mercoledì 3 settembre 2025

FUREDI: SACROSANTA CRITICA DEL POLITICAMENTE CORRETTO O APOLOGIA DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE?



Riprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.


* * *


Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore). 


Il titolo mi era parso curioso: bizzarra l’idea di fare guerra a qualcosa che non esiste, se non in forma immateriale, in quanto è, appunto, passato...Ciò detto, mi aveva rassicurato il sottotitolo che spiega la metafora e, soprattutto, sembra suggerire che io e l’autore abbiamo un nemico comune (il politicamente corretto). Poi mi sono  ricordato che quattro anni fa avevo pubblicato su questa pagina un articolo contro la cultura politicamente corretta, che definivo autoritaria e violenta, nel quale partivo da due libri (entrambi usciti da Meltemi) : Politicamente corretto, di Jonathan Friedman e I confini contano, dello stesso Frank Furedi.


In quel lavoro Furedi criticava l’ideologia cosmopolita celebrata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, nella quale vedeva, giustamente, un atteggiamento elitista e aristocratico nei confronti delle masse popolari che possono trovare rappresentanza ai propri interessi solo nella cornice istituzionale dello stato-nazione. Pur condividendo tale critica, osservavo che Furedi diceva poco o nulla sulle radici di classe e sugli interessi materiali associati all’ideologia cosmopolita. Di più: asseriva di non credere alla possibilità di risalire alle cause “oggettive” che alimentano determinate ideologie, che a suo avviso sarebbero dotate di un’autonoma dinamica evolutiva. 


Leggendo l‘Introduzione di Andrea Zhok a questo nuovo saggio, mi sono illuso che Furedi potesse avere superato tale punto di vista, palesemente idealista. Soprattutto perché, in alcuni passaggi, Zhok sottolinea la convergenza fra un liberalismo di destra che concepisce il progresso esclusivamente in termini di crescita economica, e un liberalismo di sinistra che celebra la necessità di emancipare l’individuo da tutti i vincoli culturali tradizionali (ottimo viatico per scatenare gli “spiriti animali” del capitalismo...). Vuoi vedere, mi sono detto, che Furedi ha capito che liberalismo di sinistra e di destra incarnano gli stessi interessi di classe? Purtroppo, dopo avere letto con attenzione, e con irritazione crescente, le trecento pagine del libro, confesso di non avere trovato traccia alcuna di tale ravvedimento metodologico. Al contrario, mi è parso, come cercherò di dimostrare, che la posizione di Furedi si sia fatta ancora più idealista, nonché connotata in senso reazionario, piuttosto che conservatore nel significato positivo che ritengo possibile attribuire al termine. 


***


Uno spot pubblicitario che girava qualche anno fa in tv fa mostrava una serie di scene in cui il protagonista si impegnava in un gioco competitivo contro un avversario palesemente più debole (per esempio un adulto che giocava a calcio contro un bimbo di tre anni), la scena era accompagnata da una voce in sottofondo che recitava “ti piace vincere facile?”. Dopodiché seguiva il messaggio sul prodotto (che non ricordo quale fosse, il che dimostra che, a volte, la pubblicità fallisce il bersaglio perché la narrazione che usa è così divertente da eclissare l’immagine del marchio che vuole promuovere). 


Evidentemente anche a Furedi piace vincere facile. Per centinaia di pagine sciorina infatti gli esempi più assurdi, paradossali (al limite, e spesso al di là, del demenziale) della cancel culture e del linguaggio politicamente corretto. Azioni e comportamenti di personaggi e culture di epoche distanti secoli, o addirittura millenni, dalla nostra che vengono anacronisticamente denunciati come lesivi della sensibilità (o addirittura dell’equilibrio emotivo) di questa o quella minoranza: il razzismo di Aristotele, il sessismo di Shakespeare, il machismo di Giulio Cesare e via delirando. Sedicenti storici e antropologi che esibiscono la “prova” che la maggioranza degli uomini del paleolitico erano trans. Contorti equilibrismi linguistici per sostituire parole come padre e madre, marito e moglie, portatori di handicap vari. Totalitarismo linguistico: le parole bandite dal vocabolario politicamente corretto non sono solo motivo di biasimo sociale, attivatori di censura e di quella che una sociologa tedesca ha definito la spirale del silenzio (1) (evito di usare certi termini in pubblico perché temo di espormi a giudizi negativi), possono essere addirittura essere causa di licenziamento e/o di sanzioni economiche. Giovanilismo (le idee di chi ha superato una certa età sono prive di valore). 


Più interessanti alcune osservazioni storico-geografiche in merito alle radici del fenomeno. In particolare: il contributo che il futurismo italiano (e il fascismo!) ha dato all’ideologia giovanilista nella prima metà del Novecento; lo slogan “il personale è politico” lanciato dal movimento femminista alla fine degli anni Sessanta come modello di “politicizzazione dell’identità” replicato da tutti i movimenti che hanno avuto come protagoniste una serie di minoranze sociali – gay, trans, lesbiche, queer, ecc.- decise a imporre i propri principi, valori, regole di comportamento e codici linguistici all’intera società; il ruolo fondamentale giocato dai movimenti progressisti e dall'ambiente accademico angloamericani nel diffondere la cancel culture e il politicamente corretto nel resto del mondo occidentale. 


Molto bene. Ma quali le cause storiche, economiche, politiche e sociali del fenomeno? Furedi non dice pressoché nulla in merito. Prima, quando accennavo al suo approccio idealista all’argomento, intendevo esattamente questo: il nostro sembra convinto che tutti i fenomeni in questione sono l’esito di un’evoluzione spontanea del mondo delle idee, mutazioni ideologiche le cui cause affondano nella psicologia individuale e di gruppo, né hanno la minima relazione con la dimensione degli interessi e dei conflitti socioeconomici, con la lotta fra classi sociali e/o fra nazioni dominanti e nazioni dominate. Ciò sarebbe ancora il meno, nel senso che a Furedi si potrebbe imputare solo l’incapacità di spingere l’analisi al di sotto della superficie dei fenomeni. Il guaio è che il nostro inquadra il suo discorso in una cornice ideologica che non so definire altrimenti che reazionaria.


* * *

Parto da una battuta allucinante che ho pescato fra altre perle: “la destra ha vinto la guerra economica, la sinistra ha vinto la guerra culturale” (!!!???). Che la destra abbia vinto la guerra economica non vi sono dubbi, ma in che senso la sinistra avrebbe vinto la guerra culturale, almeno che con ciò Furedi non si riferisca al leitmotiv delle destre neofasciste italiane che da anni denunciano la “dittatura” della cultura di sinistra che, secondo costoro, dominerebbe le redazioni di tv e giornali (peccato che siano ridotte a portavoce della Nato…), le case editrici (tutte in mano a noti sovversivi…), le università (dove Marx è sparito dai programmi d’esame), ecc. 


A parte le battute, ciò che Furedi ignora, o finge di ignorare, è che le guerre di cui parla non sono due bensì una, che non è stata vinta né dalla destra né dalla sinistra, bensì dal capitale. È il neoliberismo (che è in primo luogo una prassi socioeconomica e solo secondariamente l’ideologia che la legittima) che da decenni trionfa e domina la scena occidentale, tagliando posti di lavoro, salari e welfare e allargando a dismisura il divario fra super ricchi e classi lavoratrici. Ed è il liberalismo “di sinistra” che “vince” le futili battaglie del politicamente corretto, mentre ritaglia privilegi per le classi “creative” che dominano i tradizionali partiti di sinistra, i quali hanno tradito gli interessi delle masse popolari e raccolgono i voti dei ceti medio alti che abitano i centri storici delle metropoli gentrificate. 


La guerra è dunque una sola, come hanno capito Boltanski e Chiapello (2), i quali spiegano come gli strati sociali protagonisti del 68, e le successive sinistre “identitarie”, abbiano accantonato gli obiettivi per cui lottavano mezzo secolo fa, rimpiazzandoli con le demenziali “battaglie” descritte da Furedi. Battaglie che non scalfiscono minimamente gli interessi delle élite dominanti, tanto che, non a caso e come lo stesso Furedi scrive, queste sono le prime a promuovere la cancel culture sia nelle imprese che nelle istituzioni. Perciò, quando scrive che il “presentismo” (come chiama l'atteggiamento che svaluta i valori tradizionali) prescinde dalla divisioni ideologiche e partitiche, Furedi ha perfettamente ragione, ma non nel senso che dice lui, bensì nel senso che è l’ideologia comune alle élite dominanti e agli strati sociali che ne condividono gli interessi, mentre si oppongono agli interessi di quelli che stanno “sotto” (che non a caso si rivolgono ai populismi di destra). 


Veniamo al vero bersaglio polemico di Furedi. Il suo cruccio non nasce dal fatto che i guerriglieri della cancel culture criticano alcuni aspetti dell’Occidente, bensì che costoro, a suo avviso, ne attaccano l’intera eredità culturale, che il loro bersaglio è l’Occidente stesso. Magari, mi viene da dire. Se ciò fosse vero non lotterebbero per cambiare qualche voce del vocabolario, per censurare a posteriori i testi di Aristotele, Shakespeare e Kant o per buttare giù qualche statua, lotterebbero contro la politica guerrafondaia della Nato e della Ue, contro il supersfruttamento dei lavoratori, contro la censura che imperversa nei media occidentali. C’è chi, qualche anno fa, nel Paese dove Furedi insegna, ha provato a rivitalizzare un progetto di trasformazione socialista della Gran Bretagna. Si Chiamava Corbyn ed era miracolosamente riuscito a diventare segretario di un Partito Laburista che, con Tony Blair, si era macchiato di complicità con l’oscena aggressione imperialista al popolo iracheno. Ma Corbyn è stato prontamente rovesciato anche grazie alle accuse di “antisemitismo”. 


Il tema è interessante, perché Furedi rivolge alle minoranze identitarie che promuovono la cancel culture l’accusa di “vittimismo” (non posso ascoltare certo discorsi perché mi “danneggiano”, affondano il ferro nella piaga della mia storia di esclusione e marginalità sociale). C’è però un caso in cui, per Furedi, il vittimismo alimentato dalle persecuzioni subite in passato non è solo giustificato, ma giustifica a priori tutti i crimini che la vittima può impunemente commettere al giorno d’oggi. Mi riferisco, ovviamente, alla politica colonialista, razzista e genocida del governo fascistoide di Netanyahu nei confronti del popolo palestinese. Furedi si scaglia contro l’attrice Susan Sarandon e altri artisti, rei di avere manifestato “comprensione”nei confronti delle motivazioni di Hamas. 


Per inciso, Furedi critica l’atteggiamento di chi condanna gli storici che manifestano comprensione nei confronti dei pregiudizi razzisti o sessisti di certi grandi del passato, perché ciò significherebbe giustificarli, dopodiché si comporta esattamente nello stesso modo (tipico caso di doppia morale). Non solo: ha un atteggiamento negazionista nei confronti dei genocidi perpetrati dal colonialismo occidentale nei confronti dei popoli amerindi, africani, australiani e asiatici, perché la Shoah detiene il diritto esclusivo (il copyright) di essere definito genocidio (3). Non a caso, mentre si indigna (giustamente) sul massacro commesso da Hamas, non spende una parola sulle decine di migliaia di palestinesi, in gran parte bambini, massacrati dall’esercito israeliano. Se i neri sudafricani e americani abbattono la statua di Rhodes è vittimismo (forse pensa che anche gli assassinii dei neri da parte della polizia statunitense, sistematicamente impuniti, e la memoria storica degli orrori dell’Apartheid siano vittimismo). 


E ancora: l’imperialismo britannico, ammette,  ha qualche crimine sulla coscienza (6), ma ciò non giustifica chi equipara tali crimini a quelli del Terzo Reich, né chi cerca di sminuire la figura storica di Churchill, che era sì un feroce reazionario (l’aggettivo ce l’ho messo io), ma non si possono dimenticare “la sua leadership carismatica e le sue gesta encomiabili”. Mi fermo qui, mentre, nell’ultima parte di questo articolo, lascerò ad alcune anticipazioni dei temi dei due libri cui accennavo sopra il compito di spiegare perché considero questo libro di Furedi uno dei più reazionari manifesti filo occidentali che mi sia capitato di leggere.


* * *


Scrive Furedi: “i filosofi occidentali avevano pregiudizi tipici del loro tempo ma hanno sviluppato una mentalità universalistica”. Il nodo problematico da cui partono i due volumi di “Oltre l’Occidente” è esattamente questo: entrambi critichiamo l’universalismo occidentale, sia nella sua veste di universalizzazione del modo di produzione capitalistico, sia nella sua veste di universalizzazione della democrazia e dei diritti dell’uomo, descrivendone la natura di macchina da guerra che ha provato, fallendo allorché pensava di essere vicina all'obiettivo, di sottomettere l’intero pianeta ai propri valori, principi e regole. Entrambi celebriamo il tramonto di tale progetto, sia pure da punti di vista diversi (Visalli dedica ampio spazio alle teorie postcoloniali e decoloniali, tema che io tratto solo in un capitolo della Terza Parte e nell’Appendice sulle sinistre postmoderne; Visalli mette la tecnologia al centro del proprio lavoro, mentre io dedico particolare attenzione alle lotte di liberazione nazionale in Africa e all’ideologia panafricanista). Infine entrambi ci occupiamo della sfida cinese all’egemonia occidentale. 


Vengo ora al paragone, che scandalizza Furedi, fra colonialismo e nazismo. Lascio la parola a un autore che scriveva in tempi non contaminati dalla cancel culture, Aimée Césaire:“Varrebbe la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa” (4). Del resto, è arcinota l’ammirazione di Hitler per i metodi del colonialismo inglese (“nessun popolo, scrive il Furher in Mein Kampf, ha saputo preparare le sue conquiste economiche meglio che con la precisa brutalità della spada, né le ha sapute difendere con più spregiudicatezza degli inglesi”).


Si è tentato di liquidare il nazismo come un “unicum” storico che nulla ha a che fare con le liberal democrazie euroatlantiche, le quali pensano di essersi ripulite di ogni colpa celebrando il processo-farsa di Norimberga (nel quale si è taciuto sulla nuclearizzazione di Hiroshima e Nagasaki e sui bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, due infamie perpetrate malgrado la guerra fosse ormai alla fine). Sempre Césaire ricorda che i milioni di neri, arabi, indiani, amerindi, cinesi, vietnamiti, irlandesi, ecc. massacrati dalle potenze colonialiste occidentali, superano di decine di volte le vittime della Shoah, e che i metodi usati dagli imperialismi occidentali per stroncare la resistenza di altri popoli, non hanno nulla da invidiare a quelli praticati nei lager del Terzo Reich (5). La vera differenza è la ipocrisia, il ricorso a giustificazioni “ideali” al posto delle brutali rivendicazioni di dominio naziste. Infine, a proposito della celebrazione che Furedi dedica all’eroismo di Winston Churchill, lo invito a leggere con attenzione il profilo biografico che ne traccia Caroline Elkins (6): un feroce reazionario che simpatizzò per il nazismo (al pari del Duca di Windsor, di Henry Ford e di molti industriali e politici angloamericani) finché sperò di poterlo usare contro l’URSS; che rivendicò i lager per i prigionieri afrikaner durante la guerra boera; che giustificò i crimini britannici in India; che teorizzò il terrorismo aereo praticato durante nella guerra coloniale irachena (poi adottato dagli Usa in Vietnam e da Israele a Gaza), che fu complice della spietata repressione della resistenza irlandese, ecc. Insomma: un Goehring britannico con sigari e bombetta.


Chiudo con un ultima riflessione che traggo dalla Seconda Parte del libro che ho appena finito di scrivere, nella quale mi occupo di storici di lungo periodo come Braudel, Pomeranz e Arrighi. Il passato in quanto entità ideale omogenea cui sembra riferirsi Furedi - il quale in realtà ha in testa il mito della civiltà occidentale e delle sue presunte radici greco-romane ed ebraico-cristiane (7) – non esiste. O meglio, non esiste un unico passato storico, esistono molti passati, flussi temporali intrecciati, paralleli e mai unitari, se non come tempo astronomico. Segnati da conflitti e contraddizioni, caratterizzati da processi che durano nei secoli, come da rotture e discontinuità. Contro alcuni di questi passati, checché ne dica Furedi, è giusto scendere in guerra, perché pesano come macigni sulla nostra capacità di immaginare un mondo alternativo, mentre altri meritano di essere esaltati perché contengono i germi di una emancipazione possibile. Ciò detto, Furedi continui pure a celebrare la gloria dell’Union Jack, io di quel vessillo amo un solo colore. Il rosso.  


Note


1) Cfr. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017.


2) L. Boltanski, L. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


3) Sui genocidi coloniali cfr. L. Pegoraro, I dannati della terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Meltemi, Milano 2019. Per una critica della "religione olocaustica" cfr. C. Preve, Opere, vol. II, Schibboleth, Roma 2022, pp. 105 e segg.


4) A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020, p. 57.


5) Ibidem


6) Cfr. C. Elkins, Un'eredità di violenza. Una storia dell'imperialismo britannico, Einaudi, Torino 2024.


7) Sulla costruzione del mito delle radici greche ed ebraico-cristiane della civiltà occidentale cfr. C. Preve, op. cit.; vedi anche Samir Amin, Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2008.  



mercoledì 25 giugno 2025

 ERRATA CORRIGE

IL NOME DI LORETTA NAPOLEONI, AUTRICE DI "TECNOCAPITALISMO", IL LIBRO CHE HO RECENSITO NELL'ULTIMO POST ASSIEME A "RIBELLATEVI" DI JEAN LUC MELENCHON, E CHE NEL TITOLETTO INTERNO ERA INDICATO CORRETTAMENTE, NEL CORPO DELL'ARTICOLO E' DIVENTATO NICOLETTA, UN REFUSO CHE SI E' PURTROPPO RIPETUTO  IN TUTTO L'ARTICOLO. RINGRAZIO L'AMICO CHE ME LO HA SEGNALATO E  MI SCUSO VIVAMENTE CON L'AUTRICE PER L'ERRORE (ESSENDO STATO A MIA VOLTA VITTIMA DI SIMILI INFORTUNI EDITORIALI SO QUANTO SIANO IRRITANTI).  

Carlo Formenti


martedì 24 giugno 2025

UTOPIE LETALI 2



Quasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per  strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive). 


Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.


I soggetti politici e culturali che criticavo in Utopie letali hanno imparato qualcosa dalle sconfitte subite nell'ultimo decennio? La loro connivenza di fatto – salvo sporadici pigolii pacifisti – nei confronti della propaganda anti russa, anti cinese e anti islamica (e anticomunista! Vedi l’ignobile delibera del Parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo) con cui l’Occidente collettivo prepara la nuova guerra mondiale; e la loro ottusa riproposizione delle tesi e delle analisi di cui sopra, benché smentite dai fatti, non alimentano speranze. I due libri che discuto in questo post: Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene comune, di Loretta Napoleoni, e Ribellatevi! La rivoluzione nel XXI secolo, di Jean-Luc Mélenchon (appena usciti per i tipi di Meltemi) concorrono ad alimentare il mio pessimismo.



Loretta Napoleoni: sedotta dai miti tecnolibertari, delusa dalla realtà anarco-capitalista. 


A colpire, nella narrazione di Loretta Napoleoni, è la paradossale alternanza fra, da un lato la celebrazione della potenza liberatoria ed emancipatrice che le tecnologie digitali sarebbero in grado di regalare agli individui, alla società, alla specie umana in generale e all’ambiente naturale in cui viviamo, dall’altro lato il riconoscimento che le aspettative suscitate dalle nuove tecnologie non sono andate solo deluse, ma si sono rovesciate in altrettanti incubi. Un esito negativo che Napoleoni ascrive alla malignità di un pugno di tecnocapitalisti, ignorando il fatto che esso era inscritto nella natura stessa delle tecnologie in questione o, per meglio dire, in quella dei rapporti economici, sociali e politici che le hanno prodotte.


L’autrice inaugura il catalogo degli eroi della guerra contro l’autoritarismo dei poteri costituiti (economici, politici e sociali) con il gruppo di matematici, hacker , attivisti, fan di fantascienza che, nato alla fine degli anni 90 a San Francisco, si auto definiva cypherpunk (una crasi fra la cultura cyberpunk che imperversava in quegli anni (1) e la parola cypher, che allude alle tecnologie crittografiche). L’obiettivo fondamentale di questo movimento “libertarian”, scrive l’autrice, era scongiurare il probabile uso liberticida delle nuove tecnologie da parte dello Stato (non da parte delle imprese, le quali si sono rivelate ben più abili dello Stato nell’opprimere e sfruttare lavoratori, cittadini e utenti - ma si sa: per i libertarian la libertà economica è sacra quanto se non più di quella individuale). 


Non a caso i tecnocapitalisti, come la Napoleoni chiama i magnati della cyber economy, sono stati fulminei nell’applicare la lezione dei profeti del digitale: la lentezza con cui il diritto reagisce alle innovazioni genera un’area grigia che chiunque può sfruttare ai propri fini, leciti e illeciti. Quest’area ha partorito colui che l’autrice considera un altro “eroe”della battaglia per mettere l’individuo al riparo dall’occhio invadente del Grande Fratello: quel Nakamoto (pseudonimo dietro il quale c’è chi immagina si nasconda un Robin Hood che vuole redistribuire la ricchezza alla gente comune, mentre i più avveduti subodorano la mano di un insider dell’alta finanza) che ha il discutibile merito di avere inventato il bitcoin, la più nota e diffusa di una serie di criptovalute. 





Un’invenzione, azzarda Loretta Napoleoni, che potrebbe avere reso possibile il sogno dei  cypherpunk, vale a dire “la decentralizzazione dello Stato e il rafforzamento di un individuo che diviene sovrano di se stesso all’interno della moltitudine”. Se aggiungiamo ai due esempi appena citati l’esaltazione della “insurrezione virtuale” della comunità denominata Reddit, protagonista di una guerra finanziaria contro Wall Street condotta con le armi del nemico (e puntualmente conclusasi con una sconfitta), si sarebbe tentati di chiudere qui il discorso, liquidando il libro della Napoleoni come un’ingenua utopia neo anarchica, una versione cyber dei sogni ottocenteschi dei vari Owen, Proudhon, Saint Simon e Fourier. In realtà le cose sono più complesse, nel senso che l’autrice non è inconsapevole delle ombre associate a certe visioni “libertarie”.


Sui cypherpunk scrive, per esempio, che costoro – insensibili a temi sociali e politici - erano convinti che solo la tecnologia e non la legge (e quindi non la politica né il diritto!) può proteggere le libertà individuali, e si professavano antidemocratici perché, essendo la maggioranza “ignorante”, la democrazia è sinonimo di tirannia -  rozza versione della tesi “classica” di Alexis de Tocqueville (2). Inoltre, dopo aver spiegato che il meccanismo delle criptovalute si fonda sulla fiducia degli utenti, né più e né meno delle monete “ufficiali”, il cui valore operativo è interamente fondato sulla fiducia dei cittadini - in realtà le cose sono assai più complicate, ma sorvoliamo -, e dopo avere sostenuto che questo denaro virtuale potrebbe rappresentare un mezzo di emancipazione dal monopolio statale sull’emissione di moneta, l’autrice è indotta ad ammettere che le criptovalute si sono rivelate “uno specchio del mondo reale” (ma va!?) e che, una volta finite sotto il controllo dei tecnocapitalisti, hanno contribuito ad aumentare, più che a ridurre, le disuguaglianze. 


Insomma: c’era un volta il sogno di un futuro in cui “il monopolio della comunità avrebbe sostituito il monopolio dello Stato”, ma poi sono arrivati i cattivi che lo hanno trasformato in un incubo. Ma chi sono i cattivi? Va detto che l’autrice sembra avere le idee chiare sulle modalità di funzionamento del processo di finanziarizzazione dell’economia e sul fatto che esso si è avvalso di meccanismi agevolati proprio dalla rivoluzione digitale (vedi la facilità e la velocità con cui, una volta trasformati i debiti – come i mutui immobiliari – in merce, “impacchettandoli” in fondi “certificati” dalle agenzie di rating, questi hanno potuto inondare un mercato finanziario globale che opera “in tempo reale”, innescando la bolla dei subprime). Tutto ciò è stato reso possibile dall’integrazione fra alta finanza e colossi della tecnologia. Sono stati questi ultimi (i famigerati GAFAM cioè Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) a monopolizzare il settore tecnologico, facendo sì che esso, lungi dal favorire la redistribuzione della ricchezza, abbia aggravato le disuguaglianze e intensificato lo sfruttamento del lavoro promuovendo, fra gli altri, fenomeni come la uberizzazione del lavoro e la gig economy, cui l’autrice dedica pagine interessanti (3). 


Fin qui tutto bene. I guai iniziano laddove Napoleoni sostiene che il colpo di mano dei tecnotitani è stato favorito dalla presunta “fine” di uno stato-nazione ormai del tutto asservito ai loro interessi. Il ritornello sulla fine dello stato suona stucchevole da quando economisti e studiosi di sociologia politica hanno chiarito che il neoliberismo non è una riproposizione del liberismo classico, del laissez faire, bensì una dottrina (4) che riconosce allo Stato il compito decisivo di creare le condizioni per il corretto funzionamento di un mercato che, abbandonato a se stesso, non può garantire la riproduzione del sistema. Del resto, storici di lungo periodo come Braudel (5) e teorici del sistema mondo come Arrighi (6) spiegano che, fin dalle sue origini mercantiliste, il grande capitale finanziario ha sempre agito in stretta connessione (pur con fasi conflittuali) con lo Stato, e che il capitalismo, per dirla con Braudel, non può esistere senza lo Stato, di più, non può esistere senza farsi esso stesso Stato. Con buona pace di Loretta Napoleoni: niente di nuovo sotto il sole, se non il ripetersi in forma diversa dell’appropriazione capitalistica dello Stato. 


I buchi nella narrazione di Napoleoni sono il frutto di un equivoco di fondo, che consiste nella mancata comprensione del fatto che la Tecnica (uso maiuscola per sottolineare l’enfasi metafisica attribuita all’entità in questione) non è un sistema che si sviluppa con dinamiche proprie e indipendenti da quelle delle relazioni sociali (di classe!), politiche, culturali (ideologiche!) che compongono la civiltà umana nel suo complesso. Se avesse tenuto conto di queste interdipendenze sistemiche, non avrebbe avuto difficoltà a capire come il trionfo del Tecnocapitalismo sulle utopie hacker fosse inscritto nelle radici stesse della cosiddetta rivoluzione digitale: tanto negli interessi economici, politici e militari (vedi il ruolo dell’Arpa nello sviluppo di Internet) che ne hanno creato le condizioni, quanto nell’ideologia anarchica (anche se sarebbe più corretto definire i libertarian anarcocapitalisti, più che anarchici nel senso classico del termine) dei suoi ideatori. 


Questi ultimi coltivano il sogno di un’evasione individuale dal potere soverchiante dei monopoli (non a caso sono fan della fantascienza: vedasi un autore come Philip Dick (7) che fu maestro del genere). Un sogno che rilancia la cultura individualista dei pionieri che nell’800 abbandonavano le metropoli della costa orientale (dominate dai magnati) per andare alla ricerca di un posto al sole nelle praterie occidentali. E adesso, esauritosi il sogno della Rete come frontiera virtuale, occupata dalle enclosure dei GAFRAM, non resta loro che il mito della nuova frontiera dello spazio. Purtroppo anche qui i tecnotitani Musk, Bezos e Branson, scrive Napoleoni, stanno occupando i posti migliori, anche se va detto che certe narrazioni di espansione cosmica si riducono a campagne di marketing per promuovere progetti di turismo spaziale per super ricchi e altre forme di messa a valore dello spazio extraterrestre a noi più vicino, visto che, allo stato attuale delle tecnologie, l’unico spazio colonizzabile è, e tale resterà presumibilmente per secoli a venire, quello orbitale (del che, mi viene da dire, non possiamo che rallegrarci, dato che non vi è conquista coloniale che non sia associata alla mostrificazione dell’altro, al genocidio e alla distruzione ambientale). 


Del resto sono proprio le barriere apparentemente invalicabili – naturali, economiche, culturali, sociali, demografiche, geografiche, ecc. - che consentono di riconoscere il demone che possiede tecnocapitalisti e tecnoanarchici, magnati e pionieri, finanzieri e hacker, sognatori in piccolo e sognatori in grande: è il demone che Hegel chiamava cattiva infinità e Marx accumulazione allargata, mentre Loretta Napoleoni preferisce parlare di mito della crescita infinita, e fin qui posso essere d'accordo con lei, mi si rizzano invece i capelli in testa quando chiama in causa la tesi di tale Edward O. Wilson, un biologo secondo il quale il mito della crescita infinita non sarebbe un prodotto della storia umana bensì del nostro corredo genetico. Si capisce quindi perché, sviata da questo cattivo maestro, conclude così il suo lavoro: “Ignari delle conseguenze dei fallimenti dei nostri governi, delle nostre società e, soprattutto, di noi stessi, stiamo camminando come sonnambuli verso la distopia, a meno che qualcuno o qualcosa non riesca a svegliarci in tempo” Insomma, per dira con Heidegger, solo un Dio ci può salvare...



Jean-Luc Mélenchon: tribuno del popolo o neogollista di sinistra?


Formulare un giudizio complessivo sul libro-manifesto di  Mélenchon non è impresa banale perché, per ammissione dello stesso autore, non si tratta di un insieme organico di tesi, bensì di un collage di argomentazioni prese a prestito da vari autori. Il che sarebbe anche accettabile, dal momento che il nostro non è un teorico, bensì il leader carismatico di un movimento (populista più che popolare, come vedremo) come Tsipras e Iglesias lo sono stati di Syriza e Podemos. Ciò che ai miei occhi lo rende meno accettabile è il fatto che le fonti cui attinge (non citate ma riconoscibili) coincidono quasi punto a punto con le utopie letali contro cui sparavo a zero anni fa: l’impianto populista è mutuato da autori come la coppia Laclau Mouffe (8); il concetto di rivoluzione cittadina dal movimento ecuadoriano di Rafael Correa (9); l’astio nei confronti del “socialismo reale” (oggi evoluto in russofobia) è di chiara matrice troskista; la retorica decrescitista evoca la filosofia ecologista di autori come Latour e Latouche (10); l'entusiasmo per le potenzialità democratiche dei social rinvia alle stesse fonti della Napoleoni; infine l’esaltazione per le ribellioni spontanee delle “moltitudini” fatte di singolarità individuali e per la cultura antipartitica e antiorganizzativa che esse secernono è un mix di suggestioni postoperaiste e  troskiste. Il tutto condito con vaghi accenti sciovinisti che giustificano la definizione di neogollista di sinistra, forse malevola ma tutt'altro che arbitraria. Ma procediamo con ordine. 



Un altro “incantato dalla rete”


Le considerazioni critiche appena fatte sul testo di Loretta Napoleoni valgono, parola per parola, per le pagine che Mélenchon dedica al tema della Rete, per cui non mi dilungo eccessivamente sull’argomento, limitandomi a prendere atto che anche lui si iscrive – per parafrasare il titolo di un mio libro del 2000 (11) – al club degli “Incantati dalla Rete”. Pur non mancando di denunciare a sua volta l’irreversibile espropriazione dei sogni tecnolibertari da parte della banda dei GAFRAM, resta infatti convinto che la nostra sia “l’epoca dell’iper-individuo e della connessione” per cui annuncia, non senza prosopopea, che “la singolarità individuale è un fatto essenziale del nostro tempo” che ha battezzato la nascita di un “super individuo”. 


Che la nostra sia l’era della connessione, non sussistono dubbi, nel senso che è l’era in cui il capitale, e il sistema politico che ne rappresenta gli interessi, sfruttano le tecnologie digitali per disciplinare, controllare e mettere al lavoro non solo operai, tecnici, impiegati e lavoratori “autonomi” ma anche l’intera massa dei cittadini-utenti-consumatori (12). Che ciò comporti di fatto  l’abolizione delle forme tradizionali di associazione collettiva - politica, culturale e civile - rimpiazzata dal surrogato virtuale dei social, mi pare abbia francamente poco a che fare con l’emergenza (altro termine cui Mélenchon ricorre spesso, mutuandolo dai teorici della complessità) di un super individuo. Questo è semmai l’immaginario veicolato da media, pubblicità, e altri venditori di fumo (“diventa l’imprenditore di te stesso”) che alimenta l’illusione – soprattutto nelle nuove generazioni – di essere padroni del proprio destino quanto più si viene ridotti ad atomi isolati, privi di qualsiasi reale autonomia di decisione e di scelta. 


Il nostro tenta però di rovesciare la frittata mostrandoci il bicchiere mezzo pieno, anzi pieno fino all’orlo, laddove scrive che “lo spazio delle reti è la principale e talvolta unica agorà contemporanea, il punto di partenza di innumerevoli azioni rivendicative”. Così, celebrando l’emergenza di questo immaginario spazio globale, richiama in vita le narrazioni “alter mondialiste”(stroncate dalla macelleria messicana di Genova 2000 e definitivamente sepolte dalla frammentazione di un sistema mondiale che precipita verso la Terza guerra mondiale) e delira di “una nuova comunità globale in crescente inclusione”, caratterizzata da un processo di “creolizzazione generale”, proprio mentre l’esplosone dei particolarismi identitari scatena ondate di odio generalizzato. Ma evidentemente per Mélenchon questi sono dettagli marginali, trascurabili controtendenze. Lui guarda piuttosto con fiducia al radioso futuro della Noosfera (!). Sì, avete letto bene: si tratta proprio della visione allucinatoria del mistico gesuita Teilhard de Chardin (13), anche se il nostro dice che non è la stessa cosa (forse si riferisce alla versione del concetto riformulata a suo tempo dal mio amico Franco Bifo Berardi, il quale però credo l’abbia ormai ripudiata, rinsavito da un sano rigurgito di realismo pessimista). Per chi lo ignorasse per noosfera si intende la sfera di tutte le attività della mente umana che sarebbe “diventata una realtà digitale che include tutti i pensieri digitalizzati”. No comment...



Qualche residuo di lucidità


Gli unici scampoli di lucidità critica il libro Mélenchon li concede nelle pagine dedicate alla critica del sistema neoliberale. È vero che anche lui – come Loretta Napoleoni – è rimasto all’idea che il neoliberismo è una riedizione del laissez faire di ottocentesca memoria, e sul tema non dice nulla di realmente in nuovo, ma almeno in questo caso ha scelto di citare gli autori giusti (sempre senza nominarli). 


Così scrive che il liberalismo che oggi domina il mondo è entrato in una nuova fase in cui cui ha rinunciato al progetto democratico (progetto che Mélenchon identifica con quello “intorno cui si erano organizzate le società europee all’indomani della Seconda guerra mondiale”). Andrebbe tuttavia precisato che il liberalismo non è mai stato democratico, ha solo usato la narrazione democratica per legittimare il proprio dominio nelle centrali imperiali, mentre nelle periferie coloniali si è comportato esattamente come il Terzo Reich hitleriano (14). 


Scrive inoltre che le nuove tecnologie hanno consentito al capitale finanziario di realizzare il sogno della riduzione a zero del tempo di realizzazione del profitto (D-D’ senza passare da M, saltando cioè tutte le noie, i rischi e gli imprevisti della produzione e del mercato delle merci), un sogno che già Marx aveva analizzato nel Terzo Libro del Capitale (15). Descrive poi come la tendenza crescente alla divaricazione fra i cicli lunghi dell’eco sistema e i cicli brevi (tendenti a zero) dell’economia siano la causa principale della catastrofica degradazione dei sistemi ambientali, cui collaborano anche fenomeni quali l’obsolescenza programmatica, lo spreco sistematico e la monetizzazione dei “diritti” di inquinamento (temi presenti anche nel libro di Nicoletta Napoleoni).





Populismo e cittadinismo


Come fronteggiare la sfida di un sistema neoliberale che sta trascinando il mondo verso il baratro della guerra e della catastrofe economica, sociale e ambientale? L’unica forza in grado di scongiurare il disastro, risponde Mélenchon, è la “rivoluzione cittadina”. Cosa intende con questo slogan a dir poco generico? Provo a decodificare. 


In primo luogo, c’è sicuramente l’intenzione di evocare la memoria dei citoyen protagonisti della Grande Rivoluzione del 1789. Poco importa che Marx abbia smontato la narrazione di un cittadino che, dietro il mito dei diritti universali dell’uomo, nascondeva i prosaici interessi della classe borghese. Mélenchon non si cura di anticaglie come la lotta di classe, perché oggi, scrive, la teoria - termine generico con cui allude presumibilmente alle tesi del filosofo populista Ernesto Laclau (16) - “presenta una nuova conflittualità sociale: dopo il proletario contro il borghese ecco i nuovi protagonisti loro e noi, gli oligarchi contro il popolo”. 


Purtroppo i leader europei che hanno tentato di importare in Europa le idee di Laclau (ritagliate sull’esperienza del peronismo argentino) sono andati incontro a clamorosi fallimenti (vedi, fra gli altri, Tsipras e Iglesias). Ma evidentemente Mélenchon spera che la Francia sia terreno più fertile per applicare certi modelli latinoamericani (non a caso la sua rivoluzione cittadina fa il verso alla revolucion ciudadana dell’ecuadoriano Rafael Correa). Dimentica però che i soli esprimenti populisti di sinistra riusciti nel subcontinente sono stati quello del Venezuela, dove il movimento di massa ha potuto contare sulle sinistre riunite nel PSUV fondato da Chavez e soprattutto sul sostegno delle forze armate, e quello della Bolivia, Paese caratterizzato dalla presenza di una schiacciante maggioranza di origine india (17). Viceversa le rivoluzioni cittadine alla Correa, che hanno fatto leva sulle classi medie urbane che tanto piacciono al nostro, sono state sconfitte.


Il punto è che, per il mondo urbano contemporaneo non vale più il motto medievale “la città rende liberi”: le metropoli postmoderne sono il teatro di un processo di gentrificazione che ha espulso i ceti popolari dai centri e li ha ricacciati nelle periferie per cui movimenti come quello dei Gilet Gialli, che Mélenchon cita a più riprese, sono movimenti periferici che esprimono la rivolta delle banlieu e delle piccole medie città di provincia contro l’arroganza dei ceti medio alti di Parigi, egemonizzati dalle destre neoliberali (18). 


Ma il nostro è convinto che esista un unico movimento globale contro il potere costituito (come quello degli hacker esaltati dalla Napoleoni), espressione di “una radicale crisi di consenso da parte dei popoli nei confronti dell’autorità che li governa”. Quali autorità? Tutte perché, per l’ideologia libertaria, il potere è cattivo per definizione. Quindi Mélenchon traccia un elenco di rivolte che somiglia alla proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere, nel quale troviamo, accanto a Occupy Wall Street e ai Gilet Gialli, il movimento degli ombrelli di Hong Kong (dichiaratamente anticomunista e filo occidentale) e i neonazisti di Piazza Maidan.


Ammesso e non concesso che esista questo movimento globale contro lo Stato (contro ogni forma di Stato) e dato che, come lo stesso Mélenchon ammette, si tratta di soggetti che non vogliono nemmeno sentir parlare di politica, come potranno trovare risposta le sue rivendicazioni? Ma con il voto naturalmente: “la convinzione democratica e le elezioni sono la forma necessaria di mobilitazione politica in grado di invertire il corso degli eventi”. Così tutti i salmi neo anarchici finiscono in gloria, cioè nell’urna elettorale...


Per concludere: cosa non ho trovato che avrei voluto trovare e cosa ho trovato che non avrei voluto trovare nel libro di Mélenchon


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna dei crimini vecchi e nuovi dell’imperialismo francese. A partire dal tentativo di soffocare la rivoluzione degli schiavi haitiani che avevano creduto, sbagliando, che il motto Libertè Egalitè Fraternitè valesse anche per loro. Una rivoluzione guidata da eroi come Toussaint Louverture (19), che fra qualche secolo saranno forse ricordati come i protagonisti di un evento storico più importante della presa della Bastiglia, e che riuscirono a sconfiggere sul campo gli eserciti “rivoluzionari” di Parigi, ma furono poi costretti a pagare per più di un secolo i “danni” provocati ai piantatori francesi. Un episodio osceno che è la causa principale della miseria del popolo haitiano e del quale la Francia si è finora rifiutata di fare ammenda. A seguire con i crimini di guerra perpetrati in Indocina e in Algeria, sui quali i socialisti e i comunisti francesi hanno chiuso più di un occhio. A seguire infine con l’assassinio di Gheddafi, perpetrato in combutta con l'imperialismo americano, e con gli interventi in Siria e in Sahel.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna del razzismo e dell'islamofobia che, come denuncia il libro di Said Bouamama, fanno parte del bagaglio culturale di larga parte dei cittadini francesi, e non solo di quelli di destra.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della scandalosa deliberazione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della strategia della NATO che, in barba agli impegni assunti all’atto della riunificazione delle due Germanie, ha esteso i propri confini a Est fino ad andare “ad abbaiare ai confini della Russia”, per usare le parole del compianto papa Francesco. 


Non ho trovato una condanna chiara e inequivocabile del regime di Netanyahu e del carattere razzista e genocida della politica israeliana (quanto pesa la lobby sionista all’interno della sinistra francese?) 


Ho invece trovato una esaltazione del ruolo politico delle classi medie, celebrate come “essenziali all’equilibrio di questo tipo di società” (cioè della società capitalista!).


Ho trovato l’approvazione delle pratiche assembleari cittadine che evitano accuratamente di discutere temi problematici e “divisivi” (come l’immigrazione e il razzismo?). Altro che versione postmoderna dei soviet, che erano organismi in cui si discuteva ferocemente di tutto, prima di assumere decisioni... 


Ho trovato una condanna della “invasione criminale e assurda dell’Ucraina”, senza alcun cenno al regime change del 2014 orchestrato dalla Cia, o alle persecuzioni nei confronti della popolazione russofona che hanno preceduto l’intervento di Mosca (un riflesso del passato trotzkista?).


Ho infine trovato un invito a non consegnare alle destre la difesa della sovranità nazionale (occorre “prendere la bandiera e farla propria” scrive). Giusto! Ma che significa l’accusa “Macron ha buttato fuori la Francia da se stessa”? quel se stessa include la Francia imperiale (colonialista, razzista e criminale), la Francia capitalista che sfrutta le masse degli immigrati, la Francia che si schiera con l’Occidente collettivo contro i popoli del Sud del mondo? Si spera di no, ma certi accenti sciovinisti (che risuonano anche nella sigla France Insoumise), a partire dall’assunzione implicita che non esiste nessuna “vera” rivoluzione se non la Grande Rivoluzione Francese, per tacere delle “omissioni” elencate poco sopra, giustificano l'interrogativo che azzardavo nel titolo del paragrafo: “tribuno del popolo”o neogollista di sinistra?



NOTE


(1) Mi riferisco ad autori come Bruce Sterling e William Gibson, autori di romanzi che descrivono una sorta di medioevo digitale, dominato dalle grandi imprese high tech il cui potere può essere sfidato solo dai cowboy della Rete, cioè da un pugno di tecnoanarchici individualisti.


(2) Cfr. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.


(3) Chi scrive si è occupato di uberizzazione del lavoro e gig economy in Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.


(4) Non è possibile comprendere la stretta relazione fra Stato e mercato che caratterizza il sistema neoliberale senza studiare l’ordoliberalismo. Vedi, in particolare, F. von Hayek, La società libera, Rubettino 2007. Sulla differenza fra liberalismo e neoliberalismo vedi A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.


(5) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll., Einaudi, Torino 1982, 1993, 2006.


(6) Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996.


(7) La monumentale opera letteraria di P. K. Dick, che anticipa i temi del movimento cyberpunk, è una epopea del piccolo imprenditore americano, schiacciato dalla concorrenza dei monopoli high tech.


(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; vedi anche E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 1908.


(9) Sulla revolucion ciudadana di Rafael Correa, cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013.


(10) Cfr. B. Latour, Come abitare la Terra, Einaudi, Torino 2024, e S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.


(11) C. Formenti, Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000.


(12) Vedi C. Formenti, Felici e sfruttati, cit.


(13) Cfr. P. Theilard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana 2024.


(14) Sugli orrori commessi dall’imperialismo inglese cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza, Einaudi, Torino 2024, e analoghe considerazioni andrebbero fatte sull’imperialismo francese e su quello americano; quanto all’imperialismo tedesco, Aimé Césaire ironizza sull’ipocrisia delle democrazie occidentali che a Hitler non rimproveravano tanto i crimini contro l’uomo, quanto i crimini contro l’uomo bianco, l’avere cioè commesso contro i bianchi gli stessi delitti che essi avevano commesso contro i popoli di colore (Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020).


(15) Vedi quanto ho scritto in proposito su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2025/04/rileggendo-marx-appunti-sui-libri-ii-e_26.html


(16) Cfr nota 8.


(17) Sulla natura anticapitalista delle comunità originarie dei campesindios andini e sul loro ruolo determinante nella rivoluzione boliviana, cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Quito 2015.


(18) Cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.


(19) sulla rivoluzione haitiana e sulla figura del suo leader Louverture, cfr. S. Hazareesingh, Spartaco nero, Rizzoli, Milano 2020.