Lettori fissi

sabato 20 febbraio 2021

L'EUROCENTRISMO "FUNZIONALE" DI MARX ED ENGELS 

Paradossi e contraddizioni del concetto di modo di produzione asiatico

  
Marx e Vera Zasulich 
 

Mi scuso con i lettori, ma la mia insufficiente conoscenza delle funzioni del template di questa piattaforma mi ha impedito di inserire le traslitterazioni corrette dei nomi di persone e istituzioni russe per cui queste parole risultano malamente "italianizzate"    

Le accuse di eurocentrismo ai due autori del Manifesto del Partito Comunista nonché fondatori del socialismo scientifico non sono nuove. Una delle requisitorie più dure in tal senso si deve al sudafricano Hosea Jaffe, esponente delle correnti marxiste più attente alle lotte di liberazione dei popoli coloniali ed ex coloniali; costui, in un saggio intitolato Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (Jaca Book, Milano 2007) arriva ad affibbiare ad Engels l’epiteto di euro-razzista e di social-sciovinista tedesco, citandone alcune frasi (che oggi farebbero effettivamente rizzare i capelli sulla testa a ogni militante di sinistra) contenute in scritti sulla guerra degli Stati Uniti contro il Messico, sulla conquista francese dell’Algeria e sulla colonizzazione italiana dell’Eritrea. Il suo giudizio è meno severo nei confronti di Marx, in quanto ritiene che i suoi scivoloni eurocentrici – comunque meno plateali di quelli di Engels - siano riscattati dal suo fondamentale contributo all’analisi del ruolo del colonialismo nel processo di accumulazione capitalistica. 

Con Onofrio Romano, nel libro Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi marxisti da archiviare (DeriveApprodi 2019), che contiene la trascrizione di una nostra lunga conversazione, ho rilanciato – sia pure in forma meno virulenta – critiche analoghe, estendendole all’insieme della cultura marxista occidentale e riproponendo l’opposizione fra marxismo occidentale e marxismo orientale teorizzata da Domenico Losurdo (Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017). In questo articolo torno a ragionare sull’argomento a partire dalla recente rilettura di India, Cina, Russia (Il Saggiatore, Milano 1960). Si tratta di un’antologia (curata da Bruno Maffi, che ne fu anche il traduttore) che raccoglie una serie di brevi testi di Marx ed Engels: articoli di Marx apparsi (perlopiù anonimi) sul “New York Daily Tribune”, relativi alla politica inglese in India e alle guerre dell’oppio contro la Cina; scambi epistolari fra Marx, Engels e altri (fra cui la celeberrima lettera di Marx a Vera Zasulich), e una serie di interventi di Engels sulla situazione politico-sociale in Russia (molti dei quali successivi alla morte di Marx). Lo straordinario interesse di questo volume consiste nel fatto che consente di approfondire il concetto di “modo di produzione asiatico” che compare nel Capitale e in altre opere fondamentali. Per discutere questi materiali seguirò un percorso in tre tappe: 1) descrizione delle posizioni eurocentriche e filo occidentali e loro giustificazione teorica; 2) esposizione critica del concetto di modo di produzione asiatico; 3) paradossi e contraddizioni di tale concetto alla luce degli sviluppi storici successivi al periodo analizzato negli scritti in questione.

1) I passaggi che lasciano trapelare la convinzione della costituiva superiorità della civiltà occidentale su quelle asiatiche abbondano, per cui mi limiterò a citare quelle che più mi hanno colpito. Riferendosi alle comunità agricole dei villaggi indiani, Marx parla di <<vita priva di dignità, stagnante, vegetativa>>, mentre altrove si azzarda ad affermare che <<la società indiana non ha storia o, quanto meno, storia conosciuta>>. Parlando poi dell’impatto dell’invasione inglese sulla società indiana, sottolinea che tutte le invasioni barbariche precedenti (a giudicare dal lascito culturale delle dinastie Mogul nel Nord Ovest indiano certi invasori non erano poi così barbari!) non ne hanno modificato la struttura in quanto sono state assimilate dalla cultura locale, viceversa quella degli inglesi, <<i primi conquistatori superiori>> ebbe effetti rivoluzionari. Infatti la concorrenza dei prodotti della manifattura capitalistica <<ha distrutto queste piccole comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto>>.  Marx è perfettamente consapevole della natura criminale di tale conquista, sia per le vittime causate dalle guerre coloniali, sia per i milioni di morti provocati dalla miseria associata alla “rivoluzione” di cui sopra (sono noti i passaggi del Capitale in cui si accenna alle pianure indiane imbiancate dalle ossa dei tessitori indiani ridotti alla fame dalla concorrenza della metropoli inglese) e ovviamente non la giustifica sul piano morale, bensì perché <<qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, esso fu (…) lo strumento inconscio della storia>>, nella misura in cui ha gettato le basi materiali della società occidentale in Asia (è in questo senso che si giustifica l'appellativo di "funzionale" che attribuisco all'eurocentrismo di Marx ed Engels nel titolo). 


Passando agli articoli sulla guerra dell’oppio la musica cambia di poco. Vi risparmio i passaggi in cui anche la millenaria civiltà cinese (che solo poco più d’un secolo prima appariva più avanzata sul piano economico, e per certi versi anche su quello tecnologico, di quella occidentale: vedi le analisi di Adam Smith in merito, riprese da Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008) viene definita semibarbara (mentre viene liquidato come un sintomo di grettezza provinciale l’abitudine cinese di chiamare barbari gli invasori occidentali!). Dopodiché anche le cannoniere inglesi che costrinsero il Celeste Impero ad aprire i suoi porti all’importazione di oppio da parte di avventurieri protetti dalla bandiera inglese, vengono insignite del ruolo di strumenti inconsci della storia, nel senso che è stato necessario <<ubriacare (con l’oppio) tutto un popolo prima di poterlo scuotere da un abbrutimento millenario>>. In quanto al fallimento dei tentativi di far penetrare i prodotti inglesi nel mercato cinese, replicando la colonizzazione commerciale riuscita in India, vedremo più avanti come Marx ne analizza le cause, ragionando sul concetto di modo di produzione asiatico, non senza avere prima segnalato che il nostro si lascia scappare la seguente battuta sulla <<tenace opposizione dell’ignoranza, dell’impazienza e dei preconcetti orientali>>.  


Gli articoli e le lettere sulla Russia, sezione in cui è più presente Engels, si inseriscono in una cornice diversa (e anche mutevole, nel senso che da una posizione fortemente “russofoba” - motivata dal ruolo di gendarme europeo svolto dallo zarismo, in prima fila nella repressione di tutti i moti rivoluzionari della prima metà del secolo XIX - i due fondatori del moderno pensiero rivoluzionario sviluppano, a mano a mano che crescono i conflitti di classe e i fermenti populisti in Russia, una crescente aspettativa per una possibile rivoluzione russa, che sperano possa contagiare l’Europa occidentale risvegliandone i sopiti istinti combattivi delle classi lavoratrici). E tuttavia, pur nelle differenze fra il lontano Oriente e un Paese assai più vicino all’Europa, si sottolinea che le masse contadine della Russia presentano caratteri strutturalmente simili – e regressivi – a quelle orientali: <<Da secoli, scrive Engels, la gran massa del popolo russo, formata da contadini, vegetava da una generazione all’altra in una specie di letargo privo di storia e il solo mutamento che interrompesse questo grigiore erano rivolte isolate e infruttuose>>. Prima di passare all’analisi del concetto di modo di produzione asiatico, vale la pena di fare alcune prime considerazioni su quanto sin qui esposto. 


In primo luogo credo si possa affermare che la definizione di barbare e semicivili riferito alle millenarie civiltà indiana e cinese, si spiega solo con una profonda ignoranza della loro lunga storia e della loro raffinata cultura. Ignoranza parzialmente giustificata dall’ancora insufficiente sviluppo della ricerca storica sulle nazioni extraeuropee e dal fatto che l’antropologia culturale aveva appena iniziato a muovere i primi passi. Penso tuttavia che, anche se avessero potuto disporre di fonti più ricche e aggiornate in materia, Marx ed Engels non avrebbero cambiato il loro giudizio sulla superiorità occidentale. Giudizio che in Engels (come documenta ampiamente Hosea Jaffe nel libro sopra citato) non era forse del tutto privo di pregiudizi razziali (quali il riferimento al presunto carattere di un popolo),  ma che in entrambi si fondava sostanzialmente sulla superiorità occidentale rispetto al livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto (macchine, mezzi di trasporto, conoscenze tecnico scientifiche, armi, ecc.). Coerentemente con le tesi esposte nel Manifesto, la missione “civilizzatrice” del capitalismo occidentale viene associata alla sua capacità di rimuovere tutti gli ostacoli sociali, politici, economici e culturali allo sviluppo delle forze produttive, concepito come indispensabile base materiale per la transizione a un superiore stadio di civiltà. Quanto alla definizione di "popoli senza storia" ritengo vada messa in relazione con la tesi marxiana secondo cui la “vera” storia dell’umanità inizierà solo con il comunismo, tutto quanto lo precede è preistoria, compreso il capitalismo che, tuttavia, ha la funzione – e quindi il “merito” oggettivo, ancorché inconsapevole – di creare le condizioni per la fuoruscita dalla preistoria (anche se, come  vedremo più avanti, in Marx esistono contrappesi che bilanciano almeno in parte questa visione unilateralmente “economicista”).  

2) Facciamo un passo indietro e torniamo alle ragioni per cui, secondo Marx, le speranze inglesi di penetrare nel mercato cinese sono andate deluse. <<Come si spiega, scrive Marx, l’incapacità del sistema industriale più avanzato del mondo di battere sul prezzo le stoffe tessute dai più rozzi e primitivi telai a mano?>>.  Con la combinazione, risponde, fra agricoltura minuta e  industria domestica: in ogni casa colonica cinese c’è un telaio, per cui il piccolo coltivatore non è solo contadino ma contadino e artigiano ad un tempo. Produce i suoi abiti letteralmente per nulla in quanto la sua attività (e quella dell’intera famiglia) non richiede né extralavoro né tempo straordinario. Ma questa combinazione fra industria agricola e industria manifatturiera è tipica anche dell’India (la facilità con cui i colonizzatori hanno potuto distruggerla è dovuta alla violenza esercitata dopo avere acquisito il controllo dell’intero Paese, impresa impossibile da attuare in Cina, data la sua estensione territoriale e la capacità di resistenza del suo Stato). Secondo Marx ed Engels, questa combinazione è riscontrabile nell’intera area di diffusione dei popoli indoeuropei (non solo in Oriente, ma anche nelle popolazioni russe, germaniche e celtiche). Tale elemento non è tuttavia sufficiente a caratterizzare il modo di produzione asiatico: è infatti necessario associarvi il “dispotismo orientale”, struttura politica di cui <<queste idilliache comunità di villaggio sono sempre state la solida base>>. A sua volta, il dispotismo orientale è frutto delle caratteristiche geografiche e demografiche dei grandi Paesi orientali: le comunità di villaggio necessitano di un uso comune ed economico dell’acqua, necessità che, in Occidente <<spinse a forme di volontaria associazione l’iniziativa privata>>, mentre in Oriente le superfici  troppo estese imposero la necessità dell’intervento di un potere politico centrale, <<di qui la funzione economica devoluta a tutti i governi asiatici di provvedere alle opere pubbliche>>. 

In Russia questa forma socioeconomica ha assunto forme parzialmente diverse perché, dopo la relativamente tardiva unificazione del Paese, si è sviluppata una peculiare forma di feudalesimo in cui la servitù della gleba conviveva con comunità contadine di villaggio (obscina) simili a quelle orientali. In nessuna delle tre varianti prese in esame esisteva proprietà privata della terra (in Cina l’imperatore era proprietario dell’intero suolo nazionale, che veniva concesso in usufrutto alle comunità di villaggio). Nemmeno in Russia, dove il suolo veniva periodicamente distribuito ai vari capi famiglia, ognuno dei quali coltivava in proprio l’appezzamento ricevuto. Ora è proprio nella discussione sul caso russo che emergono quei contrappesi a una visione determinista dell’evoluzione socioeconomica cui accennavo in precedenza. 

A innescare la discussione sono gli effetti dell’emancipazione dei contadini dai vincoli feudali che il governo zarista sancisce con la riforma del 1861. Riforma – trappola perché i contadini così “liberati” divengono bersaglio di pesanti imposizioni fiscali, si vedono affidare le terre meno fertili (le altre vanno ai nobili) e, una volta integrati nell’economia monetaria, cadono nelle mani di speculatori e strozzini (spesso gli stessi contadini più ricchi, primo nucleo di quella classe di kulaki che dopo la rivoluzione verranno spazzati via dalla collettivizzazione forzata voluta da Stalin). Inizia così un confronto serrato fra i populisti, i quali sostenevano che in Russia esistevano le premesse di una transizione diretta al socialismo, evitando di passare attraverso una fase di sviluppo capitalistico, dal momento che le comunità di villaggio erano “naturalmente” socialiste, e le nascenti formazioni socialdemocratiche che, al contrario, ritenevano che l’obscina fosse fatalmente condannata a essere spazzata via dalla nascente economia capitalistica e rinviavano la rivoluzione socialista ad una fase successiva al compimento della rivoluzione borghese e allo sviluppo della grande industria che avrebbe generato a un’ampia classe proletaria. 

Vera Zasulich, una rivoluzionaria che aveva aderito all’ala socialdemocratica, scrive a Marx chiedendo conforto in merito alla giustezza  della loro tesi. Il problema intriga Marx al punto che, per rispondere, gli occorrono mesi di riflessioni ( l’antologia rende conto di questo travaglio pubblicando, assieme al testo definitivo della lettera di risposta, le bozze di alcune stesure precedenti). Il documento è interessantissimo, in quanto ne emergono un sostanziale ripensamento di precedenti formulazioni, al punto che, a mio avviso, se ne può trarre spunto per una falsificazione del concetto stesso di modo di produzione asiatico. Vediamo perché. Pur ribadendo che in assenza di rotture rivoluzionarie – sia in Russia che in Occidente – il destino delle comunità di villaggio appare segnato, Marx scrive che il processo innescato dalla riforma del 61 contiene molti elementi di ambiguità che lasciano aperte due soluzioni: forse l’elemento di proprietà privata finirà per prevalere sull’elemento di proprietà collettiva, ma potrebbe ancora succedere il contrario: <<Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili, ove prevalesse la seconda essa potrebbe appropriarsi delle conquiste positive del sistema capitalistico senza passare per le sue forche caudine>>. 
Le successive interpretazioni “ortodosse” di questo  passaggio insistono sulla condizionalità: ciò potrebbe succedere sotto la stretta condizione che intervenga un evento rivoluzionario. Così Engels tornerà anni dopo sul punto precisando che, se è vero che il predominio di forme cooperative nella classe contadina russa dimostra la presenza di un forte istinto associativo in questo popolo, <<non prova affatto la sua capacità, grazie a quest’istinto, di spiccare il salto direttamente a un ordine socialista>>, aggiunge che <<queste forme potranno sollevarsi su un piano più alto se si dimostreranno capaci di evolvere in modo che i contadini coltivino la terra non più singolarmente ma in comune>>, infine conclude ribadendo che <<ciò può avvenire unicamente se, prima della decomposizione della proprietà comunale russa, nell’Occidente europeo trionfi una rivoluzione proletaria che fornisca i presupposti materiali di questo trapasso>>. 


Personalmente credo invece che nel possibilismo della lettera di Marx si intraveda, al di là dei vincoli di condizionalità ribaditi con forza da Engels, un importante elemento di “flessibilizzazione” della visione economicista e determinista che prevale negli altri testi di questa antologia. Questo elemento emerge con ancora maggiore evidenza nella replica di Marx all’economista Zukovskij che aveva attaccato le tesi del Capitale : << (Zukowski) sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria teorico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto>>. Per spiegare cosa intende, Marx ricorre all’esempio del destino dei piccoli contadini liberi a Roma che coltivavano ognuno per conto proprio il loro pezzetto di terra: dopo essere stati espropriati, questi proletari romani non divennero salariati ma plebaglia fannullona, mentre accanto a essi si sviluppava il modo di produzione schiavistico, non quello capitalistico, quindi conclude icasticamente :<<eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambiti storici affatto diversi produssero risultati del tutto diversi>>. 

Basterebbe quest’unica frase per smontare il valore euristico del concetto di modo di produzione asiatico che, in effetti, si riduce allo stabilire una relazione di analogia fra culture, forme e metodi produttivi, rapporti sociali e politici di Paesi con storie assai diverse (ammessa e non concessa l’esistenza di una comune radice indoeuropea delle economie di villaggio fondate sulla proprietà in comune della terra, i secolari processi evolutivi che essa avrebbe subito in diversi contesti storico culturali avrebbero generato realtà assai diverse).  Non si tratta insomma di un concetto storicamente (e quindi scientificamente, posto che per Marx l’unica vera scienza sociale è la storia) rigoroso, fondato su una serie di astrazioni concrete, paragonabile a quello di modo di produzione capitalistico. Ciò posto, anche la visione di un processo unitario e lineare che dovrebbe superare i limiti intrinseci a questo supposto processo di produzione asiatico e, grazie ai colpi infertigli dal processo di colonizzazione e occidentalizzazione, trascinarlo verso il comune destino mondiale della transizione al socialismo, va a farsi benedire. Così come va a farsi benedire la tesi della “superiorità” della civiltà capitalistica occidentale nei confronti delle grandi culture asiatiche da essa aggredite.   

3) Nikolaj Cernisevskij, definito nel Poscritto di Engels alla seconda edizione del Capitale “un grande scienziato e critico russo”,  scriveva in una delle sue opere, citata dallo stesso Engels. <<Nell’Europa occidentale, l’introduzione di un ordine sociale migliore è resa difficile dall’allargamento senza confini dei diritti della persona singola…Non è facile rinunziare nemmeno a una piccola parte di ciò che si è abituati a godere; e, nell’Europa occidentale, l’individuo si è abituato alla mancanza di limiti ai suoi diritti privati.. Solo una dura esperienza e lunghe meditazioni insegnano l’utilità e l’inevitabilità di concessioni reciproche: ora, in Occidente, un ordine economico migliore è legato a sacrifici e, quindi, trova difficoltà a realizzarsi appunto perché contrasta le abitudini del cittadino francese e inglese>>. Ma, <<ciò che laggiù è utopia, da noi esiste come realtà…Le abitudini la cui introduzione nella vita del popolo sembra agli Inglesi e ai Francesi tanto penosa, in Russia esistono già come dato di fatto nella vita popolare…L’ordine di cose verso il quale, per una via lunga e difficile, cammina l’Occidente, da noi esiste già nei vigorosi costumi popolari della vita contadina…Noi vediamo quali tristi conseguenze abbia prodotto nell’Europa occidentale il tramonto della proprietà comune della terra, e come riesca difficile ai suoi popoli richiamare in vita ciò che è morto>>. Posto che l’attacco di questo periodo appare di folgorante attualità, anticipando di un secolo abbondante le riflessioni dei critici contemporanei dell’ideologia consumistica e liberale, ciò che più colpisce è in che misura questa visione profetica abbia saputo descrivere un futuro in cui, a fare le rivoluzioni socialiste, non sono stati i Paesi capitalistici più avanzati bensì le periferie del mondo con composizione sociale prevalentemente contadina, sia pure sotto la direzione di partiti  comunisti che organizzavano nuclei di classe operaia in formazione. È avvenuto cioè l’esatto contrario di quanto auspicava Engels commentando il brano appena citato, esprimendo la speranza che una rivolta antizarista delle masse contadine immiserite dalla riforma del 1861 potesse risvegliare l’assopito spirito battagliero di un proletariato occidentale “imborghesito”, e che la conseguente rivoluzione socialista potesse accorrere in soccorso dei contadini russi per aiutarli a “saltare” la fase capitalista e approdare a loro volta direttamente al socialismo. 

La rivoluzione è effettivamente scoppiata in Russia (nel 1905 e nel 1917) prima che in altri Paesi europei (dove non è avvenuta o è fallita, come in Germania e Ungheria). È vero che, nel frattempo, la Russia aveva intrapreso un certo sviluppo industriale e le strutture comunitarie delle campagne si erano quasi del tutto dissolte, tuttavia le condizioni socioeconomiche russe apparivano ancora talmente arretrate rispetto a quelle dell’Europa occidentale da ispirare a Gramsci la famosa frase secondo cui Lenin aveva fatto una rivoluzione “contro il Capitale”, rimpiazzando il principio dell’attacco nel punto più alto delle forze produttive con quello dell’attacco all’anello più debole della catena. Di più: come osserva in un bel libro lo storico Pierpaolo Poggio (L’obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia,  Jaca Book, Milano 1976), l’imprinting culturale della tradizione comunitaria delle campagne, di cui erano portatori gli operai inurbati di origine contadina (cioè la maggioranza della classe operaia russa a quei tempi), è stato un fattore decisivo nel plasmare le forme di autorganizzazione proletaria, nel senso che i soviet erano strutturati secondo il modello del mir il consiglio democratico che governava le comuni agricole. 

Se passiamo alla rivoluzione cinese del 1949, questo imprinting appare ancora più forte. Non solo perché l’Esercito Popolare di Liberazione che ebbe ragione sia degli invasori giapponesi che del Kuomintang era composto in larghissima maggioranza di contadini, ma soprattutto perché l’intero sviluppo della rivoluzione, dalle origini ai giorni nostri, appare fortemente influenzato da questa matrice socioculturale. Nel contesto cinese, il tanto disprezzato modo di produzione asiatico si è rivelato un arma formidabile sotto svariati punti di vista: il suo spirito comunitario e anti individualista ha permeato di sé l’intera società cinese; dopo il fallimento degli esperimenti maoisti del Grande Balzo in Avanti e delle Comuni (con il tentativo di procedere alla collettivizzazione forzata delle campagne) si è tornati ad adottare modelli di funzionamento simili a quelli descritti poco sopra per l’obscina: la terra appartiene allo Stato che la lascia in usufrutto alle comunità di villaggio, e queste le distribuiscono alle famiglie che sono responsabili della sua messa a frutto, un “ritorno al passato” che – unitamente alla disponibilità di tecnologie moderne – ha consentito un colossale aumento di produttività (i contadini cinesi nutrono il 30% della popolazione mondiale con il 20% delle terre coltivabili); il buon funzionamento di questa agricoltura “in  stile cinese”  ha a sua volta accompagnato e favorito gli straordinari ritmi di crescita di un sistema industriale misto (imprese statali e imprese private) per cui si può sostenere (come ho fatto in alcuni lavori recenti) che, invece di lasciarsi colonizzare dal modo di produzione capitalista, la società e l’economia cinesi sono riuscite a usarlo per strappare centinaia di milioni di persone alla povertà, senza mai allentare il controllo del partito comunista sullo Stato. 

Concludo citando un ultimo esempio, quello della rivoluzione boliviana. In America Latina i partiti comunisti “ortodossi” hanno sempre classificato le comunità agricole indigene come un “residuo feudale”, o addirittura come una variante locale del modo di produzione asiatico, ignorando le abissali differenze di queste forme di vita tradizionali sia dal feudalesimo europeo, sia dai dispotismi orientali (gli stessi imperi Inca, Aztechi e Maya presentavano caratteristiche assai diverse). Di qui un’impostazione sindacale classica delle lotte contadine e la rivendicazione di una riforma agraria basata sulla ridistribuzione delle terre dei latifondisti ai singoli contadini invece che alle comunità agricole, il che avrebbe comportato la sostituzione della proprietà comune (in realtà queste culture ignorano l’idea stessa di proprietà in quanto ritengono che siano gli uomini ad appartenere alla Madre Terra e non viceversa) con la proprietà privata. Questa strategia ha sempre generato disastri, finché, a partire dagli anni Novanta, si è determinata una svolta etnicista dei movimenti contadini indigeni, i quali hanno iniziato a rivendicare i propri diritti di cittadini senza rinunciare alla propria identità storica culturale e socio economica. Analizzando la rivoluzione boliviana Alvaro G. Linera (cfr. La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015) descrive il ruolo rivoluzionario e anticapitalista che questo movimento è riuscito a svolgere al punto da  assumere un ruolo egemonico nei confronti delle lotte di altri strati sociali. Cito qui di seguito quanto ho scritto in merito in uno dei miei ultimi libri (Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019).


<< Le cause della rivoluzione vengono ben spiegate da Álvaro G. Linera: il processo di ristrutturazione neoliberista, accantonate le strategie di modernizzazione che puntavano alla sostituzione delle tradizionali forme produttive urbane e agricole, si fonda su un nuovo ordine imprenditoriale che agisce da anello di congiunzione fra il flusso finanziario globale e le reti locali dell’economia informale, fondate su lavoro a domicilio e comunità familiari; un modello di accumulazione ibrido che unifica in forma gerarchizzata strutture produttive tradizionali tramite complessi meccanismi di subordinazione di reti produttive domestiche, comunitarie, artigiane, contadine e microimprenditoriali. La classe operaia cresce di numero ma è frammentata e precarizzata. Viceversa la comunità contadina, pur parzialmente inglobata nelle relazioni di mercato, non subisce processi di stratificazione sociale radicali ed irreversibili, conservando al proprio interno relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. La comunità campesindia è un’entità sociale fatta di vincoli tecnologici, circolazione di beni e persone, trasmissioni ereditarie, gestione collettiva di conoscenze e risorse. Linera identifica in questa forma-comunità che resiste attivamente ai processi di subordinazione una vera e propria classe antagonista. A corroborare questa tesi contribuisce il fatto che questi soggetti tradizionali riescono a costruire organismi di democrazia diretta e partecipativa capaci di unificare e mobilitare altri strati sociali. Nasce così un potere politico comunale sovraregionale fondato su nodi (cabildos) che sfida il governo, occupando il territorio e sottraendolo al controllo di prefetti, sindaci e polizia. I Cabildos funzionano come organismi pubblici di interscambio di idee e argomenti da cui nulla è escluso, sono spazi di uguaglianza politica, opinione pubblica e democrazia deliberativa; sono spazi sovrani in quanto non obbediscono a nessuna forza esterna>>. 

Si potrebbe dire che, mentre i soviet erano proiezioni della memoria contadina di un recente passato storico su nuove forme di lotta operaia, quanto appena citato fornisce un esempio di conversione diretta di strutture precapitalistiche in strumenti di lotta adeguati alla lotta di classe in un contesto capitalista. In  sintesi: non esiste un percorso unidirezionale, e univocamente sovradeterminato da fattori economici, che conduca dal passato precapitalista al futuro socialista transitando dalle forche caudine del capitalismo, esiste un intrico di strade in cui contraddizioni nuove ed antiche si intrecciano, generando la possibilità di diverse soluzioni alternative. Si tratta di esplorare tali possibilità senza pregiudizi dogmatici. Se è vero, come sostiene Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi 1974), che il capitalismo non è l’esito inevitabile di ferree leggi storico economiche, bensì una mutazione anomala rispetto a tutte le forme di vita precedenti (l’unica che abbia eletto il mercato a modello della totalità dei rapporti sociali), allora deve essere possibile trovare più di una via d’uscita da questo incubo.  


     

lunedì 15 febbraio 2021


 

LA PEDAGOGIA ECONOMETRICA, OVVERO COME CRESCERE UNA GENERAZIONE DI BALILLA NEOLIBERALI  

di Emanuele Dell’Atti

Anche se la notizia del prolungamento dell’anno scolastico non è ufficiale, il dibattito che ha scatenato è reale, come reale è la retorica che lo sottende. Una retorica intrisa di luoghi comuni e veicolata da una radicata ideologia che considera la scuola – e in generale tutto ciò che non produce profitti ma è solo una voce di spesa nei bilanci – non una risorsa da potenziare, ma un problema da risolvere. Ma, al netto del dibattito corrente, per inquadrare tutto quel che appare come un fenomeno episodico o una sortita dell’ultima ora, occorre guardare a quanto sta accadendo al mondo della scuola da almeno vent’anni. Ci si accorgerà che, ogniqualvolta si parli di politiche scolastiche come “esigenza prioritaria” del paese, c'è sempre da temere: sotto, infatti, non c'è mai uno spirito di rilancio autentico e disinteressato della scuola come “tempio della formazione” e una riqualificazione dei docenti come vettori di “saperi infunzionali”, ma sempre interessi ed esigenze di altra natura. 

La conferma giunge con la nomina a ministro dell’istruzione di Patrizio Bianchi, in perfetta continuità con le politiche delle “riforme” che, attraverso l’ossessivo mantra delle “competenze”, della “autonomia” e del “capitale umano”, hanno letteralmente trasfigurato la scuola italiana. Il ministro da poco insediatosi, infatti, nel suo ultimo libro-programma intitolato Nello specchio della scuola. Quale futuro per l’Italia (Il Mulino 2020), denota, a partire dal suo approccio econometrico, un perfetto isomorfismo senza resti con la logica imprenditoriale e neoliberale che considera la scuola come un “investimento nel capitale umano”, e proclama una decisa territorializzazione della formazione attraverso i cosiddetti “patti di comunità” e lo slogan del “territorio educante”. Bianchi, insomma, in sintonia con la stagione “riformatrice” che si staglia all’orizzonte con l’arrivo del nuovo governo, si presenta come un perfetto amplificatore di quanto, fino ad oggi, ha travolto, sfigurandola, la scuola italiana. Con l’augurio che questa non si riveli come una profezia autoavverantesi, il suo modello di scuola come luogo di preparazione alla flessibilità del mercato, quindi l’insistenza sulla “didattica per competenze” e i modelli di apprendimento cooperativo (di cui ne sono emblemi il celebre cooperative learning e la famigerata flipped classroom), non lascia ben sperare. 

La scuola, infatti, nella logica neoliberale di cui il nuovo governo e il neoministro sono portatori, deve farsi luogo, non di acquisizione e rielaborazione critica dei saperi, ma di “addestramento” alla risoluzione “flessibile” dei problemi: solo così – per i guru della pedagogia econometrica – si possono produrre lavoratori capaci di adattamento alle esigenze sempre cangianti del mercato del lavoro, portatori di skills trasversali, in grado di implementare un’attitudine a lavorare in team in modo efficiente. Unico fine: la competitività. L’origine di questa visione funzionalista della scuola è da ricercarsi nel “Libro bianco su istruzione e formazione” della Commissione europea del 1995, attuazione del precedente – ed eloquente – “Crescita, Competitività, Occupazione” dell’allora presidente Jaques Delors. Un armamentario di indicazioni che, dietro il pretesto dell’innovazione, nascondeva quella logica che, di lì in avanti, avrebbe informato qualsiasi “riforma” scolastica (in Europa e in Italia) nel segno dello snellimento delle discipline, delle rimodulazioni orarie e dello svecchiamento delle metodologie didattiche. Con quale obiettivo? Rendere l’istruzione un momento propedeutico della produzione di valore economico. A partire da questo documento fondativo e fino a giungere alle recenti “Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento” adottate dal Consiglio UE nel 2018, la scuola italiana, attraverso le varie (contro)riforme susseguitesi (spesso, come è noto, appendici di politiche di bilancio), ha compiuto gradualmente il suo suicidio: da luogo “infunzionale” della cultura e della formazione, a veicolo dell’ideologia produttivistica della competizione.

Per questo ogni ondata di interesse mediatico per la scuola si risolve nella riproposizione di luoghi comuni: si rivernicia la figura del “docente facilitatore”, si ribadisce l’abbandono delle conoscenze a vantaggio delle “competenze” (concetto didatticamente ed epistemologicamente indefinito), si valorizza la scuola del territorio e del mercato e, date le circostanze, la scuola digitale. E persino quando si celebra la scuola come luogo di formazione del cittadino di domani, non tarda mai a manifestarsi l’intenzione funzionale che vi è dietro. Si pensi alla recentissima riproposizione dell’insegnamento dell’Educazione civica. Cosa buona e giusta, se solo non fosse considerata – anziché come momento generativo di consapevolezza storico-politica e di rilancio della natura "programmatica" della nostra Costituzione – come mero addestramento, quale di fatto si rivela, alle pratiche di gestione dell’esistente: cittadinanza digitale, ambientalismo manieristico, pluralismo culturale di vetrina, con l’obiettivo di produrre “cittadini competenti” – cioè capaci di stare al loro posto – e dove vige una confusione normativa inverosimile. Ogni docente, infatti, in modo improvvisato e pressoché scoordinato, “cede” delle ore curricolari per dedicarle a temi stabiliti dall’alto, binari entro cui irreggimentare il testo costituzionale e, in una certa misura, disinnescarne gli obiettivi politici e programmatici. L’importante è che quelle “ore” vengano registrate.



Tutto, infatti, nella scuola di oggi, si quantifica e si rendiconta, e tutto deve essere funzionale ad altro che non sia il “sapere per il sapere”. Ogni materia scolastica, infatti, non può permettersi il lusso di “non servire” a niente: deve produrre competenze verificabili nell’alunno. Questa ossessione, che nasce nell’ambito dell’insegnamento delle lingue straniere e delle materie tecniche, vorrebbe mettere l’allievo di fronte a dei “compiti di realtà”. Fatti, non parole, con una “spendibilità” immediata. Questo modello ha letteralmente colonizzato il mondo della scuola. I nuovi guru della didattica, infatti, non hanno tardato a generalizzarlo ed estenderlo a tutte le discipline. Le materie scolastiche, fatte di nozioni polverose e astratte, si rinnoverebbero e finalmente “servirebbero” a qualcosa. Così, le discipline scientifiche, specie se con forte componente tecnica, sono state cooptate con relativa facilità in questa logica. Ma lo stesso destino sta travolgendo quelle discipline per loro natura “infunzionali”, cioè la letteratura, la storia, la filosofia, l’arte, le lingue antiche. Anche da queste, infatti, si può “estrarre valore”, basta reinserirle nella cornice giusta: letteratura, storia e arte generano abilità comunicative e “fanno cultura”, la filosofia potenzia il ragionamento flessibile e la competenza argomentativa, le lingue antiche sviluppano la capacità di problem solving. Insomma: più ne sai, più possibilità di successo avrai nel mercato del lavoro. Ecco che l’osannata didattica per competenze – presentata come attraente innovazione agli studenti e proposta come obbligo di aggiornamento professionale ai docenti pigroni e vetusti – si rivela per la sua vera natura: la didattica per la competizione.

La scuola va svecchiata, certo. Occorre una maggiore e capillare diffusione delle tecnologie informatiche e una più adeguata preparazione dei docenti ad usarle. È giusto sperimentare modelli didattici meno trasmissivi e più cooperativi. Ma non dimentichiamo che questi sono “mezzi”, non “fini”. Non dimentichiamo che il ruolo dei docenti, il loro senso, non è mai stato né mai potrà essere, quello di istruire gli alunni all’uso delle tecnologie, quello di rendere leggeri e facilmente fruibili i contenuti, per accompagnare gli studenti nel mercato del lavoro. Attraverso i docenti transitano quei saperi che poi devono essere metabolizzati dai discenti, i quali cercano e creano il loro metodo di studio, di ricerca, di lavoro. La scuola dovrebbe favorire queste condizioni. Al contrario, inseguendo ossessivamente il “saper fare”, le “competenze”, i saperi liofilizzati, la rendicontazione permanente, la quantificazione esasperata, la scuola ha finito per essere lo specchio delle logiche produttive, mutuando goffamente dal mercato lessico e metodo. 

Ogni anno, inoltre, da almeno vent’anni, crescono ipertroficamente le incombenze burocratiche e di rendicontazione per i docenti, sempre meno incentivati ad insegnare e sempre più motivati o, semplicemente, obbligati, a redigere carte. I contenuti e le conoscenze disciplinari, vecchi retaggi di una formazione trapassata, devono fare posto a metodi user-friendly, attraenti e “leggeri”, che facciano vedere immediatamente l’utilità e la spendibilità del sapere. In questo contesto, l'ultima cosa che può trovare spazio è la sostanza dell'insegnamento e la profondità dei contenuti, ritenuti come polverose reliquie del passato. Ebbene, il nuovo ministro dell’istruzione non sembra che abbia intenzione di invertire questa tendenza in atto. Anzi, sembra che voglia potenziarla. Basti pensare al bizzarro modello – espresso immancabilmente nella neolingua anglo-liberale – del coollaborative problem solving skills, di cui egli è fiero fautore. 

  C’è una pesante matrice ideologica dietro questa deriva. La scuola, infatti, ha ormai adottato senza riserve il lessico di una più vasta “progettazione sociale”, per dirla con Ferruccio Rossi-Landi, la quale instrada su delle rotaie ideologiche schemi e modelli di comportamento linguistico-comunicativo indisponibili ad una analisi meta-riflessiva, al punto che – come scriveva il filosofo e semiotico italiano – non sappiamo più cosa facciamo quando parliamo e non sappiamo più perché parliamo come parliamo, in quanto “lavoratori” inconsapevoli di un processo di produzione linguistica che ci obbliga a vedere il mondo in determinate maniere. Immaginare di poter invertire la rotta con semplici e contingenti indirizzi normativi, pertanto, appare come una pia illusione. Occorrerebbe, infatti, svincolare la formazione scolastica dal modello economico entro cui siamo immersi, impresa che richiederebbe un’intenzionalità politica radicalmente alternativa. I docenti, inoltre, divisi e frammentati da decenni di erosione del loro ruolo e delle loro prerogative, sono incapaci di reagire a questa deriva, soprattutto perché privi di una sponda politica e sindacale realmente alternativa all’ideo-logica dominante. Inoltre, anni di narrazioni tese a sminuire, se non a denigrare, gli insegnanti, descritti come enti parassitari (vedi il sempreverde mito delle ferie di tre mesi), hanno contrapposto il corpo docente ad altre categorie professionali, in particolare quella dei knowledge workers autonomi, ormai incapaci di vedere che fanno parte dello stesso ceto medio impoverito. Un’inversione di marcia, al momento, non è nell’agenda di nessuna delle forze politiche in campo, contrapposte su singole issues, ma omogenee nell’accettazione acritica – e spesso nell’esaltazione – di questo stato di cose. Si veda l’appoggio unanime al governo Draghi, ammantato di tecnicità “neutrale” ma, di fatto, espressione massima della forma sociale che ci ha condotti fin qua.  È da qui, dunque, che occorrerebbe ripartire. Dalla creazione di una forza politica portatrice di una nuova visione antropologica e sociale, una forza che possa riprendere in mano il conflitto e riaprire la partita.







sabato 13 febbraio 2021

DOMINIO SENZA EGEMONIA. APPUNTI PER UNA STORIA DELLE CLASSI DIRIGENTI ITALIANE 

Pubblico qui di seguito il testo integrale dell'intervento di cui ho letto un estratto nel corso del convegno "Malattia nazionale. Distorsioni di un capitalismo piccolo piccolo" che è appena stato trasmesso sui canali della Rete dei Comunisti e di Contropiano

La borghesia italiana non è mai riuscita a costruire uno Stato decente né ad aggregare un blocco sociale in grado di esercitare una reale egemonia (in senso gramsciano). Di conseguenza per conservare il potere, da un lato ha spesso dovuto ricorrere al dominio, schiacciando con la forza la resistenza delle classi subalterne quando si sono ribellate (senza riuscire a loro volta a produrre una concreta alternativa sistemica), dall’altro lato ha altrettanto spesso dovuto ricorrere all’appoggio esterno di potenze straniere. 
Ciò vale fin dalla nostra costituzione come nazione indipendente. Il cosiddetto Risorgimento è stato l’esito, più che di una rivoluzione popolare (di cui si sono avuti solo accenni con episodi isolati come le Cinque Giornate di Milano e la Repubblica Romana), di guerre di conquista del Regno di Savoia a spese di altri staterelli, guerre che sono state vinte grazie all’appoggio francese prima e prussiano poi (senza dimenticare la benevola neutralità inglese: vedi lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). In particolare, l’annessione del Regno delle Due Sicilie è stata una vera e propria colonizzazione interna, associata all’espropriazione delle risorse del Meridione, che sono servite a finanziare l’accumulazione primitiva del capitalismo settentrionale, (vedi le analisi di Nicola Zitara) e dalla repressione selvaggia delle masse contadine cui non è stato concesso nulla perché occorreva assicurarsi il consenso dei latifondisti. 

Il trasformismo e il giolittismo che hanno gestito il Paese unificato nei decenni successivi hanno offerto una ulteriore conferma della cronica incapacità di dare vita a robuste istituzioni statali e a una classe dirigente degna di tale nome. Si è tenuta in piedi la baracca attraverso alleanze a geometria variabile fra le diverse élite e i loro interessi corporativi e sfruttando il sottogoverno gestito da reti di solidarietà familistica. Un compito facilitato dal ritardo con cui venivano sviluppandosi la grande industria e la classe operaia, e dal prevalere di una componente contadina arretrata e segmentata secondo le regioni di appartenenza. Una massa contadina che ha fornito la materia prima del carnaio della Grande Guerra, nella quale il Paese si è avventurato accodandosi alla coalizione vincente in cambio di qualche guadagno territoriale (vedi la retorica della “quarta guerra d’indipendenza” sbandierata dai manuali scolatici di storia fino al secondo dopoguerra).

La prima vera grande sfida che le classi dominanti hanno dovuto affrontare è stata, dopo la Grande Guerra, quella lanciatagli dalla classe operaia che era venuta crescendo in numero e coscienza politica e sindacale nel triangolo industriale, il cui decollo era stato accelerato dallo sforzo bellico. Una classe che guardava con simpatia alla Rivoluzione bolscevica del 17 e si riconosceva nel Partito Socialista e nel Partito Comunista nato a Livorno nel 1921.

Ancora una volta, la sfida non è stata vinta grazie alle capacità egemoniche delle classi dominanti bensì attraverso la repressione violenta. Al fascismo, espressione dell’ideologia e degli interessi della piccola borghesia urbana e rurale e del blocco agrario, i capitalisti industriali e finanziari hanno delegato il lavoro sporco, dimostrandosi disposti a rinunciare a mantenere il controllo sul governo e sull’apparato statale (in realtà contavano sul fatto che lo avrebbero potuto riprendere non appena sconfitto il nemico di classe, ma l’autonomia del politico li ha fregati, costringendoli ad accettare il ventennio mussoliniano). 

Con la sconfitta subita nella disastrosa avventura della Seconda guerra mondiale, e con l’avvento della Repubblica e la conseguente approvazione della Costituzione del 48, si apre l’unico periodo in cui si può parlare di egemonia delle classi dirigenti emerse dalle macerie belliche. Si tratta di un’egemonia sui generis che rispecchia, sia il compromesso imposto dal contributo decisivo che socialisti e comunisti avevano dato alla vittoriosa guerra di Resistenza, sia la collocazione “frontaliera” dell’Italia fra l’Europa controllata dagli Alleati occidentali e il blocco sovietico che, grazie alla vittoria sul nazismo, si era esteso fin nel cuore del Vecchio Continente. L’incombente presenza sovietica, pur avendo l’Urss accettato l’appartenenza della nostra penisola al blocco atlantico, esercitava un’influenza potente sul proletariato italiano, nel frattempo cresciuto notevolmente di peso numerico, culturale e politico e sconsigliava una liquidazione violenta delle sue organizzazioni (sul tipo di quella attuata in Grecia) che avrebbe provocato un bagno di sangue. 


Malgrado le dure repressioni degli anni Cinquanta nelle grandi fabbriche del Nord, in particolare alla Fiat, quella che è venuta progressivamente instaurandosi è stata una sorta di convivenza conflittuale fra le forze della conservazione (la DC e i suoi alleati) e le forze progressiste (PCI e PSI). All’ombra di questo compromesso politico è potuto crescere il compromesso sociale fra capitale e lavoro. Con caratteristiche peculiari rispetto ad altre versioni del modello fordista: mentre altrove – in particolare negli Stati Uniti e in Inghilterra - tale modello era il frutto della crescita di gigantesche imprese monopolistiche private e della necessità di concedere salari relativamente elevati per sostenere la domanda di beni di consumo durevole, da noi le condizioni strutturali di questo circolo virtuoso non si sarebbero sviluppate (l’esistenza della Fiat e di poche altre grandi fabbriche settentrionali non sarebbe bastata), in assenza di un massiccio intervento diretto dello Stato in economia. E’ stata l’economia mista cresciuta fra la fine dei Cinquanta e la prima metà dei Sessanta a dare l’impulso decisivo per il boom italiano, con il suo contorno di riforme, modernizzazione culturale e con la sua dialettica politica, conflittuale ma non antagonista, fra blocco conservatore e blocco progressista. Come detto in precedenza, questo è forse l’unico periodo della nostra storia in cui si può parlare di una classe dirigente capace di esercitare egemonia e non semplicemente dominio sulle classi subalterne, cooptandole parzialmente nel sistema di gestione del potere.

A rompere quell’equilibrio non concorsero solo fattori “esterni” come crisi petrolifera, caduta del saggio di profitto, stagflazione e rottura degli accordi di Bretton Woods ma anche una sorta di nemesi delle secolari sofferenze del proletariato meridionale. Mi riferisco al ruolo degli immigrati meridionali impiegati come operai comuni nell’alzare il tiro della conflittualità di classe. Per nulla sensibili alla cultura della trattativa e della cogestione degli operai professionalizzati inquadrati nei partiti e nei sindacati tradizionali, costoro lottarono con energia dirompente per ottenere forti aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione e allentamento della disciplina aziendale, contribuendo ulteriormente alla riduzione dei margini di profitto. Ritengo viceversa che il peso esercitato dall’alleanza fra gli operai, il movimento studentesco e le formazioni politiche nate dal progressivo sfaldamento di quest’ultimo sia stato sopravalutato (sopravvalutazione dovuta in larga misura alla retorica sulla narrazione degli “anni di piombo”), nel senso che quelle sinistre radicali persero ben preso la loro spinta propulsiva, dando origine all’onda lunga dei nuovi movimenti e alla loro prevalente concentrazione sui diritti civili e individuali. 

Ben altro impatto ebbe il modo in cui il PCI reagì ai sintomi sempre più evidenti della tentazione delle classi dominanti e dei loro apparati repressivi di passare dall’egemonia al dominio e alla repressione violenta (stragi di stato). Una preoccupazione aggravata dalla ferocia con cui gli Stati Uniti avevano stroncato l’esperimento socialista cileno. Il compromesso storico, la celebrazione dell’austerità e la dichiarazione di fedeltà all’Alleanza Atlantica furono di fatto una candidatura a garantire un esercizio pacifico dell’egemonia sulle classi popolari per conto delle classi padronali, frenando una spinta operaia che già veniva esaurendosi spontaneamente sotto i colpi delle ristrutturazione capitalistica (decentramento produttivo, tagli di organico, ristrutturazione tecnologica, ecc.). Eppure nemmeno quella macelleria sociale, che dopo la marcia dei quarantamila quadri della Fiat del 1980 incontrò sempre meno resistenza, fu sufficiente a chiudere la partita.

Era infatti necessario destrutturare l’economia mista che aveva fatto maturare le condizioni per il ciclo di lotte operaie. A occuparsene furono i vari Carli, Draghi, Ciampi, Andreatta, Amato e Prodi che imposero prima l’autonomizzazione della Banca d’Italia dal potere politico, poi l’adesione al trattato di Maastricht e l’ingresso nell’area euro - tutti passaggi avvenuti con la benedizione di un PCI già avviato a concludere la trasformazione in partito liberale, definitivamente sancita dopo la caduta dell’URSS. A quel punto, il vincolo esterno (lo vuole l’Europa) aveva preso il posto delle minacce di repressione violenta in quanto otteneva gli stessi risultati senza innescare reazioni simmetriche.

Lo smantellamento dell’industria di Stato e la sconfitta delle classi lavoratrici non hanno tuttavia creato le condizioni per l’ascesa di grandi imprese private capaci di competere sul mercato internazionale, proprio perché la borghesia italiana aveva scelto di accettare un ruolo subalterno sul piano internazionale pur di mantenere il proprio dominio sulle classi lavoratrici.  Quella scelta ha inferto ferite mortali a un sistema Paese già penalizzato dalla cronica debolezza delle strutture statali (con la riforma dell’articolo V e il decentramento regionale quella debolezza diverrà vero e proprio sfascio, come certificato dall’attuale incapacità di gestire l’emergenza pandemica). Gli esiti sono noti: nanismo delle imprese (che si cercherà di far passare per un fattore positivo con le narrazioni sui distretti e con la retorica del “piccolo è bello”), terziarizzazione del lavoro (con prevalenza dei settori del turismo, del ristoro e dell’intrattenimento – a basso valore aggiunto e caratterizzati da lavoro precario e sottopagato - rispetto al terziario avanzato e innovativo), aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; sfascio dei servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti), degrado ambientale e territoriale, disoccupazione e sottooccupazione cronica (con la proliferazione di lavori precari, temporanei, finto autonomi, sottopagati, ecc.).

Questi processi in atto da quattro decenni hanno determinato radicali trasformazioni nella composizione di classe e nelle forme della rappresentanza politica. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo avuto l’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Per quanto riguarda le seconde, Tangentopoli ha avviato una crisi irreversibile dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione ma che soprattutto si erano scavati la fossa favorendo l’indebolimento delle loro stesse basi sociali, dopodiché Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali fondati sulla mobilitazione di una massa composita di individui sensibili alla comunicazione mediatica più che ai programmi politici. I movimenti spontanei di rivolta hanno a loro volta scontato gli effetti di questo marasma sociale, culturale e politico, dando vita a esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa, al “cittadinismo” dei vari girotondi, indignati ecc. con base nella piccola e media borghesia urbana e privi di qualsiasi velleità antisistema (via ai corrotti, potere agli onesti), e a esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi. Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S. 

Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni Novanta e il partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Fra il governo Monti e l’appena insediato governo Draghi - due momenti in cui l’alta finanza ha assunto in prima persona il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo ogni finzione di democrazia - abbiamo assistito alla rapida ascesa, culminata con le elezioni del 2018, e alla ancora più rapida caduta di un populismo bicefalo. Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (anche perché la sua base sociale è legata a doppio filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche). Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”, ma che, nella sua breve vita, ha attraversato una tumultuosa serie di mutazioni. Alla fase pionieristica dei Meetup (egemonizzata dagli esponenti delle nuove professioni emergenti – soprattutto nel settore delle nuove tecnologie e caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale e dal rifiuto intransigente del professionismo politico) si è rapidamente passati alla fase governista, allorché il movimento, incoraggiato dai successi ottenuti nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, ha dato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo è venuto raccogliendo un consenso assai più ampio e trasversale: operai , impiegati, nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, membri delle classi medie “riflessive”, artigiani e piccoli imprenditori con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo. 

Nessuno di questi esperimenti è tuttavia riuscito a risolvere l’annoso problema della costruzione di una élite politica capace di esercitare una reale funzione egemonica. La Lega perché, malgrado la sua riconversione a partito nazionale, è sempre rimasta espressione delle componenti più deboli di una classe imprenditoriale già di per sé affetta da pesanti carenze strutturali e culturali. Quanto all’M5S si è trattato di un’incarnazione quasi da manuale delle teorie del filosofo franco-argentino Ernesto Laclau: un aggregatore di domande eterogenee provenienti da settori sociali altrettanto eterogenei nei confronti di un sistema incapace di dare risposte, una forza che è riuscita a costruire una sgangherata “catena equivalenziale”, sempre per usare il linguaggio di Laclau, alla quale è però mancata la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare un vero progetto politico, tenuta insieme  solo dal collante della critica alla “casta” e da un “programma” che si riduce all’idea di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate attraverso i meccanismi della democrazia digitale. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema, nessuna indicazione concreta su obiettivi e mezzi in materia di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico incapace di gestirlo. 
Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Ma la crisi pandemica non gli ha permesso di realizzare l’obiettivo di sostituirsi alle vecchie élite incarnate dai partiti tradizionali. La tragicomica successione di compromessi e contorsioni finalizzate a scongiurare le elezioni e il “licenziamento” di gran parte dei suoi parlamentari non ha potuto evitare la catastrofe finale. Sarebbe tuttavia sbagliato leggerne il fallimento come una “rivincita” della politica tradizionale per la quale Renzi avrebbe agito da braccio armato. Ancora una volta le vicende italiane possono essere interpretate solo in ragione dell’incapacità egemonica delle classi dominanti – a prescindere dalle forze politiche chiamate di volta in volta a rappresentarne gli interessi – e dalla conseguente necessità di evocare un intervento esterno chiamato al tempo stesso a salvarle e a ribadirne la subalternità a livello economico e geopolitico. Il commissariamento del Paese da parte di Mario Draghi, che assume i connotati di un vero e proprio golpe bianco con la messa in mora dei partiti e dello stesso Parlamento e la sospensione di fatto della democrazia rappresentativa, non è frutto solo dello stato di eccezione provocato dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica (per inciso, nell’occasione trova ennesima conferma la definizione schmittiana secondo cui “sovrano è chi decide dello stato di eccezione”), può essere compresa solo a partire dal sintomatico e ossessivo richiamo da parte del presidente del consiglio incaricato alla collocazione atlantista ed europeista dell’Italia dove l’accento cade sul primo dei due aggettivi.  

La precipitazione della crisi italiana è infatti coincisa significativamente con la sconfitta elettorale di Trump e con il ritorno al potere del blocco sociale incarnato da Biden e dalla lobby neocons di cui costui è espressione, Tanto la vittoria di Trump di quattro anni fa quanto la sua recente sconfitta sono un sintomo della crisi di egemonia degli Stati Uniti. È evidente che gli Stati Uniti restano di gran lunga la prima potenza mondiale sul piano politico-militare, e anche – sia pure di stretta misura nei confronti della Cina – sul piano economico (in senso finanziario assai più che industriale); ma è chiaro che faticano sempre più a conservare un controllo assoluto sul resto del mondo (ne sia prova l’incapacità di mantenere ordine nel “cortile di casa” latinoamericano, dove non sono ancora riusciti a indurre un regime change in Venezuela e dove la piccola Bolivia ha rimesso al potere il governo socialista pochi mesi dopo il golpe militare). Tale difficoltà ha a che fare con l’esaurimento della spinta propulsiva del processo di globalizzazione, il quale, assai più che di presunte “leggi” economiche, è stato il frutto della volontà americana di dominio imperiale sul pianeta unificato dal crollo dell’URSS. Un progetto che ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, nella misura in cui ha generato le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti). I contraccolpi economico-sociali di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti, come l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media che hanno votato per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che ne rappresenta gli interessi.

Il progetto di Trump (disimpegno da vari teatri di guerra, rientro dei capitali investiti in Asia e altrove dalle multinazionali per rilanciare l’occupazione interna, freno all’immigrazione per ridurre la concorrenza nei confronti dei working poor autoctoni, ecc.) è fallito anche perché frenato dal potere interdizione del deep power degli apparati statali. Ma a dargli il colpo di grazia è stata la crisi pandemica e la folle linea negazionista dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Così il blocco sociale che lo aveva premiato quattro anni fa si è sfaldato: una parte – soprattutto le classi lavoratrici – è rientrata nell’ovile democratico, lasciandosi convincere, con più validi argomenti della volta precedente, dalla sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta la base socialmente più eterogenea e ideologizzata a destra che ha mostrato la sua faccia tanto violenta quanto folcloristica nell’assalto a Capitol Hill.


Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (la scelta della squadra di governo è una vetrina politically correct di donne e appartenenti  alle minoranze etniche e sessuali ma non prevede alcun esponente delle sinistre) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari e high tech (che hanno festeggiato silenziando i profili del presidente uscente) sugli altri settori del capitale nazionale; verrà riannodato il filo rosso delle politiche economiche condotte dai vari Clinton e Obama; ma soprattutto verrà perseguito con feroce determinazione l’obiettivo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) è già partita in grande stile e verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. 

Questo disegno non è attuabile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio dei loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue. Ma l’Europa ha subito effetti non meno devastanti a causa del coronavirus, aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni e tagli alla spesa e ai servizi pubblici, al punto che, per fronteggiare l’emergenza, si è compiuta una brusca inversione di rotta, allentando i vincoli di bilancio ed erogando enormi quantità di denaro pubblico per riaffidare allo Stato il ruolo di garante in ultima istanza della sicurezza generale. È vero che l’emergenza pandemica ha consentito all’establishment europeo di ridimensionare la sfida populista, ma il consolidamento dei tradizionali equilibri istituzionali non risolve le contraddizioni scatenate dalla crisi, per cui l’Europa non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e ruolo geopolitici, di accettare supinamente un rilancio della leadership statunitense, soprattutto se le viene richiesta una partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese che implica pesanti conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti. Sintomi di queste contraddizioni interimperialistiche fra le due sponde dell’Atlantico: l’accordo con la Cina raggiunto in barba alla contrarietà americana, la scarsa propensione ad accettare il veto Usa sull’adozione del 5G targato Huawei, le velleità di ridimensionare la leadership del dollaro sui mercati finanziari globali, la reticenza della Germania nell’appoggiare le crociate antirusse. In questo contesto globale fluido, contraddittorio e turbolento andava garantita la tenuta dell’anello più debole della catena, per cui il prolungarsi dell’instabilità politica italiana diveniva intollerabile, al pari di certe “licenze” dei due governi Conte, come l’accordo stipulato con la Cina d’un paio d’anni fa. Mario Draghi è il proconsole imperiale incaricato di riportare l’ordine in questa provincia mal gestita da una borghesia cronicamente incapace di autogovernarsi e di governare i propri sudditi,  con il doppio incarico di garantire l’esecuzione tanto delle direttive europee che di quelle americane (forse più delle seconde che delle prime). 

giovedì 11 febbraio 2021


 PIANO CONTRO MERCATO

Pensieri a margine di un libro di Pasquale Cicalese e di un post di Alessandro Visalli

Per uno studioso di economia che si ispira esplicitamente al marxismo e  che – “difetto” ancora più grave – non appartiene alla corporazione degli economisti accademici, trovare una collocazione editoriale per i propri scritti è impresa al limite dell’impossibile. Pasquale Cicalese ci è riuscito grazie alla coraggiosa iniziativa degli amici del sito Lantidiplomatico https://www.lantidiplomatico.it/  i quali, dall’agosto 2020, hanno lanciato la L. A. D. Gruppo editoriale, una casa editrice che pubblica e.book  e libri acquistabili online. Il suo libro Piano contro mercato. Per un salario sociale di classe raccoglie una serie di articoli pubblicati su diversi siti (Marx 21, Contropiano, Lantidiplomatico, Carmillaonline e La Contraddizione) in un arco temporale che va dal 2012 al 2020.  

Nella “Prefazione” Guido Salerno Aletta – nome noto ai lettori di Milano Finanza - anticipa le ragioni di un titolo che evoca lo scontro fra i due modelli di sviluppo che oggi si fronteggiano a livello globale: da un lato, il dominio del Mercato che caratterizza il mondo occidentale, dall’altro il dominio della Politica che caratterizza la Cina, ovvero centralità dell’accumulazione finanziaria versus centralità del salario sociale. Mentre nelle prime righe della “Postfazione” Vladimiro Giacché dichiara senza mezzi termini di considerare Pasquale Cicalese  “uno dei pochi economisti italiani che valga la pena di leggere”, e questo non tanto e non solo perché non è un economista accademico, quanto perché “poche categorie professionali sono uscite screditate come questa dalla Grande Recessione e, più in generale, dalle vicende economiche dell’ultimo decennio”. Provo a spiegare perché condivido questo giudizio.    

Una premessa, prima di entrare nel merito: nel clima da guerra fredda che viene rapidamente montando, gli argomenti ai quali le nostre élite ricorrono per mobilitare l’opinione pubblica contro il “pericolo giallo” sono squisitamente ideologici. Non potendo negare i clamorosi successi economici che il sistema cinese ha ottenuto negli ultimi decenni, con una formidabile accelerazione proprio nel momento in cui l’Occidente conosce una sequenza di crisi drammatiche, l’attacco ruota attorno alle accuse di totalitarismo, violazione dei diritti civili ecc. Né le sinistre si limitano a fare coro: forniscono ulteriori argomenti per dissuadere le classi subalterne dal nutrire la tentazione di guardare a Oriente, negando che la Cina sia un Paese socialista, sia pure con caratteristiche inedite, dipingendola come un sistema capitalista sui generis, impegnato in uno scontro imperialista simmetrico con le potenze occidentali. Ergo: se le logiche di potere sono identiche, meglio optare per il campo che almeno garantisce regole democratiche al proprio interno.  


Cicalese evita di lasciarsi catturare da questa querelle ideologico-propagandistica e, invece di impegnarsi in un dibattito astratto su quali credenziali debba possedere un Paese per meritare la definizione di socialista, da vero marxista ragiona sulle concrete scelte politico-economiche compiute dal regime di Pechino, dimostrando, attraverso un confronto serrato con le le strategie adottate dalle controparti occidentali, come esse abbiano costantemente avuto come bussola l’obiettivo prioritario di promuovere la crescita del salario sociale e del benessere popolare. E la democrazia? Consiglio a chi legge di studiarsi Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, del sociologo canadese Daniel A. Bell (Luiss, Roma) che vive e insegna in Cina da dodici anni. Così potrà rendersi conto del fatto che la schiacciante maggioranza del popolo cinese non ha alcuna fretta di “conquistare” una democrazia di tipo occidentale, mentre accorda il proprio consenso al governo in base alla sua reale capacità di migliorarne le condizioni di vita. Ma veniamo ai dati di fatto citati da Cicalese (segnalerò gli anni in cui sono usciti gli articoli che cito). 

2013. Viene smantellato il sistema dello hukou, che discriminava i migranti interni che si trasferivano dalle campagne alle città, negando loro la possibilità usufruire del diritto all’istruzione, agli alloggi popolari alla sanità gratuita. Il provvedimento riguarda centinaia di milioni di lavoratori che a partire da allora hanno potuto godere del pieno accesso ai diritti sociali (in controtendenza rispetto allo smantellamento del welfare in atto nei Paesi a regime neoliberista). Nello stesso periodo, la Cina inizia a cogliere i frutti di decenni di giganteschi investimenti in istruzione e ricerca (l’elevata qualificazione della forza lavoro consente di ottenere un forte aumento del tasso di produttività totale). La ricchezza sociale generata da tali scelte, scrive Cicalese, è anche dovuta al fatto che il 72% del valore aggiunto è generato da colossi pubblici tassati alla fonte, per cui i bilanci statali restano in salute malgrado le massicce spese in investimenti. 

2014-2015. Dopo avere affrontato la crisi del 2008 con misure opposte a quelle adottate in Occidente (da un lato, la filosofia ossimoricamente definita di “austerità espansiva”, dall'altro, politiche fiscali espansive, con piani infrastrutturali per 600 miliardi di dollari - ferrovie, autostrade, porti ecc. - finalizzati allo sviluppo della logistica e della produttività totale, e attraverso aumenti salariali del 12% in media), la Cina fronteggia una nuova fase di turbolenze finanziarie con quella che Cicalese chiama “dittatura finanziaria del proletariato”: la banca centrale e il governo intervengono a frenare il crollo acquistando partecipazioni azionarie e obbligando le aziende di Stato ad acquistare azioni proprie.

2014 – 2018. Negli articoli usciti in questo lustro Cicalese segue passo dopo passo la proiezione della Cina sui mercati globali, evidenziando le caratteristiche che ne distinguono la logica da quella del processo di globalizzazione a trazione euroatlantica. L’ordine di partire alla conquista del mondo è impartito inizialmente a 500 imprese pubbliche con una media di 90.000 addetti l’una (Cicalese sottolinea il fatto che spesso sono guidate da generali dell’Esercito Popolare, il che evidenzia la natura non meramente economica del progetto). Tutte queste proiezioni internazionali, molte delle quali si aggregano attorno all’ambiziosissimo progetto della Via della Seta, hanno infatti una forte caratterizzazione politica e chiari obiettivi di medio lungo periodo. La rotta eurasiatica mira a promuovere nei Paesi coinvolti lo sviluppo di una classe media di un miliardo di persone, in grado di rimpiazzare gli Stati Uniti come mercato di sbocco dei prodotti made in China. I colossali investimenti diretti sul teatro europeo si propongono di sfidare le mire egemoniche degli Stati Uniti sul Vecchio Continente: da un lato, le mosse della Fed cercano di intercettare il surplus europeo per permettere agli Usa di continuare a crescere a debito, dall’altro i cinesi cercano di intrecciare i loro investimenti con quelli europei per creare collegamenti marittimi e terrestri fra Asia centrale, Medio Oriente ed Europa. 

La Cina è tuttavia consapevole che le sue strategie sono destinate a incontrare forti resistenze, anche perché gli europei temono il connubio fra imprese pubbliche e private cinesi nei settori high tech, tanto da rassegnarsi a svolgere un ruolo subordinato a rimorchio degli Stati Uniti (vedi il fatto che si sono lasciati imporre da Washington scelte anti russe in contrasto con i loro stessi interessi). Quindi si destreggia con abilità, sfruttando le contraddizioni del gioco a quattro che la vede impegnata con Usa, Russia e Ue. In primo luogo (vedi articoli dal 2016 al 2019) stringe relazioni sempre più strette con la Russia: nel 2017 l’interscambio fra i due Paesi raggiunge gli 80 miliardi di dollari; viene inaugurato un secondo oleodotto dalla Siberia che consente di raddoppiare le forniture di greggio russo, cui seguirà nel 2019 un gasdotto che implica forniture per 400 miliardi di dollari. Infine nel 2019 viene raggiunto un accordo che prevede di estendere all’intero territorio russo la produzione di soia da esportare in Cina. Inoltre si muove con flessibilità tattica nelle trattative dirette con gli Stati Uniti. Per esempio: nel 2017 vengono tolte le restrizioni che impedivano alle finanziarie americane di detenere il 51% di imprese cinesi: apparentemente una sconfitta, se non fosse che, nel contempo, il governo cinese fa capire che gli organi del PCC dovranno avere più peso e voce nelle società estere e non solo in quelle cinesi. 

In conclusione: negli ultimi decenni la Cina è riuscita 1) a crescere a ritmi impensabili per qualunque Paese capitalista occidentale; 2) a uscire indenne dalle crisi che hanno squassato l’economia globale in questo inizio secolo (ivi compresa quella del Covid19, anche se le cronache di Cicalese non arrivano fino allo scoppio della pandemia); 3) a eliminare la piaga della povertà aumentando considerevolmente il tenore di vita di centinaia di milioni di persone; 4) a implementare un salario sociale destinato a raggiungere i livelli di quello del “trentennio dorato” occidentale, le cui conquiste rischiano viceversa di venire riassorbite dalla controrivoluzione liberista; 5) a proiettare il suo modello di sviluppo verso molti Paesi di Asia Centrale, Medio Oriente, Africa e America Latina. Il tutto mantenendo saldamente nelle mani dello Stato-partito il controllo dell'economia. Non è “vero” socialismo? Può darsi, ma somiglia molto a quanto sognavano di realizzare le socialdemocrazie occidentali prima di convertirsi al liberismo. 

Veniamo agli articoli che ripercorrono la storia dei guai di casa nostra. In un pezzo del 2016, Cicalese parla di un quadro economico frutto della risposta borghese alla sfida operaia di fine Sessanta inizio Settanta: decentramento produttivo ed esplosione del lavoro “indipendente”, scrive, non furono dettati da necessità economiche, bensì dalla volontà di porre fine a un ciclo decennale di lotte,  ma né queste strategie né, tantomeno, lo smantellamento dell’economia pubblica sono bastate a fronteggiare la crisi. Al punto che la fotografia del panorama industriale del Paese che Cicalese scatta alla data dell’articolo in questione è la seguente: il 25% del capitale industriale è stato distrutto e la metà di ciò che rimane è fatto di piccole o piccolissime imprese che operano come subfornitori delle grandi imprese nostrane e delle multinazionali tedesche e francesi.  

Già nel 2013 aveva scritto che, data l’incapacità della nostra classe imprenditoriale di sfruttare lo spazio liberato dagli oligopoli industriali pubblici smantellati da Draghi, Amato e Prodi, l’unica chance di rilancio sarebbe potuta arrivare solo da un rilancio dell’intervento pubblico in economia, ma ciò era reso impossibile da quei trattati europei che imponevano politiche economiche tutte indirizzate dal lato dell’offerta, della deflazione salariale e dell’export. In questo contesto, che nel 2017 appare immutato e anzi peggiorato, gli industriali italiani hanno un’unica opzione: strappare qualche margine di competitività rispetto ai tedeschi esasperandone gli orientamenti mercantilisti. La sola opportunità di sottrarsi a questa trappola sarebbe stata sfruttare l’interesse cinese a piazzare “teste di ponte” nel Mediterraneo per implementare il progetto della Via della Seta. Venendo incontro a questo interesse, l’Italia avrebbe avuto ottime chance di crescita economica e di emanciparsi dai vincoli di bilancio imposti dai trattati Ue. Nel 2019 Cicalese intravede un timido passo in questa direzione, con gli accordi che il primo governo Conte stipula con la Cina (che non a caso irritano i partner europei). Ma gli anni successivi, fino alla crisi del secondo governo Conte e all’insediamento del “proconsole imperiale” Mario Draghi (eventi successivi a quelli descritti nel libro), poseranno una pietra tombale su questa chance. 


Ho rubato la metafora del proconsole imperiale ad Alessandro Visalli che ne fa uso in uno spiritoso post sul suo blog  http://tempofertile.blogspot.com/2021/02/il-proconsole-imperiale-draghi-serpenti.html . Visalli si riferisce alla figura di Rutilio Namaziano e al suo tentativo di rianimare il boccheggiante Impero romano (siamo attorno al 417 a.C.) mobilitando l’élite senatoriale e chiamando tutti i “migliori” (vi ricorda qualcosa?) a impegnarsi per rianimare gli antichi fasti imperiali e a far fronte alla minaccia delle orde barbariche. E ora anche noi, scrive Visalli, siamo stati raggiunti da un proconsole “legittimato al governo in ogni provincia imperiale”, risplendente nella sua virtus e nel suo meritum. Il suo appello è di quelli che non si possono rifiutare e infatti nessuno ha il coraggio di sottrarsi. Ma perché questo drammatico appello, si chiede Visalli, visto che il sia pur debole governo Conte II “stava più o meno tenendo il campo, non tanto meglio né tanto peggio dei predecessori”. Le ragioni non vanno cercate nella crisi italiana, risponde, occorre piuttosto guardare “alla geopolitica del virus, alla crisi di potenza, ed allo sforzo disperato di riaffermarsi di un ordo che è disposizione ordinata, schiera militare, rango e ceto, quindi sistema, metodo, regolarità, norma. Ma anche rito, sacramento, benedizione. L’ordine di cui Draghi è eminente membro, clarissimus, attraversa l’intero occidente, si manifesta ovunque ci sia una longa manus della alta finanza di osservanza angloamericana, attraversa tutte le stanze ed i palazzi, è ascoltato sempre per primo e per ultimo, dispone del potere di morte”.

Eppure Draghi, che oggi la tremebonda falange delle sinistre tradizionali e populiste acclama come salvatore della patria, è pur sempre colui che, come ricorda Cicalese in molti articoli, è stato fra i massimi tessitori del declassamento dell’Italia nel concerto delle potenze industriali europee e mondiali, della sua cattura nella gabbia dei trattati Ue che gli riserva il ruolo di nazione subalterna e ossequiosa dei diktat della finanza internazionale, diktat accettati di buon grado, e anzi implorati, come scudo contro l’orda dei barbari interni (le lotte operaie) e che ora, più che ribadire l’imperium dell’Europa a trazione franco-tedesca (mai seriamente messa in discussione, come conferma l’altrettanto ossequioso omaggio della destra presunta sovranista), rispecchiano le condizioni del più potente dominus d’Oltreoceano. Avete notato l’insistenza con cui la collocazione atlantista viene ossessivamente ribadita prima di quella europeista? Il fatto è che oggi, a fare paura, non sono più i barbari interni, asfaltati da decenni di sconfitte e presumibilmente incapaci di reagire alle nuove amare medicine che dovranno ingoiare, ma quelli esterni, quel “pericolo giallo” che con la sua mera esistenza certifica che vi è un’alternativa concreta a questo sistema in disgregazione. Altro che accordi con il “nemico”: alle armi, alle armi!

lunedì 8 febbraio 2021



Qui di seguito trovate una mia lunga riflessione sulla fase politica e sulle scelte che ritengo debba imporre a Nuova Direzione a un anno dalla sua nascita. Ho deciso di pubblicarla anche su questa pagina (è già apparsa sul sito di Nuova Direzione e rilanciata sul mio profilo Facebook) a beneficio dei lettori del blog che non seguono il sito dell'associazione nè il mio profilo. 

Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:
1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.
2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.). Tessere fondamentali di tale processo sono stati l’autonomizzazione della Banca d’Italia dal sistema politico (con conseguente aggravamento del debito pubblico, provocato dalla necessità di ricorrere alla finanza privata); i reiterati tentativi di snaturare la Costituzione del 48 (riforma dell’articolo V, inserimento del vincolo di pareggio di bilancio, ecc.) giudicato “criptosocialista” dalle élite finanziarie internazionali; la progressiva dismissione degli interventi pubblici diretti in economia (i soli in grado di reggere la competizione sul mercato globale). In poche parole: la borghesia italiana si è dimostrata disposta ad accettare il ridimensionato del proprio ruolo nel concerto delle nazioni industriali pur di rafforzare il controllo interno sulle classi subalterne.
3) Il venir meno di una rappresentanza politica e sindacale degli interessi delle classi lavoratrici e dei settori impoveriti delle classi medie, dovuto alla svolta neoliberista delle tradizionali forze socialdemocratiche e al progressivo abbandono dell’impegno sui temi sociali da parte di sinistre radicali sempre più votate alla gestione di tematiche relative all’allargamento dei diritti civili e individuali.
4) Il trasferimento delle aspettative e del consenso elettorale degli strati popolari dalla sinistra a formazioni populiste di destra come la Lega o “di sinistra” come l’M5S, benché in questo caso si possa parlare di sinistra solo in ragione della presenza di una quota significativa di ex militanti delusi delle sinistre nelle file del Movimento, certo non per i suoi programmi politici, fumosi, moderati e inadatti a fronteggiare le sfide descritte nei punti precedenti.

In questo contesto, alla fuga di quadri ed elettori di sinistra verso l’M5S si è progressivamente affiancata una diaspora, meno numerosa e vistosa anche perché in larga misura sommersa, fatta di una galassia di piccole formazioni (associazioni, gruppi e micro organizzazioni) che condividevano l’idea della necessità di lottare per lo sganciamento del Paese dalla Ue e per la riconquista della sovranità nazionale (non come fine, bensì come mezzo per creare le premesse indispensabili alla riattivazione della lotta di classe e alla partecipazione popolare e democratica alle decisioni politiche) così come condividevano (anche se in minor misura) l’esigenza di rilanciare principi, valori e programmi politici di chiara matrice socialista. In questo senso l’opposizione all’Europa ordoliberale a guida franco-tedesca era considerata condizione indispensabile per la rinascita di un movimento popolare e socialista. A dare credibilità a tale progetto contribuiva il proliferare di esperienze populiste di sinistra in diversi Paesi del mondo, dall’America Latina (rivoluzioni bolivariane), agli Stati Uniti (la nascita di un’ala socialista dei Democratici guidata da Sanders), al rilancio del Labour guidato da Corbyn, alle esperienze di Podemos e France Insoumise nel Vecchio Continente. Questo fermento è parso trovare un momento di coagulo con il lancio del Manifesto per il patriottismo costituzionale, elaborato da un gruppo di compagni provenienti da diverse esperienze (Rinascita, Senso Comune, Network dei Socialisti, Programma 101 e altri) che si erano aggregati attorno al deputato di Leu Stefano Fassina. Rientrato nei ranghi Fassina ed esauritasi di fatto la sua iniziativa, una parte di coloro che avevano partecipato a quella esperienza hanno continuato a perseguire il progetto dando vita all’associazione Nuova Direzione, formalmente costituitasi nel corso di un’assemblea nazionale tenutasi nel gennaio 2020.

Le Tesi approvate in quell’occasione, frutto di un intenso lavoro di discussione ed elaborazione collettiva, hanno rappresentato un contributo teorico-politico largamente apprezzato anche al di fuori dei membri e dei simpatizzanti di ND. In particolare, al loro interno troviamo:
1) un’analisi dettagliata dei dispositivi istituzionali, economici e ideologici attraverso i quali l’Unione Europea è riuscita a costruire un contesto che consegna ai Paesi del blocco centrale la possibilità di sfruttare la forza lavoro qualificata e a basso costo dei Paesi del Sud e dell’Est europei, favorendo il rafforzamento del modello neomercantilista tedesco e facendo sì che queste regioni vengano declassate a mercati di sbocco e deprivate di autonome capacità e risorse competitive;
2) una profonda analisi critica del regime e dell’ideologia liberal liberista, che ne ricostruisce radici storiche e percorsi evolutivi, mettendo in luce come le sinistre tradizionali e i cosiddetti nuovi movimenti (ecologisti, femministe, pacifisti, ecc.) abbiano progressivamente assunto principi, valori e obiettivi politici tipicamente liberali;
3) un primo abbozzo di analisi delle profonde trasformazioni che la composizione di classe ha subito nel corso degli ultimi decenni: individualizzazione; frazionamento secondo linee generazionali, etniche e di genere; perdita di capacità organizzativa e contrattuale delle classi lavoratrici, ecc.
4) un’analisi del fenomeno populista come forma spuria della lotta di classe in questa fase di arretramento generale dei rapporti di forza delle classi subalterne, analisi che ne mette in luce i limiti e le contraddizioni riconoscendo tuttavia la necessità di fare i conti con queste modalità di espressione della rabbia popolare, di “attraversarle” per creare le condizioni dell’aggregazione di nuove strutture politiche e sindacali e di un nuovo blocco sociale antagonista; 5) l’identificazione di alcuni obiettivi prioritari da agitare, quali la lotta per la piena occupazione, la drastica opposizione all’autonomia regionale intesa come leva per ottenere un ulteriore aumento delle sperequazioni fra Nord e Sud del Paese, la nazionalizzazione integrale dei servizi di base (scuola, sanità, trasporti), il rafforzamento del welfare, l’abolizione delle riforme che hanno sconciato la Costituzione del 48, una drastica riconfigurazione delle alleanze internazionali, con attenzione prioritaria alle relazioni con i Paesi mediterranei e i Brics.

Tradurre in azione politica queste linee generali si è rivelato impossibile sia a causa della crisi pandemica scoppiata poco dopo l’assemblea, sia per il dispendio di tempo ed energie causato dallo scontro interno con un gruppo di compagni che hanno scelto di convergere con il progetto politico del senatore Paragone (su questo tornerò più avanti). La pandemia non è stata solo un ostacolo “meccanico” (impossibilità di riunirsi e discutere se non via piattaforme virtuali, impossibilità di indire – o di partecipare a-  eventi come riunioni, convegni, seminari, manifestazioni pubbliche, ecc.) allo sviluppo dell’attività politica del gruppo. La verità è che, sommandosi agli strascichi irrisolti della grande crisi del 2008, la pandemia ha provocato un accelerazione esponenziale di tutte le contraddizioni economiche, sociali e politiche del sistema globale, riconfigurando scenari politici, rapporti di forza fra classi, Stati e nazioni, protagonisti, ecc. Per cui non mi pare esagerato affermare che le analisi contenute nelle Tesi  e che ho sintetizzato poco sopra non richiedono solo aggiornamenti e approfondimenti ma, almeno sotto certi aspetti, un cambiamento di prospettiva. Non avendo modo di argomentare nei dettagli quanto appena sostenuto (anche perché ciò può essere fatto solo attraverso un nuovo sforzo di elaborazione collettiva) anticipo quelli che ritengo essere i nodi problematici fondamentali su cui ragionare.

a) Evoluzione dello scenario internazionale.  
Tanto la vittoria di quattro anni fa quanto la recente sconfitta di Trump sono un sintomo evidente della crisi di egemonia degli Stati Uniti. Il termine è da intendersi in senso gramsciano: crisi di egemonia non significa negare che gli Stati Uniti restino di gran lunga la prima potenza mondiale sul piano politico-militare, e anche – sia pure di stretta misura nei confronti della Cina – sul piano economico, benché in senso finanziario assai più che industriale; significa prendere atto della impossibilità, di mantenere il controllo assoluto sul resto del mondo (come dimostra l’incapacità di mantenere ordine nel “cortile di casa” latinoamericano, dove non sono riusciti a indurre un regime change in Venezuela e dove la piccola Bolivia ha rimesso al potere il governo socialista pochi mesi dopo un golpe militare).
Com’è noto, crisi di egemonia significa che il potere può essere conservato solo attraverso il puro dominio, ma nemmeno questa è impresa semplice, dopo l’esaurimento della spinta propulsiva del processo di globalizzazione. Infatti quest’ultimo, trainato dal processo di finanziarizzazione e dalla diffusione pervasiva delle nuove tecnologie digitali, era il frutto, assai più che di presunte “leggi” economiche, della volontà americana di dominio imperiale sul mondo unificato dal crollo dell’Urss, ma ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, nella misura in cui ha generato le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti, ma anche una serie di potenze regionali emergenti). I contraccolpi economico-sociali interni di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti; in particolare, l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media ha generato una rabbia diffusa delle regioni più colpite (quelle interne del Paese) che hanno votato in massa per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che le aveva tradite, privilegiando gli interessi delle classi medie emergenti e di Wall Street (la sinistra populista e neo socialista di Sanders non ha potuto contrastare l’ascesa di Trump anche perché è rimasta intrappolata nel Partito Democratico).
Il progetto di Trump condensato nello slogan America First (disimpegno da vari teatri di guerra, rientro dei capitali investiti in Asia e altrove dalle multinazionali per rilanciare l’occupazione interna, freno all’immigrazione per ridurre la concorrenza nei confronti dei working poor autoctoni, ecc.) non è tuttavia riuscito a mantenere se non in minima parte le sue promesse elettorali, perché frenato dalla capacità di veto e interdizione del deep power degli apparati statali. Anche il suo tentativo di blandire Putin, per impedirne la convergenza con la Cina, è stato frustrato dalla lobby trasversale neocons che lo ha messo sotto accusa per il presunto appoggio elettorale russo. Ma il colpo di grazia è venuto soprattutto dalla crisi pandemica e dalla folle linea negazionista dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Non meno pesanti gli effetti della nuova, virulenta ondata di conflitti razziali che ha visto Trump difendere le violenze dei poliziotti parafascisti. La somma di queste difficoltà oggettive ed errori soggettivi ha fatto sì che il blocco sociale populista che lo aveva premiato quattro anni si sfaldasse: una parte – soprattutto le classi lavoratrici – è rientrata nell’ovile democratico, lasciandosi convincere, con più validi argomenti della volta precedente, dalla sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta la base socialmente più eterogenea e ideologizzata a destra che ha mostrato la sua faccia truce e folcloristica ad un tempo nell’assalto a Capitol Hill.

Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (la scelta della squadra di governo è una vetrina politically correct di donne e appartenenti  alle minoranze etniche e sessuali ma non prevede alcun esponente delle sinistre) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari, del resto mai seriamente scalfito da Trump, e high tech (che hanno manifestato il loro giubilo silenziando i profili del presidente uscente) sugli altri settori del capitale nazionale; verrà riannodato il filo rosso delle politiche economiche democratiche da Clinton a Obama e appoggiato senza riserve da Wall Street, ma soprattutto verrà perseguito con ben altra determinazione di Trump lo sforzo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) è già partita in grande stile e verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. In sintesi: rottura del blocco sociale populista, normalizzazione del quadro istituzionale (con integrazione della sinistra nel fronte per la difesa della democrazia, che l’assalto a Capitol Hill consente di presentare come realmente a rischio), mobilitazione nazionalista contro il “pericolo giallo”.

Questo disegno non è tuttavia perseguibile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio di tutti i loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue, con la quale Trump aveva aperto diversi fronti di conflitto. Il problema è che l’Europa ha subito effetti non meno devastanti a causa del coronavirus, effetti aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni tagli alla spesa e ai servizi pubblici: crollo verticale dell’occupazione e della produzione, decine di migliaia di vittime, servizi sanitari al collasso. Per fronteggiare l’emergenza è stato necessario compiere una brusca inversione di rotta rispetto al passato: allentare significativamente i vincoli di bilancio, erogare enormi quantità di denaro pubblico per impedire che decine di milioni di persone sprofondino in povertà assoluta, rivalutare il ruolo dello Stato come garante in ultima istanza della sicurezza e del benessere popolari. Ovviamente questa evoluzione è stata modulata in modo diverso da parte dei vari Stati membri ma qui ho solo lo spazio di valutare il caso italiano (del quale mi occuperò più avanti).

In generale è tuttavia possibile evidenziare alcuni tratti comuni che presentano significative analogie con lo scenario americano: anche in Europa il blocco sociale populista si è tendenzialmente sfaldato fra quegli strati (lavoratori garantiti, pensionati, dipendenti pubblici) che più beneficiano dell’assistenza pubblica e quelli (precari, disoccupati, finti autonomi, impiegati nella gig economy, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.) che più soffrono per il lockdown e la perdita di reddito. Di conseguenza, anche in Europa i movimenti populisti e sovranisti di destra e di sinistra hanno subito un netto ridimensionamento: quelli di destra sono in parte rifluiti nel blocco liberale dominante (anche se e quando restano all’opposizione, vedi il caso della Lega di Salvini) o sono stati marginalizzati, mantenendo presa quasi esclusivamente sugli strati più colpiti e socialmente disgregati. Quanto ai populisti di sinistra, la loro parabola discendente – certificata dal calo dei consensi elettorali – era già iniziata prima della pandemia, a mano a mano che hanno scelto (come Podemos e France Insoumise) di allearsi con i tradizionali partiti di centro sinistra per “difendere la democrazia” dalla minaccia dei populismi di destra (sbrigativamente assimilati a un rigurgito di fascismo storico). Avendo perso, dopo le rappresentanze politiche tradizionali, anche questi nuovi “contenitori dell’ira” (per usare la definizione di Alessandro Visalli), e trovandosi ingabbiata dalla quasi impossibilità di esprimersi pubblicamente a causa dello stato di emergenza sanitario, la rabbia degli strati più marginalizzati si manifesta con scoppi episodici e ideologicamente caricaturali (complottisti, no Vax, ecc.) non troppo dissimili dalla variopinta umanità che ha dato l’assalto a Capitol Hill a Washington (e in cui si mescolano residui sia dei populismi di destra che di quelli di sinistra).

Il consolidamento sui generis dei tradizionali equilibri istituzionali (sui generis in quanto imposto a colpi di eccezioni alle regole “normali”) non risolve tuttavia le profonde contraddizioni scatenate dalla crisi pandemica: l’Europa – soprattutto dopo avere perso la “costola” inglese che le garantiva decisivi margini di manovra sul piano finanziario – non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e del suo ruolo geopolitici, di rientrare sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, soprattutto perché questi ultimi ne richiedono la partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese che comporterebbe pesantissime conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti. Sintomo evidente di queste contraddizioni interimperialistiche fra le due sponde dell’Atlantico, l’accordo con la Cina raggiunto in barba alla contrarietà americana, la scarsa propensione ad accettare il veto Usa sull’adozione del 5G targato Huawei, le velleità europea di ridimensionare la leadership del dollaro sui mercati finanziari globali, la crescente resistenza della Germania ad appoggiare crociate antirusse (è stata costretta obtorto collo a sostenere la rivoluzione colorata ucraina, ma ora non sembra disposta a sacrificare l’accordo sul gasdotto sull’altare della difesa dei diritti civili).

A questa ultra schematica rappresentazione dello scenario geopolitico mondiale (per approfondimenti vedi Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro, di imminente uscita presso Meltemi, con saggi di Formenti, Fagan, Galli, Visalli, Romano, Monereo, Somma, Zhok, Sciortino, Pagliani) manca ovviamente una sezione sulla Cina, che richiederebbe un’analisi ampia e approfondita sulla natura del sistema socioeconomico cinese (socialismo?, capitalismo di stato?, socialismo con mercato e lotta di classe?, ecc.), sulla cultura millenaria di quel Paese e sul modo peculiare con cui si è intrecciata con la cultura marxista, sulla natura e sulle prospettive dello scontro geopolitico con l’Occidente. Per tutti questi problemi rinvio a quanto ho scritto nei miei ultimi due libri e in una serie di articoli recenti. Qui mi limito ad affermare che qualsiasi sia il giudizio sulla natura del sistema cinese, è letteralmente demenziale descrivere il conflitto cino-americano come uno scontro simmetrico fra opposti imperialismi: 1) perché l’aggressore è senza ombra di dubbio l’America; 2) perché il tipo di investimenti occidentali nei Paesi in via di sviluppo (prevalentemente finanziari, finalizzati a perpetuare la dipendenza attraverso il meccanismo dei debiti sovrani, vincolato all’adozione di politiche filo occidentali e antisocialiste) è completamente diverso da quello degli investimenti cinesi (prevalentemente strutturali, con finanziamenti a condizioni favorevoli e non vincolati all’orientamento politico dei Paesi beneficiari, finalizzato allo sviluppo dei Paesi interessati, ecc.); 3) perché l’ascesa della Cina, soprattutto dal momento in cui la crescita ha abbandonato il modello mercantilista per scommettere sullo sviluppo del mercato interno è innegabilmente uno dei fattori (come riconosciuto anche da autori non sospetti di simpatie ideologiche per Pechino come David Harvey) in grado di accelerare e approfondire la crisi capitalistica globale. 

b) evoluzione dello scenario italiano (I)
Per comprendere le radici del disastro attuale occorre risalire indietro nel tempo. Il boom degli anni Sessanta fu quasi interamente ascrivibile a un modello di economia mista in cui la grande industria di Stato svolgeva un ruolo strategico con colossi come l’IRI e l’ENI assieme ad alcune imprese private atipiche, come l’Olivetti. Quel modello fu attaccato dall’interno e dall’esterno. Dall’esterno perché minacciava il dominio americano in alcuni settori sensibili (petrolio e informatica), al punto che esistono fondate ragioni per ritenere che le morti di Enrico Mattei e Adriano Olivetti siano state in realtà assassinii programmati dai servizi d’oltreoceano (quando Olivetti morì la sua impresa deteneva know how più avanzati di quelli delle concorrenti americane e si apprestava a cederli a russi e cinesi). Dall’interno perché il contributo di quelle imprese alla nascita di una via italiana al compromesso fordista fra capitale e lavoro (di cui il dialogo fra DC e PCI – conflittuale ma non antagonistico -rappresentò la proiezione politica) aveva contribuito al rafforzamento del potere contrattuale delle classi lavoratrici, per cui andava smantellato.

Il grande processo di ristrutturazione degli anni Settanta, innescato dalla crisi petrolifera, e la successiva controffensiva neoliberista degli anni Ottanta non furono tuttavia sufficienti a chiudere la partita, a dare il colpo di grazia furono piuttosto le scelte ispirate dai vari Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi che portarono all’autonomizzazione della Banca d’Italia dal potere politico, e in una fase successiva, all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso nell’area euro (tutti passaggi avvenuti con la benedizione delle sinistre socialdemocratiche – e di un partito post comunista già in libera uscita con il compromesso storico e poi definitivamente affrancato dalla caduta dell’Urss – nonché dei sindacati confederali). Allo  smantellamento dell’industria di Stato non ha tuttavia fatto seguito l’ascesa di grandi imprese private in grado di competere sul mercato internazionale, anche perché la borghesia italiana ha scelto di accettare un ruolo subalterno a livello europeo (e a maggior ragione a livello globale) pur di rafforzare il proprio dominio sulle classi lavoratrici. Quella scelta ha inferto ferite mortali a un sistema paese già penalizzato dalla cronica debolezza delle strutture statali (con la riforma dell’articolo V e il decentramento regionale quella debolezza diverrà vero e proprio sfascio, come certificato dall’attuale incapacità di gestire l’emergenza pandemica). Gli esiti sono noti: nanismo delle imprese (che si cercherà di far passare per un fattore positivo con le narrazioni sui distretti e con la retorica del “piccolo è bello”), terziarizzazione del lavoro (con prevalenza dei settori del turismo, del ristoro e dell’intrattenimento rispetto al terziario avanzato e innovativo), aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; sfascio dei servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti), degrado ambientale e territoriale, disoccupazione e sottooccupazione cronica (con la proliferazione di lavori precari, temporanei, finto autonomi, sottopagati, ecc.).

Questi processi in atto da quattro decenni hanno determinato radicali trasformazioni nella composizione di classe e nelle forme della rappresentanza politica. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo avuto l’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Per quanto riguarda le seconde, Tangentopoli ha sancito la morte dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione ma che soprattutto si erano scavati la fossa favorendo l’indebolimento delle loro basi sociali, dopodiché Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali fondati sulla mobilitazione di una massa composita di persone più sensibili alla comunicazione mediatica che ai programmi politici.

I movimenti spontanei di rivolta hanno a loro volta subito gli effetti di questo marasma sociale, culturale e politico, dando vita a esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa, al “cittadinismo” dei vari girotondi, indignati ecc. con base nella piccola e media borghesia urbana e privi di qualsiasi velleità antisistema (via ai corrotti, potere agli onesti), ad esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi, assai meno strutturati e dotati di consapevolezza politica rispetto a fenomeni di insorgenza popolare come il 15M spagnolo o i gilet gialli francesi. Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S e qui siamo all’attualità che tocca da vicino le ragioni della nostra nascita e le scelte di fronte alle quali ci troviamo.

c) evoluzione dello scenario italiano (II)
Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni Novanta e il partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Fra il governo Monti – che ha definitivamente chiuso l’era berlusconiana – e l’incarico che Mattarella ha affidato a Draghi mentre scrivo queste pagine, due momenti in cui l’alta finanza internazionale ha assunto in prima persona (posto che Draghi riesca nell’impresa) il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo qualsiasi finzione di democrazia, abbiamo assistito all’ascesa, culminata con le elezioni del 2018 e la nascita del primo governo Conti, e alla fulminea caduta, coincisa con la fine del secondo governo Conti,  di un movimento populista bicefalo.
Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (con cui spera tuttalpiù di contrattare vincoli meno stringenti), anche perché la sua base sociale è legata a triplo filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche. Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito, letteralmente, a “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”, ma che, pur nella sua breve vita, ha attraversato una tumultuosa serie di mutazioni.

Alla fase pionieristica dei Meetup (una rete di collettivi locali egemonizzati, dal punto di vista socioculturale, da esponenti delle nuove professioni emergenti – soprattutto nel settore delle nuove tecnologie – e dalla diaspora dei delusi delle sinistre tradizionali), caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale (orizzontalismo, uno vale uno, ecc.), e dal rifiuto intransigente del professionismo politico, si è passati alla fase governista: incoraggiato dai successi ottenuti da alcuni clamorosi successi nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, il movimento ha tentato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo era venuto aggregando un consenso sociale assai più ampio e trasversale rispetto alle origini (le analisi dei flussi elettorali ne hanno evidenziato il forte seguito fra gli strati operai e impiegatizi, fra le nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, e fra le classi medie “riflessive”, con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo). Dal punto di vista programmatico l’M5S è parso un’incarnazione quasi da manuale delle tesi del massimo teorico del populismo, Ernesto Laclau: un aggregatore di domande assai diverse provenienti da settori sociali eterogenei nei confronti di un sistema incapace di dare risposte.

Quella che Laclau definisce una “catena equivalenziale”, alla quale è sempre mancata, tuttavia, la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare il tutto, infatti l’unico vero collante è stato la critica alla “casta” politica e l’unico vero “programma” quello di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate da meccanismi di democrazia di base. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema capitalistico, nessuna indicazione concreta su fini e mezzi in materia di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico palesemente incapace di gestirlo. Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD – forza dotata di ben altra esperienza e capacità di manovra e con idee chiarissime sugli interessi da difendere – lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Ma la crisi pandemica non gli ha neanche permesso di condurre a termine il processo di integrazione nelle élite del Paese: incalzato dai poteri forti, decisi a usare la crisi come occasione di affossamento di qualsiasi capacità di resistenza – ancorché debole e moderata – ai propri obiettivi, si è letteralmente dissolto, finendo vittima dell’imboscata tesagli da Renzi che ne ha decretato il definitivo sputtanamento (con il tragicomico spettacolo di una successione di compromessi e ritirate finalizzate al solo scopo di evitare le elezioni e il “licenziamento” della gran parte dei suoi parlamentari, contorsioni che non hanno impedito la catastrofe finale).    

Sulle prospettive di ND
Mi sono dilungato sulle peripezie dell’M5S perché, prima di spiegare come e perché gli scenari sopra descritti impongono a mio parere una ridefinizione dei nostri compiti rispetto a quelli indicati nell’assemblea fondativa, vorrei analizzare le cause della rottura che abbiamo vissuto con i compagni che hanno scelto di andare con Paragone. Il fatto è che, fin dall’inizio, anche se non ce lo siamo mai chiarito del tutto, la ragione di fondo per costituirci in gruppo politico, e non semplicemente in associazione politico culturale, non era tanto e solo la speranza della possibilità di aggregare le varie componenti della sinistra “sovranista” (impresa a dir poco ardua e che, in ogni caso, non garantirebbe il raggiungimento di una “massa critica” sufficiente a consentire un radicamento sui territori e una effettiva capacità di intervento politico) ma era l’aspettativa che la prevedibile crisi dell’M5S si potesse tradurre in una “liberazione” dello spazio politico che il Movimento aveva occupato sottraendolo a una sinistra integrata nelle élite liberali.

In assenza di questa eventualità, e date le nostre ridottissime dimensioni organizzative ogni velleità di svolgere una “vera” attività politica appariva illusoria. Alcuni compagni, non condividendo questa realistica presa d’atto dei nostri limiti strutturali, hanno creduto di riconoscere nel costituendo partito di Paragone, una prima opportunità di andare a occupare lo spazio politico liberato dalla crisi dell’M5S. Quando la maggioranza si è opposta a quella lettura, chi voleva comunque “andare a vedere” quella operazione si è appellato allo Statuto che contempla la possibilità di doppia appartenenza fatta salva la compatibilità con i principi e i valori di ND. Ma il punto era esattamente questo: quella di Paragone è apparsa da subito e inequivocabilmente una micro scissione da destra rispetto all’M5S: antisocialista, filo occidentale e coerentemente “sovranista” nel senso del primo Salvini, quindi incompatibile con i paletti fissati dalle Tesi fondative. Lo sviluppo del progetto Paragone non ha solo confermato tale giudizio, ha anche confermato che si è trattato di una esperienza marginale non in grado di ottenere un consenso significativo, se non di massa.

Da alcune recenti discussioni che sono avvenute al nostro interno a proposito della necessità di rafforzare e implementare la nostra struttura organizzativa e la nostra capacità di intervento ho la sensazione che il problema si stia ripresentando in forma abbastanza simile. Ora io non ho nessuna obiezione se i compagni avvertono l’esigenza, che comprendo benissimo, di svolgere attività politica attiva, ma quello che mi chiedo e vi chiedo è: ND è realmente in grado di impegnarsi in questo senso, ma soprattutto perché e con quali prospettive potrebbe/dovrebbe farlo in un contesto come quello che ho fin qui tentato di delineare? Per rispondere positivamente occorrerebbe essere convinti 1) che l’ipotesi di poterci inserire (se non egemonizzare/occupare obiettivo che credo nessuno possa seriamente prendere in considerazione) nello spazio eventualmente “liberato” dalla crisi dell’M5S sia ancora praticabile; 2) che sia parimenti ancora realistica e praticabile l’idea di “attraversare” – non il momento populista in astratto – bensì “questo” populismo così come si è concretamente evoluto nel nostro Paese per “estrarne” un potenziale antisistemico.

Ebbene la mia risposta a entrambe le domande è no, come cercherò di spiegare qui di seguito, per poi passare a valutare altri argomenti che suggeriscono a mio parere la necessità di ridefinire il nostro compito. I motivi del primo no mi paiono ovvi. Gli spazi politici non sono fogli di carta bianchi che si possano riempire immediatamente dopo avere cancellato quanto vi era scritto sopra. Se l’M5S ha potuto occupare in tempi relativamente rapidi il vuoto lasciato dalle sinistre è stato solo perché quel vuoto non si è aperto di colpo, ma era l’esito di un decennale processo di degrado di una cultura politica che è ugualmente riuscita a sopravvivere a lungo solo grazie all’inerzia e alla viscosità di fedeltà costruite su secoli di storia e di memorie trasmesse attraverso decine di generazioni. La memoria e la fedeltà sedimentate dall’M5S sono roba di qualche mese, se non di giorni (è l’altra faccia del populismo: quel che si ottiene rapidamente sparisce altrettanto rapidamente). Quello spazio è stato riempito “per disperazione”, per mancanza di alternative e ora che i disperati che ci hanno creduto (o che forse ci hanno solo voluto credere) avranno la sensazione che There is no alternative resterà vuoto a tempo indeterminato (vedi la catastrofe del dopo Tsipras in Grecia).

Ergo: l’idea di poter navigare nei rottami dellM5S per pescare un numero sufficiente di naufraghi da arruolare nel nostro progetto mi pare illusoria. Le ragioni del secondo no sono più complesse. Negli ultimi anni ho sostenuto che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa epoca di disarticolazione delle classi subalterne. Ho anche sostenuto che una forza socialcomunista dovrebbe essere parte attiva dei movimenti populisti con caratteristiche progressive (o di sinistra, volendo usare questa connotazione ormai sempre meno caratterizzante) per agire come catalizzatore di un processo di aggregazione di un blocco sociale egemonizzato dalle classi subalterne. Ma se ho ragione nell’affermare (vedi gli scenari che ho tratteggiato in precedenza  ) che quei movimenti populisti hanno subito un rapido processo di normalizzazione e si sono disgregati in base ai confini che separano diversi strati di classe, allora il compito prioritario non è più la costruzione di un blocco sociale inteso come alleanza fra classi lavoratrici e classi medie, bensì (come ho scritto nel mio ultimo libro) la ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista.

Il primo obiettivo può essere perseguito – sotto precise condizioni che in Italia a mio parere non si danno –  attraverso abili strategie di comunicazione, elaborate da un piccolo nucleo dotato di competenze culturali e teoriche in grado di influenzare o addirittura di dare vita a nuove correnti di opinione pubblica (è il modello cui si ispirava l’esperienza di Senso Comune e che trova oggi formulazione più sofisticata nella rivista “La Fionda”, ispirato dalle teorie di Laclau, dalla rivoluzione “cittadinista” di Correa in Ecuador  e da Podemos). Il secondo richiede la volontà/possibilità di compiere un capillare lavoro di penetrazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, sui territori, ecc. e mi pare evidente che noi non siamo attrezzati per questo. Questo vuol dire che intendo oppormi alle esigenze dei compagni che desiderano rimboccarsi le maniche per svolgere intervento politico attivo? Ovviamente no. Trovo per esempio giusta l’idea dei compagni che propongono di fare un seminario sui temi dello smart working e della gig economy (temi dirimenti per qualsiasi progetto di rifondare un sindacato di classe), ma il punto è: abbiamo la struttura e le forze per tradurre in azione concreta queste analisi? Non ha più senso che chi sente l’esigenza di intervenire su questi problemi lo faccia assieme alle organizzazioni sindacali di base esistenti?

Penso invece che, per composizione socioprofessionale e competenze teorico-culturali, il gruppo dirigente di ND farebbe cosa più utile impegnandosi ad approfondire gli interrogativi di fondo sollevati dai mutamenti di scenario che ho tentato di descrivere nella prima parte: ha ancora senso assumere come obiettivo prioritario, se non unico, l’uscita immediata dalla Ue, nel contesto di acutizzazione dei conflitti fra Usa e Ue e del ritorno della guerra fredda fra Occidente e Oriente? Quale ruolo per l’Italia in campo internazionale (Europa mediterranea, ripresa della battaglia contro la Nato, per la pace e per la collocazione nel campo dei Paesi non allineati)? E ancora: quali prospettive di evoluzione della crisi economica e istituzionale per il dopo pandemia? Di cosa parliamo quando accenniamo a un socialismo del secolo XXI (a partire dalla questione cruciale della definizione della natura socialista o meno della Cina)? Mi si potrà obiettare che è più urgente dare risposta qui e oggi alle sofferenze dei milioni di persone che stanno subendo il peso della pandemia. Non c’è dubbio, ma posto che le due cose non sono in alternativa, resto del parere che in questo momento ND svolgerebbe un ruolo più utile in quanto associazione politico culturale (penso a esempi come Marx 21 e Città Futura) piuttosto che come uno dei tanti micro gruppi che nutrono la velleità di agire come nucleo fondativo di un nuovo movimento, se non addirittura di un nuovo partito. Anche perché, per dirla con Gramsci, mi pare che la fase attuale sia tale per cui servono strumenti per affrontare una lunga e paziente guerra di posizione piuttosto che per una guerra di movimento.

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