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lunedì 17 maggio 2021

 COME E PERCHE' IL NEOLIBERALISMO

HA INGHIOTTITO (E DIGERITO) IL FEMMINISMO


Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie (1), ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano. La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo - termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) - va inteso nel senso corrente di falsa coscienza). 

Per sostenere quanto appena affermato, non mi avvarrò della produzione letteraria delle correnti mainstream del femminismo, anche perché, nel loro caso, la tesi di cui sopra suona scontata, ma prenderò in esame tre autrici - Silvia Federici, Nancy Fraser e Catherine Rottenberg – le quali, sia pure in diversa misura e con approcci differenti, rivendicano tuttora un punto di vista marxista, perlomeno su alcuni temi, e si pongono criticamente nei confronti del femminismo neoliberista. Una scelta che consente di rendere ancora più evidente 1) che, nella misura in cui il femminismo si pone come paradigma autonomo e “alla pari” con il paradigma marxista, finisce per produrre discorsi eclettici che con il marxismo poco o nulla hanno a che fare; 2) che, malgrado l’atteggiamento critico nei confronti del femminismo neoliberale, anche un certo femminismo socialista finisce di fatto per convergere con quest’ultimo, subendone l’egemonia su una serie di questioni che hanno un peso strategico nei rapporti di forza fra capitale e lavoro. 

Parto da Silvia Federici, autrice che in un saggio di qualche anno fa (2) avevo citato come un esempio, ancorché contraddittorio, di resistenza del femminismo marxista nei confronti dell’egemonia neoliberale, riferendomi soprattutto al libro Il punto zero della rivoluzione (3). Con l’uscita di Genere e Capitale (4) mi pare che questo equivoco sia da considerarsi sciolto. Infatti basta leggere il primo capitolo (“Marxismo, femminismo e patriarcato del salario”) per capire che la “lettura femminista di Marx” cui allude il sottotitolo ha poco a che fare con Marx. In primo luogo, perché marxismo e femminismo sono presentati come due “movimenti teorico politici” che vengono messi sullo stesso piano. Peccato che il marxismo abbia prodotto sconvolgimenti storici (dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Rivoluzione Cinese, per citare solo i due casi più clamorosi) che hanno cambiato la vita di miliardi di esseri umani  (uomini e donne) mentre il femminismo finora ha prodotto esclusivamente campagne di opinione che riguardano solo Stati Uniti ed Europa e solo una parte – appartenente alle classi medio elevate - della popolazione femminile di questa minoranza dell’umanità, la quale continua però a considerarsi la sola che conti; e ha contribuito a cambiare, non i rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati (che nei decenni del boom femminista sono drasticamente peggiorati a danno dei secondi, anche se di ciò non intendo attribuire la responsabilità al femminismo) ma la retorica del discorso politico dominante (retorica che, grazie alle reazioni di rigetto generate dai deliri del politicamente corretto, ha gettato milioni di proletari – uomini e donne – nelle braccia dei populisti di destra). 

Di più: Federici parla della “difficoltà del femminismo socialista di integrare il marxismo nel femminismo”, dal che si deduce che femminismo e marxismo, in realtà, non vengono affatto messi sullo stesso piano, bensì si dà per scontata la superiorità del primo (altrimenti si parlerebbe semmai della difficoltà di integrare il femminismo nel marxismo). Il che presuppone a sua volta la convinzione che la contraddizione capitale lavoro vada ricompresa, sussunta (aufhebung per dirla con Hegel) nella contraddizione di genere. Infatti Federici, partendo dalla giusta considerazione che le divisioni di genere e di razza svolgono un ruolo importante nella costruzione delle gerarchie del lavoro (questione che Marx aveva perfettamente presente) arriva a sostenere (contro David Harvey, il quale considera contingenti e non logicamente necessari questi fattori) che il capitalismo sarebbe strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Un’affermazione che si regge esclusivamente se riferita al colonialismo, la cui necessità strutturale – in senso marxiano! – è stata ampiamente dimostrata (5). 





Il punto è – questione cruciale su cui dovremo tornare – che qui il termine “strutturalmente” non è usato nella sua accezione marxiana (che Federici, al pari delle autrici di cui ci occuperemo fra poco, liquida come “economicista”) bensì nel significato che gli viene comunemente attribuito dopo la svolta “culturalista” delle scienze sociali. In altre parole, i suoi riferimenti teorici sono – più che Marx – Foucault, Antonio Negri e gli altri maestri della contaminazione fra marxismo e filosofie postmoderne, come certificato dalla sua rivendicazione di appartenenza a quella corrente culturale antistatalista e “benecomunista” che assume come modello di società alternativa al capitalismo, non il socialismo, bensì quei rapporti comunitari “che ridefiniscono il concetto marxiano di socialismo”. Per farla breve: la “difficoltà” di integrare il marxismo nel femminismo di cui parla Federici rispecchia la assoluta impossibilità di integrare due ordini di discorso che c’entrano fra loro come i proverbiali cavoli a merenda.

Veniamo a Nancy Fraser. Il mio atteggiamento nei confronti di questa autrice ha subito una evoluzione simile a quella appena descritta a proposito di Silvia Federici. In diversi miei lavori (6) avevo descritto il suo discorso come il più solido e attendibile baluardo contro la marea neoliberista che il femminismo socialista sia ad oggi riuscito ad erigere. Tale giudizio si fondava in particolare su Fortune of Feminism (7), e su una serie di articoli in cui aveva condotto una critica serrata del femminismo mainstream e della sua piena integrazione nel fronte del “progressismo neoliberale”. È per questo motivo che ho voluto ospitare la traduzione del suo dialogo con la sociologa svizzera Rahel Jaeggi – Capitalismo (8) – nella collana Meltemi “Visioni eretiche”, da me diretta. Rileggendo a distanza di un anno l’edizione italiana di quel testo (che avevo letto solo in parte nella versione inglese) ho avuto la sensazione che la sua posizione marxista – peraltro già ibridata con inserti post strutturalisti – si sia fatta meno chiara e salda di quanto non fosse in passato. Una sensazione corroborata dalla lunga e articolata recensione che Alessandro Visalli (9) ha dedicato al libro in questione sul suo blog. 

Parto dalle ragioni per cui considero tuttora utile il contributo della Fraser. In primo luogo, perché, al contrario di Silvia Federici, non solo non condivide la critica femminista allo statalismo welfarista, ma anzi considera tale critica funzionale all’attacco neoliberista che, a partire dagli anni Ottanta, ha distrutto i rapporti di forza dei lavoratori (e delle lavoratrici), eliminando le protezioni e le garanzie – frutto di secolari lotte di classeche consentivano di resistere alle pressioni padronali su livelli salariali e condizioni di vita, e creando condizioni favorevoli ai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro. Considera parimenti controproducente il modo in cui il femminismo ha criticato il cosiddetto “salario familiare” (cioè il reddito garantito dal solo componente maschile della coppia) nella misura in cui ha di fatto legittimato quel capitalismo flessibile che, attraverso l’arruolamento in massa di forza lavoro femminile nel processo produttivo, è riuscito a mettere in competizione lavoratori e lavoratrici abbassando il salario per tutti (invece di elevare quello femminile al livello di quello maschile) e facendo sì che ora si debba lavorare in due per guadagnare ciò che prima guadagnava uno. Sostiene inoltre che la presa di distanza delle femministe dall’economismo marxista (che sostanzia le critiche alle politiche redistributive del movimento operaio di cui sopra) hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca. Infine, oltre a esprimere scetticismo nei confronti della cultura della politicizzazione del personale, rovescia il punto di vista della Federici, parlando di integrazione del femminismo nel marxismo e non viceversa.


Nancy Fraser



Tuttavia è esattamente quest’ultimo il nodo che fa problema: questa integrazione, infatti, dal suo punto di vista significa integrare nel paradigma marxista le “intuizioni” postcoloniali, post strutturaliste, ecologiste ecc. che stanno alla base del “femminismo della seconda ondata”. In altre parole, si tratterebbe di conciliare “giustizia distributiva” e “giustizia del riconoscimento” (10), perché se è vero che i movimenti concentrati sul riconoscimento delle varie identità di gruppo hanno finito per trascurare la dimensione della distribuzione, è altrettanto vero, sostiene Fraser, che i movimenti dei lavoratori concentrati sulle rivendicazioni salariali hanno costantemente trascurato la dimensione del riconoscimento identitario. Il punto è che questa aspirazione a “riequilibrare” i due ordini di discorso finisce – dal momento che essi non rispecchiano due approcci ideologici, bensì , come chiarito sopra, due paradigmi – per risolversi necessariamente nell’affermazione egemonica di uno dei due rispetto all’altro e, anche nel caso della Fraser, come cercherò di mostrare riprendendo le osservazioni di Visalli, il paradigma che finisce per prevalere è quello femminista, in barba alle sue professioni di marxismo. 

La pietra d’inciampo, come per la Federici, sta nella stratificazione interna alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza (cui si sono aggiunte quelle evocate dalla cultura LGBTQ), stratificazione che giustificherebbe l’esigenza di integrare rivendicazioni di giustizia di riconoscimento e rivendicazioni di giustizia distributiva, in quanto si presume che questa stratificazione avrebbe motivi strutturali (vedi sopra le considerazioni in merito all’ambiguità di tale concetto), sarebbe cioè una necessità per la auto conservazione del modo di produzione capitalistico. Ora a contestare questa affermazione è, nel dialogo sopra citato, Rahel Jaeggi – che marxista non è ma, in quanto allieva della scuola di Francoforte, possiede una raffinata padronanza del pensiero dialettico – la quale rinfaccia alla Fraser che, dalla sua argomentazione teorica, non si evince alcun motivo per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza, e aggiunge che, ciò posto, l’ordine di genere e di razza descrive semplicemente i modi empirici in cui espropriazione e sfruttamento sono stati storicamente organizzati (che è poi esattamente quanto sostiene Harvey – vedi sopra). Cito letteralmente qui di seguito la sua argomentazione:  

tu dici che il capitalismo separa la storia in primo piano, quella della produzione di merci, da quella

sullo sfondo, quella dell’espropriazione e della riproduzione sociale. Dici anche che il sessismo ed il

razzismo sono intrinseci al capitalismo fintanto che esso assegna le funzioni della storia sullo sfondo

a popolazioni appositamente designate, che di conseguenza saranno razzializzate e femminilizzate.

Ma lasci aperta un’altra possibilità. E se il capitalismo non richiedesse questa seconda

condizione? E se mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in

quelle dimore nascoste dall’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già

richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Non è uno scenario possibile? E se lo

fosse, il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?

Ebbene, come giustamente sottolinea Visalli nella sua recensione, di fronte a questa obiezione Fraser appare palesemente in difficoltà, nel senso che è indotta ad ammettere che l’ipotesi della Jaeggi è “logicamente possibile”, ma poi se la cava aggiungendo che la si può escludere “per tutti gli scopi pratici”. Ora è pur vero che la storia della cultura femminista è ricca di disinvolte alzate di spalle nei confronti delle pretese di rigore logico della filosofia “maschile” - do you remember Sputiamo su Hegel? (11) -, ma è altrettanto vero che, per un’autrice che si richiama al marxismo, doversi aggrappare ad un’argomentazione puramente empirica (argomentazione che, per inciso, appare sempre più debole anche sul piano fattuale, a fronte d’una cultura imprenditoriale che esalta le differenze di genere, età, razza e gusti sessuali (12) come vantaggi competitivi per la moderna forza lavoro, in particolare per i suoi strati medio elevati), non è certamente il massimo. E tuttavia non ha alternative perché, se dovesse ammettere che sessismo e razzismo non sono necessità organiche per il modo di produzione capitalistico, ma sono derubricabili a permanenze residue, l’intera parabola femminista si ridurrebbe a una lotta di retroguardia contro tali arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano (che non sono certamente le élite dominanti liberal progressiste, le quali, al contrario, hanno fatto della retorica femminista uno dei loro tratti caratterizzanti). Per dare un minimo di consistenza alle presunte radici strutturali su cui si fonderebbe la necessità capitalistica di mantenere l’oppressione di genere, Fraser deve imbarcarsi in un complicato ragionamento sul ruolo economico – deponendo quindi le armi del femminismo “culturalista” e recuperando quelle dell’economismo marxista – del processo riproduttivo. Ma anche qui, come vedremo più avanti, inciampa in difficoltà e contraddizioni irrisolvibili. Prima di occuparmene, tuttavia, discuterò le tesi che Catherine Rottenberg avanza nel suo L’ascesa del femminismo neoliberale (13). 

Al libro della Rottenberg dedicherò più spazio perché, trattandosi di un’autrice che appartiene a una generazione successiva a quella di Federici e Fraser, e non collocandosi  nel campo del femminismo marxista e socialista, ma piuttosto in quello della cultura post coloniale, post strutturalista e foucaultiana, è più vicina – benché lo critichi – al femminismo neoliberale e, almeno sotto certi aspetti, lo considera un fenomeno positivo con cui le femministe “ortodosse” dovrebbero confrontarsi, senza rinunciare al dialogo. Sono caratteristiche che ben si prestano a evidenziare come tutte queste varianti del femminismo – apparentemente in conflitto reciproco – siano in realtà strettamente interconnesse, e come il tanto vituperato femminismo neoliberale non abbia fatto altro che sviluppare – banalizzandoli e popolarizzandoli - tendenze e presupposti teorico politici già presenti nelle correnti più radicali e culturalmente “rigorose” del movimento.   

Rottenberg descrive i tratti distintivi del neoliberalismo in modo non dissimile da quello di molti autori marxisti (14). In particolare sottolinea che: 1) mentre il liberalismo classico si fondava sulla separazione fra sfera pubblica e sfera privata, il neoliberalismo tende a erodere il confine fra tali sfere nella misura in cui “esporta” la razionalità economica in tutti gli ambiti della vita, riducendo le persone a “capitale umano”; 2) il neoliberalismo produce soggetti imprenditorializzati (diventa imprenditore di te stesso!) orientati a “investire” su di sé e resi responsabili del proprio benessere (la cura di sé come terapeutizzazione del soggetto, che è chiamato a “imparare a essere felice” e a occuparsi del proprio stato emotivo); 3) il neoliberalismo produce soggetti radicalmente individualizzati che competono gli uni con gli altri per “ottimizzare” il proprio capitale umano e organizzare la propria vita in base al calcolo razionale del rapporto costi/benefici. 

Dopodiché si passa a descrivere il modo in cui il neoliberalismo ha riconfigurato il femminismo a sua immagine a somiglianza. In primo luogo, la Rottenberg cerca di spiegare perché il neoliberalismo aveva “bisogno” del femminismo per risolvere le sue contraddizioni interne (il che ci riporta al tentativo di definire un rapporto di necessità strutturale fra capitale e funzione riproduttiva femminile). Se è vero che per il neoliberalismo tutte le persone – donne e uomini - non sono altro che capitale umano, cioè unità produttive neutre, sembrerebbe trovare conferma l’obiezione critica della Jaeggi a Fraser (vedi sopra), ma Rottenberg se la cava dicendo che per riprodursi il capitalismo ha bisogno che le donne generino figli, cioè futuri lavoratori. Ora, posto che questa esigenza non è specifica del modo di produzione capitalistico, ma di tutte le forme sociali che lo precedono (e di quelle che auspicabilmente lo seguiranno), è evidente che il problema del processo riproduttivo non può essere appiattito sulla biologia (con la conseguenza, per inciso, di ri-naturalizzare la differenza di genere) ma implica tematiche più ampie (ci torneremo più avanti). Ma passiamo al modo in cui Rottenberg descrive l’uso capitalistico (neoliberale) del femminismo. 

Analizzando una serie di esempi tratti dalla copiosa produzione letteraria di donne in carriera (di sinistra, ma anche di destra, compresa una certa Ivanka Trump!), Rottenberg evidenzia il filo rosso che le attraversa: il leitmotiv di questi scritti – che echeggiano la straboccante produzione editoriale di manuali di self help – è la descrizione del modo in cui si può conciliare successo personale e un’appagante vita familiare. Ovviamente, a disturbare la sensibilità femminista “classica” dell’autrice, è il fatto che in questi testi si danno per scontati, oltre alle aspirazioni professionali, relazioni eterosessuali e desiderio di maternità (anche se le si potrebbe obiettare che la visione di un felice equilibrio lavoro- famiglia sarebbe perfettamente condivisibile anche da una coppia omosessuale con figli nati attraverso la pratica dell’utero in affitto). Un altro aspetto che viene messo in luce è l’enfasi sulla necessità di coltivare e cambiare se stesse (ma tutto questo non vi richiama alla mente le pratiche di autoscoscienza? Niente di nuovo sotto il sole, almeno da questo punto di vista...). 

Dopodiché Rottenberg batte insistentemente su un altro tasto: il classico slogan il personale è politico, che mirava a riconfigurare il privato come parte del pubblico, viene rovesciato, nel senso che questo nuovo femminismo mira piuttosto a riconfigurare il pubblico in relazione alle esigenze e ai bisogni del privato (promuovendo condizioni che, in azienda come in società, siano più favorevoli all’equilibrio lavoro-famiglia di cui sopra). L’annotazione è interessante, in quanto consente di evidenziare come questo “rovesciamento” era in realtà già immanente alla versione originaria dello slogan: affermare che il personale è politico vuol dire infatti dare il via a quell’erosione del confine fra le due sfere che verrà sfruttato dall’ideologia neoliberale per creare una dimensione dove tutto – a partire dalla politica – è personalizzato, dove la sfera pubblica - vedi in proposito quanto scritto da Richard Sennett (15) – è letteralmente neutralizzata. La politicizzazione del personale si rovescia così nella spoliticizzazione di tutti i rapporti sociali – pubblici e privati, sempre più reciprocamente confusi – che da ora in avanti potrà e dovrà essere combattuta solo riaffermando con decisione il principio secondo cui il politico non è personale.  

Ma torniamo alla critiche al femminismo neoliberale. Rottenberg sottolinea giustamente come questa ideologia incarni le esigenze, gli interessi e i bisogni una minoranza privilegiata di donne bianche appartenenti alle classi medio elevate. Per raggiungere l’auspicato equilibrio lavoro-famiglia, questi soggetti decentrano il lavoro di cura a donne che appartengono a classi sociali – e a etnie – “inferiori” il che produce un curioso paradosso: in questo modo si realizza, sia pure con modalità impreviste e imprevedibili, la famosa rivendicazione del salario al lavoro domestico, e tuttavia ciò non coincide con il passaggio verso la liberazione, bensì rappresenta la via attraverso la quale si è prodotta una nuova discriminazione di classe e e di razza tutta interna al genere. Rottenberg scrive, a tale proposito, che il privilegio dell’1% delle donne si basa sullo sfruttamento del 99%. Ma questa affermazione è contestabile da due distinti punti di vista: in primo luogo, non è per nulla vero che si tratta dell’1%, visto che quella minoranza di privilegiate non è fatta solo da manager, politiche, attrici, pop star, campionesse sportive, influencer, ecc. ma è fatta di milioni di appartenenti alle classi medio alte che, nei decenni scorsi, hanno potuto usufruire – grazie alla finanziarizzazione dell’economia – di parte dei sovraprofitti realizzati delle élite dominanti; secondariamente la maggioranza degli sfruttati non è fatta solo di donne, perché se è vero che il lavoro di cura mercenario è in larghissima misura femminile, è altrettanto vero che i soldi con cui viene pagato vengono dallo sfruttamento di milioni di proletari – donne e uomini, gente di colore e bianchi poveri. 

Infine Rottenberg mette in luce come il femminismo neoliberista fornisca argomenti politici per sostenere la “superiorità” della civiltà occidentale, che viene contrapposta a tutte le altre nella misura in cui è la sola a riconoscere – e a garantire – la parità effettiva uomo-donna. E, ciò che è più grave, questo femminismo viene impugnato come arma propagandistica per giustificare gli interventi dell’imperialismo occidentale (americano in primis) nei Paesi a maggioranza musulmana, in quanto funzionali a tutelare i diritti delle donne di quei Paesi (poco male se migliaia di donne pagano con la vita quelle “ingerenze umanitarie”).

A conclusione di questa requisitoria ci si potrebbe aspettare la messa al bando del femminismo neoliberale in nome dei principi del “vero” femminismo. Invece no. Per Rottenberg occorre riconoscere che, malgrado i molti demeriti (che però non devono alimentare atteggiamenti “colpevolizzanti”, per cui critica la durezza della posizione assunta dalla Fraser su questo argomento), il femminismo neoliberale non è privo di meriti. In primo luogo, scrive, dopo un’era “post femminista” in cui il femminismo sembrava essere sparito dall’orizzonte delle culture occidentali, nella misura in cui si dava per scontato che la parità di genere era stata sostanzialmente raggiunta, questa nuova ondata, malgrado la sua “arretratezza” culturale e politica, ha contribuito a diffondere la consapevolezza che le discriminazioni di genere esistono ancora, con il risultato che aumenta continuamente il numero delle giovani donne che si dichiarano femministe e, anche se esse non ne traggono le dovute conseguenze politiche, ciò fa sì che il femminismo sia divenuto accettabile (ma sarebbe meglio dire egemone, perlomeno negli Stati Uniti e non solo) in misura mai vista in precedenza.  Attribuisce qualche merito persino a Ivanka Trump, la quale, descrivendo la sua esperienza di lavoro di cura in termini asetticamente manageriali, avrebbe dato un contributo nello smontare l’idea dell’esistenza di un naturale istinto di cura femminile. Insomma: tracciare un confine (16) fra il “vero” femminismo e il femminismo neoliberale è impossibile, ma soprattutto sarebbe politicamente controproducente. 


Ivanka Trump



Questo atteggiamento “ecumenico” sembrerebbe estendersi oltre i confini di genere, nella misura in cui l’autrice di cui mi sto occupando sostiene di inspirare la propria visione politica al pensiero di Judith Butler, notoriamente in contrasto con  quella ortodossia femminista che trascura le altre dimensioni del conflitto politico e sociale a favore del solo conflitto di genere (17). In particolare, Rottenberg fa propria la categoria di precarietà, che, secondo Judith Butler (18), sarebbe il trait d’union che consentirebbe di aggregare in un blocco antisistema individui, gruppi e popolazioni che, di per sé, non solo avrebbero poco da spartire gli uni con gli altri, ma sarebbero portatori di interessi potenzialmente conflittuali. In quanto portatori di un comune status precario – che la Butler, e Rottenberg con lei, non riconduce a fattori economici – donne, LGBTQ, poveri, minoranze etniche e religiose, ecc. potrebbero confluire in un fronte unitario, se non unito, di resistenza. Ritroviamo qui il rifiuto dell’economismo di matrice marxista, al quale si contrappone una visione culturalista del conflitto sociale, per cui le ragioni della giustizia di riconoscimento vengono inevitabilmente anteposte a quelle della giustizia distributiva (innescando radicali effetti di rigetto nei confronti delle sinistre liberal da parte delle classi subalterne). Troviamo, anche, un approccio che somiglia al concetto di “catena equivalenziale” elaborato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (19), secondo cui un “popolo” si costruisce come sommatoria di rivendicazioni eterogenee che hanno come comun denominatore il fatto di non trovare risposta da parte delle élite dominanti (anche in questo caso le soggettività in gioco sono definite sul piano simbolico e non in relazione all’appartenenza di classe). 


Judith Butler
Judith Butler



La differenza con il discorso populista di Laclau-Mouffe, sembrerebbe essere che, mentre quest’ultimo presuppone un momento di “verticalizzazione” della catena equivalenziale, si pone cioè il problema di quale soggetto individuale (leader) o collettivo (movimento) debba svolgere un ruolo egemonico all’interno della catena, la visione di Butler-Rottenberg parrebbe rigorosamente “orizzontalista” (il che lo accomuna ai discorsi di Federici e Fraser che assumono a loro volta quale modello il movimento Occupy Wall Street e la sua proiezione elettorale nella sinistra democratica di Bernie Sanders, Ocasio Cortez e altri). Apparentemente, perché il ruolo egemonico, in questo "popolo" che si autoattribuisce l'estensione del 99%, laddove si riduce a una quota ideologizzata – e quindi minoritaria - di ceto medio riflessivo, spetta senza dubbio al movimento femminista, che può illudersi di esercitarlo proprio grazie al confluire nelle sue fila del femminismo neoliberale e delle sue propaggini ideologiche (MeTo, politicamente corretto, quote rosa, discorso mainstream di media e politici di regime, ecc.). Un illusione maggioritaria che funziona, da un  lato, rimuovendo il tema del conflitto di classe, che viene riformulato/neutralizzato come conflitto interno al genere (ricomponibile sulla base di una “sorellanza” universale che vede tutte le donne contrapposte in blocco a tutti i maschi - contrapposizione che è vista come la sola, “vera” contraddizione antagonista), dall’altro lato, alimentando il mito di una presunta superiorità morale del genere femminile - mito che una intellettuale femminista come Jessa Crispin (20) ha avuto il coraggio di sfatare. 

Il grumo concettuale in cui tutti questi nodi vengono al pettine è quello della centralità del lavoro riproduttivo che, per tutte queste autrici, si fonderebbe sulla presunta necessità strutturale dell’oppressione di genere ai fini della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Concludo quindi copiaincollando qui di seguito la riflessione critica che Alessandro Visalli ha dedicato a tale tema nella sopracitata recensione a un libro di Nancy Fraser 

E proprio in questo punto viene inserito il focus tematico femminista della riproduzione, intesa in

modo molto largo come tutte quelle forme che “producono e mantengono legami sociali”, e

consistono nella ‘tutela’, nel ‘lavoro affettivo’, nella formazione di soggetti umani come esseri

incarnati e come esseri sociali. Qualcosa che forma il loro habitus e la loro sostanza socio-etica

nella quale si muovono. Si tratta, cioè, del lavoro di socializzazione dei giovani, della costruzione di

comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti

di valore che sostengono la cooperazione sociale. Il punto è che, parla la Fraser, “nelle società

capitaliste molta (anche se non tutta) quest’attività continua al di fuori del mercato – nelle famiglie,

nei quartieri, nelle associazioni della società civile e in una serie di istituzioni pubbliche, tra cui

scuole e centri di assistenza all’infanzia e agli anziani”.

In questa formulazione così ampia si tratta di una presa di posizione indiscutibilmente corretta. Ma,

se pure alcune di queste attività indispensabili e non mercatizzate (non mercatizzabili) sono

comparativamente svolte in misura maggiore da donne, nessuna è specificamente ed esclusivamente

femminile. Non solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro affettivo’,

formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e producono significati, disposizioni

affettive e orizzonti di valore. Non solo le donne sostengono la cooperazione sociale.

Ma, e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo

fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le donne. Ovviamente lo fanno sia le

donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo fanno diversamente. Rivendico, in altre parole, anche

come padre oltre che come essere sociale e buon amico, parte responsabile di una comunità umana,

la mia capacità, pur non essendo donna, di produrre e mantenere legami sociali, di amare e essere

capace di tutela dei più deboli e dei vicini e parenti, di contribuire per la mia parte a formare

soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali. Rivendico la mia capacità di

comprendere e rispettare l’habitus nel quale viviamo e la sua sostanza socio-etica. Di essere parte

della socializzazione dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la cooperazione

sociale.

Ma torniamo al testo. In genere il femminismo per “riproduzione” intende strettamente

l’allevamento dei nuovi esseri umani come forza lavoro (per cui, schematicamente, se non ci

fossero le madri a tutta evidenza non ci sarebbero i figli, non crescerebbero, e dunque non ci

potrebbero essere lavoratori). Una funzione che nella prospettiva tradizionale del cosiddetto “salario

familiare” è femminilizzata. Se fosse tutto qui il femminismo sarebbe una battaglia di

retroguardia, in quanto le condizioni di riproduzione sociale per l’accumulazione lo hanno superato

da tempo. Come abbiamo visto è tramontato come modello normativo e socialmente dominante con

l’insorgere dell’accumulazione flessibile nella quale si è passati ai due salari e quindi alla

ripartizione del lavoro su entrambi i ruoli. La Fraser propone perciò una versione molto allargata

del termine, quella sopra schematizzata, al fine di rendere ancora possibile la critica femminista in

un mondo nel quale in linea di principio tutti lavorano (se pure male). Un mondo nel quale sembra

si sia riprodotta quella condizione denunciata da Angela Davis in Donne, razza e classe per la

quale donne e uomini erano del tutto equivalenti, in tutti i lavori, perché visti dai padroni di schiavi

dei paesi del sud solo come forza lavoro.

Da una parte la ‘riproduzione’ sociale comprende ora in senso larghissimo la creazione,

socializzazione e soggettivazione degli esseri umani, in tutti i loro aspetti. Quindi “anche la

realizzazione e il rifacimento della cultura, delle varie aree dell’intersoggettività in cui gli esseri

umani sono inseriti – le solidarietà, i significati sociali e gli orizzonti di valore nei quali e attraverso

i quali vivono e respirano”. Dall’altra resta appannaggio femminile. In pratica, detto in altro modo,

per la visione sessista della nostra le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza

lavoro.


Che altro aggiungere? A mò di conclusione mi pare di poter dire che, se esiste ancora un femminismo socialista, l’unico modo che ha per “salvarsi l’anima”, e soprattutto per non affogare nella palude del femminismo neoliberale, consiste, per dirla con Marx, nel rimettere il mondo con i piedi in terra, vale a dire nel ristabilire l’ordine gerarchico fra conflitto di classe e conflitto di genere, restituendo al primo il carattere di contraddizione strutturale – in senso marxiano, che non vuol dire affatto economista, nella misura in cui incorpora fattori etici, antropologici e storici – di tipo antagonista, e al secondo il carattere di contraddizione interna alla classe degli sfruttati, da ricomporre ai fini della lotta contro il nemico comune. Preciso infine che ricomporre non significa ignorare la radicalità dei problemi: affermare che sessismo, razzismo, omofobia sono elementi residuali, che giocano ormai un ruolo secondario – se non addirittura negativo - per la conservazione del dispositivo di dominio liberal liberista, non significa affermare che si tratta di questioni trascurabili, né che non vadano combattuti con la massima decisione, significa semplicemente che metterli in cima alla lista degli obiettivi politici – o peggio eleggerli a unici obiettivi – vuol dire consegnarsi nelle mani del nemico di classe.  


Note


(1) Come ho cercato di chiarire nelle Glosse alla Ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs - pubblicate su questo blog - per una visione marxista lontana dal materialismo volgare, l'ideologia non è sinonimo di falsa coscienza, ma rappresenta piuttosto un fattore costitutivo dell’identità stessa – in senso materiale e non puramente ideale - di un soggetto sociale storicamente determinato. 

(2) Cfr.  C. Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016. 

(3) Cfr. S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, ombre corte, Verona 2014.

(4) Cfr. S. Federici, Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.

(5) Vedi, in particolare, A. Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020.

(6) Cfr. La variante…, op. cit.; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.  

(7) N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, London-New York 2015.

(8) N. Fraser, R. Jaeggi,  Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(9) http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html 

(10) Cfr. N. Fraser, a. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, Milano 2020.

(11) Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974.

(12) La promozione della diversità come fattore di vantaggio competitivo per la nuova forza lavoro, in particolare per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, è un tratto distintivo dei settori capitalistici più avanzati, in particolare per l’industria high tech e le Internet Company. Vedi in proposito il concetto di “classe creativa” in R. Florida (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

(13) C. Rottenberg, L’ascesa del femminismo neoliberale, ombre corte, Verona 2021.

(14)  La descrizione più approfondita della costruzione del nuovo soggetto lavorativo da parte del neoliberalismo si deve probabilmente a P. Dardot, C. Laval,  La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

(15) R, Sennett, Il declino dell’uomo pubblico,  Bruno Mondadori, Milano 2006. 

(16) A proposito del rifiuto fobico di tracciare confini simbolici, tipico delle culture postmoderniste cfr. F. Furedi, I confini contano, Meltemi, Milano 2021.

(17) La Butler ingaggiò a tale proposito una durissima polemica con le femministe tedesche – che arrivò ad accusare senza mezzi termini di razzismo - in merito all’episodio di Colonia, allorché nella notta di Capodanno, migliaia di immigrati musulmani invasero il centro della città importunando le donne. Ho commentato quella polemica ne Il socialismo è morto, op. cit.      

(18) Cfr. J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Milano 2004; vedi anche L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017.

(19) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; vedi anche C. Mouffe, For a left Populism, Verso, London-New York 2018.

(20) Cfr. J. Crispin, Why I’m nit a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017.




domenica 9 maggio 2021

POLITICAMENTE CORRETTO

UN'IDEOLOGIA AUTORITARIA E VIOLENTA 


Nel momento in cui la pandemia sta provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di disoccupati e nuovi poveri, per tacere della sospensione della democrazia decretata dalla nomina di Mario Draghi a proconsole della provincia italiana da parte delle oligarchie occidentali che preparano una nuova guerra mondiale per uscire dalla crisi, la sinistra non trova niente di meglio che eleggere a proprio eroe un giullare di regime come il rapper e  influencer Fedez, o spendersi per l’approvazione di una legge (presentata dal Pd Alessandro Zan) che andrebbe a rafforzare la rete di lacci e laccioli con cui l’ideologia del politicamente corretto imbriglia la libertà di espressione. Opporsi volta per volta alle mosse di questa politica che conduce a piccoli passi verso l’instaurazione di un regime al cospetto del quale i cosiddetti “totalitarismi”, contro i quali veniamo quotidianamente sollecitati a protestare, ci sembreranno modelli di libertà, non basta più: è il momento di lanciare una controffensiva sistematica e, visto che le forze politiche che dovrebbero condurla sul terreno politico e istituzionale sono al momento deboli, soverchiate dal rumore mediatico, il fronte principale su cui combattere è quello della lotta ideale, a partire dalla decodificazione dei legami che unificano le varie manifestazioni di questa offensiva “libertaria”, dietro alla quale si celano in realtà precisi interessi di classe ed esplicite mire autoritarie. 

Occorre aiutare chi tende a formarsi un’opinione su questa o quella singola questione a cogliere il quadro d’assieme, a capire le dimensioni e la pericolosità di un’operazione di indottrinamento di massa in corso a livello mondiale (sia chiaro che non alludo a un oscuro “complotto”: a creare le condizioni che consentono a interessi, aspirazioni, ideologie e progetti politici di convergere, fino a generare uno “spirito del tempo”, sono precisi processi di trasformazione materiale). Da questo punito di vista, i contributi critici di autori privi di etichette antisistema, portatori di un punto di vista in qualche misura “interno” ai valori e ai principi del liberalismo classico, sono particolarmente preziosi per inculcare qualche sano dubbio anche nella testa di chi non appartiene alla minoranza di coloro che si pongono esplicitamente al di fuori e contro tali valori e principi. È per questo che nei miei libri cito spesso due autori come Boltanski e Chiapello (1), i quali hanno descritto, con acribia scientifica e senza esprimere condanne etiche, la mutazione antropologica che ha permesso alle élite neoliberali di appropriarsi di parole d’ordine sessantottine, trasformandole in strumenti di controllo e di dominio sulla forza lavoro. Ed è per lo stesso motivo che in questo scritto, in cui cercherò di mettere in luce ciò che accomuna una costellazione di armi ideologiche di distrazione di massa di cui fanno parte il cosmopolitismo, l’ideologia no border, il linguaggio politicamente corretto, le filosofie post moderniste, il relativismo conoscitivo ed etico, il rivendicazionismo femminista e Lgbt, mi avvarrò del contributo di due autori, Jonathan Friedman (2) e Frank Furedi (3), non imputabili di nutrire velleità ”sovversive”, ma neanche di appartenere al campo delle ideologie conservatrici e reazionarie.






Sul cosmopolitismo. 

Furedi ricorda giustamente che uno dei numi tutelari dell’ideologia cosmopolita è il sociologo tedesco Ulrich Beck (4) (co- ispiratore, con il collega inglese Anthony Giddens, della famigerata “terza via” di Tony Blair e dei suoi emuli continentali, fra cui il PD). Beck è autore di saggi in cui evoca la categoria di “cosmopolitismo metodologico”, con la quale allude al fatto che, secondo lui, nessuna delle tradizionali sfide politiche del sistema democratico può essere affrontata e risolta a livello dello stato-nazione. Il protagonista della “rivoluzione cosmopolita” auspicata da Beck è un “cittadino globale” la cui identità appare affrancata sia dal luogo di nascita che da legami comunitari. Nella sua visione contano solo quegli individui che non appartengono ad alcuna comunità “prepolitica” (una figura puramente immaginaria, astratta, che Marx avrebbe liquidato come una “robinsonata”, visto che l’individuo non cade dal cielo, né può essere una monade, ma è il prodotto di molteplici determinazioni concrete, cioè sociali). I diritti di questo individuo cosmopolita - che sotto certi aspetti richiama il concetto di “persona” negli scritti dell’ultimo Rodotà (5) – sarebbero inscritti in un’etica umanitaria transnazionale che, secondo Beck, dovrebbe subentrare allo status di cittadino di una nazione. A queste tesi hanno attinto, fra gli altri, i militanti del movimento no border, riconoscendovi argomenti utili per sostenere i diritti di immigrati e rifugiati, ignorando il fatto che tali diritti potrebbero essere meglio difesi assumendo il punto di vista del “vecchio” internazionalismo proletario, il quale, al contrario del cosmopolitismo, non ha il difetto di prestarsi agli obiettivi strategici delle élite politico-culturali europee (e più in generale occidentali) ostili nei confronti dei popoli e delle democrazie nazionali, e desiderose di accentrare il potere nelle mani delle oligarchie transnazionali. 

Furedi dice poco sulle radici di classe di questa ideologia, limitandosi ad alludere all’esistenza di una “classe globalista” di professionisti e manager che si percepisce come de-territorializzata, in contrapposizione ai miliardi di persone che organizzano la propria vita in base all’appartenenza territoriale (le quali rappresentano tuttora la stragrande maggioranza dell’umanità). Del resto, nel suo lavoro, ripete in diverse occasioni di non credere alla possibilità di risalire alla cause “oggettive” che alimenterebbero determinate ideologie, alle quali attribuisce una autonoma dinamica evolutiva. Posto che non si tratta di “smascherare” cosa e chi “si nasconde” dietro certe idee, applicando quella categoria di “falsa coscienza” che lascio volentieri ai cultori del marxismo volgare, resta la necessità di capire come e perché una mutazione culturale abbia potuto imporsi, quali strutture socioeconomiche (quali interessi di classe) ne abbiano accompagnato e favorito la diffusione. In questo senso Friedman ha il merito dire qualcosa di più. Da un lato, punta il dito contro l’esigenza delle élite globalizzate di costruire un mondo multiculturale e transnazionale; esigenza che non nasce da un  mero “gusto culturale”, bensì da obiettivi assai concreti, come promuovere la mobilità internazionale della forza lavoro, importando forza lavoro a buon mercato o andandola a cercarla altrove - pratica che ha consentito di distruggere i rapporti di forza delle classi lavoratrici occidentali, livellandone verso il basso redditi e condizioni e di vita e alimentando il conflitto fra autoctoni e immigrati. Dall’altro lato, rivolge la propria attenzione sulla cosiddetta classe creativa (6), sul mondo degli analisti simbolici, della nuova classe manageriale che si muove e pensa velocemente, sulle élite mediatiche e accademiche che svolgono un ruolo essenziale nella fondazione di un nuovo regime di legittimità. 

Aggiungerei, sulla scia di quanto ho scritto in varie occasioni (7), che mentre i “nonni” di questi strati socioprofessionali erano stati, negli anni Sessanta e Settanta, terreno di coltura degli intellettuali di opposizione, i loro “nipoti” sfornano oggi un “intellettuale organico” di tutt’altro tipo, i cui interessi coincidono di fatto con quelli delle élite dominanti. La Silicon Valley e gli altri distretti dove si concentrano i settori più innovativi dell’economia e della finanza mondiali, sono i luoghi in cui questa sinergia di interessi fra neocapitalismo e classi medie colte emerge con chiarezza. Basti pensare alla solerzia con cui imprese come Google, Apple e Facebook si fanno promotrici dei principi del politicamente corretto, esaltando le pari opportunità di carriera che vengono offerte ai propri dipendenti e collaboratori, a prescindere dalle appartenenze etniche, di genere, preferenza sessuale, ecc. e sanzionando l’uso di linguaggi inappropriati al proprio interno.

A proposito della “società aperta”. 

Se Beck è il nume tutelare del cosmopolitismo, argomenta Furedi, a Karl Popper (8) spetta il ruolo di araldo della “società aperta”. Popper descrive le “società chiuse” (alludendo soprattutto, ça va sans dire, alle società socialiste) come alveari collettivisti ai cui membri è vietato assumere decisioni personali, ma non si limita a contrapporvi i Paesi a regime liberal democratico: esalta gli imperi in quanto modello di un sistema sovranazionale dotato di una mentalità e di istituzioni più aperte e illuminate (9). Né sembra lasciarsi scoraggiare dalla scia di crimini che ne hanno costellato la formazione, al contrario:  si spinge al punto di esaltarne la missione storica di intervenire negli affari interni delle comunità chiuse per costringerle ad  aprirsi. In poche parole: legittima l’imperialismo quale inevitabile portato del “fardello dell’uomo bianco” (infatti le società chiuse non sono solo quelle socialiste, ma anche le comunità “arretrate” che non conoscono il mercato capitalistico e la democrazia formale, incapaci di entrare nella modernità se non grazie all’aiuto di qualche “generosa” potenza colonizzatrice). 


Karl Popper



Friedman associa a sua volta questa visione agli interessi di quelle élite “globaliste” che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni, ecc.) e non come unità politiche, per cui condannano il punto di vista “ristretto” delle culture localiste. Rispetto a Furedi, introduce tuttavia un importante elemento aggiuntivo: imperialismo e colonialismo sono ideologie che possono sussistere e operare anche all’interno dello stesso contesto nazionale e, a tale proposito, cita un progetto di legge svedese che, alla fine dei Novanta, preso atto che la Svezia, a causa dell’immigrazione di massa, non dispone più di una storia comune condivisa, dichiara che i cittadini svedesi vanno considerati come un gruppo etnico al pari di altri. Il multiculturalismo così inteso, commenta, significa che “il ceto politico viene a trovarsi al di sopra della nazione, cessando di esserne un’estensione”. Quindi aggiunge che questa forma di “pluralismo”, apparentemente ultra progressista, ha precursori di tutt’altro tipo: i primi a teorizzarla sono stati appunto gli imperi coloniali, istituendo un ordine basato sulla segmentazione e sul conflitto fra sudditi appartenenti a gruppi in competizione reciproca; l’eliminazione dei concetti di popolo, nazione e popolazione discende in linea diretta dalla pratica politica di imperi e regimi coloniali. È per questo, conclude, che il rapporto fra governanti e governati tende a somigliare sempre più a quello fra colonizzatori e colonizzati; è per questo che il conflitto fra destra e sinistra viene soppiantato da quello fra centri e periferie (non solo a livello globale ma anche all’interno di ogni singola nazione); ed è per questo, infine, che i sistemi politici occidentali assumono sempre più l’aspetto di regimi dispotici retti da un autoritarismo liberale o un liberalismo autoritario. 

L’elevazione dell’apertura a valore in sé e per sé, nota ancora Furedi, non si esaurisce nell’ideologia che contesta i confini fisici. In nome dell’apertura si esalta l’esibizione dei pensieri intimi (chi apprezza la riservatezza ha qualcosa da nascondere) (10); le solidarietà prepolitiche associate a legami famigliari, comunitari, di fede religiosa, ecc. sono bollate come vincoli arcaici da sciogliere in quanto nemiche dell’emancipazione individuale e del progresso; il personale viene politicizzato (“il personale è politico!”), nel senso che i politici vengono valutati per le qualità personali più che per le idee, mentre si diffonde la convinzione (particolarmente diffusa in ambito ambientalista, femminista e più in generale nelle culture alternative che predicano di cambiare il mondo “partendo dal basso”) in base alla quale i problemi sociali si risolverebbero cambiando i comportamenti personali. Last but not list l’esaltazione della “trasparenza” fine a sé stessa fa sì che i media sfornino a getto continui programmi basati sull’esibizione pornografica di sofferenze, sentimenti, performance erotiche, ecc.   


Il rifiuto del pensiero binario e dei confini simbolici. 

Gli esseri umani non hanno mai potuto fare a meno di pensare in termini binari, di escogitare complessi sistemi fondati su costellazioni di contrapposizioni polari. L’apeiron, l’indifferenziato, per gli antichi era sinonimo di caos primordiale, una dimensione inabitabile per uomini e dei governata da entità maligne. Ciò non vale solo per la religione e il mito – si pensi all’analisi strutturale di Levi Strauss – ma anche per il moderno pensiero scientifico e filosofico: solo un pensiero dialettico è in grado di descrivere e comprendere un mondo in cui agiscono forze contrastanti. Ma le casematte accademiche delle ideologie postmoderniste, accusa Furedi, hanno scatenato una vera e propria crociata contro il pensiero binario. L’elogio dell’ambiguità, l’appello a rimpiazzare la logica dell’aut aut con quella dell’et et è uscito dalle università per investire il resto del mondo: opposizioni quali maschile/femminile, normale/anormale, ecc. vengono liquidate come strumenti di discriminazione, le idee binarie in campo sessuale accusate di “transfobia”; la trasgressione dei confini simbolici tracciati dal pensiero binario esaltata come un bene in sé (e il bello è che la trasgressione appare svuotata di senso a mano a mano che viene percepita come la nuova normalità, per cui diviene una trasgressione priva di oggetto). 

Per connotare questo divieto di tracciare confini simbolici, Furedi ricorre al neologismo “non giudicazionismo”, che sta a indicare il punto vista secondo il quale esprimere giudizi morali è un atteggiamento negativo perché discriminatorio. La critica viene condannata come un atto violento, come una “micro aggressione”: visto che io affermo questo in quanto donna, in quanto gay, ecc. tu non puoi criticarlo, altrimenti vuol dire che attacchi le donne, i gay, ecc. Ma rinunciare a giudicare, scrive Furedi, significa rinunciare alla ricerca della verità: tutto diventa relativo, ogni cosa dipende dal punto di vista del singolo individuo che parla, asserisce, guarda, ecc. 

La trasgressione dei confini simbolici eletta a principio fa sì che tutte le barriere tradizionali si liquefino, divengano fluide: gli adulti si infantilizzano (abdicando alle proprie responsabilità) mentre i piccoli si adultificano; infanzia e adolescenza si prolungano a dismisura, mentre i politici e i media predicano in continuazione la necessità di “ascoltare i giovani”, così una adolescente svedese viene fatta assurgere a icona dell’ambientalismo globale e chiamata ad arringare l’assemblea delle Nazioni Unite, e la proposta di estendere il voto ai sedicenni guadagna proseliti. L’ambivalenza, l’ibridismo, la fluidità e la trasgressione vengo visti con favore e promossi in ogni contesto, dalla scuola, alla politica, ai media.  Ai bimbi si danno nomi neutri e li si veste in modo indefinito perché dovranno essere loro, una volta cresciuti, a “decidere” la propria appartenenza di genere. 

Friedman sottolinea come questa ideologia attinga esiti estremi nella gender theory e nel pensiero di autrici come Judith Butler, che esaltano il nomadismo, l’ibridismo e il meticciato  fra generi e culture, sostenendo la tesi che le identità dovrebbero divenire oggetto di libere scelte individuali, sempre reversibili. I nuovi eroi di questa cultura sono i trans (termine da intendere in senso lato, non  solo sessuale) e i migranti (avendo ovviamente presenti quelli che operano scelte volontarie, piuttosto che quelli spinti dalla fame, dalle guerre e dalla disperazione). Friedman ha però il merito, di andare più a fondo di Furedi nel rintracciare le radici filosofiche di un fenomeno che associa giustamente alla svolta linguistica delle scienze sociali, trainata da teorie postcolonial, gender e cultural studies e da altre discipline accademiche “cool”. Una svolta cui si è sommato l’enorme prestigio acquisito – a partire dagli anni Settanta - da autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze, che hanno ipertrofizzato il ruolo del discorso, delle narrazioni, indicati come i fattori determinanti della dinamica del potere e della sua distribuzione sociale. È grazie a questa svolta maturata in ambito accademico se la grande maggioranza di coloro che escono oggi dalle università, e si professano progressisti, sono convinti che non esistano fenomeni sociali oggettivi, dotati di realtà autonoma, ma solo regimi di verità generati dal linguaggio.  La teoria degli atti linguistici - vedi l’uso che ne fa Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna (11) -  diventa la bibbia delle scienze sociali, al punto che l’atto del denotare viene concepito come qualcosa che crea la realtà piuttosto che rappresentarla. Questa convinzione spiega l’orrore che intere generazioni di giovani intellettuali e militanti provano nei confronti del sostanzialismo del pensiero novecentesco, della sua fede nell’esistenza di categorie e identità reali e oggettive, un pensiero cui addebita la responsabilità di inchiodare gli individui a identità predefinite (12). 


J- F Lyotard



Il politicamente corretto: un’ideologia violenta e autoritaria 

Furedi sottolinea un paradosso: i crociati della guerra contro i confini simbolici cadono vittime del fatto che gli esseri umani non possono letteralmente vivere – vedi sopra – senza tracciare confini, perciò, mentre invitano alla trasgressione dei vecchi confini, si erigono a inflessibili sentinelle dei nuovi confini che loro stessi erigono a getto continuo,  cioè di quei confini identitari che spesso appaiono più divisivi (e non di rado più violenti) di quelli tradizionali. È in ragione di tale paradosso che il linguaggio viene costretto a forza (anche a costo di cadere nel ridicolo) nella gabbia del politicamente corretto, per impedire che circolino parole che possano minacciare la “sicurezza emotiva” delle persone; così, dopo avere lottato contro la censura imposta dai vecchi pregiudizi, si invocano leggi e codici comportamentali di una nuova censura che dovrebbe proteggere i soggetti “fragili” dall’esposizione a idee che li possano mettere a disagio; così si afferma il principio in base al quale solo le donne (i neri, i trans ecc.) dovrebbero/potrebbero parlare/scrivere su argomenti che li riguardano, o interpretare personaggi femminili (di colore, queer, ecc.).  

Per parte sua Friedman evidenza come queste tendenze culturali abbiano precise implicazioni morali.  Tale conseguenza nasce dalla convinzione secondo cui l’atto di definire/denotare persone, culture, fenomeni, comunità, popolazioni, ecc. comporta “costruirne” l’identità e definire a priori ciò che questi soggetti – individuali e collettivi - possono/devono fare.  Si presume cioè che sia il linguaggio a monopolizzare il potere di istituire le gerarchie sociali, per cui chi vuole ribellarsi  a tali gerarchie dovrà a sua volta utilizzare il linguaggio come strumento “contro egemonico” (13). È qui che il politicamente corretto rivela la sua essenza di arma di una guerra morale: il catalogo delle parole “proibite” in quanto “pericolose” si arricchisce a ritmo esponenziale, esponendo chiunque che ne faccia uso ad accuse infamanti (razzista, fascista, sessuofobo, omofobo, ecc.). 

A mano a mano che l’etica del politicamente corretto si diffonde e viene adottata da intellettuali, media, élite politiche ed economiche, uomini e donne di spettacolo, ecc. queste accuse non hanno nemmeno più bisogno di essere provate, pretendono di asserire verità evidenti e assolute (e a chi viene giudicato colpevole non viene neanche concesso di difendersi). Paradossalmente, nota Friedman, questi giudizi morali cadono a loro volta nel peccato di essenzialismo che i nuovi giudici rimproverano alle categorizzazioni novecentesche: se ieri i militanti di sinistra bollavano come piccolo borghesi gli appartenenti alla classe media, oggi se sei maschio, bianco, di mezza età ed eterosessuale viene dato per scontato che tu sia razzista, sessista, omofobo, in base a una logica associazionista che si fonda su un repertorio predefinito di falsi sillogismi. 

Nel mettere in luce la logica oggettivamente violenta, autoritaria di questa cultura, i cui esponenti si considerano legittimati dalla propria presunta superiorità morale, Friedman chiama in causa Orwell; a me vengono in mente altri due autori: Isabelle Noelle Neumann (14), la sociologa tedesca che ha coniato il concetto di “spirale del silenzio”, con il quale allude al fatto che generalmente le persone tendono a esprimersi in modo conforme alle opinioni della maggioranza per paura di subire sanzioni morali, e Max Weber, la cui definizione del concetto di potere (15) è simile a quella che Friedman usa per descrivere il modo in cui ci si adatta alle opinioni “corrette”, che consiste nell’introiettare i giudizi morali altrui come se fossero propri. 

I nuovi confini simbolici, nella misura in cui svolgono la funzione di discriminanti morali e politiche, non si sottraggono al paradigma schmittiano (16): servono, cioè, a tracciare il confine amico/nemico. Friedman descrive così il modo in cui le sinistre “progressiste” stanno riconfigurando l’immagine del nemico: 1) bollano qualsiasi espressione di amor patrio come fascismo, al punto che perfino gli atteggiamenti positivi nei confronti della propria identità culturale vengono percepiti come negazione della ineluttabilità di un futuro cosmopolita, quindi sostanzialmente reazionari (in base a tale criterio, commenta Friedman, anche Levi Strauss, il quale scriveva che le culture, ognuna delle quali collegata a un proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità, e questa è una tendenza sana, non patologica, come vorrebbero farci credere, rischierebbe oggi di essere accusato di fascismo). 2) Irritate dal risentimento dei proletari nei confronti delle élite liberal-progressiste li insultano come retrivi, conservatori, reazionari, un atteggiamento carico di odio e disprezzo che ha toccato vertici imbarazzanti dopo la vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti e l’esito del referendum inglese sulla Brexit. 


George Orwell



Per concludere

Mi sono fatto prestare da due autori che comunisti non sono alcuni (non tutti) degli argomenti di fondo per cui – come ho scritto nell’ultimo articolo che ho pubblicato su questa pagina –, mentre mi professo orgogliosamente comunista, rifiuto la definizione di uomo di sinistra. E visto che i comunisti non hanno bisogno, al contrario dei liberal progressisti, di esibire certificati di presunta superiorità morale, per tracciare un confine che li distingua dai propri avversai politici, non ho difficoltà a dichiarare che nel campo degli avversari non colloco solo i nemici assoluti come fascisti, conservatori e liberali ma anche questa sinistra che inalbera la bandiera del politicamente corretto. Sulla fatuità degli argomenti che il pensiero “fluidificante” mobilita contro i confini simbolici di ogni tipo (meno quelli che lui stesso si inventa) si è detto abbastanza. Per concludere ricorrerò invece di nuovo a Furedi e Friedman per contestare l’ideologia no border che rifiuta di riconoscere i confini fra nazioni. 

Scrive Furedi: i confini contano perché l’esercizio della democrazia è impossibile senza di essi, perché solo lo stato nazione garantisce solidarietà e fiducia, mentre deterritorializzare significa ridurre le persone a individui astratti incapaci, di dare senso a diritti e doveri. I confini sono un’invenzione? Certamente, ma non un’invenzione casuale e arbitraria, bensì il prodotto della storia di una determinata comunità, e se è vero che nascere in un certo luogo piuttosto che in un altro non è una scelta ma frutto del caso, è altrettanto vero che quel caso conta eccome per definire chi sei o non sei. E aggiunge Friedman: lo stato nazione che ha senso difendere non è il vecchio stato nato dalle rivoluzioni borghesi, ma il progetto politico di un popolo che vuole conquistare il controllo sulle proprie condizioni di esistenza, un progetto storicamente più recente, nato dai rapporti di forza che le classi lavoratrici hanno saputo conquistare nella seconda parte del Novecento. Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di ogni consistenza reale. Cittadini si diviene nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio. 

Note

(1) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(2) Cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018

(3) Cfr. F. Furedi, I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere, Meltemi, Milano 2021. 

(4) Cfr. U. Beck, La società cosmopolita, il Mulino,  Bologna 2003.

(5) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

(6) Cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003. 

(7) Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013; vedi anche La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016 e  Il socialismo è morto viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

(8) Cfr. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1981. 

(9) Concetti non dissimili, ancorché ammantati da un linguaggio paramarxista, troviamo in M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000, un libro che, non a caso, ha riscosso straordinario successo presso un pubblico americano che ha creduto di riconoscervi, piuttosto che un manifesto rivoluzionario, un’apologia dell’ordine imperiale statunitense. 

(10) Sull’ideologia della personalizzazione della vita politica e della messa in trasparenza dei suoi protagonisti, cfr. R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006.

(11) J-F Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. Questo libretto, da me tradotto, ha avuto un impatto sproporzionato rispetto alle umili origini (è nato come uno scritto di occasione che fu commissionato a Lyotard dall’amministrazione canadese, per descrivere le tendenze evolutive della società informatizzata). La ragione di tanto successo risiede nel fatto che rispecchiava evidentemente lo spirito del tempo, fornendo argomenti di facile spendibilità ai profeti della società post industriale e post materiale. 

(12) L’attacco alle aspirazioni filosofiche di descrivere la realtà del mondo, inizia assai prima della svolta postmoderna ed è stato sferrato su vari fronti da empiriocriticisti, fenomenologi, esistenzialisti, post strutturalisti e altre scuole, anche interne al marxismo. Una delle poche voci che ha avuto il coraggio di opporsi frontalmente è stata quella di Gyorgy Lukacs (vedi in particolare, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Pgreco, Milano 2012).

(13) Il concetto gramsciano di egemonia è stato ignobilmente stiracchiato da tutte le discipline accademiche che si fregiano del prefisso post.

(14) Cfr. I. Noelle Neumann, La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinion pubblica,  Meltemi, Milano 2017.

(15) Cfr. M- Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Torino 1999-2000.

(16) Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972. 

 

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