscano solo Storia e coscienza di classe, ma penso che i teorici post maoisti lo avrebbero sicuramente apprezzato, così come lui avrebbe guardato con estremo interesse alla riforme cinesi degli anni Settanta.


Note.


(1) Vedi, in particolare, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023; Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(2) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.


(3) Cfr. Prefazione dell’autore a Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano 1970.


(4) Vedi in particolare Ombre rosse, op. cit. Vedi anche la mia Prefazione alla seconda edizione della Ontologia.


(5) Nella Prefazione del 1967 (vedi nota 3) Lukacs scrive che in  Storia e coscienza di classe il proletariato veniva presentato come l’incarnazione storica della hegeliana unità metafisica soggetto-oggetto descritta nella Fenomenologia dello spirito.


(6) Anche il Patto di non aggressione fra Hitler e Stalin appare giustificato come mossa tattica per sventare il piano delle potenze occidentali di usare la Germania nazista per distruggere l’Unione Sovietica.


(7) Cfr S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012. In un libro a due mani del 2019 (Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi editore) il sottoscritto e Onofrio Romano hanno criticato l’ideologia della sinistra liberal progressista che rivendica un’estensione illimitata dei diritti individuali, la quale finisce inevitabilmente per alimentare una altrettanto illimitata estensione del mercato delle merci-servizio (maternità assistita, utero in affitto, ecc.). 

domenica 15 dicembre 2024

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO







A mò d’introduzione


Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) – ho speso molte energie per contrastare il luogo comune – che accomuna destre e “sinistre” occidentali – secondo cui la Cina sarebbe un Paese capitalista, se non addirittura imperialista, la cui unica ragione di conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa è la competizione per il dominio globale. 


Nel caso delle destre, tale giudizio funge da argomento propagandistico, buono per scoraggiare qualsiasi simpatia nei confronti di una possibile alternativa nei confronti di un’economia, un sistema politico, una cultura e un modo di vivere che settori sempre più larghi delle popolazioni occidentali considerano intollerabile, come dimostrano il successo dei movimenti cosiddetti “populisti” e le altissime percentuali di astensione. 


Nel caso delle sinistre occorre distinguere fra l’ala “progressista” neoliberale, di fatto allineata alle destre (fatta eccezione per l’impegno nei confronti dei diritti civili di individui e minoranze appartenenti alle classi urbane medio-alte), e l’ala radicale, che dedica ancora qualche attenzione agli interessi delle classi lavoratrici. La sinistra neo liberale ha definitivamente gettato la maschera votando nel Parlamento europeo l’infame delibera che equipara nazismo e comunismo. L’ala radicale, ormai priva di strumenti teorici per analizzare la realtà (l’ignoranza dei suoi quadri in materia di filosofia, storia ed economia, per tacere del pressoché totale oblio della teoria marxista, è disarmante), si limita ad annunciare che “un altro mondo è possibile” ma, non avendo la minima idea su cosa fare e come farlo per mettere in pratica tale slogan, disprezza i progetti politici che ci provano.


Rebus sic stantibus, non mi stanco di insistere sulla necessità di studiare l’unico esperimento (in verità non è il solo, ma è di gran lunga il più significativo, se non altro per le sterminate dimensioni geografiche e demografiche della nazione che lo sta attuando) che offra un esempio concreto del fatto che lo slogan della Tatcher (there is no alternative) è falso. Un esempio, non un modello, perché sono proprio le peculiari caratteristiche dell'esperimento in questione che aiutano a capire che non può esistere un modello universalmente applicabile per la transizione a una formazione sociale post capitalista. 


A confermare il carattere “locale”, idiosincratico dell’esperimento è la stessa classe dirigente della Repubblica Popolare Cinese che non a caso parla di “socialismo in stile cinese” e dichiara di ispirarsi al metodo, ai principi e ai valori di un marxismo ”sinizzato”. Per spiegare queste affermazioni in modo comprensibile alle sinistre nostrane intrise di pregiudizi eurocentrici, seguirò la lezione di Cheng Enfu (2), uno dei maggiori economisti cinesi, incrociandola  con quelle di Giovanni Arrighi (3) e della coppia Alberto Gabriele ed Elias Jabbour (4). In particolare, mi occuperò: 1) di come la Cina stia cercando di “usare” alcuni aspetti della civiltà capitalista occidentale senza farsene colonizzare; 2) di quali sfide e contraddizioni deve affrontare per consolidare l'attuale, inedita fase del proprio sviluppo che definisce “nuova normalità”; 3) di cosa si intende per marxismo sinizzato e quali elementi di novità presenta rispetto alla teoria marxista “classica”; 4) di quali fattori di ispirazione l’attuale élite cinese ricavi dalla tradizione antica e classica della sua millenaria civiltà (Cheng Enfu scrive che la cassetta degli attrezzi del Partito Comunista cinese è “una sintesi dialettica dei materiali ideologici forniti da tre sistemi di conoscenza: concetti marxisti, apprendimento occidentale, apprendimento tradizionale cinese”). 



1. Usare i capitali e le tecnologie occidentali senza lasciarsi colonizzare


In Adam Smith a Pechino Arrighi contestava la tesi secondo cui lo strabiliante decollo dell’economia cinese sarebbe avvenuto grazie alla conversione del Partito Comunista al neoliberalismo. Questo è piuttosto ciò che è capitato in Russia dopo il crollo del socialismo, con i ben noti effetti spaventosi (immiserimento e disoccupazione di massa, appropriazione dei beni pubblici da parte di un pugno di oligarchi, smembramento dell’unità nazionale, ecc.). La dirigenza subentrata a Mao dopo la sua morte era letteralmente ossessionata dal destino di una Russia che aveva adottato la shock terapy ispirata ai principi del Washington Consensus, per cui Deng Xiaoping ha scelto di riformare il sistema in modo lento e graduale. 


L’economia è decollata dopo che alle grandi imprese si è imposto di farsi reciprocamente concorrenza e di competere sia con le aziende straniere impiantatesi nelle Zone Speciali che con le nuove aziende a partecipazione privata e di comunità. Alla crescita dell’immenso mercato interno cinese ha inoltre contribuito la decisione di consentire (a partire dal 1983) ai contadini la possibilità di vendere, anche su mercati distanti, il loro surplus produttivo (un provvedimento che evoca l’analoga decisione assunta mezzo secolo prima da Lenin, allorché varò la NEP (5)) Perché queste scelte, contrariamente a quanto previsto – e auspicato – dagli “esperti” occidentali non hanno portato alla caduta del socialismo e alla piena integrazione della Cina nel ruolo di membro subalterno del sistema capitalista mondiale? È quanto cerca di spiegare Cheng Enfu nel suo libro sulla “dialettica dell’economia cinese”. 





Noi, argomenta, non abbiamo seguito né il modello liberale né quello socialdemocratico, pur sviluppandone alcuni elementi, abbiamo invece applicato in modo discriminante la conoscenza occidentale, scartandone gli aspetti che avrebbero potuto mettere in discussione il controllo dello stato e del partito sul nostro sistema economico. Ciò è dimostrato, fra le altre cose, dal fatto che mentre il capitalismo occidentale procede a continui i tagli del welfare, in Cina si sono effettuati massicci investimenti nei fondi cinesi per l’istruzione, si è aumentato il salario minimo e si è provveduto al miglioramento dell’assicurazione medica nelle aree urbane e rurali e del trattamento per gli anziani. Per tacere del fatto – assolutamente inconcepibile in base ai canoni dell’economia borghese – che è riuscita a riscattare in un breve arco di tempo ottocento milioni di cittadini dalla povertà assoluta. Ma soprattutto – mistero che ossessiona gli economisti occidentali – è riuscita a passare in pochi decenni da Paese in via di sviluppo a potenza economica in grado di competere con gli Stati Uniti (il libro di Cheng Enfu offre un’ampia messe di dati che illustrano questo impressionante processo evolutivo). Come hanno fatto? 


Cheng Enfu



Cheng Enfu spiega il “miracolo” descrivendo le caratteristiche di un dispositivo che si fonda su quattro sistemi coordinati e interconnessi: 1) un sistema di diritti di proprietà multipla basato sulla proprietà pubblica; 2) un sistema di distribuzione multifattoriale basato sul lavoro; 3) un sistema di mercato a struttura multipla guidato dallo stato; 4) un sistema aperto multiforme autosufficiente. 


L’idea di fondo che ha ispirato le riforme messe in atto a partire dalla fine degli anni Settanta è stata quella di costruire un modello “a doppia forza”, di sommare cioè i vantaggi generati dalla convivenza di un governo forte con un mercato forte, un paradosso inconcepibile per una teoria economica che pone i due termini in opposizione radicale: se domina il mercato lo stato si ritira e viceversa. Ovviamente solo la politica dispone del potere di creare le condizioni perché stato e mercato possano convivere senza elidersi a vicenda. In particolare, nel processo di apertura dell’economia cinese al capitale internazionale, ciò ha voluto dire non porre l’accento esclusivamente sull’uso attivo del capitale straniero (e sugli apporti di tecnologia e talento associati a tale uso) ma anche e soprattutto sugli accorgimenti necessari a garantire l’indipendenza e l'autosufficienza della Cina, per esempio mantenendo il controllo su quelle tecnologie di base che sono irrinunciabili strumenti per assicurare la sicurezza del Paese, e limitando la partecipazione del capitale straniero nelle forme di proprietà miste per impedirgli di creare propri monopoli finanziari nel Paese.  


Questi e altri accorgimenti hanno fatto sì che il rapido processo di crescita degli interscambi produttivi, commerciali e finanziari fra Cina e resto del mondo, al pari del suo ingresso nel WTO, si sia potuto descrivere (non solo da parte di Arrighi  ma anche di altri autori marxisti (6)) come un “uso della globalizzazione” che ha consentito di integrare la Cina nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza arrendersi alle pressioni - interne e non solo internazionali (7) - dei fondamentalisti del mercato, il che è stato possibile solo grazie all’assoluto controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una (relativa) autonomia dall’egemonia del dollaro. 


Il fatto che questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si sia accompagnato ad una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, poiché il governo non ha mai smesso di mantenere la barra del timone verso l’obiettivo di marciare verso nuove forme di democrazia popolare e verso forme più avanzate di transizione al socialismo, ha fatto capire agli Stati Uniti che quella globalizzazione che avevano concepito come l’arma finale per estendere il proprio dominio sul mondo intero si era trasformata in un boomerang. È per questo che oggi assistiamo sia a una strategia di “sganciamento” dell’Occidente dal mercato cinese e a forme di guerra commerciale nei confronti dei prodotti made in China, sia a una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita papa Francesco, propedeutica allo scontro militare diretto con la Cina. 



2. Risolvere le contraddizioni che ostacolano il cammino verso una “nuova normalità” 


L’analisi di Cheng Enfu sullo sviluppo cinese non è agiografia né cieca di fronte alle sfide e alle contraddizioni generate dalla politica di riforme e apertura inaugurata da Deng e proseguita dai suoi successori. Allentando le redini sul mercato i governi hanno favorito un formidabile processo di crescita economica ma, inevitabilmente, hanno anche permesso che i fallimenti del mercato generassero una serie di gravi problemi sociali - problemi che Cheng Enfu analizza lucidamente con gli occhiali della teoria marxista, in polemica con gli economisti cinesi convertitisi al credo neoliberale. 


Il divario fra ricchi e poveri è cresciuto quasi a livelli occidentali, malgrado i redditi delle classi lavoratrici agricole e urbane siano significativamente aumentati e questo perché, argomenta Cheng Enfu riprendendo un concetto che Thomas Piketty ha divulgato fra  i lettori occidentali (8), nelle economie di mercato il divario dei redditi dipende meno dal divario nei redditi salariali che dal divario nei rediti di proprietà associato all’ineguale distribuzione della stessa. I problemi ambientali hanno toccato livelli allarmanti. La Cina è riuscita a uscire quasi indenne dalla catastrofe del 2008, ma il rallentamento del commercio mondiale associato alla crisi ha provocato un forte rallentamento della crescita e generato problemi di sovrapproduzione in alcuni settori, come il siderurgico e l’immobiliare. Le privatizzazioni non hanno solo aumentato i divari di reddito ma anche quelli fra regioni e impedito uno sviluppo proporzionale fra settori diversi. Certi settori della borghesia nazionale, anche dopo il fallimento del tentativo occidentale di innescare un regime change nel 1989 (9), non hanno cessato di lottare per trasformare il proprio potere economico in potere politico, ricorrendo alla corruzione di dirigenti di partito e quadri delle amministrazioni regionali.  


Per fare fronte a queste sfide, che sintetizza parlando di contraddizione tra il crescente bisogno popolare di una vita migliore e uno sviluppo squilibrato e inadeguato, Cheng Enfu propone di concentrare le energie su una serie di obiettivi strategici: 1) fornire protezione legale ai diritti dei lavoratori delle imprese private ai quali vanno garantiti redditi ragionevoli, perfezionare il sistema statale per la ridistribuzione della ricchezza e migliorare la tassazione per aggiustare i flussi di reddito; 2) ridurre la dipendenza dal capitale e dalla tecnologia stranieri promuovendo l’innovazione indipendente; 3) limitare la dipendenza dal commercio estero aumentando il ruolo del consumo interno; 4) ridurre la dipendenza dal dollaro, evitando di concedere spazio ai processi di finanziarizzazione e incoraggiando l’integrazione della finanza con l'economia reale; 5) accelerare l'internazionalizzazione del sistema finanziario del RMB; 6) creare una proprietà intellettuale autonoma intensificando lo sforzo di formazione del personale scientifico (coltivare talenti per la ricerca di base ad alto livello); 7) infine porre fine a una capacità produttiva in eccesso che la Cina eredita dai decenni in cui ha puntato su una modalità di sviluppo estensivo (produzione di massa orientata all’esportazione di merci a buon mercato di fascia bassa). 


Il nuovo modello economico che il governo definisce “nuova normalità”   dovrebbe favorire la transizione dalla modalità di sviluppo estensivo allo sviluppo intensivo (qualità ed efficienza). A tale scopo occorre spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni, il che comporta che la tendenza all’aumento dei redditi delle classi lavoratrici prosegua e si rafforzi. Ciò non significa rinunciare al ruolo di potenza commerciale ma, tenendo conto del fatto che la domanda internazionale tende a ridursi a causa della crisi, e che le nazioni occidentali adottano politiche protezioniste nei confronti dei prodotti cinesi, occorre che la Cina scommetta sull’innovazione per diventare leader nei settori a tecnologia avanzata, trasformandosi da fabbrica mondiale specializzata in assemblaggio di tecnologie straniere in fabbrica mondiale di tecnologie di punta sviluppate autonomamente. 


Cheng Enfu cita molti dati che attestano come questo processo sia già in atto, enfatizzando in particolare il fatto che il valore aggiunto del settore terziario ha superato quello del settore secondario. Oggi, annota non senza orgoglio, ci collochiamo al quasi centro del centro-periferia del sistema mondiale, come confermano i massicci investimenti diretti cinesi in Africa e America Latina. E a tale proposito aggiunge: gli occidentali, preoccupati dalla nostra capacità competitiva in queste aree del mondo, ci accusano di sviluppare a nostra volta una relazione di carattere imperialista fra centro e periferia, ma la verità è che noi ci stiamo muovendo verso il centro in modo diverso: la Cina offre a questi Paesi un modello superiore per lo sviluppo e il progresso, perché noi vogliamo guidare un globalizzazione economica equa. Infine propone di misurare l'avanzamento verso questa nuova fase adottando sia un inedito indicatore di contabilità economica, che chiama Prodotto Interno Lordo del Benessere, il quale, a differenza del PIL, comprende il valore totale del benessere creato dalla produzione e dalle attività commerciali di tutte le unità residenti in un Paese, sia un nuovo indicatore sociale che chiama indice di felicità. 



3. A proposito del marxismo “sinizzato”


Prima di entrare nel merito di quelli che considero i contributi più innovativi della rivoluzione cinese alla teoria marxista, faccio una premessa: non credo che, come sembra pensare la maggior parte dei comunisti occidentali, anche quando guardano con simpatia all’esperimento cinese, il concetto di sinizzazione possa essere ridotto alla formuletta che recita che la teoria segue la prassi, sottintendendo che siamo di fronte a un semplice “adattamento” dei principi del marxismo a una specifica situazione concreta. Personalmente, pur se ribadisco l’idea che la Cina non possa né debba essere assunta a modello, sono convinto che la sua storia recente sia un esempio evidente della necessità di procedere, non a un banale “aggiustamento” della teoria, bensì a un vero e proprio cambio di paradigma. 


Cheng Enfu sintetizza icasticamente tale esigenza laddove afferma la necessità di prendere congedo dai due “mai” che caratterizzano il pensiero marxista tradizionale, vale a dire: una formazione sociale non perirà mai finché tutte le forze produttive che può ospitare non saranno messe in gioco;  nuovi rapporti di produzione non emergeranno mai finché le condizioni della loro esistenza materiale non matureranno nel grembo della vecchia società (10). Com’è noto questa argomentazione venne sfruttata dai teorici della II Internazionale (e in seguito anche da molti critici di sinistra, trotskisti compresi, del regime sovietico) per classificare come “prematura” la Rivoluzione del 1917, argomento reiterato dalle sinistre radicali occidentali nei confronti della Rivoluzione cinese dopo il fallimento della Rivoluzione culturale e le riforme degli anni Settanta. Questa tesi era già stata confutata da Lenin con la sua teoria dell’anello debole (11), ma il contributo radicalmente innovativo di Lenin alla teoria marxista non è mai stato digerito dai marxisti occidentali, ragion per cui costoro non sono in grado di spiegarsi perché la rivoluzione socialista ha trionfato in alcuni Paesi “arretrati” e non nei centri del capitalismo metropolitano. 


Arrighi ha rilanciato il dibattito su questo dilemma teorico nel già citato Adam Smith a Pechino, criticando la tesi secondo cui il mondo intero dovrà passare sotto le forche caudine del modo di produzione capitalistico prima di potersene liberare. Occorre prendere atto, scrive Arrighi, che l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato, e soprattutto occorre prendere atto della gigantesca novità che ci consegna la storia: un Paese di un miliardo e mezzo di persone ha saputo compiere il miracolo di ibridare: 1) una millenaria tradizione storica capace di generare una forma di ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene della comunità; 2) la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata dall’ideologia marxista-leninista; 3) un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito. Il risultato di questa novità è appunto il socialismo con caratteri cinesi. 


Vladimiro Giacché ha raccolto a sua volta la sfida partendo da una riflessione sulla svolta in politica economica imposta da Lenin nei primi anni Venti del  Novecento (11). Fino al 1919/20 Lenin era ancora convinto che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la distribuzione organizzata secondo un piano, ma negli anni immediatamente successivi prese le distanze dalla sinistra bolscevica che riteneva possibile passare al socialismo senza un periodo di transizione, un punto di vista al quale replicò sostenendo che tale fase di transizione sarebbe stata, non solo inevitabile, ma prolungata e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. Del resto, già nel 1918, aveva risposto a chi affermava che la rivoluzione bolscevica non aveva instaurato il socialismo ma una forma di capitalismo di stato affermando: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. 





Certo, commenta Giacché, se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non potevano considerarsi socialiste la Russia degli anni Venti né la Cina di Mao né, tantomeno, può considerarsi socialista la Cina di Deng e dei suoi successori. Ma ciò non toglie ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare, al pari di quanto aveva fatto Lenin, il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese. Naturalmente sia le posizioni del Lenin della NEP sia quelle dei cinesi delle riforme degli anni Settanta sono “eretiche” rispetto alla concezione del socialismo elaborata da Marx ed Engels nella seconda metà del secolo XIX (12) e “canonizzate” dalla Seconda Internazionale. Mentre Marx ed Engels consideravano il socialismo come una breve fase di transizione verso il comunismo, questa nuova visione lo rappresenta come un modo di produzione a sé stante, in cui permangono le classi e il conflitto di classe, per cui il suo approdo al comunismo – da considerare come un obiettivo strategico di lunghissimo periodo – non è un evento “destinale” bensì una possibilità la cui realizzazione dipende dall’esito dei conflitti sociali in questione (13). 


Cheng Enfu descrive i tre stadi differenti in cui dovrebbe a suo avviso articolarsi il processo di transizione: 1) uno stadio primario del sistema economico socialista che prevede la proprietà pubblica come corpo principale (con la proprietà privata come corpo ausiliario), la distribuzione orientata al mercato secondo il proprio lavoro come corpo principale (con la distribuzione secondo il capitale come corpo ausiliario) e l’economia di mercato guidata da piani nazionali; 2) uno stadio intermedio caratterizzato da diversi tipi di proprietà pubblica e diversi tipi di distribuzione dei beni secondo il lavoro e da un’economia pianificata con lo stato come corpo principale (con un mercato regolato dallo stato come corpo ausiliario); 3) infine uno stadio avanzato caratterizzato da un’unica proprietà pubblica di tutto il popolo, dalla distribuzione dei prodotti secondo il bisogno e da un’economia completamente pianificata. 


La svolta verso un’economia socialista di mercato (che corrisponde alla prima delle tre fasi appena descritte), sostiene Cheng Enfu, non è stata decisa a causa del fallimento dell’economia socialista pianificata (in particolare,  critica i colleghi che parlano solo degli errori passati e in questo modo distorcono il rapporto fra sviluppo precedente e seguente alle riforme e all’apertura, ignorando che senza le conquiste realizzate sotto la guida di Mao non sarebbero esistite le condizioni materiali per compiere questo salto evolutivo), ma si è decisa dopo avere analizzato le debolezze del modello sovietico, identificate soprattutto con le rigidità del sistema (dall’eccessiva centralizzazione delle decisioni a una distribuzione ispirata a un’applicazione eccessivamente severa del principio egualitario (14) ). Accettando l’esistenza di divari ragionevoli di reddito basati su una remunerazione basata sulla concorrenza la Cina è invece riuscita a massimizzare il potenziale umano e a ottimizzare l’allocazione delle risorse di lavoro su scala dell’intera società. 


Mao e Deng



A chi sostiene che le riforme cinesi hanno rimesso al posto di comando la legge del plusvalore e quindi lo sfruttamento della forza lavoro, replica che in un’economia socialista definita come sopra  la legge del plusvalore si incarna nella legge del plusvalore pubblico, nel senso che il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese pubbliche va allo stato o alla collettività. Ovviamente ciò non vale per il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese private, per cui l’avanzamento verso le fasi successive del processo di transizione al socialismo dovrà risolvere le contraddizioni implicite in questa forma di economia mista. A tale proposito afferma, fra le altre cose, che si dovrà porre sempre più l’attenzione sul risparmio di tempo di lavoro e sulla sua pianificazione tra i diversi settori della produzione, due fattori che rappresentano la legge economica primaria in una società di produttori associati; si dovrà inoltre rispettare la legge dello sviluppo proporzionale formulata da Marx, la quale afferma che le quantità di prodotti corrispondenti ai diversi bisogni richiedono quantità diverse e definite del lavoro sociale complessivo (nella fase attuale tale legge opera in modo imperfetto perché non si basa solo sulla pianificazione statale ma anche sulla legge del valore regolata dal mercato). Inoltre sottolinea l’irrinunciabilità di perseguire uno sviluppo che garantisca un rapporto armonioso fra uomo e natura perché, scrive, gli esseri umani nascono dalla natura, ad essa sono subordinati e da essa dipendono, per cui le risorse naturali possono essere considerate come il corpo inorganico dell'umanità (15). Dal punto di vista generale produzione e consumo coincidono, ma nella riproduzione sociale la produzione è il punto di partenza effettivo dell’intero processo e quindi è il fattore dominante, per cui è in primo luogo qui che occorre cambiare le cose per risolvere i problemi ambientali.


Concludo questo breve excursus sul marxismo sinizzato con qualche accenno al lavoro di Gabriele e Jabbour sulle caratteristiche del socialismo del secolo XXI (vedi nota 4). La categoria marxiana di modo di produzione, argomentano i due autori, è un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente esistenti, aderiscono in misura diversa. Analogamente ad Arrighi e diversamente da Marx, il quale ipotizzava che il modo di produzione capitalistico, già tendenzialmente dominante in Europa ai suoi tempi, si sarebbe esteso a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non venisse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il primato di un determinato modo di produzione nelle singole realtà storico-geografiche può essere assoluto o relativo. Ad esempio, negli Stati Uniti è indubbio che la supremazia del modo di produzione capitalistico sia assoluta, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere con rapporti reciproci di rivalità e/o di simbiosi, così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro. 


Questo pluralismo dei modi di produzione - riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove il capitalismo convive (e confligge) sia con formazioni socioeconomiche “socialist oriented” (16) che con forme produttive e relazioni sociali di tipo precapitalistico – non impedisce di ammettere che il capitalismo resti il modo di produzione dominante a livello mondiale ma, al tempo stesso, non impedisce di affermare che, laddove convive con altri modi di produzione, non si può stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo - il che vale soprattutto nei casi in cui sia in atto un processo di transizione (17). Per sintetizzare le riflessioni di Cheng Enfu e di altri autori fin qui discusse, si potrebbe concludere dicendo che la sfida del socialismo con caratteri cinesi (ma ciò vale anche per altre economie socialiste di mercato asiatiche, come Vietnam e Laos, oltre che per alcuni Paesi latinoamericani, a partire da Cuba) consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni del mercato abbastanza a lungo affinché possano maturare le condizioni di passare alla seconda e terza fase del processo di transizione.




In che misura la tradizione confuciana influisce sulla via cinese? 


C’è chi sostiene che l’atteggiamento di Mao nei confronti della cultura cinese tradizionale sia stato laico e illuminista, cioè critico se non liquidatorio. Cheng Enfu non è di questo avviso e infatti cita un’affermazione di Mao che invitava a fare un bilancio di tutto il passato della Cina, da Confucio a Sun Yat-Sen, per raccogliere quella preziosa eredità. Sempre Cheng Enfu afferma che il marxismo è un sistema culturale-ideologico che enfatizza la fede e i valori, e definisce la fede come credenza e rispetto per una certa dottrina, religione o altri principi che le persone abbracciano come proprio codice di condotta, citando quali esempi i “valori universali” occidentali, i principi neoliberali e quelli del marxismo e del comunismo (18) . 


Anche se Cheng Enfu non dedica, almeno nel libro di cui sto qui discutendo, particolare spazio al rapporto fra etica confuciana e valori del socialismo in stile cinese, è indubbio che nei documenti e nei discorsi dei dirigenti del Partito Comunista Cinese i riferimenti alla tradizione confuciana si siano infittiti dopo la svolta riformista. Non essendo un esperto conoscitore del confucianesimo, in quest’ultimo paragrafo mi limiterò a sottolineare le indubbie consonanze fra certe idee ricorrenti nei discorsi dell’attuale leadership cinese e altrettanti concetti tipici della tradizione confuciana (che ricavo da uno specialista come Maurizio Scarpari (19)). 


La figura di Confucio (Kongzi) è circonfusa da un’aura mitica, anche perché molte delle informazioni che abbiamo su di lui sono avvolte dall’incertezza dovuta alla distanza temporale. Secondo la tradizione sarebbe nato da una famiglia aristocratica e morto a 72 anni nel 479 a.c. (dunque un contemporaneo dei classici della filosofia greca). Sappiamo che apparteneva alla classe dei letterati funzionari (tenuti a coltivare le sei arti: riti, musica cerimoniale, scrittura, aritmetica, tiro con l’arco, guida della biga). Visse in un’epoca di feroci contese fra i diversi regni in cui si divideva la Cina di allora, prima di essere unificata in un unico impero e, a quanto si dice, viaggiò di corte in corte in cerca di ambienti favorevoli alla sua predicazione (se così può essere definita la trasmissione di un insieme di valori morali, più che di credenze religiose). 


Il suo pensiero, più che da fonti dirette, ci è noto attraverso i testi di alcuni suoi discepoli appartenenti alla casta dei ru (così venivano chiamati gli intellettuali confuciani), i quali, più che membri di una scuola organizzata, erano pensatori indipendenti accomunati da una cultura fondata sui valori e le tradizioni di un passato idealizzato, ma disposti a mediare e attenuare le proprie differenze nei confronti di altre scuole di pensiero, come il Taoismo e il Buddismo, ragion per cui la cultura tradizionale cinese non presenta il carattere di un blocco monolitico ma piuttosto quello di un mosaico ricco di sfumature. 


In ogni caso, con il passare del tempo e con il crescere dell’esigenza imperiale di consolidare un’ideologia di stato, si è arrivati a canonizzare i quattro libri considerati più fedeli all'insegnamento originario del maestro, dopodiché essi furono imposti (a partire dal 1190) come testi obbligatori da imparare a memoria per superare l'esame di selezione imperiale che attribuiva  il titolo di erudito e consentiva di accedere alla carriera di funzionario amministrativo statale. Ma vediamo quali caratteristiche del confucianesimo possono essere accostate ai principi e ai valori del socialismo in stile cinese (senza dimenticare che le analogie fra idee elaborate in epoche separate da millenni di storia presentano inevitabili rischi di fraintendimento).


un ritratto di Confucio



In primo luogo il concetto di armonia. Per il confucianesimo l’armonia è un fattore essenziale per il mantenimento dell’equilibrio dell’universo e di una corretta relazione uomo/natura. L’armonia confuciana è la dottrina del perfetto equilibrio e del giusto mezzo, per cui le differenze non devono dividere ma unire (il pensiero filosofico cinese mira all’integrazione più che alla contrapposizione degli opposti). Per realizzare questo ideale, basato sull’unità che connette il mondo umano con il mondo divino (concepito più come totalità dell’universo naturale che come entità trascendente), occorre condurre una vita esemplare, regolata da principi etici che riguardano sia l’ambito individuale che le gerarchie sociali. 


Evidenti tracce di questa visione sono rintracciabili nel modo in cui i marxisti cinesi (a partire dallo stesso Mao) hanno introiettato e applicato il metodo dialettico, non considerando l’antagonismo come valore assoluto, bensì come momento legato a contingenze storiche concrete, laddove il raggiungimento dell’armonia fra i diversi strati del popolo svolge il ruolo di obiettivo strategico (tipici, in tal senso, sia l’affermazione di Cheng Enfu che nella fase attuale la contraddizione principale non è quella fra classi sociali bensì quella fra la domanda popolare di benessere e l’insufficienza di mezzi per esaudirla, sia la sua esortazione a superare gli eccessi produttivistici che hanno turbato il rapporto fra uomo e natura sia, a livello più generale, i continui richiami della dirigenza comunista all’obiettivo di costruire entro la metà del secolo XXI, una “Cina armoniosa”).    


Veniamo al ruolo del saggio: l’intellettuale confuciano gode di un margine discrezionale che gli consente di interpretare i principi dettati dalla tradizione in modo elastico, adattandoli alle circostanze, ma tali capacità derivano dalla costanza e dall’impegno con i quali si sono coltivate le proprie qualità morali e intellettuali attraverso lo studio assiduo (vedi sopra quanto ricordato sui metodi di selezione dei funzionari imperiali). 


Mi pare qui evidente l’assonanza con i durissimi criteri di selezione dei quadri dirigenti del Partito e dello Stato cinesi analizzati dallo studioso canadese Daniel Bell, che da anni vive e insegna in Cina (20). Bell ricorre al concetto (che suona per noi come un ossimoro) di “meritocrazia democratica verticale” per descrivere il sistema che seleziona la leadership politica cinese. Alla proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari, seguono i non meno impegnativi esami per accedere al pubblico impiego, dopodiché è possibile assumere un ruolo ai livelli più bassi del governo, mentre ogni successivo avanzamento dipende dalla qualità delle performance realizzate (21). 


Dal tema della formazione delle élite passiamo a quello della loro legittimazione. L’imperatore regnava grazie al mandato del cielo, ma tale mandato non era un diritto acquisto, per cui se una dinastia si dimostrava inetta e corrotta il popolo aveva il diritto di rovesciarla anche con la violenza (nella storia cinese non mancano le sollevazioni contadine che hanno deposto alcune case regnanti). Del resto l’etica confuciana, mentre predica il rispetto dell’ordine gerarchico, lo associa all’obbligo del governante di garantire il benessere materiale e spirituale dei governati. Per il confucianesimo, l'autorevolezza e il carisma dell’élite – il buon governo – sono l’altra faccia della capacità di adempiere a tale obbligo e il popolo accetta l’autorità non perché gli viene imposta con la forza, ma perché determinati modelli di condotta gli vengono inculcati con l’esempio che viene dall’alto. Anche in questo caso è Daniel Bell a mettere in luce come l’attuale, massiccio (nonché ampiamente superiore a quello dei popoli occidentali) consenso dei cittadini cinesi nei confronti del proprio governo si fondi su un meccanismo del tutto simile (22).


A questo punto mi sembrano chiare le ragioni per cui non ritengo che la rivoluzione cinese possa fungere da modello per chi ancora crede nella possibilità di abbattere la società capitalista. Il marxismo sinizzato non può essere tale appunto perché è sinizzato, vale a dire perché è il prodotto irripetibile di un percorso storico millenario, nonché delle specifiche caratteristiche socioculturali ed economiche che tale percorso ha generato. 


Ciò detto occorre domandarsi: la rivoluzione russa non è stata il prodotto di un marxismo “russificato”, tanto è vero che l’eresia di Lenin (tale era rispetto ai canoni del marxismo della II Internazionale) ha modificato la teoria in misura tale da imporre di ribattezzarla con il termine marxismo-leninismo? E ancora: i movimenti rivoluzionari latinoamericani non si ispirano a un marxismo “cristianizzato” dalla teologia della liberazione (23)? E il marxismo rivoluzionario africano è meno “contaminato” da fattori socioculturali e tradizioni storiche “locali” (24)? 


Invece in Occidente siamo ancora in attesa di “traduzioni” delle astrazioni teoriche marxiane in progetti politici ritagliati sulle concrete caratteristiche delle nostre (diverse nei vari contesti  nazionali) tradizioni storico-culturali, composizioni di classe, eredità ideologiche, ecc. Per quanto riguarda l’Italia, solo Antonio Gramsci ha tentato di affrontare l'impresa prima di venire assassinato dal regime fascista, mentre la togliattiana “via italiana al socialismo” ha esaurito la propria spinta propulsiva prima di riuscire a produrre un progetto rivoluzionario concretamente praticabile. Poi è calato – non solo in Italia ma in tutta Europa - il grande silenzio, la morte di un marxismo occidentale (25) ridotto a formulette astratte. 


Note


(1) Vedi, in particolare, C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023. Vedi anche “L’enigma del miracolo cinese e la necessità di ridefinire il concetto di socialismo” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/10/lenigma-del-miracolo-cinese-e-la.html


(2) Cheng Enfu, Dialettica dell'economia cinese. L’aspirazione originale della riforma, Edizioni Marx 21, 2024.


(3) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.


(4) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London-New York 2022.


(5) V. I. Lenin, L'economia della rivoluzione,(a cura di V. Giacché), il Saggiatore, Milano 2017.


(6) Vedi, fra gli altri, G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.


(7) Il sottotitolo del libro di Cheng Enfu (L’aspirazione originale della riforma) si spiega con il fatto che larga parte del suo testo è dedicata alla confutazione delle teorie degli accademici cinesi convertiti al neoliberismo, i quali interpretano la riforma voluta da Deng come un via libera alla liquidazione della proprietà pubblica e alla liberalizzazione senza residui .


(8) Cfr. T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Seuil, Paris 2013.


(9) Sul diretto e pesante coinvolgimento dei servizi americani e di altre potenze occidentali nei fatti di Piazza Tienanmen del 1989 cfr. D. Losurdo, “Tienanmen 1989: prova generale delle rivoluzioni colorate” in AAVV, Marx in Cina, Marx 21, Bari 2015.


(10) Nel primo capitolo di Guerra e rivoluzione, op. cit., contesto a mia volta questi due pilastri del canone  marxista dogmatico, che si rafforzano a vicenda nell’accreditare l’idea secondo cui le condizioni “oggettive” della transizione al socialismo maturano all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, e coincidono con il raggiungimento di un determinato livello di sviluppo delle forze produttive.


(11) Secondo Lenin la possibilità di rovesciare il regime capitalista è legata al venir meno della capacità egemonica delle élite dominanti più che a motivi di tipo economico (crisi ecc.)


(12) Giacché ricorda che nell’Anti-Duhring Engels affermava che il socialismo, fin dalla sua prima fase, non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari.


(13) Sulla critica della visione della storia come un processo governato da necessità immanenti equiparabili alle leggi che governano il mondo naturale cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023; vedi anche C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.


(14) Rita di Leo vede nella politica salariale penalizzante nei confronti di tecnici, esperti e professionisti – politica che ha generato una profonda ostilità delle classi medie nei confronti del regime -  una delle cause che hanno determinato il crollo dell’Urss: vedi L'esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(15) Questa descrizione del rapporto dell’uomo con la natura richiama il concetto di lavoro come ricambio naturale elaborato da Marx nel I Libro del Capitale. Concetto su cui Lukacs fonda la sua riflessione sul lavoro nella Ontologia (op. cit.).


(16) Gabriele e Jabbour definiscono “socialist oriented” quelle formazioni sociali che, pur non essendo classificabili come socialiste a pieno titolo, sono credibilmente orientate a costruire una società socialista.


(17) Anche qui siamo un presenza di una visione “aperta” del processo storico (che concepisce cioè il futuro in termini di possibilità e non di necessità) in sintonia con quella di Lukacs (vedi nota 13).


(18) Nella Ontologia (op. cit.) Lukacs non descrive l’ideologia come falsa coscienza, bensì come potenza materiale, e afferma che si può parlare di ideologia allorché siamo di fronte a un sistema di principi e valori che una determinata classe dominante considera come appropriati per l’intera società (ed è in grado di far sì che anche le altre classi condividano tale credenza). Mi pare una definizione vicina a quella che Cheng Enfu usa qui per il concetto di fede.


(19) Cfr. M. Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi, Einaudi, Torino 2010.


(20) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.


(21) Secondo Bell (op. cit.), il modello meritocratico cinese consente di selezionare quadri dirigenti di qualità nettamente superiore a quella dei leader politici occidentali, i quali non passano la vita ad acquisire meriti risolvendo problemi, bensì a raccogliere consenso elettorale attraverso la comunicazione, né hanno la possibilità di sviluppare piani di lungo periodo perché i tempi della politica occidentale impongono di ragionare e agire sul breve periodo.


(22) I cittadini cinesi, sempre secondo Bell, valutano l’operato dei loro leader politici esclusivamente in termini di benefici apportati al proprio livello di vita, per cui sono poco sensibili alle sirene di una democrazia occidentale fondata su mere garanzie procedurali.


(23) Vedi quanto ho scritto in proposito in un post del 16 febbraio del 2023 su queste pagine:  “Il Marx teologo di Enrique Dussel”( https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/02/il-marx-teologo-di-enrique-dussel.html ); vedi anche E. Dussel, Le metafore teologiche di Marx,  Shibboleth, Roma 2018;  vedi infine H. Assmann, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.


(24) Sul rapporto fra marxismo rivoluzionario e culture tradizionali africane cfr. A. Cabral, Return to the source, Monthly Review Press, new York 2022 (second edition).


(25) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.