Lettori fissi

mercoledì 15 settembre 2021

Afghanistan: come non lasciare un bel ricordo


di Piero Pagliani



La ressa nel tentativo di lasciare Kabul



Secondo i media e i commentatori mainstream, l'evacuazione degli Stati Uniti dall'Afghanistan è stato un orrendo errore. Ma c'è poco da obiettare alla risposta di Biden: “Those who say that 2 or 5 more years will bring us victory are lying to you”. Un'affermazione piena di saggezza che, confesso, mi ha sorpreso in una persona come Biden a cui io non ho mai dato molto credito, anzi. In venti anni non abbiamo vinto, ma perso terreno. Pensate proprio che in ventidue potremmo vincere? Questo è il (buon) senso dell'inquilino della Casa Bianca. 

La cosa a prima vista più stupefacente, fateci caso, è che se un presidente degli Stati Uniti fa un'affermazione sensata, i media e i commentatori occidentali vengono presi dall'isteria. Tanto che la vice Khamala Harris si è data alla fuga, al mutismo metodico: pensa alla sua carriera, quindi non vuole essere coinvolta in queste polemiche in cui si scatenano fissazioni di ogni tipo. Così ha deciso di lasciare da solo il suo capo nella bufera. Io non ci sono per nessuno. Non m'importa se qui, nel bene o nel male, si sta facendo la Storia del mio Paese. Io non esisto. Notevole per una vice presidente.

In realtà la decisione non è stata del quasi ottuagenario signor Joe Biden, ma del “Biden collettivo”, cioè quell'insieme di forze e di interessi che nel corso del tempo fanno la politica degli USA, che ha preso il testimone dal Trump collettivo che a sua volta lo aveva ricevuto dall'Obama collettivo. Tale è la storia della decisione di ritirarsi dall'Afghanistan. Storia dimenticata da commentatori e commentatrici  che vivono nel mondo di Papalla. 


Secondo gli ultrà dell'antimperialismo senza macchia, senza paura e senza dubbi, ma anche secondo i sostenitori della tesi del “complotto mondialista”, ovviamente demo-pluto-giudaico (per alcuni vi facevano parte anche Marx e Lenin perché di ascendenza ebraica!), secondo questi straordinari analisti che la sanno più lunga del Cremlino, della Casa Bianca, di Pechino, di Londra e così via, la decisione di Biden è stata sic et simpliciter la dichiarazione che l'impero USA-NATO è stato sconfitto dalle forze popolari afgane. 

Ora, che in un modo particolare che poi vedremo, ci sia stata una sconfitta dell'arrogante Occidente, è vero. Ma questo non vuol dire che Kabul sia stata una nuova Saigon (addirittura “al quadrato” per qualcuno). In realtà, al contrario del Vietnam dove gli USA e il suo esercito proxy sud-vietnamita sono stati drammaticamente sconfitti dai soldati del Nord e dai Vietcong del Sud al prezzo di 1 milione di morti tra i combattenti e di 2 milioni tra i civili, in Afghanistan gli USA non sono stati sconfitti sul campo, ma si sono sconfitti da soli, perché la loro “grand strategy” ideata dai neocons e iniziata nel 2001 non poteva funzionare, per una miriade di motivi che cercheremo di vedere sotto un particolare punto di vista.

Di questa grand strategy parlai in un libro edito nel 2003 da Punto Rosso. Si intitolava “Alla conquista del cuore della Terra. Gli Usa: dall'egemonia sul «mondo libero» al dominio  sull'Eurasia” (su Internet, i termini “egemonia” e “dominio” del titolo sono spesso scambiati, non so perché). Per prepararlo avevo scartabellato centinaia di studi e decine di riviste internazionali che non mi portarono ad avere una conoscenza dei problemi dell'Asia Centrale e del Caucaso, ma se non altro mi permisero di farmi un'idea un po' meno cialtrona delle analisi propinate dai media e dai libri mainstream.

In seguito i miei interessi si concentrarono di più sull'India, ma non persi l'abitudine di andare a vedere le fonti che si erano rivelate più informate e intelligenti riguardo ai problemi del “cuore della Terra”.

Dieci anni dopo scrissi due volumi che intitolai “Al cuore della Terra e ritorno” (liberamente scaricabili da Internet). Avevo iniziato a vedere che, al di là di ciò che succedeva sui campi di battaglia e si diceva nelle narrazioni in voga, l'andamento della crisi sistemica (che coinvolge cioè non singoli settori economici e non solo l'economia, ma anche la politica e la geopolitica, e non singole nazioni) stava imponendo un “ritorno”, cioè una ritirata (molto contraddittoria e con impressionanti ritorni di fiamma): dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione, dall'espansione imperialistica.

Così, lasciata posare la polvere sollevata dal “momento Kabul”, ho deciso di tentare di fare un primo (e necessariamente lacunoso) punto su ciò che sta succedendo.


1. Lo strano attacco dell'ISIS-K

Iniziamo con questa orrenda strage, chiamata “Abbey Gate massacre”. Secondo fonti della BBC molte delle persone morte durante l'attacco ISIS all'aeroporto di Kabul sono in realtà state uccise da proiettili statunitensi [1].

Adesso c'è un rapporto dal Kabul Emergency Hospital che rivela che “all victims were killed by American bullets, except maybe 20 people out of 100.” (esiste anche un reportage in lingua Dari, quella dei Tagiki, con commenti esplicativi in Inglese, di una notevole “street-level TV”, Kabul Lovers, che mortifica i grandi network) [2].  

In realtà oltre alle vittime civili sono stati ammazzati anche 30 miliziani talebani [3]. 

Secondo l'Ansa, ciò è stato causato dalla “confusione” che si è creata con le bombe suicide. E' possibile. Ma la presenza dell'ISIS in Afghanistan è stata pianificata:


A) Molti miliziani dell'ISIS (che, non bisogna mai dimenticare, sono stati organizzati, equipaggiati e addestrati da USA, Qatar e Sauditi [4]), sono stati messi in salvo dalle regioni della Siria occupate  dall'alleanza SDF-USA e da Idlib tramite un ponte aereo coordinato dagli Stati Uniti con terminali le province di Konar e Nangarhar nell'Afghanistan orientale (altri sono stati dislocati nello Xinjiang cinese, nelle zone del Myanmar abitate dai Rohingya e al confine con lo stato indiano conteso del Jammu & Kashmir).

B) I servizi segreti talebani avevano avvisato gli Stati Uniti che l'ISIS-K stava preparando un attentato all'aeroporto e di stare in allerta. Allarme che sempre di più pare sia stato recepito solo a parole.

C) Lo stesso ex presidente Afghano di fiducia della NATO, Hamid Karzai, ha descritto l'ISIS-K come “uno strumento degli Stati Uniti”. 


Come gli Stati Uniti intendano utilizzare questo loro “strumento” (che pochi anni fa, in relazione alla Siria, il Pentagono stesso descrisse come “l'unico reparto operativo dell'esercito saudita”, cioè dell'esercito di un loro strettissimo alleato), può essere per ora solo oggetto di speculazioni. Una di esse, non campata per aria, è che sia usato per controllare e tenere sotto scacco il futuro nuovo governo afgano, qualsiasi esso sia. Questa ipotesi potrebbe spiegare come mai gli USA si siano subito affrettati ad ipotizzare una collaborazione militare e di intelligence coi Talebani contro l'ISIS, ipotesi rigettata al mittente in quanto evidente tentativo di rimettere i piedi nel Paese asiatico (anzi, vedremo che i Talebani stanno tentando di smantellare le due reti di intelligence messe in piedi dalla CIA nel loro Paese, cosa non riportata da nessun media mainstream occidentale).

Un'altra ipotesi deriva dalla constatazione che il sempiterno Piano B degli USA recita: “Se le cose vanno storte, lasciare dietro di sé il caos”, un caos che qualcun altro dovrà affrontare.

Ad esempio, dopo aver trasformato l'Ucraina in uno stato fallito, l'odierna strategia di Washington è lasciare la patata bollente alla Germania e alla Russia. Cosa che ovviamente potrebbe avere un risvolto negativo per gli USA, ovvero una rinnovata e ampliata collaborazione tra i due Paesi europei, se non fosse che Washington lascia sempre sul campo una quinta colonna: in Ucraina le formazioni politiche e paramilitari naziste, in Afghanistan l'ISIS e, come vedremo, al-Qaida. 


2. Il problema dei Talebani: instabilità, divisioni etniche e complessificazione della società afgana

Il “nuovo” Afghanistan difficilmente sarà stabile. I Talebani sono tutti di etnia Pashtun, che conta solo il 42% degli Afgani. Le altre etnie fanno eventualmente riferimento ad altri “signori della guerra” che possono o non possono allearsi con i cosiddetti “studenti coranici”, a seconda dei loro interessi. In secondo luogo i Talebani non sono una formazione compatta, ma una sorta di federazione di combattenti organizzati su base clanica, tribale e regionale. Non solo, sono attualmente contrapposti al loro interno tra i “negoziatori di Doha” (uomo di riferimento Abdul Ghani Baradar), la rete politico-militare Haqqani (uomini di riferimento Haji Mali Khan e Anas Haqqani), molto collegata ai servizi segreti pakistani e quella nazionalista del giovane Mullah Yakoob (figlio di Mullah Omar). Il cemento ideologico dei Talebani, ovvero la loro dottrina nazional-fondamentalista, sostenuta dai wahhabiti sauditi, definibile “neo-Deobandi” [5] (qualcosa di sconosciuto ai nostri media), dovrà vedersela con la complessificazione della società afgana che oggi è molto diversa da quella di venti anni fa. 

I Talebani sono tradizionalmente visti nelle città, e specialmente a Kabul, come degli alieni, così come, reciprocamente, essi considerano Kabul una sorta di “pianeta proibito”. 

Infatti Kabul, così come Herat e Mazar-i-Sharif, è abitata in maggioranza da Tagiki, che non sono organizzati su base tribale e formano anche la crème intellettuale (e religiosa) dell'Afghanistan. Questa ostilità delle città nei confronti dei Talebani si è ampliata con l'ampliarsi della classe media, col diffondersi di altri stili di vita, di altre conoscenze e modi di pensare permesso dall'occupazione della NATO (questo effetto delle occupazioni occidentali nei Paesi del Sud del mondo, effetto non totalmente controllabile dall'occupante e non totalmente asservibile alle sue esigenze, è una costante storica che ho già avuto modo di sottolineare e che benché faccia capo ad alcune élite locali, spesso ha svolto ruoli positivi nel Paese occupato, dinamizzandone la società e fungendo da elemento chiave anche nella lotta per l'indipendenza – può essere difficile da comprendere o da digerire, ma la Storia dice questo, vedi India e vedi Algeria, per fare due esempi). 

Di questo profondo cambiamento sono testimonianza le manifestazioni di protesta che vediamo in questi giorni, impensabili durante il primo regime talebano. 

Le dichiarazioni ufficiali di “moderazione” da parte dei portavoce del movimento riflettono queste difficoltà che si intersecano con la necessità di riconoscimento internazionale, ma si tenga conto che i propositi di moderazione dei vertici, così come quelli di “magnanimità” nei confronti di chi ha collaborato con gli occupanti, possono essere disattesi man mano che si scende al livello di capi locali e di singoli miliziani (a dire che vendette anche sanguinose e repressioni vecchio stile dei costumi “liberali” sono sicuramente da aspettarsi).



I Talebani entrano a Kabul 




3. Gli accordi con Washington

I Talebani hanno firmato con gli USA impegni in cambio dell'evacuazione delle forze NATO. A mio avviso sono impegni soprattutto geopolitici. Sicuramente gli USA vorranno controllare che essi  vengano rispettati e per far ciò utilizzeranno vari mezzi. L'uso della pressione economica deve essere molto misurato, per impedire massicce incursioni economiche e finanziarie della Cina. Le pressioni saranno quindi soprattutto politiche e oltre alla minaccia di isolamento (dall'Occidente) comprenderanno quelle di carattere “militare” ottenibili mobilitando le quinte colonne di cui sopra.  Proprio il fatidico 31 agosto è rientrato in Afghanistan l’ex capo della sicurezza di Bin Laden, Amin-ul-Haq, esponente di spicco di al-Qaida, senza che gli USA abbiano avuto sostanzialmente niente da ridire. Non è una sorpresa, essendo stata apertamente questa organizzazione uno “strumento” USA durante la guerra contro la Repubblica Democratica dell'Afghanistan e l'Unione Sovietica (guerra fortemente voluta da Zbigniew Brzezinski, consulente per la Sicurezza di Carter), nella guerra di Bosnia, in quella in Kosovo, nello Yemen, in Libia e in Siria.

Occorre poi citare altri due strumenti che sono ignoti alla grande maggioranza dei nostri commentatori (che pare si limitino a passare veline o a scopiazzare i giornali anglosassoni – ovviamente non i migliori quali il realmente prestigioso The Nation). Si tratta della Khost Protection Force (KPF) e del National Directorate of Security (NDS), entrambi assets della CIA. Si presume che durante l'occupazione fossero composti da un minimo di 3.000 a un massimo di 10.000 persone ed avevano compiti di polizia segreta, di intelligence e di squadroni della morte (e qui si capisce perché non vengano mai citati, a parte l'ignoranza) [6].

I Talebani stanno cercando di neutralizzarne le rimanenze. Si sa che le cellule dormienti talebane  infiltrate negli apparati dell'amministrazione fantoccio sono riuscite a mettere le mani sulle liste dei nomi e che il famoso “bussare alla porta delle abitazioni” e i cordoni talebani di isolamento all'aeroporto di Kabul che hanno fatto scattare l'isteria dei media e del pubblico occidentali, in larga parte riguardano la ricerca dei membri del KPF e dell'NDS [7].

Infine nel Panshir c'era (c'è?) il movimento guidato da Massud jr, il figlio del “leone” Ahmad Shah Massud. Anche in questo caso l'approssimazione dei nostri media è sconfortante. Per anni Ahmad Shah fu visto e descritto come un tollerante difensore della libertà contro i Talebani, dimenticandosi volutamente, o non sapendo, che si era macchiato di pesanti crimini di guerra, anche contro le donne [8]. Era anche un antico alleato del generale Dostum, un bieco traditore del governo della Repubblica Democratica dell'Afghanistan, una sorta di Pinochet. Oggi la resistenza del figlio del “leone del Panshir” è stata appaltata ad Amrullah Saleh, l'ex vice-presidente afghano, che è apertamente considerato un asset della CIA. Ma la resistenza nel Panshir a regola fa parte anche degli interessi britannici. Dato questo quadro, lascia di sasso che venga presa per buona la notizia che Putin avrebbe avuto intenzione di intervenire con l'aviazione nel caso i Talebani fossero avanzati nella valle. Basterebbe riflettere sul fatto che Putin è uno statista prudentissimo che nel Donbass ha giocato di fioretto per non essere coinvolto e che ha centellinato col bilancino l'intervento in Siria. E basterebbe riflettere sul fatto che il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov, ha dichiarato che Mosca vuole una soluzione politica pacifica tra Massud e i Talebani  (“come tutte le Potenze”, ha aggiunto), ma che non intende minimamente fare da mediatrice (figuriamoci intervenire militarmente – a fianco della CIA poi) [9].  

Adesso i nostri media strillano disperati che Massud è stato lasciato solo da Russia e USA nonostante le promesse. Per la Russia abbiamo visto. Per quanto riguarda gli USA, non vi sembra imbecille pensare che una potenza che si ritira da tutto l'Afghanistan il 31 agosto lasciandosi indietro tonnellate di armamenti, il primo settembre vi rientri dal Panshir per affrontare le forze con cui ha concluso un accordo e che di fatto ha contribuito ad armare? Ogni tanto mi sembra che i nostri media, i nostri politologi, i nostri commentatori e molti nostri politici siano in preda a disconnessione cognitiva (i nostri militari sembrano invece avere i piedi più per terra, vedi il generale Carlo Jean).


4. Chi ha realmente sconfitto gli Stati Uniti in Afghanistan?

Il famoso e sbandierato raid della vendetta contro l'ISIS a Jalalabad (la capitale della provincia di Nangarhar – vedi sopra) in realtà si è concretizzato nello sterminio di tre famiglie: 12 civili inclusi 7 bambini tra i 2 e i 10 anni. Non è una novità per gli USA: in Afghanistan e in Pakistan sono anni che compiono queste eroiche imprese. Sono i risultati di quella che è stata chiamata la “dronificazione della violenza di stato” [10]. 

Non c'è allora da meravigliarsi del ripetersi dei “momenti Saigon” cioè la fuga precipitosa degli Usa inseguiti dall'ira dei legittimi abitanti delle nazioni in cui intervengono con arroganza e violenza, vedi Vietnam, vedi Libano, vedi Somalia, e vedi adesso Afghanistan [11].

In una larga parte del mondo c'è un reale odio/astio/profonda diffidenza contro gli Stati Uniti che i  media e i politici occidentali vogliono ovviamente nascondere utilizzando spesso il successo mondiale della cultura pop – e non solo – americana. Questo successo è reale, solo gli antiamericani senza se e senza ma, i sognatori romantici dei bei tempi andati, i devoti delle sane tradizioni locali (non importa quanto retrograde siano), e gli ultrà antimperialisti, possono negarlo. Il successo c'è ed è spiegabile. 

Tuttavia anche la cultura dell'antica Roma aveva un successo mondiale, un successo che si è protratto per secoli e secoli anche dopo la caduta dei due imperi, occidentale e orientale. Ma ciò non toglie che i due imperi caddero. 

Gli imperi cadono per vari motivi e gli studiosi più attenti hanno cercato di distinguere ciò che varia da ciò che è costante nella storia di queste cadute (in definitiva, un po' in ogni settore, gli studi seri servono proprio a questo). 

Cosa sta succedendo allora all'impero statunitense?

Cerchiamo di rispondere intanto a un'altra domanda: Kabul è stata veramente una nuova Saigon? I Talebani sono veramente i nuovi Vietcong?

So che anche qui farò infuriare alcuni, ma ripeto ancora una volta: no, non è così. Nonostante certe suggestive analogie iconografiche (gli elicotteri che si danno alla fuga) Kabul non è Saigon e i Talebani non sono i Vietcong. Le modalità di evacuazione degli USA da Kabul hanno poco a che vedere con la fuga precipitosa da Saigon, a parte qualche fermo immagine (ad esempio, gli agenti segreti statunitensi e dei Paesi Nato in quei giorni entravano e uscivano da Kabul liberamente). E i Talebani non sono né i Vietcong né il Partito Comunista vietnamita, non lo sono per ideologia e non lo sono per le modalità con cui hanno riconquistato l'Afghanistan. E in questo giudizio non interviene il fatto che la mia simpatia per i Talebani sia simile a quella che ho per la Santa Inquisizione.

Una forza retrograda e reazionaria, nel migliore dei casi – ed è ancora da vedere se il caso qui in discussione è uno di essi – può temporaneamente essere di ostacolo all'imperialismo (come sapeva anche Lenin, proprio a proposito dell'Afghanistan e del suo “emiro reazionario”), ma nel medio periodo, nemmeno in quello lungo, farà scelte di campo che con l'antimperialismo non c'entreranno niente. E' una questione di progetto. A meno che con “antimperialismo” si qualifichi uno scontro geopolitico e basta. Si ricordi che l'imperialismo storicamente si è basato su forze reazionarie locali.

Degli accordi con Washington frutto di una negoziazione di sei anni (tre segreti e tre ufficiali) abbiamo già parlato [12]. Possiamo aggiungere che i maggiori leader talebani attuali erano tutti in prigione e sono stati liberati dagli USA proprio per condurre quei negoziati.

Il punto centrale del discorso è che gli USA in Afghanistan non sono stati sconfitti. I 2.400 morti statunitensi in 20 anni non sono i 58.000 nei 10 anni di coinvolgimento pesante in Vietnam (dalla famosa escalation alla sconfitta). 

Ciò che forse più accomuna il “momento Saigon” al “momento Kabul” è una profonda crisi sistemica  che gli USA e l'Occidente non sanno più gestire e che oggi si associa alla possibilità di due Potenze, Cina e Russia, di contrapporsi in modo diretto sia militarmente sia economicamente alla superpotenza americana (persino l'Iran lo può fare: si pensi agli attacchi missilistici dell'8 gennaio 2020 contro le basi statunitensi in Iraq seguiti all'assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, ai quali gli USA non hanno risposto per il semplice motivo che non potevano farlo senza finire in un disastro – fu una scelta saggia ma obbligata).

E quindi qui sta il punto cruciale, su cui occorrerà ritornare in modo specifico: gli Usa non sono sconfitti, gli USA si stanno esaurendo. Questa sarà, a mio avviso, la dinamica della fine dell'impero statunitense. Certo, in linea teorica può succedere che gli USA vengano sconfitti in modo drammatico in un conflitto periferico o semi-periferico suscitato da quelli che Paul Craig Roberts, ex sottosegretario al Tesoro di Reagan, definisce “the crazy freaks in Washington” (misti repubblicani e democratici), ma la Russia e la Cina sanno perfettamente che se è vero che occorre bastonare il cane che affoga, è meglio anche essere molto prudenti con la tigre ferita e daranno poche possibilità ai crazy freaks di scatenare la loro pazzia.

Vediamo alcuni fatti “culturali” (cioè non relativi al cuore della crisi sistemica) che spiegano le difficoltà statunitensi.


Fatto 1. Gli Usa sono nel pieno del fenomeno detto di “sovradimensionamento strategico” che è  stato un elemento chiave costante nel crollo degli imperi: per mantenere le stesse posizioni devo ampliare sempre più il campo di intervento [13]. È un paradosso che io chiamo paradosso di Alice (che doveva correre sempre più velocemente per rimanere almeno ferma), che si combina con la crisi economica, con la conseguente finanziarizzazione che non è altro che la costruzione di un immane colosso dai piedi di argilla pronto a crollare, e con l'emergere di potenti competitor internazionali che non fanno crollare il colosso d'argilla in parte perché ne rimarrebbero coinvolti economicamente, ma più che altro perché temono le conseguenze telluriche politiche e militari di un tale crollo, se fosse subitaneo e incontrollato.

Qualche osservatore rintronato, volendo applicare agli altri gli schemi mentali e politici americani, sostiene che la Russia vorrebbe che il Rublo sostituisse in Dollaro come valuta internazionale e la Cina il suo Yuan. Scemenza. Russia e Cina non hanno assolutamente voglia di sostituire gli USA come guardiani del mondo né vogliono che la loro valuta nazionale diventi la moneta di scambio internazionale. Stanno ben vedendo come sta andando a finire in America e non vogliono ripetere gli stessi errori [14].


Fatto 2. Il sovradimensionamento strategico fa sì che gli “interessi nazionali” siano spinti, sia geograficamente sia idealmente, in periferie sempre più lontane. Il risultato è combattere guerre con soldati che non capiscono assolutamente perché vanno ad ammazzare e a morire chissà dove e con dietro una nazione che fa altrettanto. Soldati che si trovano, vuoi in Afghanistan, vuoi in Iraq, vuoi in Somalia o altrove nel mondo, solo perché la loro alternativa di vita in America era diventare poliziotti o criminali (o solo per avere la cittadinanza). Di fronte si trovano invece combattenti che, tanto per iniziare, combattono nel proprio Paese e che spesso oltre che da un motivo nazionale sono mossi da forti motivazioni ideali (che ci possano piacere è un altro discorso). Ad essi non si contrappongono combattenti statunitensi con forti motivazioni contrapposte (quelli che le hanno sono un'esigua minoranza) bensì persone che dentro di sé hanno il vuoto e la paura e spesso la cognizione dell'inutilità o a volte anche dell'immortalità di quel che fanno.

Anche per questo motivo gli Usa non vincono più una guerra dal 1945, benché abbiano costantemente tentato di replicare il clima di mobilitazione ideale della II Guerra Mondiale dando del “dittatore sanguinario” o del “nuovo Hitler” a ogni loro avversario, chiunque fosse. Al massimo possono vincere nazioni disarmate, come Panama. O, per l'appunto, far stragi di civili.


Fatto 3. Alcuni commentatori affermano che a differenza della Gran Bretagna, gli USA non hanno i mezzi culturali, le capacità politiche e le abilità diplomatiche per mantenere un impero.

Sono d'accordo, molto d'accordo, e per i motivi che seguono.

Gli Stati Uniti nascono grandi e grossi. Non sono una piccola isola con pochi abitanti che ha necessità di espandersi ma deve fare i conti con risorse limitate e che quindi mobilita abilità e intelligenza più ancora che forza militare. Come avrebbe fatto la Gran Bretagna a soggiogare per tutto quel tempo un'India con 400 milioni di abitanti usando solo 84.000 soldati britannici al massimo?

Si pensi all'ossessione britannica per la conoscenza, fin nei minimi particolari, delle regioni che occupava. Sentite ad esempio cosa dichiarava Lord Curzon, alla Camera dei Lord il 27 settembre 1909:

La nostra familiarità non solo con le lingue dei popoli dell’Est, ma anche con i loro costumi, i loro sentimenti e le loro tradizioni, la loro storia e le loro religioni, insomma la nostra capacità di comprendere ciò che può essere chiamato “il genio dell’Est”, è il solo fondamento in base al quale possiamo sperare di mantenere in futuro la posizione che ci siamo conquistata”. 

E nel 1914 alla Mansion House ribadiva che gli studi orientali non erano un lusso intellettuale bensì “un grande obbligo imperiale. E’ mia opinione che la creazione di una scuola di questo tipo a Londra [cioè di studi orientali ]debba far parte dell’indispensabile attrezzatura per il governo dell’Impero.”

E infatti questa scuola fu fondata e divenne la London University School of Oriental and African Studies.

Che altro sostiene il magnifico saggio di Edward Said “Orientalismo”? Proprio questo, cioè  l'importanza cruciale della, diciamo così, conquista cognitiva del mondo da parte britannica. La Gran Bretagna non poteva affidarsi esclusivamente o prevalentemente alla forza bruta.

Gli USA invece sì. Nascevano grandi, forti, spregiudicati (sterminio dei nativi), protetti dalla geografia e con l'obiettivo che la loro grandezza doveva contrapporsi a quella dell'Impero Britannico (visto per decenni, dopo la Guerra di Secessione che servì a sbarazzarsi delle forze filo-britanniche, come il principale avversario). 

E così, nel 1926 l'agente segreto britannico Gertrude Bell fece nascere quel Museo Nazionale di Baghdad che nel 2003 sarà saccheggiato e bruciato sotto gli occhi complici dagli statunitensi [15]. 

Basterebbe anche solo questo per dimostrare che, sì, in effetti gli USA non hanno i mezzi culturali per mantenere un impero.

E non hanno quelli diplomatici, essendo la loro diplomazia basata sulle minacce e la corruzione (le raffinatezze usate dall'agente segreto - e archeologo esperto di Vicino Oriente - Thomas Edward Lawrence nella Rivolta Araba, se le potevano solo sognare).

Non c'è partita per il povero Tony Blinken contro Wang Yi o Sergej Lavrov.



La foto choc dei fuggitivi caduti dall'aereo  




5. Il caos di Kabul e l'impossibile “afganizzazione” della guerra

Il caos che si è creato nei giorni di fine agosto all'aeroporto di Kabul è dovuto a diversi fattori. Intanto si tenga conto che a Kabul i Talebani, come si è già detto, avevano da tempo infiltrato cellule in sonno. Ma queste cellule non avevano ricevuto l'ordine di attaccare. Il problema è che il governo fantoccio, le sue forze di sicurezza e il suo esercito si sono sciolti come neve al sole a una velocità sorprendente, sì che si è creato un vuoto di potere, amministrativo e d'ordine, che a quel punto poteva essere riempito solo dai Talebani. E così è stato. E questo ha completamente spiazzato i tempi e le modalità di evacuazione previsti da Washington e dalla Nato. Tempi per altro già stretti: si pensi che l'evacuazione dell'Unione Sovietica avvenne in 18 mesi.

E qui è utile un excursus. Le forze militari addestrate ed armate dalla combriccola USA-NATO hanno il vizio di collassare. Successe dopo la “vietnamizzazione” del conflitto nel Sudest asiatico agli inizi degli anni Settanta. Ci vollero circa cinque anni, perché l'intervento statunitense e alleato era stato mastodontico, ma infine i proxy vietnamiti del Pentagono crollarono.  Invece nell'agosto del 2008 in Georgia l'esercito para-NATO (e coadiuvato da Israele) crollò in un batter d'occhio. L'impero era convinto di aver costruito in quel Paese una forza militare coriacea. Così la mandò a provocare la Russia in Ossezia del Sud, nel Caucaso. Benché in quel momento fosse sommersa da problemi, la Russia sconfisse l'escrescenza georgiana della NATO in tre giorni, fermandosi davanti alla capitale georgiana, Tbilisi, solo per convenienza politica. E qualsiasi generale NATO serio vi dirà che ogni attacco convenzionale occidentale alla Russia verrebbe fermato catastroficamente sulla linea di confine (mentre secondo uno studio di Princeton una guerra non convenzionale anche limitata - cioè solo con attacchi nucleari tattici - causerebbe in Europa più di 85 milioni di morti in soli 45 minuti). 


6. E il futuro? Si vede poco, bisogna che la nebbia si diradi

L'isteria occidentale per l'Afghanistan trainata dai media sta man mano scemando e tra poco cesserà, a  meno di eventi eclatanti. Riemergerà a tratti per un fatto di sangue, per qualche episodio di repressione brutale e di intolleranza, per qualche scontro nel Panshir, per i profughi. O magari per qualche episodio di terrorismo. Ma il ritiro dall'Afghanistan, voluto da Obama, avviato da Trump e conclusosi con Biden, è stata una decisione strategica degli USA e quindi anche in Europa calerà un sostanziale silenzio. Era ovvio che finiva così. Parimenti la “brutta figura” di Biden alla fine verrà dimenticata. C'è chi sostiene di no, ma io penso proprio di sì, tenuto conto che gli elettori statunitensi tradizionalmente non votano sulla politica estera che a loro interessa solo nei suoi risvolti ed effetti interni. Uscire dall'inutile pantano afgano era infatti una priorità di politica interna e lo è stato, per l'appunto, prima per Obama, poi per Trump e infine per Biden. Ovviamente i tempi li ha dettati il Pentagono.

Rimane da vedere come gli USA gestiranno questa congiuntura. Abbiamo visto più sopra le teste di ponte che essi mantengono in Afghanistan. Probabilmente cercheranno di esternalizzare agli UK la gestione della patata bollente che hanno cucinato e tramite gli UK alla Russia e alla Cina. Già ci sono state le avance britanniche verso queste due potenze che per ora hanno fatto orecchie da mercante.

Cina e Russia sono infatti molto guardinghe. Temono, a ragione, che il piano statunitense sia propagare il caos afgano agli stati ex sovietici, alla Russia stessa, alla regione del Xinjiang-Uiguri cinese e all'Iran. 

La Russia punta quindi a rinforzare i già stretti legami con Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran. Intense consultazioni tra questi attori si sono e si stanno svolgendo e la Russia ha già annunciato che rafforzerà la difesa di questi Paesi. Ciò che stupisce è che questo rafforzamento della Russia nella strategica Asia Centrale (così strategica che fu l'obiettivo principale degli USA dal 2000 in poi), avviene senza che Washington batta ciglio, almeno apparentemente.

I Cinesi dal canto loro immaginano che nei patti concordati con Washington si richiede che i Talebani facciano da argine in qualche modo alla Belt and Road Initiative (BRI), cioè alla nuova Via della Seta. I Cinesi però sanno aspettare e hanno dalla loro la più forte economia del mondo. Anche per loro per adesso la priorità principale è la sicurezza. 

In realtà i Talebani si sono recentemente detti entusiasti per la BRI. Ma sarà vero? E' solo una minaccia per negoziare termini migliori con gli USA? Vedremo. Io oggi non ne ho idea. Vedo solo che gli USA e l'Europa scalpitano per allacciare relazioni diplomatiche ed economiche col nuovo Emirato Islamico. Aspettano che la situazione si stabilizzi e che i dirigenti talebani assicurino almeno a parole il rispetto dei diritti delle donne, anche se non si capisce cosa ciò voglia dire. Vuol dire potersi istruire e lavorare? Poter accedere a cariche governative? Poter non indossare il burqa? Poter fare il bagno in bikini (cosa, sia detto incidentalmente, che è possibile nella Siria di al-Assad, odiatissima dall'Occidente)? Questo più che un problema afgano è un problema di dissimulazione per l'ipocrisia occidentale – vedi i languidi amori con l'ultra reazionaria Casa Saudita. Immagino quanti nelle cancellerie occidentali stanno oggi dicendo: “Come siamo stati fessi. Per due decenni abbiamo detto che occupavamo l'Afghanistan per difendere i diritti delle donne e la democrazia. Ce ne siamo andati via facendo infuriare in Occidente e mettendo in pericolo chi in Afghanistan ci ha creduto. E così ci siamo cuciti addosso da soli inutili ostacoli ideologici ai nostri interessi (che con la democrazia e i diritti delle donne non c'entrano nulla) [16]”.

Per finire, nessun commentatore mainstream ha citato il concomitante ritiro di sistemi di difesa contraerei americani da diversi Paesi arabi, comprendenti l'Arabia Saudita (la più interessata dal ritiro), l'Iraq, il Kuwait e la Giordania.

I motivi? Varie ipotesi. La più meccanica ma meno verosimile è per reimpiegarli contro la Cina (come se gli USA non ce ne avessero altri). Una delle più plausibili è apparecchiare la tavola per nuovi negoziati con l'Iran [17].

In questo caso avremmo l'ampliamento di uno scenario che potrebbe indicare la scelta di una strategia più accomodante da parte di Washington. Una strategia più saggia: impossibile rimanere l'unica superpotenza, si va inesorabilmente verso un mondo multipolare, cerchiamo di guadagnare le migliori posizioni in questo mondo irriconoscibile rispetto a quello uscito dalla II Guerra Mondiale. Una strategia necessariamente piena di contraddizioni, di contorcimenti, di colpi di coda e di effetti imprevisti. Ma l'unica di buon senso.

Dopo tutto, quello che ho chiamato “esaurimento” dell'impero statunitense, non significa collasso verticale degli USA. Sono pur sempre una nazione straordinariamente potente, straordinariamente grande e che occupa una posizione straordinariamente vantaggiosa in termini geopolitici (di fatto sono un'enorme isola, non avendo nemici confinanti, ed è bagnata dai due più grandi oceani commerciali del mondo). E occupa una terra straordinariamente ricca. Basti pensare al Midwest, la distesa di terre arabili contigue più vasta del mondo, solcata dai maggiori fiumi navigabili del mondo, Mississipi e Missouri. 

In una posizione meno favorevole, l'Italia continuò ad avere il maggior PIL pro capite del mondo anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, fino al 1.600, quando fu sorpassata dall'Olanda. 

Io penso che i maggiori problemi per gli USA nasceranno dai loro assetti sociali e politici interni che saranno messi a dura prova dall'esaurimento dell'egemonia globale statunitense, le grandi sacche di una  povertà che è irredimibile nel sistema socio-economico predominante e si è ampliata notevolmente con la pandemia, la frantumazione delle élite dirigenti e degli interessi dominanti che non permette linee politiche omogenee di alcun tipo. Problemi che avranno possibili conseguenze sui rapporti tra i vari Stati federati. Ma è uno scenario tutto da studiare.



Note


[1] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/08/28/bbc-nel-caos-attacco-kabul-molti-uccisi-da-truppe-usa_46b6f0d1-b1e5-4c13-9ec0-8545837331b5.html


[2] https://www.youtube.com/watch?v=nhJB2By61bQ


[3] http://acloserlookonsyria.shoutwiki.com/wiki/Abbey_Gate_massacre


[4] Una delle cose non perdonate a Julian Assange è l'avere in parte scoperchiato questi legami: https://youtu.be/vnWWgKxWvtY


[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Deobandi


[6] https://foreignpolicy.com/2020/11/16/afghanistan-khost-protection-forces-cia-us-pullout-taliban/


[7] https://thecradle.co/Article/investigations/1401

https://www.hrw.org/node/335066/printable/print


[8] https://www.cisda.it/controvento/signori-della-guerra/2243-massoud-ahmad-shan.html

https://foreignpolicy.com/2012/11/23/the-cult-of-massoud/


[9] https://www.aa.com.tr/en/world/russia-expects-peaceful-solution-to-confrontation-in-afghanistans-panjshir/2353558#. 

In realtà altre fonti sostengono che l'ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, stia discutendo coi Talebani qualche forma di autonomia per il Panshir, popolato da Tagiki. Non è fantascienza ipotizzare che i Talebani stiano chiedendo a Mossud jr. di disfarsi in compenso dell'ingerenza CIA e UK, cosa che farebbe sommo piacere anche alla Russia.


[10] https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/14672715.2014.898452?scroll=top&needAccess=true&journalCode=rcra20)


[11] L'alleanza anglosassone in Afghanistan, come in altre parti del mondo, si è macchiata di orrendi crimini. Un esempio è l'addestramento delle forze speciali australiane consistente nell'uccidere a freddo persone inermi: https://www.abc.net.au/news/2020-11-19/afghanistan-war-crimes-report-igadf-paul-brereton-released/12896234

Si veda anche il docimentario di Michael Moore “Farenheit 9/11”: 

https://www.michaelmoore.com/p/watch-fahrenheit-911-live-q-and-a


[12] Anche durante la guerra in Vietnam ci furono colloqui segreti, promossi negli USA da Kissinger, paralleli a quelli ufficiali. Ma la guerra venne decisa sul campo con l'aiuto dell'inizio della crisi sistemica (Nixon shock). La mossa di Kissinger era a tenaglia: da una parte convincere Hanoi a un compromesso, dall'altro convincere Russia e Cina a indebolire gli aiuti al Vietnam del Nord, cosa, questa, che in parte riuscì ma che non disarmò la volontà di resistenza vietnamita. Durante i negoziati gli scontri salirono persino in intensità e in ampiezza.


[13] Una esposizione delle dinamiche di questo sovradimensionamento lo si trova nel famoso studio Rebuilding America's Defenses del think tank Project for a New American Century:

(https://web.archive.org/web/20021112224032/http://www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf) mentre una sintesi pratica è esposta nella altrettanto famosa intervista di Amy Goodman al generale Wesley Clark: https://www.youtube.com/watch?v=WGkSNAHqpJM. 


[14] Errori che sono stati ampiamente previsti e studiati, vedi i lavori di Triffin e di Hudson, ad esempio. Ne ho discusso in “Al cuore della Terra e ritorno” ma un sunto di ciò che qui ci interessa si trova nella fantastica e frizzante autobiografia di Michael Hudson che ho tradotto col suo permesso e pubblicato in rete e che invito caldamente a leggere perché ne vale proprio la pena:  

https://megachip.globalist.it/pensieri-lunghi/2018/09/30/michael-hudson-vita-e-pensiero-un-autobiografia-2031514.html


[15] https://www.theguardian.com/education/2003/apr/10/highereducation.iraq


[16] La vera preoccupazione della UE sono i profughi. I governanti europei sono allarmati per alcune decine di migliaia di Afgani che dovrebbero venire in Europa, mentre l'Iran già ne ha accolti circa un milione e mezzo ai quali garantisce anche l'istruzione gratuita (probabilmente perché l'Iran è uno “stato canaglia”).


[17] https://geopoliticalfutures.com/withdrawal-from-the-middle-east/ 


lunedì 13 settembre 2021

 DALLA NEP DI LENIN ALLE RIFORME CINESI DEL 1978

Rita di Leo



Se Lenin avesse avuto il tempo di proseguire sulla via della Nep

La storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, dopo avere letto i tre libri di Rita di Leo: in ordine cronologico, L’esperimento profano e Cent’anni dopo. 1917-2017, usciti da Ediesse, e L’età della moneta, pubblicato dal Mulino, non ho potuto fare a meno di pormi la seguente domanda: come sarebbe cambiata la storia dell’Unione Sovietica se Lenin avesse vissuto abbastanza per proseguire l’esperimento avviato con la NEP?

Nei testi appena citati Rita di Leo ricorda in più occasioni come – dal 1918 al 1924 -  il leader bolscevico, con la sua straordinaria capacità di valutare realisticamente le possibilità associate a una situazione storica concreta, si fosse reso conto del fatto che, per usare le parole dell’autrice, “gli uomini del lavoro non erano in grado di gestire i luoghi del lavoro appena conquistati”. Di conseguenza frena con decisione sia lo spontaneismo della base operaia, sia l’estremismo di quei dirigenti del partito che pensavano fosse possibile realizzare dalla notte al giorno la transizione al socialismo (1). Nel contempo, studia una strategia che tenga conto del fatto che gli uomini del capitale, gli “esperti” che fino alla rivoluzione lo avevano gestito per conto dei padroni, una volta eliminati questi ultimi, sono i soli  disporre delle conoscenze necessarie ad assicurare il funzionamento dell’amministrazione del paese. Di conseguenza il lavoro dovrebbe “comprarne” la tecnica, la scienza dell’organizzazione, lo spirito imprenditoriale, in una parola la cultura.

In base a questa visione gli operai, in contrasto con la loro aspirazione a lavorare il meno possibile,  avrebbero dovuto rientrare nelle fabbriche – che molti avevano abbandonato - per rimetterle in funzione, mentre i tecnici, messi fra parentesi i principi dell’egualitarismo, avrebbero dovuto essere invogliati  a continuare a svolgere il proprio ruolo, concedendo loro salari elevati. Ai funzionari di partito sarebbe spettato il compito di controllare tanto i primi che i secondi. Infine ai contadini si sarebbe dovuto concedere di vendere al mercato il sovrappiù prodotto. Ovviamente, perché tutto ciò fosse possibile, occorreva anche che il governo garantisse il funzionamento della macchina amministrativa e dei relativi servizi (comunicazioni, trasporti, educazione, sanità, ecc. ). È chiaro che questo significava riconoscere che il Paese avrebbe dovuto attraversare le fasi del capitalismo industriale, perché l’idea che fosse possibile saltarle era illusoria. In breve, secondo Rita di Leo, Lenin “andava in cerca di una teoria del socialismo che non poteva essere quella classica”, e il suo programma prevedeva in buona sostanza una sorta di “uso bolscevico del capitalismo” (2). Più avanti proverò a ragionare sulla straordinaria somiglianza fra questa svolta dell’ultimo Lenin e la via delle riforme che il governo cinese ha intrapreso dopo il 1978. Per il momento mi limito a seguire l’analisi della di Leo sulla via che l’Unione Sovietica imboccò dopo la sua morte, e sulle conseguenze di lungo termine – fino al crollo dell’89 - che essa ebbe per il sistema.  





L’operaismo di Stalin

Vinta la battaglia per il controllo del partito, Stalin sceglie una strategia diversa da quella studiata dall’ultimo Lenin. Andando contro i luoghi comuni della sovietologia occidentale (anche nelle versioni “di sinistra”), secondo cui le scelte di Stalin sarebbero state inspirate dalla brama di potere e da una personalità crudele e paranoica, l’autrice ci restituisce l’immagine di uno Stalin motivato da una visione utopista e operaista. Utopista in quanto, diversamente da Lenin, è convinto che sia non solo possibile ma necessario passare alla costruzione del socialismo senza transitare da una fase capitalistica. Operaista in quanto il suo obiettivo primario è costruire nel più breve tempo possibile una nuova élite di estrazione proletaria, perché possa sostituire i vecchi quadri intellettuali, non solo quelli appartenenti al regime prerivoluzionario, ma anche gli stessi dirigenti storici del partito bolscevico. 

Alla base di questa impostazione, sostiene di Leo, ci sono anche ragioni biografiche: Stalin è il solo leader bolscevico di estrazione popolare, laddove l’intero gruppo dirigente del partito era di estrazione borghese, motivo per cui ha sempre guardato con diffidenza agli “uomini dei libri”, pensando che fosse pericoloso e sbagliato delegare a costoro il compito di dirigere il paese per conto e nel nome degli “uomini del lavoro”. Il suo punto di vista potrebbe essere sintetizzato con lo slogan lanciato decenni dopo da Mao: “la classe operaia deve dirigere tutto”. Di conseguenza, oltre a mettere in atto un gigantesco sforzo per la formazione di quadri di estrazione proletaria, si procede alla emarginazione degli intellettuali che erano stati alla guida tecnica (gli esperti borghesi) e politica (i vecchi rivoluzionari di professione) del lavoro manuale. Il partito punta ad accumulare conoscenze tecnologiche e scientifiche con le quali sostituire la cultura borghese. Inoltre, dopo che si è entrati nella fase della costruzione del socialismo, le capacità fondamentali non sono più quelle relative allo studio della società e delle sue contraddizioni, bensì quelle che servono a costruire e a far funzionare ponti e canali, fabbriche e dighe, scuole e ospedali. Mentre una quota enorme di risorse tecnologiche, scientifiche e umane va necessariamente impiegata nel difendere l’unica nazione socialista dall’assedio da parte dell’intero mondo capitalista, tutto il resto rappresenta il secondo fronte strategico del conflitto fra socialismo e capitalismo: il primo deve dimostrare di poter competere con il secondo anche sul piano dello sviluppo delle forze produttive. 

In tale contesto diventano più comprensibili, sul piano degli obiettivi se non su quello dei metodi adottati per realizzarli, fenomeni quali la dura repressione nei confronti dei kulaki ( i contadini ricchi) nel corso del processo di collettivizzazione forzata delle campagne, l’emarginazione dei vecchi intellettuali borghesi (attraverso il ricorso sistematico alla “rieducazione” nei campi di lavoro), e la persecuzione dei vecchi dirigenti bolscevichi, che agli occhi della nuova élite appaiono intellettuali “cacadubbi” che, con le loro critiche, mettono in difficoltà il governo (anche se ciò non giustifica le accuse di tradimento e collusione con il nemico esterno, con cui in molti casi si è provveduto a liquidarli). A mano a mano che i vecchi rivoluzionari di professione vengono eliminati, il loro posto viene preso dai “confezionatori di norme”, cioè dai pianificatori, i quali stabiliscono gli obiettivi e li trasmettono ai dirigenti politici che, a loro volta, li trasmettono ai dirigenti economici o amministrativi che devono farli attuare dagli esecutori finali.  

Gli effetti di questa logica si dipanano in due fasi distinte, prima e dopo la morte di Stalin. Partiamo dalla prima. La classe operaia russa, al momento della rivoluzione, era numericamente esigua, ma cresce in conseguenza del processo di industrializzazione forzata, concentrato soprattutto nel settore dell’industria pesante, determinante sia ai fini militari, sia per la creazione delle infrastrutture della nuova Russia.  In conseguenza di questo processo, i nuovi operai (contadini inurbati, ex artigiani e soldati) diventano per il partito lo strato sociale di riferimento, assai più della preesistente classe operaia (un’aristocrazia del lavoro che in diverse circostanze era entrata in conflitto con la élite bolscevica). Questa nuova classe, dalla quale vengono selezionati in quadri che dovranno gestire il potere, è fatta di operai che vogliono lavorare il meno possibile e controllare il processo di estrazione del proprio plusvalore. Nasce così una “autonomia operaia” che impone le proprie esigenze ai capi brigata e ai capi reparto che, mentre dovrebbero imporre l’esecuzione degli obiettivi del piano, si arrabattano mediando con le resistenze della base attraverso aggiustamenti ad personam. 

È per questo motivo che nel paese si sviluppano – e divaricano progressivamente gli uni dagli altri - due distinti piani di produzione: quello ufficiale descritto dagli obiettivi del piano, e quello informale, realizzato attraverso i compromessi tra coloro che devono fare eseguire le norme e coloro che devono metterle in pratica. Non ci si lasci ingannare dai successi dell’industrializzazione nei primi decenni del regime sovietico e/o dall’esaltazione degli “eroi del lavoro”, ammonisce la Di Leo: la verità è che nelle fabbriche si lavora poco e male, soprattutto perché la resistenza operaia rallenta, o addirittura impedisce, la sostituzione della forza lavoro con le macchine, per cui il lavoro di tipo artigianale resta al centro del mondo industriale. Al punto che, secondo l’autrice, negli anni Settanta, le nuove fabbriche funzionavano ancora come quelle degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. 

Nel frattempo un’altra contraddizione socioeconomica viene a sommarsi a questo scollamento fra paese ideale e paese reale: i successi dell’industrializzazione alimentano crescenti aspettative popolari in merito alla fine dello stato di eccezione e all’aumento del tenore di vita, ma queste aspettative vengono frustrate dalla strategia diseguale fra produzione di beni di consumo e produzione di mezzi di produzione, in quanto l’esigenza di proteggere l’Unione Sovietica dalla minaccia dei paesi capitalisti impone di privilegiare i secondi a spese dei primi, per cui i livelli dei consumi crescono assai lentamente, o addirittura ristagnano. 





Verso il crollo

Questi problemi, cui forse si sarebbe potuto trovare soluzione fino agli anni precedenti e immediatamente successivi alla II Guerra mondiale, si aggravano pesantemente, tano  da divenire irreversibili, dopo la morte di Stalin. Anche nell’analizzare questa ulteriore fase, Rita di Leo si discosta nettamente dai luoghi comuni della sovietologia ufficiale che impera nelle università occidentali. Non bisogna farsi ingannare dalla virulenza delle critiche ideologiche allo stalinismo successive al XX congresso del PCUS, scrive, perché, al netto delle accuse strumentali con cui si celebra la liquidazione di ciò che resta della vecchia guardia bolscevica, le nuove élite politiche – da Kruscev a Brezhnev – sono fatte di figure che, anche sul piano biografico, incarnano la promozione del proletariato a classe dirigente voluta da Stalin. Costoro aggiungono tuttavia ingredienti del tutto nuovi – e destinati a produrre effetti disastrosi – alla vecchia ricetta con cui si era fino ad allora governato il paese. 

In primo luogo, l’idea secondo cui fare politica si riduce in sostanza a realizzare il piano viene condotta alle estreme conseguenze: dal momento che la sfida con il capitalismo dev’essere vinta anche se non soprattutto sul piano economico, viene a cadere progressivamente il principio secondo cui la politica deve stare al posto di comando e, benché il partito non rinunci formalmente al primato, la macchina statale si autonomizza progressivamente dal suo controllo, come dimostra il fatto che ai funzionari viene data la possibilità di fare la propria carriera interamente nei rispettivi ambiti professionali. Ancora: il paradosso dei decenni precedenti, in ragione del quale, da un lato la paura dell’URSS aveva indotto i paesi capitalisti a coltivare il welfare e l’economia del benessere, dall’altro lato la paura del boom capitalistico e dell’accerchiamento aveva spinto l’URSS a consolidare il settore strategico-militare a scapito degli altri comparti dell’economia, si acuisce e diviene stridente a mano a mano che la corsa agli armamenti accelera (armi nucleari, missili, gara spaziale, sottomarini atomici, ecc.) e richiede risorse sempre più ingenti. 

Nel contempo le aspirazioni popolari, a mano a mano che cresce la distanza fra partito e masse (distanza occultata da una narrazione ufficiale che parla di partito e stato di tutto il popolo, di socialismo realizzato, ecc.), vengono sempre più assumendo la forma di concreti interessi individuali: “un buon lavoro, un appartamento e non una stanza in un appartamento comune, beni di consumo per la massa”, aspirazioni che il potere non traduce in programma politico. A venire incontro a queste esigenze ed aspettative di una società che sviluppa una propria vita autonoma, indipendente dalle autorità formali, è un’economia ombra fondata sulla diffusione di denaro guadagnato in nero, un’economia che ha le proprie gerarchie, le quali appaiono sempre più simili a quelle dei paesi capitalisti. Il lavoratore sovietico si distingue sempre meno dall’individuo consumatore occidentale. Negli ultimi anni del regime, scrive l’autrice, “Operai e tecnici lavoravano per gli uomini della moneta in terra sovietica. Essi erano ricomparsi perché erano più utili degli uomini del piano, rimasti intrappolati nella scelta degli anni trenta per cui il compito primario era battere il capitalismo sul suo terreno”.  Così si spiega la rapidità con la quale, dopo che Gorbachov e Eltsin hanno sottoscritto la vergognosa capitolazione di fronte al mondo capitalista, sono spuntati come funghi gli “uomini del capitale”, i quali atro non erano se non gli ex direttori dei kombinat di stato, i mediatori di affari in nero, i segretari regionali di partito, ecc. tutta gente che già da tempo aveva assunto la gestione dell’economia informale che cresceva come un cancro dietro la facciata di un paese che ancora si dichiarava socialista. 





Il tradimento dei chierici

Torniamo all’interrogativo iniziale: avrebbe potuto andare diversamente se Lenin avesse avuto il tempo di mettere in atto il suo progetto di “uso bolscevico del capitalismo”? La storia avrebbe potuto assistere, con mezzo secolo abbondante di anticipo, a un evento paragonabile al trionfo del socialismo in stile cinese? Prima di azzardare una risposta, vale la pena di esaminare un altro aspetto dell’analisi che Rita di Leo dedica all’esperimento sovietico, un aspetto che abbiamo sin qui tenuto da parte in quanto si tratta di un livello autonomo - ancorché altrettanto importante – rispetto al livello socioeconomico: mi riferisco al ruolo degli strati intellettuali in tutta la vicenda. 

Ovviamente l’analisi deve partire dal 1917. L’élite forgiata dalla rivoluzione era composta quasi esclusivamente di rivoluzionari di professione, che di Leo descrive così: “l’intellettuale che lascia il nido lo fa sospinto dall’impegno illuminista di stare combattendo per migliorare lo stato di cose presenti e cioè dal fervore morale e religioso verso gli ultimi, ma soprattutto nella certezza di aver scelto il futuro contro il passato”. Il passaggio è significativo soprattutto per l’accenno al fervore morale e religioso e per la convinzione di costruire il futuro (non solo del proletariato russo ma dell’umanità intera, è il caso di aggiungere), elementi che ritroviamo nel fervore utopistico di un filosofo come Ernst Bloch (3). Per realizzare questo sogno profetico, scrive l’autrice, i bolscevichi ricorrono a una sorta di stato di eccezione permanente e applicano rigorosamente il principio della contrapposizione amico/nemico per annientare la resistenza del nemico di classe. Il partito dei politici di professione accentra la responsabilità di tutte le istituzioni – politiche, amministrative, governative – e le sue ragioni devono prevalere su qualsiasi altra esigenza (la politica al posto di comando, per dirla con Mao). Il tutto nel quadro di una visione etico/razionale dei rapporti sociali che si oppone a quella economica. 

In questo stadio primordiale dell’esperimento si è ancora convinti che, per cambiare il mondo, basti trasferire il plusvalore dai padroni ai produttori. Già nelle primissime fasi di vita del regime, tuttavia, emergono difficoltà tali da indurre Lenin – come si è visto – a imporre una netta inversione di rotta, liquidando le concezioni “infantili” del socialismo e avviando una riflessione sulla necessità di una transizione lunga. Nelle pagine precedenti si è descritto come la guerra di classe scatenata da Stalin contro contadini ricchi, tecnici, manager, funzionari e intellettuali del vecchio regime colpisca anche molti dei politici di professione che avevano guidato la rivoluzione, sostituendoli con quadri di origine proletaria, espressione della nuova classe operaia generata dal processo di industrializzazione. Per effetto di questa svolta, lo status sociale degli strati intellettuali precipita al di sotto di quello dei lavoratori manuali, sia sul piano salariale, sia in termini di condizioni generali di vita (abitazioni, ecc.).  Ad eccezione di coloro che riescono ad emergere nella competizione per ottenere il ruolo di consulenti del potere, tutti gli altri, scrive la Di Leo,  si ritengono vittime sacrificali di un regime che considera improduttivo il loro lavoro, ed accumulano un risentimento feroce nei confronti di operai, contadini e funzionari di partito di estrazione popolare. È per questo, argomenta l’autrice, che svolgeranno un ruolo strategico, sia all’interno che all’esterno del paese, nella demonizzazione ideologica dell’esperimento sovietico. 

A mano a mano che i loro libri escono dall’URSS e iniziano a circolare nel mondo occidentale, diventano l’arma letale dell’ideologia anticomunista. Quando poi alcuni di essi riescono a uscire dal paese e divengono esuli in occidente, assurgono immediatamente agli onori della cultura e della cronaca letteraria e mediatica, raccontando esattamente gli orrori che vuole sentirsi raccontare una società borghese nei confronti della quale provano una profonda riconoscenza, nella misura in cui ha loro restituito lo status che pensano di meritare. La loro furia antisocialista contamina progressivamente quei loro omologhi occidentali che, fino a poco tempo prima, erano entusiasti sostenitori dell’URSS. Il numero dei “pentiti” aumenta rapidamente nelle fila di questi ultimi dopo il XX Congresso del PCUS e dopo la rivolta ungherese e, anche chi non si pente e resta nei ranghi delle sinistre, tende a prendere distanza dai “vizi” del potere sovietico, denunciando la trasformazione del partito in apparato di potere burocratico, la mancanza di libertà individuali e l’incapacità di garantire condizioni di vita dignitose alle masse. 

Negli anni Settanta il processo di separazione fra marxismo occidentale e marxismo orientale (4) può dirsi compiuto: mentre le destre continuano a considerare l’Unione Sovietica una potenza anticapitalistica e antiborghese, contro la quale lotteranno senza quartiere fino a ottenerne la sconfitta, le sinistre moderate parlano apertamente di fallimento dell’esperimento socialista in Russia (il PCI arriverà a dichiarare di sentirsi protetto dalla minaccia del Patto di Varsavia grazie all’adesione dell’Italia alla Nato), e le sinistre radicali rincarano la dose contrapponendo al “socialismo reale” il ”vero” socialismo, vale a dire il socialismo ideale vagheggiato dagli intellettuali utopisti del 17 (e liquidato da Lenin come estremismo, sintomo della malattia infantile del comunismo). 

Per queste sinistre libertarie, eredi del 68, il fatto stesso che il partito bolscevico si sia fatto stato equivale ad avere rinnegato l’eredità di Marx, per cui il crollo del socialismo reale nell’89 viene celebrato entusiasticamente, come un evento positivo. Salvo dover prendere atto, nel giro di pochi anni, che quell’evento ha aperto le porte, in Occidente, al trionfo del liberal liberismo e alla più tragica sconfitta del proletariato dall’800 a oggi, in Russia alla restaurazione di un capitalismo selvaggio che consente agli intellettuali di prendersi la rivincita sul lavoro produttivo, precipitandolo in fondo alla scala sociale e ricacciandolo a condizioni non molto migliori di quelle precedenti alla rivoluzione del 17. Così il tradimento dei chierici si somma alle contraddizioni interne al sistema. 


La via cinese

Ma torniamo al dubbio da cui siamo partiti. È ovvio che chiedersi se la Russia, nel caso Lenin avesse potuto sviluppare a fondo l’esperimento della Nep, avrebbe subito un’evoluzione simile a quella della Cina di oggi è un espediente retorico. Non solo perché la storia, come già ribadito, non si fa con i se e con i ma, ma anche perché i due contesti storici differiscono profondamente. La Cina del 49 non era accerchiata come la Russia dei primi anni Venti, proprio perché poteva contare sull’appoggio politico, economico e militare dell’URSS; inoltre nel suo caso la rivoluzione aveva connotati ancora più spiccatamente contadini (l’intera classe operaia cinese è stata letteralmente costruita dalle politiche economiche post rivoluzionarie); per tacere del fatto che le dimensioni demografiche, le tradizioni culturali, la collocazione geografica, la conformazione dei territori, ecc. dei due paesi sono radicalmente diverse. La vera domanda è quindi la seguente: la strategia di Lenin sarebbe servita solo ad anticipare/ accelerare la restaurazione del capitalismo in Russia come, secondo i critici di sinistra, sta avvenendo in Cina a partire dalle riforme del 78? Che poi equivale a domandarsi: la Cina di oggi è ancora un paese socialista?     

Prendo le mosse da un  dato di fatto che ho già richiamato in varie occasioni: in tutta la storia non si è mai verificata una rivoluzione socialista in un Paese industriale avanzato: in tutti i casi (Russia, Cina, Cuba, Vietnam, ecc.) si è trattato, per dirla con Gramsci, di “rivoluzioni contro il Capitale”, visto che si sono svolte in Paesi economicamente arretrati e hanno avuto come protagoniste soprattutto le masse contadine, alleate con settori di piccola borghesia urbana ed esigui nuclei di classe operaia in  formazione.  Questo, se si accetta il principio leninista secondo cui il capitalismo si attacca a partire dall’anello più debole della catena, non dovrebbe costituire un problema. Chi viceversa identifica nella classe operaia l’unico Soggetto rivoluzionario, dovrebbe riconoscere che a esercitare tale ruolo sono stati quei partiti comunisti che ne hanno incarnato il presunto “destino” storico. Trozkisti, operaisti e socialdemocratici, che non sono disponibili a riconoscerlo, negano di conseguenza il carattere socialista di queste rivoluzioni, e ne attribuiscano il presunto fallimento al fatto che sono avvenute in Paesi economicamente arretrati, e/o al fatto che sono rimaste confinate in un solo paese.  


Tuttavia non solo chi appartiene a queste correnti ideologiche nutre dubbi sulla natura del sistema cinese. Le posizioni più critiche parlano apertamente di restaurazione del capitalismo (5); altri usano il termine capitalismo di stato, ma aggiungono che il persistere del conflitto di classe all’interno del paese fa sì che il suo futuro possa evolvere in diverse direzioni (6); altri ancora preferiscono ricorrere alla definizione di economia socialista di mercato o socialismo di mercato (7); mentre Arrighi lo inquadra in una prospettiva di lungo periodo che prevede una radicale ridefinizione degli equilibri economici e  geopolitici planetari (8). 


Personalmente ho condiviso a lungo la definizione di capitalismo di stato, finché mi sono reso conto si tratta di un termine che vuol dire tutto e niente: che tipo di capitalismo? Che tipo di stato? A confermare l’ambivalenza basterebbero le parole con cui Lenin ebbe a replicare a chi criticava la Nep: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano“ (9). Ovviamente c’è chi replica che si è trattava comunque del primo passo verso la reintroduzione del capitalismo, ma le cose stanno davvero così o la questione è più complicata? 


Nel caso della Cina c’è chi ritiene che il processo degenerativo sia iniziato già alla fine degli anni Cinquanta, con la formazione di un gruppo burocratico che  avrebbe assunto il controllo sul partito per accrescere il proprio potere piuttosto che servire gli interessi del popolo. Costoro avrebbero sabotato gli sforzi di Mao per accelerare la transizione al socialismo attraverso l’istituzione delle comuni e il Grande Balzo in avanti, determinandone il fallimento. È per vincere questo ostruzionismo che Mao avrebbe lanciato la Rivoluzione culturale, ed è in seguito al fallimento di quest’ultima che, secondo questa narrativa, si sono create le condizioni per la svolta del 1978 risoltasi con la definitiva restaurazione del capitalismo. 


Che le riforme abbiano reintrodotto elementi di capitalismo in Cina è un dato di fatto: abbandono delle comuni popolari (anche se la terra è stata privatizzata solo in minima parte); autonomizzazione delle imprese di stato (con privatizzazioni di alcuni settori, soprattutto quelli dediti alla produzione di beni di consumo) nelle quali vengono introdotti criteri di gestione manageriali; decentramento e specializzazione del sistema bancario (che resta però in larga misura sotto controllo statale); allentamento del monopolio statale sul commercio estero, ma soprattutto istituzione di quelle zone speciali che hanno spalancato le porte a massicci investimenti di capitali stranieri. Né sono contestabili gli effetti sociali di tale svolta: aumento delle disuguaglianze, tagli al welfare, esodo di vaste masse contadine e loro inurbazione con pesanti conseguenze ambientali. Tutto ciò è sufficiente per parlare di fine del socialismo? Ma soprattutto: perché il sistema sovietico è crollato quasi di colpo, mentre quello cinese è asceso al rango di grande potenza mondiale? Il suo successo è dovuto alla integrazione nel sistema capitalista mondiale, o è al contrario fondato sul fatto che al suo interno permangono consistenti elementi di socialismo “in stile cinese”? 


In primo luogo, va ricordato che il “miracolo” cinese affonda le radici nell’epoca maoista, che ebbe il merito di effettuare giganteschi investimenti in irrigazioni, industria pesante, trasporti e infrastrutture, oltre a promuovere un enorme incremento dei livelli di educazione e un netto miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione. L’economia cinese era assai più dinamica di quella di altri paesi socialisti già prima della morte di Mao (11) grazie al fatto che non si è allineata al rigido centralismo sovietico, adottando forme più flessibili di pianificazione e lasciando fin dall’inizio margini di sviluppo ai settori governati dal mercato. Uno dei più clamorosi successi di questo stile di governance consiste nell’avere sempre garantito l’accesso alla terra per la vasta maggioranza delle masse contadine (parliamo tuttora di 450 milioni di persone). 





Altrettanto importante il fatto che le riforme siano state graduali e costantemente e controllate dal partito, smentendo le profezie occidentali secondo cui l’ingresso nel WTO ne avrebbe necessariamente scalzato il potere. A tutt’oggi il sistema presenta molteplici forme di proprietà: imprese statali, cooperative,  di proprietà collettiva (né pubblica né privata), imprese di città e di villaggio, mentre alcune imprese nominalmente private (come Huawei) hanno in realtà strutture che le rendono più simili a imprese statali (così come esistono imprese nominalmente statali ma di fatto private). In sintesi: ci troviamo di fronte a un continuum di forme proprietarie che difficilmente può essere inquadrato nelle categorie classiche. Naturalmente le forme proprietarie non sono l’unico criterio per decidere se un sistema sia o meno socialista. La questione di fondo consiste nel valutare se la presenza del mercato sia di per sé in grado di stabilire che un sistema non è socialista, interrogativo cui Arrighi dà una risposta negativa (10) argomentando che si possono aggiungere a volontà elementi di mercato in un sistema sociale ma, se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo. 


Assumendo lo stesso punto di vista, altri autori considerano la Cina come un paese socialista perché mantiene una potente pianificazione ancorché flessibilizzata; è dotata di un esteso sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; la terra resta in larga misura pubblica e garantisce l’accesso ai contadini; è un sistema misto con differenti forme di proprietà; tende a far crescere più rapidamente i redditi da lavoro rispetto ad altre fonti di reddito; ricerca sistematicamente la pace e rapporti equilibrati con altri popoli. Questi argomenti mi sembrano convincenti, così come mi sembra convincente il fatto che gli 850 milioni di poveri del periodo pre riforme siano scesi a 14 milioni, e che i 30 milioni di disoccupati creati dalla crisi del 2008 ha generato siano stati riassorbiti in  poco più di un anno (11). E ancora: la Cina sta rapidamente evolvendo da un modello fondato sulle esportazioni verso un sistema autocentrato, fondato sullo sviluppo della domanda interna che cresce sia grazie all’aumento dei salari , sia ai colossali piani di investimenti infrastrutturali all’interno e all’esterno del Paese (vedi il progetto della Via della Seta e la crescente penetrazione nei mercati africani e centroasxatici). Infine si avvia a divenire a ritmi accelerati un colosso nei settori dell’High Tech e della IA. 


Concludo ricordando che i comunisti cinesi insistono nell’affermare che la costruzione del socialismo va concepita come un processo secolare caratterizzato da avanzate e ritirate, del quale non è mai garantito il successo definitivo. Per capire questo punto di vista occorre tenere conto della dismisura geografica e demografica e della storia millenaria della Cina. Fattori che fanno sì che, nel suo caso, il progetto di sganciamento (delinking) dall’economia capitalista globale, proposto da Samir Amin (12), potrebbe essere qualcosa di più di un sogno utopistico. Tutto ciò fa sì che la Cina, pur non essendo un modello che noi si possa imitare, ci offra nondimeno alcuni insegnamenti fondamentali: dalla consapevolezza che il socialismo assumerà forme necessariamente diverse e peculiari nei diversi contesti geografici, storici e culturali, alla necessità di rimpiazzare il mito del comunismo come paradiso in terra con il concetto di “socialismo possibile”, cui ho accennato in lavori precedenti (13) e che mi propongo di sviluppare ulteriormente in scritti futuri. 



Postilla elettorale 

Visto che questo non è un lavoro accademico, bensì un post del mio blog, mi permetto di aggiungere questa postilla elettorale. Da quando ho accettato la proposta di presentarmi alle prossime elezioni milanesi come capolista del Partito Comunista guidato da Marco Rizzo, ho ricevuto più accuse di “rossobrunismo” di quanto già non mi capitasse dopo aver pubblicato i miei ultimi libri. Ciò dipende dal fatto che questo partito non è allineato sui luoghi comuni di quella sinistra “politicamente corretta” che considera come un museo degli orrori la storia dell’esperimento sovietico, e come un paese imperialista e totalitario la Cina comunista, mettendola sullo stesso piano degli Stati Uniti. Per parte mia ho scelto il PC proprio perché, al contrario di altre formazioni che si definiscono comuniste, rifiuta di allinearsi a questi luoghi comuni che portano acqua al mulino del pensiero unico liberale.  


Note    


(1) Cfr. V. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, edizioni Lotta Comunista, 2005.

(2) Sull’uso di rapporti di produzione di tipo capitalistico da parte di un paese socialista, vedi più avanti la parte di questo testo dedicata alle riforme cinesi. Sulla prudenza e sulla lentezza con cui avanzare sulla via del socialismo, e sulla necessità di servirsi delle conoscenze “borghesi” per ricostruire uno stato in grado di funzionare decentemente, vedi il famoso articolo di Lenin “Meglio meno ma meglio” (1923) scaricabile all’indirizzo https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm 

(3) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine 2019.

(4) Cfr. D. Losurdo Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(5) Cfr. M. Gaulard, Karl Marx à Pékin. Les recines de la crisi en Chine capitaliste, Demopolis, Paris 2014; vedi anche Minqi Li, The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, Pluto Press, London 2008. 

(6) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986. Vedi anche S. Amin, Classe et Nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015.

(7) Cfr. R. Herrera – Z. Long, La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019; vedi anche Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020

(8) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.  

(9) Citato in Gabriele, op. cit.

(10) Cfr. G. Arrighi, op. cit.

(11) Anche David Harvey, che pure non è particolarmente tenero nei confronti del regime cinese, valorizza questi dati nel suo ultimo lavoro: cfr. The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.

(12) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, op. cit.

(13) Vedi, in particolare, C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi Milano 2019; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 





 

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