lunedì 11 novembre 2024

I POPOLI AFRICANI  CONTRO  L’IMPERIALISMO
2.  KEVIN OCHIENG  OKOTH




Il trittico africano, iniziato con le recensioni a due libri di Said Bouamama; prosegue con questo secondo post che anticipa la mia postfazione al libro Red Africa, di Kevin Ochieng Okoth che sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo 22 Ottobre. Ritroverete qui molti temi trattati nei lavori di Bouamama, come la critica dell’approccio “culturalista” (a partire dai miti della negritudine) al processo di emancipazione dei popoli post coloniali dal dominio imperiale dell’Occidente, e come il rifiuto del tentativo di liquidare il marxismo come “eurocentrico” e quindi inservibile per guidare le nazioni africane sulla via dello sviluppo autonomo. Rispetto a Bouamama, Okoth analizza più estesamente e a fondo il ruolo determinante che le lotte afroamericane hanno svolto nella formazione di uno spirito panafricanista rivoluzionario. Infine, come avrete modo di vedere, il punto di vista di Okoth appare più severo di quello di Bouamama nei confronti degli errori e delle scelte opportuniste delle élite che hanno guidato le lotte di liberazione nazionale (ma su questo tema tornerò in sede di conclusione dopo avere pubblicato la terza e ultima puntata di questo trittico, dedicata al pensiero di Cabral).      



Kevin Ochieng Okoth




Red Africa. Idee per riportare Marx in Africa



Mezzo secolo fa, una feroce controffensiva dell’imperialismo occidentale, guidata dagli Stati Uniti, stroncava la speranza dei Paesi non allineati, molti dei quali pervenuti da poco all’indipendenza, di imboccare la via dello sviluppo e della transizione al socialismo. Prima di tale sconfitta, esistevano realmente le condizioni oggettive e soggettive per liberare una gran parte dell’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento? Il libro di Kevin Ochieng Okoth tenta di rispondere al quesito, analizzando nel contempo le cause del fallimento di quel grandioso movimento. Ma soprattutto descrive il livello più avanzato – quello che nel libro viene chiamato Red Africa – che quel ciclo di lotte ha espresso sul piano politico, teorico e ideologico. Il punto di vista dell’autore non è onnicomprensivo, nel senso che non si occupa di tutte le lotte rivoluzionarie del Terzo Mondo: accenna solo episodicamente a quelle asiatiche e latinoamericane concentrandosi invece su quelle delle popolazioni africane e afroamericane (statunitensi e caraibiche) e descrivendo la nascita e il tramonto di quell’internazionalismo nero che, dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso, ha incendiato le due sponde dell’Atlantico. 


L’interesse di questo lavoro, tuttavia, non è esclusivamente, e forse nemmeno prevalentemente, di tipo storico perché esiste già – anche se poco nota in Italia – un’ampia bibliografia sugli eventi che vi sono descritti; è anche e soprattutto di tipo teorico, nella misura in cui tocca quattro temi cruciali del dibattito in ambito marxista (e più in generale antimperialista): 1) le lotte dei neri contro il colonialismo, il razzismo e l’imperialismo sono assimilabili a quelle degli altri popoli oppressi, oppure coinvolgono una dimensione specifica che può essere colta solo evocando lo statuto “ontologico” dell’essere neri (Blackness nel libro)? 2) la teoria marxista è in grado di interpretare le complesse e stratificate relazioni di oppressione e sfruttamento (economico, razziale, coloniale, ecc.) che oppongono bianchi e neri, oppure incorpora una serie di elementi eurocentrici che ne inficiano la comprensione del fenomeno?; 3) i residui di comunitarismo (o comunismo primitivo) e le tradizioni culturali precapitalistiche incorporano un potenziale anticapitalistico, oppure si tratta di formazioni sociali storicamente regressive, inutilizzabili, se non dannose, ai fini di una trasformazione in senso socialista? 4) la nascita di stati-nazione formalmente indipendenti a seguito delle lotte anticoloniali è stata una tappa ineludibile del processo di emancipazione dei Paesi del Terzo Mondo, oppure si è trattato, come sostiene Antonio Negri, del “dono avvelenato”(1) dei movimenti di liberazione nazionale, che ne ha agevolato l’integrazione nel sistema neoliberista? 


Nella prima parte riassumerò l’analisi storica dell’autore. Nella seconda entrerò nel merito dei quattro quesiti appena elencati, la cui importanza trascende a mio avviso i temi affrontati da Okoth, nel senso che aiuta a capire le ragioni del fallimento di quel marxismo occidentale che non solo non ha dato un contributo significativo alle lotte delle nazioni postcoloniali, ma soprattutto non ha saputo riconoscere che da quelle lotte è emersa una visione innovativa del marxismo che rappresenta un antidoto all’irrigidimento dogmatico che la teoria ha subito alle nostre latitudini.


1.

Nel ventennio che va dalla conferenza di Bandung (1955) alla crisi petrolifera degli anni Settanta, si gioca una partita che vede, da una parte, il fronte unito dei popoli del Terzo Mondo, molti dei quali convergono nel movimento dei Paesi non allineati e, dall’altra, il blocco occidentale, impegnato nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Okoth definisce “spirito di Bandung” il tentativo da parte dei primi di fondare la solidarietà non sulle affinità razziali e culturali, bensì sul rifiuto comune di colonialismo e imperialismo. La denominazione di “non allineati” esprime una rivendicazione di autonomia rispetto ai due contendenti della Guerra Fredda, il che non implica la rinuncia all’obiettivo di perseguire un’inedita forma di socialismo terzomondista. Si tratta di una velleità che, per quanto non egemonizzata (anche se in varia misura sostenuta e appoggiata) dal blocco sovietico, rappresenta un’intollerabile sfida agli interessi economici e politici dell’imperialismo occidentale, soprattutto a quelli degli Stati Uniti, impegnati a instaurare un vincolo neocoloniale sulle regioni del mondo che si sono appena emancipate dal dominio delle potenze europee (è il motivo per cui l’America, dopo la sconfitta francese di Dien Bien Phu, si sostituisce all’esercito francese nella guerra contro il Vietnam).


Gli Stati Uniti hanno un’ulteriore ragione di paventare le turbolenze del Terzo Mondo. Lo spirito di Bandung, che permea i leader delle lotte di liberazione nazionale nel continente africano, ha infatti contagiato i neri d’America. Leader afroamericani radicali come Malcolm X viaggiano in Africa e tornano con la convinzione della necessità di dare vita a un internazionalismo nero. Il Black Campus Movement, che investe gli atenei nel decennio ’65-’75, secerne un miscuglio di marxismo, nazionalismo e panafricanismo, mentre i Black Studies, che nascono sotto la spinta di questo ciclo di lotte, vengono concepiti come strumento per formare gli “intellettuali organici” della rivoluzione nera. La controffensiva Usa sul fronte interno è durissima sia sul piano militare che su quello culturale e ideologico. Sul primo, si è assistito a una campagna di omicidi mirati e di incarcerazioni, che ha sistematicamente smantellato le organizzazioni delle sinistre nere radicali. Per quanto riguarda il secondo, Kevin Ochieng Okoth descrive dettagliatamente il processo di “normalizzazione” dei Black Studies che vede l’espulsione/marginalizzazione dei docenti “pericolosi” e la loro sostituzione con professori neri “moderati”.


A offrire gli strumenti ideologici di questa contropropaganda provvedono, in particolare, due scuole di pensiero: l’afropessimismo 2.0 e gli Studi Decoloniali (assieme a certe correnti del pensiero postcoloniale). L’afropessimismo 2.0 (nel libro AP 2.0) viene così definito per distinguerlo dall’afropessimismo “classico” (che attribuiva i problemi delle nazioni di recente indipendenza alla cultura politica africana, inefficiente e corrotta “per natura”). I suoi guru – fra i quali Frank Wilderson e Jared Sexton – propongono un’“ontologizzazione” della Blackness, sostenendo che la violenza contro i neri non è il prodotto del supersfruttamento economico e dell’oppressione coloniale, bensì di una presunta “necessità ontologica” inscritta negli stessi fondamenti della modernità occidentale: il mondo moderno necessita della violenza contro i neri, per cui il Nero/Schiavo viene disumanizzato ed escluso a priori dall’esercizio della politica. Ne consegue che non è impegnandosi nella politica che può ottenere riconoscimento e riscatto.


Il punto di vista degli Studi Decoloniali – che hanno il loro massimo esponente in Walter Mignolo (2) – è ancora più radicale: la questione della decolonizzazione può essere affrontata e risolta solo attraverso un approccio simbolico-culturale. Accantonata la categoria marxista di sfruttamento, l’emancipazione dei neri può arrivare solo dalla riscoperta delle proprie radici identitarie e culturali; il delinking dall’economia e dalla politica metropolitane auspicato dal marxista Samir Amin (3) viene rimpiazzato dal delinking dall’episteme occidentale. Sia queste due scuole che molti esponenti degli Studi Postcoloniali liquidano le lotte di liberazione nazionale (soprattutto se ispirate dall’ideologia marxista) in quanto “stataliste”, nella misura in cui abbracciano quel concetto di stato-nazione che è tanto consustanziale alla modernità occidentale quanto alieno alle tradizioni politico-culturali africane; il marxismo è irrimediabilmente “eurocentrico” e dunque incapace di interpretare le contraddizioni specifiche della condizione coloniale. Queste posizioni non sono egemoniche solo nelle università angloamericane (e sempre più in quelle del resto del mondo occidentale), ma si diffondono anche fra gli intellettuali neri di tutto il mondo, Africa compresa, dove, come vedremo fra poco, contribuiscono a rafforzare l’egemonia delle neoborghesie postcoloniali.





La controffensiva imperialista sul fronte africano non è meno feroce che negli Stati Uniti e, sebbene negli anni Settanta la vittoria vietnamita e le rivoluzioni delle ex colonie portoghesi riuscissero a tenere alta la bandiera della via socialista alla liberazione nazionale, già a quell’epoca il grosso del lavoro per Washington e le altre potenze neocoloniali era sostanzialmente compiuto. In primo luogo, attraverso gli assassinii mirati di molti leader africani (Patrice Lumumba in Congo, Omar Blondin Diop in Senegal, Pio Gama Pinto in Kenya, Amílcar Cabral in Guinea Bissau, fra gli altri) o golpe di destra, come quello che ha rovesciato il presidente ghanese Nkrumah. Poi, con la cooptazione di buona parte delle borghesie nazionali che avevano guidato le rivoluzioni di liberazione nazionale, comprese quelle che avevano esibito la bandiera del “socialismo africano” (Senghor in Senegal, Kenyatta in Kenya, Touré in Guinea, Nyerere in Tanzania). Infine, sfruttando la crisi del debito seguita alla crisi petrolifera, che ha messo le nazioni del Terzo Mondo nelle mani del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dei loro “aiuti”, vincolati all’adozione di politiche liberiste.


Okoth attribuisce la scarsa capacità di resistenza di questi pseudosocialismi africani nei confronti dell’offensiva occidentale, oltre che alle difficoltà oggettive associate alla costruzione di nuove entità nazionali, alla debolezza ideologica dei rispettivi leader. Occupandosi in particolare di Senghor, ne mette in luce lo stretto rapporto con il concetto di Negritudine. Questo movimento politico-culturale ha avuto il merito – soprattutto grazie a Aimée Césaire (4) – di esaltare la bellezza, lo spirito e le forme dell’arte e della cultura africane, favorendo nel contempo lo sviluppo di un sentimento di orgoglio antirazzista nelle popolazioni di colore. Senghor lo ha però sfruttato per alimentare il mito dell’originarietà del comunitarismo africano come fondamento di una via alternativa al socialismo. In particolare, rovesciando la prospettiva di Althusser (5), Senghor ha contrapposto il Marx “umanista” delle origini al Marx “scientista” della maturità, sostenendo che il primo era più funzionale al progetto di un socialismo con caratteristiche africane.


Dal canto loro, leader come Kenyatta, Touré e Nyerere hanno formulato progetti ancora più drastici di “africanizzazione” del socialismo, respingendo in toto il marxismo in quanto ideologia eurocentrica (in sintonia con le posizioni dell’AP 2.0 e degli Studi Decoloniali, richiamate poco sopra). Okoth liquida questo approccio accusandolo senza mezzi termini di essere una mascheratura ideologica delle borghesie nazionali per giustificare la propria resa agli interessi imperialisti occidentali, come dimostra il fatto che tutti questi regimi hanno represso le opposizioni di sinistra.


Del tutto diverso il giudizio di Okoth sulle lotte di liberazione delle ex colonie portoghesi (Guinea Bissau, Capoverde, Angola e Mozambico). Questi movimenti (Red Africa nel libro) si sono sviluppati in un contesto del tutto particolare e diverso da quello di altri Paesi africani: a partire da una composizione di classe che vedeva la presenza di masse di coloni bianchi poveri emigrati dalla madrepatria in cerca di lavoro, nonché di una piccola borghesia nera progressista che, pur avendo subito un processo di assimilazione, nutriva sentimenti patriottici; nonché dalle condizioni favorevoli create dalla Rivoluzione dei Garofani, che ha rovesciato il regime fascista di Salazar nel 1974. Ma soprattutto si tratta di movimenti che hanno optato per una visione marxista del processo rivoluzionario (con diverse sfumature: mentre la base contadina e studentesca subiva l’influenza cinese, le élite dirigenti sono rimaste perlopiù filo-russe, anche se non dogmaticamente marxiste-leniniste). In particolare, Okoth esalta la concezione del processo rivoluzionario sviluppata da Amílcar Cabral, una visione che, sempre secondo Okoth, ha favorito la sperimentazione, nelle zone liberate nel corso della guerra anticoloniale, di forme avanzate di democrazia diretta e partecipativa. Un esperimento che la concentrazione nelle mani dello stato-partito avrebbe poi liquidato. Ma di questo parlerò nella prossima parte.


2.


Riparto dai quattro temi teorici elencati nell’introduzione.


1) Sulla Blackness.

Con la sua approfondita critica del concetto “monolitico” di Blackness, Okoth offre un importante contributo alla comprensione degli effetti politico-culturali della “svolta linguistica” nelle scienze sociali, smascherandone la natura funzionale al progetto di spoliticizzazione del conflitto di classe in generale e del conflitto fra popoli del Terzo Mondo e centri metropolitani in particolare, nonché la negazione dell’intimo rapporto fra lotta di classe e lotta antirazzista. L’AP 2.0 e gli Studi Decoloniali, da un lato, “ontologizzano” la condizione dei neri evocando  la figura del Nero/Schiavo, che, oltre a essere un prodotto necessario della modernità in quanto tale – e non delle esigenze dell’accumulazione primitiva del capitale –, diviene così qualcosa di assolutamente diverso dagli altri soggetti razzializzati dall’oppressione coloniale; dall’altro lato, spostano il progetto dell’emancipazione dal terreno della critica dell’economia politica a quello della decolonizzazione dei linguaggi e dei saperi.


Questa operazione è non a caso un prodotto del milieu accademico anglosassone, e di una casta intellettuale priva di rapporti con i soggetti di lotta. Per smontarla, Okoth dimostra come tale approccio sia frutto di una visione che si concentra sull’esperienza afroamericana negli Stati Uniti, ignorando sia l’esistenza di differenti forme di schiavismo in America Latina, Africa e mondo islamico, sia la pluralità delle tipologie di relazione fra razzismo e sfruttamento capitalistico – una pluralità che rispecchia le differenti forme che l’oppressione imperialista assume in diversi contesti regionali. Stabilito che la Blackness, in quanto categoria ontologica, è un mero costrutto accademico, Okoth dedica un intero capitolo del libro a respingere il maldestro tentativo di arruolare il giovane Fanon di Pelle nera, maschere bianche (ETS, Roma 2015) nel campo dei teorici delle radici esclusivamente psichiche e identitarie del conflitto razziale, opponendolo al Fanon antimperialista e anticapitalista de I dannati della terra (Einaudi, Torino 2007).


2) A proposito dell’eurocentrismo marxista.


Che nel pensiero di Marx ed Engels, e più in generale nella tradizione del marxismo occidentale (in assai minor misura in Lenin, che tuttavia non può essere agevolmente inquadrato in tale tradizione), esistano elementi di eurocentrismo è un dato di fatto innegabile, come è stato ampiamente argomentato, fra gli altri, da Hosea Jaffe (6). Del resto ciò appare inevitabile ove si considerino il periodo storico e il contesto geografico in cui si è svolto il lavoro teorico dei padri fondatori del comunismo, così come è certificato dal persistere di tracce di progressismo illuminista, evoluzionismo e positivismo nella loro opera (vedasi la sopravvalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive, la visione teleologica del processo storico, ecc.) (7). Che tali elementi inficino la capacità del marxismo di offrire un contributo decisivo all’analisi delle lotte per l’emancipazione dei popoli coloniali, come sostenuto dagli autori criticati da Okoth, è tutt’altra storia.





Okoth si avvale di un’ampia bibliografia per dimostrare come Marx abbia descritto, sia pure in modo non sistematico, il peso strategico del lavoro non retribuito nell’accumulazione del capitale, oltre ad analizzare la relazione fra accumulazione primitiva, razzismo e schiavismo, nonché la persistenza di forme di sfruttamento precapitalistiche come fenomeni permanenti e strutturali del modo di produzione e non come meri residui. Ma soprattutto valorizza la svolta dell’ultimo Marx (8), riferendosi alla famosa lettera a Vera Zasulic  (9) e al suo confronto critico con i populisti russi in merito alla possibilità che le comunità contadine russe fossero in grado di approdare al socialismo senza passare dalla fase capitalistica. L’approccio di Okoth, per inciso, è condiviso da diversi marxisti latinoamericani, come il peruviano Carlos Mariategui (10) e il boliviano Álvaro Linera (11). Ignoro se Okoth conosca questi contributi, quel che è certo è che considera il pensiero di Amílcar Cabral come la punta più avanzata della corrente di pensiero che chiama Red Africa, e Cabral ha espresso posizioni analoghe a quelle appena richiamate attribuendo alla “classe nazione” il ruolo di protagonista della prima fase della rivoluzione anticoloniale; fase alla quale, per transitare verso il socialismo, dovrebbero seguire una seconda fase, in cui emergono le differenze di classe nella società postcoloniale, e una terza fase, caratterizzata dal suicidio delle avanguardie piccolo borghesi in quanto classe come preludio alla rivoluzione sociale. In un passaggio illuminante del libro che avete appena letto, leggiamo che il vero problema non è cosa può fare il marxismo per queste rivoluzioni, bensì cosa possono fare queste rivoluzioni per il marxismo. Concordo pienamente, nel senso che molte rivoluzioni del Terzo Mondo, in Asia (Cina e Vietnam), in Africa (Guinea, Angola e Mozambico), in America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia), hanno stimolato profonde rielaborazioni della teoria marxista che oggi rappresentano, rispetto all’esausto marxismo occidentale, strumenti assai più affilati per una rivoluzione anticapitalista mondiale.


3) Culture tradizionali e transizione socialista


Certe forme di comunitarismo primitivo vanno considerate come meri residui precapitalistici, oppure possono esprimere (vedi punto precedente) un potenziale anticapitalista? Su questo problema la posizione di Okoth non è del tutto chiara. Da un lato, laddove critica i “socialismi” africani che rifiutano l’eurocentrismo marxista e assumono i valori e le pratiche solidali delle formazioni sociali precoloniali come base di una via alternativa al socialismo, sembra propendere per la prima alternativa, citando gli autori che rifiutano come regressive le infatuazioni “nostalgiche” e primitiviste. Dall’altro, non può non prendere atto che anche le ideologie dei movimenti che chiama Red Africa integrano in qualche misura il marxismo con le culture tradizionali dei Paesi in cui operano (pena il distacco fra élite culturalizzate e masse popolari). In poche parole, come conferma il fatto che nel libro mancano riferimenti ai marxismi latinoamericani citati poco sopra (né, tanto meno, al socialismo “con caratteri cinesi”), si ha la sensazione che Okoth fatichi a discostarsi dal modello “canonico” di socialismo e comunismo formulato da Marx ed Engels a fine ’800. Ciò detto, la vera questione che sta dietro a tutto ciò è squisitamente filosofica: il valore universale di un’esperienza rivoluzionaria si misura in relazione alla sua approssimazione a un qualche dogma teorico, oppure anche, se non soprattutto, in relazione ai suoi risultati pratici? E più in generale: esiste un criterio universale di giudizio che non sia il prodotto “locale” della razionalità occidentale? Tuttavia, non è ovviamente questa la sede per affrontare un interrogativo così impegnativo.


4) Stato-nazione e rivoluzione anticoloniale


Anche sulla questione dello stato-nazione la posizione di Okoth non è scevra di ambiguità. Da un lato, polemizza con le correnti dell’anarchismo nero che esaltano l’esperienza dei maroons (gli schiavi fuggiaschi caraibici) che fondavano comunità autosufficienti e autogestite, senza stato, e afferma a più riprese che l’aspirazione all’autodeterminazione dei popoli coloniali è necessariamente associata alla costruzione di stati-nazione, l’unico strumento che possa consentire loro di affermare la propria identità e i propri interessi in un mondo fatto di stati-nazione. Dall’altro, però, cita anche la boutade di Negri secondo cui lo stato-nazione è il “dono avvelenato” delle rivoluzioni anticoloniali (12) e, mentre esalta le forme di democrazia diretta sperimentate nelle zone liberate durante le guerre di liberazione delle ex colonie portoghesi, sembra attribuire la loro successiva sparizione all’affermarsi di un potere centrale monopolizzato da stati-partito modellati sull’esperienza dei socialismi reali. Questa concessione allo Zeitgeist postmoderno delle sinistre occidentali è in sintonia con la parte finale del settimo capitolo, laddove Okoth esalta Andrée Blouin, la femminista nera che sostiene che, se avessero comandato le donne, la rivoluzione anticoloniale avrebbe avuto tutt’altro esito(13).


Personalmente ritengo tuttora valida l’idea, formulata un secolo fa da Lenin, che il principio di autodeterminazione e la lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli coloniali (oggi post-) siano stati e siano tuttora parte integrante della rivoluzione antimperialista e anticapitalista mondiale, e che la costruzione di stati-nazione, pur con tutte le contraddizioni associate a tale processo, sia stata e resti tuttora una tappa fondamentale dell’emancipazione dei popoli e delle classi sfruttate ed oppresse. Ciò appare più che mai valido nell’attuale contesto storico, caratterizzato dalla crisi del processo di globalizzazione guidato dall’imperialismo Usa, in cui molte nazioni postcoloniali lottano per sottrarsi al dominio economico, politico e culturale che l’occidente è riuscito a ristabilire su questi popoli dopo il raggiungimento dell’indipendenza formale – una lotta che potrà avere successo solo assumendo caratteri anticapitalistici. Concludo dicendo che il libro di Okoth, malgrado alcuni limiti che ho cercato di mettere in luce in quest’ultima parte, è senza dubbio un importante contributo alla comprensione delle lotte di classe in Africa, e più in generale nei Paesi del Terzo Mondo: un’impresa strategica che le sinistre postmoderne hanno abbandonato da tempo.


Note
(1) Cfr. M. Hardt, A.Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001.
(2) Cfr. W. Mignolo, C. Walsh, Decolonialità. Concetti, analisi, prassi, Castelvecchi, Roma 2024.
(3) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.
(4) Anche se Okoth rimprovera all’autore del Discorso sul colonialismo il fatto di non essersi mai veramente emancipato dall’egemonia culturale francese, tanto da appoggiare lo status di dipartimento d’oltremare della Martinica, gli riconosce il merito di avere formulato una delle più dure e coerenti denunce del razzismo, arrivando ad assimilare i crimini del nazismo a quelli delle liberaldemocrazie occidentali. Ciò che il borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo rimprovera a Hitler “non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”. Cfr. A. Césaire, Discorso sul colonialismo, onbre corte, Verona 2020, p. 57.
(5) Cfr. L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.
(6) Cfr. H. Jaffe, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995. Chi scrive si è occupato del tema dell’eurocentrismo in Marx ed Engels nell’articolo L’eurocentrismo “funzionale” di Marx ed Engels sul blog ”Per un socialismo del secolo XXI” (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html).
(7) Troviamo una delle più accurate analisi di queste tracce della cultura borghese ottocentesca nel corpus delle opere marxiane in C. Preve, La filosofia imperfetta, FrancoAngeli, Milano 1984. Ne ho a mia volta discusso nel primo capitolo, La cassetta degli attrezzi, del primo volume del mio ultimo libro, Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023. 
(8) Cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009.
(9) Cfr. K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960.
(10) Cfr. J.C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.
(11) Cfr. A.G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.
(12) Si veda nota 1.
(13) Messa fra parentesi questa tesi ideologica indimostrabile, confesso di essere rimasto irritato dal fatto che la Blouin critica ferocemente Lumumba per essersi arreso ai propri carnefici perché ricattato dal fatto che la sua famiglia era nelle loro mani. Secondo Blouin ha così dimostrato di anteporre i propri sentimenti alla causa rivoluzionaria, cosa che lei, scrive, si sarebbe invece sempre rifiutata di fare. Ammesso che questa rivendicazione sia fondata, ciò dimostrerebbe solo che, per essere veramente rivoluzionaria, una donna dovrebbe allinearsi ai valori di un eroismo guerriero di stampo prettamente maschile, un punto di vista che non credo molte femministe sarebbero disposte a condividere.