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domenica 7 novembre 2021

STORIA DELL’UTOPIA NEOLIBERALE 

Con qualche considerazione finale sulle sinistre hayekiane 





Quinn Slobodian è autore di un libro (Globalists. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi editore) che mi è parso la più esaustiva e intrigante analisi che mi sia capitato di leggere sull’evoluzione delle teorie neoliberali nei sessant’anni che vanno dalla fine della Prima guerra mondiale alla riforma del GATT e alla successiva nascita del WTO. Slobodian ricostruisce le principali varianti teoriche di questa corrente di pensiero, i loro rapporti reciproci, l’influenza che hanno esercitato su governi nazionali e istituzioni economiche e accademiche internazionali; infine cerca di spiegare i motivi che ne hanno favorito il trionfo sul keynesismo e altre scuole di pensiero a partire dalla crisi degli anni Settanta. 

Dalla lettura di questo lavoro si esce liberati da alcuni luoghi comuni. Come quello secondo cui il neoliberalismo sarebbe un paradigma socioeconomico relativamente recente, che avrebbe fatto il proprio esordio in occasione del colloquio Lippmann tenutosi a Parigi nel 1938, per poi consolidarsi con la fondazione della Mont Pelerin Society, avvenuta nel 1947. È vero che il termine neoliberalismo fu adottato per la prima volta nel 1938, tuttavia un gruppo organizzato di individui che condividevano un preciso insieme di principi, valori e idee all’interno di un comune quadro di riferimento intellettuale esisteva già da almeno vent’anni, per la precisione a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, allorché nacque quella Scuola di Vienna che perfezionerà poi la propria visione attraverso la Scuola di Ginevra. Queste persone – Fra gli esponenti più noti figurano i nomi di von Mises, von Hayek, Ropke, Robbins, Haberler, Heilperin, Petersmann – condividevano un punto di vista preciso sulle linee generali da seguire per dare vita a un nuovo ordine mondiale, a partire dalla necessità di difendere l’economia globale dagli “eccessi” di una democrazia che rischiava di metterla in crisi, lanciando una sfida che il liberalismo classico non era in grado di gestire. 

Un altro luogo comune consiste nell’associare al neoliberalismo il concetto di Stato minimo. In realtà, anticipa Slobodian nella Introduzione, il problema di questi teorici non è mai stato quello di stabilire quanto Stato fosse necessario per proteggere la salute del mercato, bensì che tipo di Stato sarebbe stato più adatto a svolgere tale ruolo. Certamente tutti costoro erano convinti assertori del laissez faire, ma erano altrettanto convinti che il laissez faire non potesse funzionare se non entro una attiva e cosciente polizia del mercato, e ciò perché, a loro avviso, il mercato non è il prodotto di un’evoluzione sociale spontanea, bensì di un lavoro di costruzione politica da parte delle istituzioni in cui è inscritto: “il focus delle proposte neoliberali non era tanto il mercato come tale quanto la riprogettazione degli Stati, delle leggi e di altre istituzioni allo scopo di proteggere il mercato (…) l’oggetto [del loro pensiero] non era l’economia in sé bensì le istituzioni incaricate di creare per essa uno spazio” (1). 

La natura eminentemente politica di questa visione traspare infine dalla convinzione di questi intellettuali – le cui idee furono a lungo minoritarie, se non marginali, all’interno dello stesso campo borghese – che sarebbe stato necessario condurre una “guerra di posizione” per imporle e che, a questo scopo, avrebbero dovuto contrapporsi ai socialisti sul piano della narrazione utopistica. Un altro sintomo significativo in tal senso, è il fatto che il termine ordo, dal quale la corrente ordoliberale prende il nome, deriva dalla teologia medievale, a conferma della sua contiguità al campo della teologia politica. Ma veniamo al racconto dell’evoluzione storica del neoliberalismo tracciato da Slobodian, che meglio consente di ricostruire le molte sfaccettature e la complessità del fenomeno (un buon rimedio contro il semplicismo con cui a sinistra si parla spesso del neoliberalismo come di una mera ideologia che maschera inconfessabili interessi: in realtà gli interessi in questione sono esplicitamente dichiarati, chi li difende è sinceramente convinto che coincidano con l’interesse generale della società mondiale, e le applicazioni concrete dei principi neoliberali che si sono succedute nel corso del tempo sono parziali e contraddittorie, nella misura in cui, fortunatamente, hanno dovuto, e devono, fare i conti con varie forme di resistenza sociale e politica). 

Slobodian comincia la sua narrazione avanzando una tesi che contesta la tendenza complessiva che ha interpretato il pensiero neoliberale dal lato anglo-americano: “sono stati i neoliberali europei a dedicare più attenzione alle problematiche internazionali”, scrive, quindi aggiunge che questo è avvenuto perché “i loro paesi non godevano di un ampio mercato interno come gli Stati Uniti e ciò li obbligava a una maggiore sensibilità verso le questioni di accesso al mercato mondiale mediante il commercio” (2). Non è per caso se la culla del neoliberalismo è stata Vienna, la capitale di quella che, dopo il crollo dell’impero asburgico seguito alla Prima guerra mondiale, si presentava ormai come una piccola nazione centroeuropea. Ad alimentare la nostalgia dell’Impero dei liberali austriaci non era tanto il rimpianto per la perduta potenza politica del proprio paese, bensì un immaginario globale forgiato da Carl Schmitt, secondo il quale esistevano due mondi ben distinti: “il primo suddiviso in stati territoriali nei quali i governi detenevano il dominio sugli esseri umani (imperium), l’altro era il mondo della proprietà dove le persone possedevano cose denaro e terreni (dominium)” (3). Schmitt considerava questa suddivisione come un ostacolo all’esercizio della piena sovranità nazionale, viceversa i liberali austriaci assumevano una prospettiva del tutto opposta: la dissoluzione dell’impero aveva creato le condizioni per il proliferare di autonomie e sovranità nazionali che minacciavano l’ordine economico cosmopolita del dominium, il carattere sovranazionale dei diritti di proprietà e del libero commercio. 


Ludwig von Mises



Di fronte a quella che per loro appare una vera e propria catastrofe, i vari von Hayek e von Mises iniziano a ragionare su un modello di governance mondiale che, caduti gli imperi, inserisse le nazioni in un ordine istituzionale che salvaguardasse il capitale e il suo diritto a muoversi liberamente attraverso le frontiere.  La nuova utopia liberale, posto che la “felice” epoca della prima globalizzazione, conclusasi con la Prima guerra mondiale, appariva irreversibilmente perduta, implicava già allora l’idea di una “costituzione economica” in grado di implementare la totalità delle regole che governano la vita economica a una scala superiore a quella nazionale. Per realizzare tale obiettivo era necessario isolare l’attività legislativa dalle richieste di breve termine del governo quotidiano a scala nazionale. Il problema politico fondamentale, per questi autori, è quindi da subito quello di sterilizzare i potenziali  effetti negativi della democrazia : è necessario bypassare le decisioni popolari ogniqualvolta contravvengano il superiore principio dell’ordine economico globale. Questo “globalismo militante”, scrive Slobodian, “non avrebbe sostituito gli stati-nazione ma avrebbe operato attraverso di essi per assicurare il corretto funzionamento del tutto [economico], non contro lo stato in quanto tale ma contro lo stato-nazione” (4).

Il contesto internazionale, negli anni in cui la Scuola di Vienna viene elaborando queste idee, è a dire poco sfavorevole alla loro messa in pratica. Laddove la nuova utopia liberale presupponeva che economisti, governi e imprese si mettessero al lavoro per “ricostruire il mondo in frantumi del capitalismo globale” (5), tutte le potenze belligeranti andavano in direzione opposta, verso un capitalismo organizzato e un collettivismo di guerra, mentre la sacralità della proprietà privata transnazionale veniva sistematicamente violata. Di più: l’appoggio della neonata Unione Sovietica alla lotta dei popoli coloniali e il principio di autodeterminazione dei popoli di cui anche il presidente americano Thomas Woodrow Wilson si faceva portavoce, favorivano la proliferazione di nuovi stati nazione. Tre fattori, scrive Slobodian, spingono potentemente verso il rafforzamento del primato della politica sull’economia: 1) la generalizzazione del suffragio universale rafforza la sovranità popolare; 2) cresce la fiducia sulla capacità dei governi di allocare le risorse; infine 3) “si afferma l’idea che la nazione fosse la categoria più importante per l’organizzazione delle attività umane”(6). 

Questa contingenza sfavorevole non scoraggia il gruppo di intellettuali che decenni dopo avrebbe dato vita al neoliberismo, i quali continuano a sfornare i loro progetti di “internazionalismo capitalista”, che dovrebbero proteggere la proprietà privata dalle insidie delle legislazioni nazionali. Pur se le loro idee non riescono a influenzare le scelte dei governi, esse trovano riscontro nella Camera di Commercio Internazionale e nella Società delle Nazioni, tanto è vero che nella Conferenza economica mondiale del 1927 organizzata da queste due istituzioni “si ragiona sul ripristino del libero scambio internazionale e sugli ostacoli interni rappresentati dai sindacati” (7), nonché sulla necessità di abbattere le barriere all’interno del mercato che vengono erette da muri tariffari e rivendicazioni salariali. Contestando la definizione foucaultiana dell’ideologia liberale come “fobia di stato”; Slobodian ricorda che un autore come von Mises “definisce lo stato come un produttore di sicurezza, diffida dello stato che cerca consensi dal popolo, pensa allo stato che può ottenere legittimità solo nella difesa della sacralità della proprietà privata e delle forze della concorrenza” (8). Le ricette care a questo pensatore ferocemente antisocialista (che inneggia alla repressione dei moti operai di Vienna del 27) anticipano di un secolo quelle che ci sentiamo oggi proporre dalla totalità dei governi occidentali in carica: privatizzare le imprese pubbliche, eliminare tanto le barriere ai movimenti di capitali, merci e forza lavoro quanto i sussidi ai lavoratori. Tanto per lui quanto per von Hayek la democrazia è un optional: va bene finché è funzionale agli obiettivi del capitalismo, ma non appena cessa di essere tale non esistono ragioni per mantenerla. 

Nel periodo che va dalla fine degli anni Venti allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tuttavia, nubi ancora più minacciose si affacciano all’orizzonte per questi sacerdoti del libero mercato. Dopo la dissoluzione dell’impero asburgico, essi avevano riposto le loro speranze in quello britannico che, almeno in parte, sembrava mantenere la capacità di garantire l’equilibrio fra le opposte esigenze del dominium e dell’imperium. Ma l’Inghilterra tradisce le loro aspettative decretando la fine del Gold Standard, una decisione che, assieme alla Grande Crisi del 29, contribuisce a far sì che “le potenze europee si affidino alle proprie colonie per accedere a materie prime scambiate all’interno dei muri tariffari dei blocchi imperiali” (9). Abbandonando il Gold Standard, l’Inghilterra “rompe l’unità del mondo e apre la strada all’idea keynesiana dell’autosufficienza nazionale”, tradendo così l’universalismo economico. Se a ciò si aggiungono la svolta che Franklin Delano Roosevelt impone alla politica americana con il New Deal e le politiche protezioniste dei regimi fascisti, è chiaro che il mercato mondiale va verso la balcanizzazione, piuttosto che verso l’apertura auspicata da quella che si è nel frattempo convertita da Scuola di Vienna a Scuola di Ginevra (anche per la diaspora degli autori costretti ad abbandonare l’Austria dopo l’Anschluss). 

È in questo periodo che nasce (nel 38 a Parigi, nel corso del colloquio Lippmann) la definizione di neoliberali per questa corrente teorica, ed è in questo periodo che la sua  componente europea si caratterizza per la sfiducia nei confronti della matematizzazione che la scienza economica sta subendo in quegli anni (soprattutto oltreoceano). Von Hayek contesta esplicitamente il concetto di mercato perfetto, in quanto non esiste qualcosa come la conoscenza perfetta che tale concetto implica, ed arriva a teorizzare l’utilità dell’ignoranza: se esiste un equilibrio, sostiene, è solo “perché alcune persone non hanno possibilità alcuna di apprendere fatti che, in caso contrario, li porterebbero a mutare i loro piani” (10). Per parte sua Wilhelm Ropke imputa alla sofisticazione dei modelli macroeconomici la responsabilità di generare “una cecità nei confronti dei contesti extraeconomici che costituiscono il vero problema del mondo reale” (11). Di più: attribuisce a questo paradigma matematico la colpa di avere incoraggiato una politica a base nazionale, tipica di quell’approccio keynesiano secondo il quale “lo stato nazione era il contenitore implicito dei progetti di pianificazione e delle politiche di ridistribuzione attraverso servizi pubblici e welfare state” (12). A partire da questi presupposti la Scuola di Ginevra concentra l’attenzione sulla progettazione di istituzioni sovranazionali capaci di salvaguardare il mercato, accentuando il carattere utopistico delle proprie speculazioni teoriche - speculazioni che, a cavallo fra i Trenta e i Quaranta, approdano alla proposta di un governo sovranazionale di tipo federale.


Walter Lippmann



I modelli federali proposti dai singoli autori erano diversi (Ropke assumeva la sua Svizzera a esempio di un mondo in cui gli stati sarebbero stati come i cantoni, von Hayek guardava piuttosto all’impero asburgico come modello di un regime liberale cosmopolita) ma condividevano lo stesso obiettivo strategico: rompere il legame fra cittadinanza politica e proprietà economica. Ciò non si ottiene indebolendo lo stato; al contrario, si tratta di rafforzarlo cambiandone al contempo ruolo e funzioni. Nelle condizioni generate dalla democrazia di massa, argomentano i neoliberali, lo stato appare debole “perché cerca di compiacere tutti i gruppi di pressione nello stesso momento”, così gli illusori vantaggi che si spera di ottenere grazie alla pianificazione nazionale finiscono per generare il caos su scala internazionale. Per venire a capo di tale paradosso, si sarebbe dovuto dare vita a federazioni ampie ma lasche, in cui i singoli stati nazione avrebbero mantenuto il potere politico, anzi questo potere sarebbe stato rinforzato, ma esclusivamente in funzione dell’obiettivo di tutelare il libero commercio e la libera circolazione dei capitali. In poche parole, si cercava un modo per tenersi la nazione ma privandola degli artigli democratici, spegnendone cioè le velleità di politiche industriali e redistributive. “Lo stato socialdemocratico era appena in gestazione, commenta Slobodian, e già i neoliberali elaboravano uno schema che vi si opponesse” (13). Senza dimenticare che l’internazionalismo neoliberale che viene così definendo il suo progetto negli anni della Seconda guerra mondiale ha una chiara connotazione geopolitica: “la federazione e l’unione erano proposte come configurazioni atlantiche, anglosassoni ed europee occidentali, capaci di riportare gli isolazionistici Stati Uniti all’interno della comunità occidentale e agire da bastione contro fascismo e comunismo” (14). 

Ma il mondo che emerge dalla guerra non è quello sperato dai neoliberali. È il mondo del compromesso fordista fra capitale e lavoro, il mondo del welfarismo keynesiano in cui anche un presidente repubblicano come Eisenhower viene accusato di “socialismo” da una destra americana che cerca alternative in Europa, guardando, oltre che a teorici come Ropke e von Hayek, a esponenti politici come il ministro tedesco dell’economia Erhard e il presidente italiano Einaudi. È soprattutto il mondo della decolonizzazione, in cui nascono decine di nuovi stati che, in nome dello sviluppo, rivendicano il diritto di nazionalizzare i capitali esteri, di proteggere le proprie industrie dalla concorrenza dei paesi avanzati, perseguire politiche di piena occupazione, ecc. Questa svolta fa temere ai neoliberali, scrive Slobodian, “di avere vinto la guerra ma perso la pace”, per cui si armano per una nuova guerra di posizione in cui difendono l’idea secondo cui “lungi dal consentire alle nazioni postcoloniali di mettersi al riparo della concorrenza globale, esse andavano educate alle dinamiche dell’economía mondiale e a rispondere correttamente alle direttive della domanda di mercato” (15). Ma ciò che soprattutto terrorizza i neoliberali, è il tentativo dei paesi del Sud del mondo di tradurre il principio democratico una testa un voto nello slogan una nazione un voto da applicare negli organismi internazionali in cui si decidono le regole del commercio internazionale. In questa battaglia ideologica fra Nord e Sud del Mondo si distingue in particolare lo svizzero Ropke, il quale viene assumendo posizioni apertamente razziste, facendosi promotore di politiche che possano impedire che la fine degli imperi coloniali decreti la fine del dominio della razza bianca. Così, rilanciando a modo suo i caveat di Tocqueville in merito ai pericoli che la democrazia apra la strada a una “dittatura della maggioranza”, prende le difese del regime dell’apartheid sudafricano, suggerendo che, se si voleva evitare il rischio di un “imperialismo nero”, in quel Paese si sarebbe dovuto consentire al massimo un voto “ponderato” basato sul reddito. Questa posizione di Ropke resta però isolata in un filone neoliberale che non mirava a imporre un mondo di razze bensì un mondo di regole. 


Wilhelm Ropke



Si è detto come Slobodian sottolinei più volte che il punto di vista neoliberale è assai più giuridico-politico che economico. Questa caratteristica emerge ancora più chiaramente nel trentennio postbellico a cui l’autore dedica gli ultimi capitoli della sua analisi. Uno snodo fondamentale in tal senso, nonché il momento in cui maturano le condizioni per un rovesciamento dei rapporti di forza fra paradigma socialdemocratico e paradigma neoliberale, è quel Trattato di Roma che getta le basi per la nascita dell’Unione Europea. Di fronte al fenomeno dell’integrazione europea il fronte neoliberale si spacca. Da un lato, la corrente “universalista” (Ropke e altri) vede nella coalizione europea un nuovo espediente per tenersi al riparo dalla concorrenza globale, e insiste nell’indicare la soluzione in un più ampio processo di integrazione di tipo federale, soluzione che non riesce tuttavia a liberarsi dei suoi connotati utopistici (anche perché, annota Slobodian, non prevede meccanismi di enforcement delle regole). Dall’altro lato, la corrente costituzionalista riconosce viceversa nell’integrazione europea il ponte che avrebbe potuto colmare la distanza fra il loro disegno istituzionale e la sua attuazione concreta. Gli aderenti a questa corrente – in maggioranza di formazione giuridica – “leggono il Trattato come una costituzione economica in grado di gettare le basi di futuri modelli di governance multilivello” (16). Nella costituzionalizzazione della CEE  vedono la chance di costruire un meccanismo di supervisione e di esecuzione effettiva delle regole nell’ambito dello stato nazione: “si trattava dell’applicazione delle teorie di Hayek”, ma non quelle degli anni Trenta, bensì quelle che costui delinea nei decenni successivi, allorché “suggerisce di progettare le costituzioni in modo da ancorare le libertà economiche contro i tentativi dei legislatori di applicare politiche protezioniste e redistributive” (17). 

Con l’avvio del processo di integrazione europea il sogno che von Mises e von Hayek avevano accarezzato fin dal primo dopoguerra, allorché guardavano con nostalgia all’impero asburgico in quanto cornice cosmopolita in grado di garantire le regole del dominium globale del capitale mondiale, si avvia a divenire realtà. Dopo avere sfornato per decenni progetti astratti, che non avevano speranza di essere accolti in un contesto caratterizzato da feroci conflitti geopolitici, politiche economiche “stataliste” ed egemonia del paradigma keynesiano, vedono sorgere un quadro istituzionale capace di scippare la sovranità agli stati nazione: “i soggetti giuridici europei non sono solo gli stati membri ma anche gli individui [Slobodian insiste giustamente sul fatto che, per i neoliberali, i diritti individuali si riferiscono anche a soggetti come le imprese] e se emerge un conflitto è la legge nazionale a dover cedere il passo” (18). Ci si avvia quindi verso la separazione fra diritto pubblico e privato che regala agli attori del mercato la facoltà di appellarsi a un forum al di fuori del proprio stato nazionale. Siamo ormai prossimi all’ultima parte dell’excursus storico di Slobodian, nella quale vengono esaminati, fra gli altri temi: 1) lo scontro ideologico fra Nord e Sud del mondo attorno alla questione del “diritto allo sviluppo” – scontro che avrà un ruolo determinante nella definizione delle regole del nuovo processo di globalizzazione; 2) la divaricazione di modelli teorici fra Scuola di Chicago e Scuola di Ginevra; 3) l’evoluzione del pensiero di von Hayek, sempre più affascinato dai modelli cibernetici e dalla teoria dei sistemi. 

Gli anni Cinquanta e Sessanta sono caratterizzati dall’offensiva dei paesi del Sud del mondo che aspirano a dare vita al NOEI (nuovo ordine economico internazionale). Alla base del NOEI si colloca il cosiddetto “diritto allo sviluppo”, che a sua volta implica la definizione di nuovi standard giuridici che dovrebbero consentire deviazioni dalle regole del libero commercio e la possibilità di nazionalizzare asset domestici (materie prime, terre, ecc.) di proprietà straniera (Slobodian ricorda che fra il 1967 e il 1971 vengono espropriate 79 imprese nordamericane). Le stesse nazioni che lottano per affermare il diritto allo sviluppo attaccano il celebre rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma, accusandone gli estensori di non distinguere fra le responsabilità delle diverse regioni del mondo (un tema che, come abbiamo potuto constatare nel corso delle recenti conferenze dei G20 e della Cop26, è ancora al centro dei conflitti fra Nord e Sud del mondo) e dell’intenzione di frenare lo sviluppo del Sud, per impedire che sorgano concorrenti alle ex potenze coloniali. I pensatori neoliberali, scrive Slobodian, “attaccano il NOEI manifestando un’ira sproporzionata rispetto alla percentuale del commercio globale  dei G77 (il gruppo dei paesi sottosviluppati) e ai mezzi di cui dispongono per far rispettare risoluzioni dell’ONU puramente simboliche (19). Ma questa volta i guru del neoliberalismo non sono profeti disarmati: i loro principi sono ormai integrati nelle strategie di organismi e istituzioni internazionali che, contrariamente alla vecchia Società delle nazioni, dispongono di efficaci strumenti di governance: i nuovi criteri per la gestione degli “aiuti” allo sviluppo adottati da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale si avviano a costruire quella gabbia di acciaio che verrà più tardi battezzata come il Washington Consensus, mentre a dare il colpo di grazia alle velleità del NOEI provvederà il Volcker shock del 1979: alzando i tassi di interesse Usa si faranno lievitare i costi del debito per le nazioni del Sud, dando avvio alla crisi debitoria che metterà la museruola agli stati nazione. 

Più tardi non saranno solo i paesi del Sud del mondo a finire in una trappola che scatterà anche per i paesi del Sud e dell’Est europeo entrati a far parte della UE e assoggettati alle regole del Trattato di Maastricht, a conferma della giustezza dell’intuizione di von Hayek e altri che avevano visto nel modello europeo di governance multilivello e nella costituzione economica della UE l’arma strategica per realizzare il loro decennale progetto di separazione fra dominium ed imperium. La giuridicizzazione dell’economia globale attribuisce alla magistratura il carattere di “strumento per eludere l’interferenza di organi democraticamente eletti” e per consentire alle regole stabilite in sede internazionale di “pesare sulle decisioni legislative”, per cui “a quel punto sono le corti interne ad applicare il diritto economico globale” (20). La lex mercatoria internazionale prevale sulle leggi emanate dai parlamenti nazionali democraticamente eletti. I riformatori del GATT si atterranno a questo modello, dando vita al laboratorio di un progetto hayekiano su scala mondiale che porterà alla nascita del WTO. Secondo Slobodian questa evoluzione conferma che il vero motore ideologico della rivoluzione neoliberale non sta oltreoceano, bensì nella vecchia Europa. Non solo perché, come si è visto, tutte le idee forza sin qui analizzate vengono dai pensatoi della Scuola di Vienna prima e della Scuola di Ginevra poi, ma anche perché questa visione giuridico-politica del nuovo ordine mondiale nasce in contrapposizione alla fiducia nella possibilità nella modellizzazione matematica formale delle “leggi” dell’economia, e nella possibilità di prevederne tendenze e sviluppi, tipica della Scuola di Chicago. Ai teorici liberisti d’oltreoceano i neoliberali europei rimproverano di avere provocato una serie di crisi finanziarie, a causa delle loro illusioni di poter prevedere, controllare e gestire “scientificamente” i processi economici, così come rimproverano di alimentare – non meno dei loro rivali keynesiani - illusioni relative alla possibilità di pianificare certi meccanismi del sistema economico. 

Questa divergenza di prospettive emerge con grande chiarezza ove si consideri la “conversione” cibernetica dell’ultimo Hayek. La svolta filosofica dell’ultimo Hayek è radicale. Le convinzioni di fondo che aveva maturato nel corso della sua lunga militanza intellettuale nel campo neoliberale restano immutate, ma l’incontro con la teoria dei sistemi e la cibernetica, mediato dallo studio di autori come Ludwig von Bertalanffy (21) e Norbert Wiener (22), introduce elementi inediti nella sua visione. Si è ricordato a più riprese che, per lui, l’economia non è un sistema di cui si possano descrivere le leggi di funzionamento né prevedere le tendenze, ma ora questo punto di vista viene portato alle estreme conseguenze: il mercato viene descritto come un “sistema di comunicazione” (l’analogia con le tesi che anni dopo verranno avanzate da un altro grande teorico conservatore che si inspira alla teoria dei sistemi, Niklas Luhmann (23), sono evidenti) rispetto al quale non si possono estrarre dati concreti sul futuro (a dispetto dei modelli macroeconomici sviluppati dagli economisti neoclassici) ma al massimo previsioni di tendenze. Quel che succede in campo economico è il risultato dell’azione umana ma non di un consapevole disegno umano. Qui l’analogia con il punto di vista dell’ultimo Lukács (24) (che riprende a sua volta il pensiero di Marx) è sorprendente: citando a più riprese il detto marxiano “non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, costui ribadisce che, per Marx, l’unica scienza è la storia, le cui “leggi” (cioè le catene causali che hanno prodotto determinati effetti) sono tuttavia conoscibili solo post festum. Detto altrimenti: gli uomini fanno la storia, ma non sanno di farla perché la loro azione è sovradeterminata da fattori ad essi sconosciuti. La differenza sta nel fatto che, per Marx e Lukács, è possibile appropriarsi della conoscenza dei fattori in questione per indirizzare consapevolmente il corso degli eventi in una determinata direzione. Viceversa per von Hayek questo è un errore catastrofico: l’economia è una sorta di scatola nera, un sistema cibernetico autoregolato da meccanismi di feed back negativi, e tentare di “pianificarne” il funzionamento può generare solo disastrosi effetti controintuitivi. L’ignoranza è insomma una virtù costituiva, nella misura in cui indica alla politica e al diritto la via regia da seguire, che consiste precisamente nell’impedire/vietare questi maldestri tentativi di governare ciò che è per definizione ingovernabile. La totalità è inconoscibile, si conoscono solo le regole necessarie a mantenerla, regole che si apprendono attraverso l’esperienza politica e non la scienza economica: “la forma più alta di razionalità consiste nell’arrendersi alla maggiore conoscenza delle istituzioni, essendo queste il prodotto dell’accumularsi di strategie di successo determinate da processi di selezione naturale di lungo periodo” (25). 

C’è infine un ultimo importante elemento di novità nella svolta teorica dell’ultimo Hayek: il suo pensiero non può in alcun modo essere definito “individualista”, non presenta cioè quella caratteristica che, a sinistra, viene automaticamente associata a questa ideologia. Von Hayek è sicuramente un autore antisocialista, reazionario, anticomunitario ma non individualista. Nei suoi ultimi scritti e discorsi non troviamo alcuna esaltazione della libertà individuale: “Il soggetto scompare, il protagonista è il sistema stesso, l’individuo autonomo è un effetto illusorio, gli individui vengono concepiti come guidati dagli imperativi della divisione internazionale del lavoro. Il timoniere è lo stesso mercato mondiale” (26). A dire alle persone cosa devono fare sono i prezzi delle merci (compresi quelli delle finte merci, come terra, denaro e forza lavoro NdA). Il valore centrale cui il nostro si inchina come a una entità trascendente, quasi divina, non è la libertà individuale bensì “l’interdipendenza del tutto” (che risponde alle imperscrutabili leggi del mercato). E anche qui è difficile non riconoscere una eco delle riflessioni marxiane dedicate al feticismo della merce (anche se il contesto politico appare capovolto).  

Concludo questa prima parte, nella quale mi sono sostanzialmente limitato a sintetizzare l’analisi storica di Slobodian, ricordando: 1) che l’autore, nella Introduzione, elenca quindici principi che, a suo avviso, stanno a fondamento dell’ordine mondiale auspicato da von Hayek e dagli altri teorici neoliberisti, qui ne richiamo solo i cinque che considero fondamentali: il mercato perfetto non esiste; l’ordine economico mondiale dipende dalla protezione del dominium dagli eccessi dell’imperium; la democrazia è una minaccia per l’ordine del mercato perché legittima le domande di ridistribuzione (è noto che von Hayek ha dichiarato che una dittatura liberale è preferibile a una democrazia senza liberalismo); la conoscenza umana è in gran parte inconscia; il commercio internazionale deve essere sancito da un codice giuridico che deve prevalere sulle leggi nazionali; 2) infine nelle ultime pagine del libro si avanza la tesi secondo cui il decennale sforzo dei teorici neoliberisti mirava, fra le altre cose, a rendere “naturale” l’ordine che si proponevano di costruire, a far sì che risultasse invisibile agli occhi delle masse, laddove il loro tentativo di depoliticizzare le relazioni economiche, a mano a mano che si calava dal mondo delle idee nella realtà concreta delle politiche economiche, ha finito per dare vita a un progetto altamente visibile “che non poteva non renderlo oggetto di controversia politica”(27). In quest’ultima parte dell’articolo cercherò di dimostrare, basandomi sul materiale fin qui illustrato, come e perché la cultura di sinistra si è rivelata sostanzialmente incapace di combattere il paradigma neoliberale, restando a un livello di contrapposizione puramente ideologica nei confronti dell’avversario. 


Friedrich von Hayek



Inizio spiegando perché parlo di contrapposizione puramente ideologica (non nel senso positivo – cioè di battaglia delle idee – bensì in quello negativo di lettura superficiale e depistante della realtà). Nella polemica contro il neoliberismo si punta il dito – anche giustamente, sia chiaro – contro le politiche economiche che i governi occidentali hanno adottato a partire dagli anni Ottanta del Novecento: privatizzazioni dei servizi pubblici, tagli al welfare e alla spesa sociale (sanità, scuola, pensioni, ecc.), politiche antisindacali ecc. raggruppando il tutto sotto l’etichetta del “pensiero unico”. Ora questa definizione è corretta se e finché ci si riferisce ai programmi dei maggiori partiti e alla narrazione dei media mainstream, ma appare semplicistica e fuorviante ove applicata alle varie correnti del pensiero neoliberale di cui Slobodian ricostruisce origini e storia nel libro appena recensito. Come si è visto, infatti, il dibattito fra le varie scuole – sia al loro interno sia fra il campo angloamericano e il campo europeo – è sempre stato vivace, ma soprattutto le teorie neoliberali, nate nel primo dopoguerra, sono rimaste inascoltate e marginali per mezzo secolo, riuscendo a imporsi sul piano dell’azione politica soltanto a partire dalla crisi degli anni Settanta (28). In questo mezzo secolo la loro è stata quasi esclusivamente una battaglia ideale, tanto è vero che, per definirla, ho usato il termine gramsciano di “guerra di posizione”. Potrebbe sembrare un uso arbitrario, se non fosse che qui è in gioco una questione ideologica da intendersi “in senso forte”. Se infatti assumiamo l’ideologia nell’accezione gramsciana e lukacsiana del termine, dunque non come falsa coscienza, bensì come espressione consapevole di interessi di classe, sostenuta dall’intima convinzione che tali interessi coincidano con quelli generali dell’umanità (per cui mobilita principi e valori sostenuti da una sincera fede ideale e politica), occorre riconoscere che ciò non vale solo per l’ideologia social comunista ma anche per l’ideologia neoliberale che vi si contrappone. Non riconoscerlo – limitandosi a contrastare la narrazione del nemico di classe solo sul piano della comunicazione e della propaganda - significa correre il rischio di perdere la battaglia per l’egemonia, che per le classi subalterne è già più difficile nella misura in cui le idee dominanti sono sempre quelle della classe dominante, ma che diventa ancora più difficile se non si riconosce il potere di manipolazione culturale, antropologica che si annida in teorie che devono la loro efficacia ai meccanismi materiali che governano il modo di produzione sotto cui viviamo. Non averlo riconosciuto, ha fatto sì che principi e valori tipici del paradigma neoliberale analizzato nelle pagine precedenti siano penetrati in profondità nella cultura delle sinistre occidentali, al punto da renderle incapaci di contrastare l’avversario.

Uno snodo storico fondamentale che ha visto aprirsi le prime brecce alla penetrazione di idee neoliberali nel campo del marxismo occidentale è la crisi degli anni Settanta. Abbiamo visto come, in quegli anni, una delle battaglie strategiche dei neoliberisti fosse quella contro le velleità stataliste e nazionaliste dei paesi del Sud del mondo che rivendicavano il “diritto allo sviluppo”. Sul fronte opposto i migliori cervelli teorici  del marxismo schieravano autori come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank che, aggiornando le teorie di Lenin sull’imperialismo e sulle lotte di liberazione dei paesi coloniali, avevano sviluppato quelle teorie della dipendenza (29) che analizzavano il rapporto necessario e speculare fra sviluppo delle metropoli e sottosviluppo delle periferie del mondo. Samir Amin, in particolare, con la sua teoria del delinking (30) offriva robusti argomenti a sostegno della necessità dei paesi sottosviluppati di sganciarsi dal mercato globale per proteggersi dalla concorrenza delle industrie capitalistiche, e di imboccare la via del capitalismo di stato come primo passo verso la transizione al socialismo. Viceversa le sinistre “radicali” dei paesi occidentali consideravano chiusa la fase delle lotte di liberazione coloniale, sostenendo l’idea di un’economia mondiale unificata in cui la lotta non era più fra grandi potenze e nazioni oppresse e sfruttate ma solo fra capitale e lavoro, considerati entrambi come entità sovranazionali. Questo “internazionalismo” astratto, cieco alle dinamiche reali del sistema capitalista mondiale offriva, di fatto, una sponda ideale all’ “internazionalismo capitalista” dei vari Von Hayek, Ropke e von Mises. L’unificazione del mercato mondiale era visto dagli uni e dagli altri come un fattore positivo, certamente per motivi opposti, ma in un contesto che garantiva vantaggi strategici solo ai fautori dell’internazionalismo capitalista. 

Globalismo di destra e di sinistra convergevano inoltre sul terreno dell’antistatalismo e dell’odio per la sovranità nazionale. Com’è noto un autore come Negri è arrivato a sostenere la tesi che le lotte dei popoli coloniali possono essere sostenute finché non approdano a conquistare il “dono avvelenato dello stato nazione”. In autori come lui e altri teorici della galassia post operista e trotskista l’odio è rivolto sia nei confronti dello stato, in quanto emanazione di un potere politico visto come incarnazione del male assoluto, sia nei confronti della nazione, in quanto ricettacolo di sentimenti patriottici considerati reazionari per definizione. Viceversa i neoliberisti, come si è visto, non sono antistatalisti (anche se concepiscono lo stato solo come strumento della tutela delle regole del mercato globale) ma sono ferocemente contrari allo stato-nazione, nel quale riconoscono (più lucidamente di Negri e soci) la cornice che rende possibile alle classi subalterne di contrattare diritti sociali e migliori condizioni di lavoro e di vita. Ebbene fra queste due visioni globaliste l’egemonia spetta chiaramente alla seconda. Entrambe si oppongono all’ imperium della politica, ed entrambe lo fanno in nome della tutela del dominium, che i neoliberisti intendono come autonomia del mercato e i libertari di sinistra come autonomia di un’astratta moltitudine: definire a quale delle due visioni spetti l’egemonia non è difficile. 

Credo valga la pena di sottolineare come anche la divaricazione fra versione angloamericana e versione europea del neoliberismo si rispecchi all’interno della cultura di una sinistra sempre più subalterna all’internazionalismo capitalista. La versione americana è quella con caratteristiche più spiccatamente individualiste e libertarie, per cui influenza più direttamente le componenti movimentiste impegnate nella lotta per i diritti civili di minoranze che poco o nulla hanno a che fare con la lotta di classe. Viceversa la versione europea, che si incarna nelle istituzioni e nella costituzione economica della UE, alimenta l’ideologia delle sinistre tradizionali, ossessivamente concentrata sul controllo delle regole del mercato. E ancora: un libro come Impero (31) riflette le condizioni di un paese come gli Stati Uniti che, grazie all’estensione del suo mercato interno e al controllo sulla finanza internazionale, può permettersi margini di manovra più ampi sul piano della politica economica rispetto ai paesi europei. Viceversa la visione “austeritaria” delle sinistre post comuniste e post socialdemocratiche europee affonda le radici in una tradizione che ha sempre interpretato il marxismo in chiave economicista e meccanicista. Da qui un “realismo” che ben si sposa con la svolta sistemica dell’ultimo Hayek il quale, in base alla fede nell’esistenza di una necessità sistemica immanente che, come si è visto, può essere (indebitamente) associata a certe formulazioni della teoria marxista, ha via via adottato una prospettiva che si fonda sulla inconoscibilità di meccanismi economici, che vanno solo rispettati e lasciati operare, evitando di disturbarli con turbative politiche. Concludo notando per inciso  che l’infatuazione per la teoria della complessità e per i paradigmi cibernetico-sistemici, che ha caratterizzato certi ambienti della cultura di sinistra nell’ultimo ventennio del Novecento, ha a sua volta potentemente contribuito a indebolire le difese immunitarie del marxismo occidentale nei confronti della controparte neoliberista. Dipanare questo groviglio è il compito tutt’altro che agevole che spetta a chi si propone di rilanciare un progetto socialista capace di rappresentare gli interessi delle classi subalterne traditi da queste sinistre hayekiane.


Note

(1) Q. Slobodian, Globalists. La fine dell'impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi, Milanom 2021, p. 25.

(2) Ibidem, p. 29.

(3) Ibidem, p. 30.

(4) Ibidem, p. 38.

(5) Ibidem, p. 55.

(6) Ibidem, p. 56. 

(7) Ibidem, p. 57.

(8) Ibidem, p. 62.

(9) Ibidem, po. 96.

(10) Ibidem, p. 136.

(11) Ibidem, p. 99.

(12) Ibidem, p. 144.

(13) Ibidem, p. 166.

(14) Ibidem, p. 161.

(15) Ibidem, p. 234.

(16) Ibidem, p. 291.

(17) Ibidem pp. 324-325.

(18) Ibidem, p. 333.

(19) Ibidem, p. 352.

(20) Ibidem, p. 406.

(21) Cfr L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi, Mondadori, Milano 2004. 

(22) Cfr. N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino 1966.

(23) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979;  vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore,  Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983.

(24) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll. Pigreco, Milano 2012.  

(25) Globalists, cit. p. 374.

(26) Ibidem, p. 371.

(27) Ibidem, p. 437.

(28) Sulla lunga latenza del paradigma neoliberale come alternativa "orizzontalista" al paradigma "verticale" keynesiano, cfr. Onofrio Romano, la libertà verticale, Meltemi, Milano 2019.

(29) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(30) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.

(31) Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2000








   


           


  

    


    


martedì 19 ottobre 2021

COMUNISMO, DEMOCRAZIA E LIBERALISMO

Note a margine di un libro postumo di Domenico Losurdo

e di un’intervista ad Alvaro G. Linera


Nota introduttiva 

Nel dibattito teorico interno al campo marxista, la questione del rapporto fra comunismo e democrazia liberale è intricata, controversa e divisiva. Non solo perché eredita le scorie ideologiche di passaggi storici come la rottura fra Seconda e Terza Internazionale, la guerra fredda, la svolta eurocomunista e il crollo dei regimi socialisti, ma soprattutto  perché il trionfo del pensiero unico negli ultimi decenni è riuscito, da un lato, a inscrivere nel senso comune l’equazione comunismo=totalitarismo (vedi la delibera del Parlamento Europeo che equipara comunismo e nazismo), dall’altro lato, a liquidare ogni interpretazione alternativa del termine democrazia, ormai univocamente associato ai regimi liberal liberisti dei Paesi occidentali (e ciò malgrado le analisi di autori come Colin Crouch e Wolfgang Streeck (1) abbiano ampiamente descritto il divorzio fra democrazia e liberalismo che si è celebrato dopo la svolta neoliberista). 

Liberarsi delle pastoie ideologiche di cui sopra non è semplice, tanto è vero che, anche intellettuali che non rinunciano a indicare nel socialismo l’alternativa a un capitalismo sempre più aggressivo e predatorio, esitano ad assumere posizioni radicali e, di fronte all’offensiva ideologica del nemico di classe, ripiegano su posizioni difensive, come se, per legittimare le proprie idee, dovessero dimostrare che il futuro che prospettano, non solo è compatibile con i principi e i valori liberaldemocratici, ma ne rappresenta addirittura il compimento. Qui non mi confronterò con questi atteggiamenti giustificatori, discuterò invece le più serie motivazioni con cui Domenico Losurdo  - in un’opera postuma di recente pubblicazione (2) – argomenta a sua volta che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene. 

Premesso che Domenico Losurdo – assieme a Gyorgy Lukács, Costanzo Preve e pochi altri – è fra gli autori che più hanno influito sulla mia recente evoluzione teorica, nel caso specifico intendo spiegare perché mi trovo in netto contrasto con la tesi appena enunciata. Al tempo stesso, prenderò spunto dalle riflessioni critiche che Losurdo dedica al “messianesimo” che caratterizza certe correnti marxiste, per discutere alcune affermazioni che l’ex vice presidente boliviano Alvaro G. Linera (un altro intellettuale marxista che apprezzo profondamente) ha fatto nel corso di una lunga intervista rilasciata alla rivista Jacobin (3). Affermazioni dalle quali emerge che costui, pur essendo autore di una puntuale critica delle ideologie antistataliste che caratterizzano certe sinistre radicali, cede alla tentazione di rilanciare l’utopia dell’estinzione dello Stato.


Domenico Losurdo




I. Losurdo. Demeriti del messianesimo e meriti del liberalsocialismo. 

Che in Marx ed Engels fosse presente un filone messianico, con echi dell’escatologia ebraico cristiana, non è una scoperta. In molti casi – basti pensare ad autori come Voegelin e Löwith (4) – ciò è stato usato come un argomento per svalorizzare il contributo scientifico del marxismo alla comprensione della storia, laddove in altri si è cercato di dimostrare – vedi fra gli altri Costanzo Preve (5) - come questo aspetto rappresenti un elemento marginale, o comunque inessenziale, del pensiero marxiano. Per parte sua Losurdo, ne La questione comunista (l’opera postuma di cui stiamo discutendo), sottolinea come questa componente messianica si sia rafforzata dopo l’esperienza apocalittica della Prima guerra mondiale, a un punto tale da caratterizzare settori significativi del movimento comunista mondiale e da attraversarne l’intera storia dell’ultimo secolo, trovando espressione nell’opera in autori come Bebel, Bloch e la coppia Negri - Hardt. È lecito – si chiede Losurdo - sfruttare tali tendenze per ridurre la storia del marxismo a un capitolo di storia delle religioni? Si tratta evidentemente di una domanda retorica, che dà per scontata una risposta negativa, ma vediamo come Losurdo motiva tale risposta. 

All’afflato teologico che percorre un’opera come il Principio speranza di Ernst Bloch, chi scrive ha dedicato un’ampia riflessione apparsa su questa pagina, successivamente integrata in un libro in via di pubblicazione (6). In quel lavoro monumentale, Bloch rivendica esplicitamente una relazione di continuità fra profezie ebraico cristiane (da Mosè a Gioacchino da Fiore), utopie rinascimentali (Campanella, Moro e altri) e socialismo utopistico, inquadrando il tutto in una sorta di tempo sospeso, caratterizzato dall’attesa di una “parusia” che, ancorché secolarizzata e filtrata dal contributo scientifico del materialismo storico, troverebbe il suo compimento nella costruzione del socialismo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, che Bloch descrive come la prima tappa del cammino verso un futuro paradisiaco. Pur non riferendosi direttamente a Bloch, Losurdo scrive in proposito che “L’evocazione di un futuro luminoso, o anche solo nettamente migliore del presente, presuppone una visione unilaterale del tempo e dunque rinvia in primo luogo alla tradizione ebraico cristiana” (7). 

Losurdo non demonizza questa visione ma la contestualizza storicamente, presentandola come il frutto dell’euforia di massa associata a una rivoluzione vittoriosa e alle aspettative che la accompagnano: “L’entusiasmo più o meno corale nell’edificazione di una nuova società può stimolare la sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo e far dimenticare che lo stesso entusiasmo più o meno corale è un momento fugace nell’ambito di un processo di costruzione dell’ordine nuovo che è prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni” (8). E ancora: “Quanto più un movimento rivoluzionario affonda le radici negli strati più profondi delle masse popolari, tanto più è portato a esprimere speranze di riscatto che, per essere state deluse e frustrate nel corso dei secoli, tendono ad assumere toni particolarmente enfatici e in qualche modo messianici. Proprio per questo, dopo avere rovesciato l’antico regime, per poter edificare un ordinamento nuovo relativamente stabile, ogni grande movimento rivoluzionario deve attraversare un processo di apprendimento faticoso e ricco di contraddizioni” (9). 

Vale la pena di sottolineare due passaggi sui quali torneremo più avanti: mi riferisco alla “sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo”, contenuta nella prima citazione, e alla necessità di “un processo di apprendimento faticoso e ricco di contraddizioni” con cui si conclude la seconda citazione. Per ora mi limito a concludere la descrizione dell’analisi critica che Losurdo dedica a queste tendenze messianiche, rilanciando le considerazioni particolarmente puntute che il nostro dedica al duo Hardt-Negri. La descrizione della società comunista compiuta da questi due autori prospetta uno scenario in cui tutti i conflitti sociali – non solo i conflitti di classe – sono destinati a sparire, uno scenario irenico degno dei miti classici sull’età dell’oro, o delle descrizioni bibliche dell’Eden: “Spariscono  esercito, polizia, la norma giuridica in quanto tale, tutto ciò che rende possibile l’esercizio della forza. Niente proprietà privata e denaro, che rischiano di far riemergere la polarizzazione sociale” (10). 

Anche qui, come nelle visionarie profezie di Ernst Bloch, siamo in presenza di un afflato religioso che Losurdo definisce come una sorta di neo francescanesimo, e che descrive così: “è l’apocatastasi, la restitutio omnium, la rigenerazione e la riconciliazione di tutto il creato di cui parlano ad esempio gli Atti degli apostoli” (11). Tuttavia, mentre Bloch esaltava la società sovietica nata dalla Rivoluzione d’Ottobre (12) in quanto primo passo sulla via della realizzazione del paradiso in terra, Negri appartiene a una cultura, comune alla maggior parte dei movimenti sociali post sessantottini, che rifiuta a priori la necessità di prendere il potere per gestire la transizione al socialismo. Si tratta di una cultura radicalmente antistatalista, che demonizza il potere politico in quanto tale, al punto che Negri, com’è noto, arriva ad affermare che le rivoluzioni coloniali vanno appoggiate solo finché non approdano alla costruzione di uno stato nazione, perché lo Stato è “il regalo avvelenato della liberazione nazionale”. 

Siamo di fronte a una concezione “ribellistica” che vede nel potere in quanto tale – a prescindere dagli interessi di classe che rispecchia e rappresenta – il nemico assoluto: “Il ribelle è preoccupato in primo luogo di affermare la sua superiorità rispetto a qualsiasi contenuto politico determinato. Non è antidogmatismo ma civettuolo dogmatismo del soggetto” (13). Una concezione, aggiunge Losurdo, duramente criticata da Antonio Gramsci, il quale vedeva nel ribellismo, nel sovversivismo e nell’antistatalismo l’espressione di un atteggiamento “apoliticista”, di un’evasione dalla realtà del conflitto e della  sostanziale rinuncia a modificare l’esistente. Per cui Losurdo conclude la sua riflessione critica rilanciando il detto gramsciano che recita: “scarsa comprensione dello stato significa scarsa coscienza di classe”.

È importante sottolineare che tanto il messianesimo quanto l’antistatalismo che ad esso si ispira non sono banali infatuazioni ideologiche che riguardano ristrette élite intellettuali: queste ideologie, per esempio, hanno esercitato un’influenza profonda su ampi settori del partito bolscevico e del movimento operaio russo nella fase immediatamente successiva alla presa del potere, caratterizzata dal cosiddetto “comunismo di guerra”. Chi aderiva a tale visione riteneva possibile compiere una transizione diretta al socialismo che avrebbe comportato l’eliminazione immediata del mercato e della stessa moneta, nonché l’assunzione diretta del controllo operaio sulla produzione attraverso forme di autogestione (14). Se tale linea avesse vinto, le conseguenze, visto lo stato disastroso dell’economia russa devastata dalla Prima guerra mondiale e dalla successiva guerra civile, sarebbero state disastrose. Fortunatamente, osserva Losurdo, “nella Russia sovietica abbastanza presto la pratica di governo ha significato l’addio all’idea dell’estinzione dello Stato” (15). La svolta della Nep, imposta da Lenin, ha impedito che si seguisse la strada suicida indicata da una visione astratta che prescindeva totalmente dalla realtà materiale della situazione economica, alla quale opponeva la consapevolezza che non vi sarebbe stata alcuna libertà prima di  realizzare la libertà dal bisogno (bisogno che in quel contesto storico appariva stringente). “Liberare dalla miseria e dalla fame comportava gigantesche trasformazioni politico sociali che esigevano il superamento del controllo privato dei grandi mezzi di produzione” (16), ma raggiungere tale obiettivo non sarebbe stato possibile senza adottare una forma di capitalismo di Stato, diversa da quella esistente nei Paesi capitalisti nella misura in cui era sottoposta al controllo del potere sovietico (17).

Non ho qui modo di discutere l’ipotesi avanzata da Rita di Leo (18), secondo cui, se Lenin fosse vissuto più a lungo e se si fosse insistito sulla linea tracciata dalla Nep, la Russia avrebbe potuto anticipare di mezzo secolo la soluzione che la Cina ha adottato con le riforme del 1978, attuando una sorta di “uso bolscevico del capitalismo”, mi limito dunque ad affermare, in sintonia con quanto sostenuto da Losurdo, che l’esperienza cinese rappresenta un ulteriore, decisivo passo sulla via del superamento del messianesimo. Dopo le tentazioni utopistiche che avevano trovato espressione nel Grande Balzo in avanti e nella Rivoluzione Culturale, il Partito-Stato cinese ha compreso la necessità di sfruttare gli spiriti animali dei settori borghesi della nazione per alimentare uno sviluppo economico che ha consentito di sottrarre alla fame e alla miseria 800 milioni di cittadini ma, al tempo stesso, ha mantenuto il controllo pubblico sui settori produttivi strategici, sulle banche e sui servizi sociali, ma soprattutto ha conservato un ferreo controllo politico sulle istituzioni, frustrando i tentativi delle minoranze arricchitesi grazie alle riforme di impadronirsi del potere. Non è vero socialismo? Si tratta, nella migliore delle ipotesi, di capitalismo di Stato? Di questi interrogativi, che ho già affrontato in precedenti occasioni (19), discuterò più avanti a partire dalle tesi di Linera. Prima intendo affrontare l’altro grande tema trattato da Losurdo nel suo ultimo libro: il prezzo della via cinese è l’instaurazione di un regime totalitario? E quand’anche l’etichetta di totalitarismo fosse da respingere, al superamento delle visioni utopistiche  del messianesimo deve necessariamente seguire il riconoscimento che il comunismo ha qualcosa da imparare dalla tradizione liberale? 

Losurdo non spende eccessive energie nel decostruire la narrazione occidentale su una storia del totalitarismo che sarebbe iniziata con la Rivoluzione d’Ottobre, narrazione che, ancorché ”nobilitata” da Hannah Arendt e da una sfilza di servizievoli filosofi, fra i quali si distinguono molti ex comunisti pentiti, come i nouveaux philosophes francesi, poco ha a che fare con la ricerca storica e assai più con un “rito di autoassoluzione dell’Occidente capitalistico e liberale”. Si concentra un po’ di più, con un sarcasmo venato di amarezza, sulle dissociazioni nei confronti dei “crimini” del socialismo reale che gli intellettuali appartenenti alla sinistra radicale sono venuti sciorinando dai fatti di Ungheria al crollo del Muro di Berlino, salutato come un trionfo della libertà e non – come gli eventi storici successivi si sono incaricati di dimostrare – come una catastrofe che il proletariato mondiale ha pagato a carissimo prezzo. Fra i vari esempi, cita una dichiarazione di Fausto Bertinotti il quale, nel 2008, ebbe a dire che, in conseguenza della storia novecentesca, la parola comunismo era divenuta “indicibile” (20), e poche pagine dopo aggiunge che questo “sgomento” è “espressione di subalternità nei confronti del bilancio storico del Novecento tracciato dall’ideologia dominante” (21). 

Posto che il comunismo non è riducibile alla categoria del totalitarismo, resta l’interrogativo di cui sopra: in che misura i comunisti dovrebbero condividere i principi e i valori della tradizione liberare? Losurdo affronta il tema attraverso un corpo a corpo con il pensiero del guru del liberal socialismo italiano, Norberto Bobbio. In primo luogo, ricorda che Bobbio opponeva ai comunisti le ragioni della irrinunciabilità della libertà formale e delle sue garanzie giuridico istituzionali, sostenendo che “quel non molto di democrazia che esiste nel mondo (…) esiste di fatto soltanto nelle società capitalistiche” mentre i regimi che hanno preteso di costruire un diverso ordinamento sociale sono stati contrassegnati “fin dal primo momento (dal)l’instaurazione di un potere monocratico” (22). 


Norberto Bobbio



Di fronte a questa e altre analoghe provocazioni, sostiene Losurdo, la cultura comunista ha reagito in due modi diversi. Da un lato, cita la posizione di Galvano Dalla Volpe, il quale (in sintonia con una tradizione che può essere fatta risalire a Marx) contrapponeva alla libertas minor (la libertà negativa, o libertà da, tipica del diritto borghese e ritagliata sul diritto dell’individuo proprietario) la libertas maior (la libertà positiva, o libertà di, ritagliata sui diritti collettivi della comunità dei produttori). Dall’altro lato (e Losurdo si schiera con questa seconda posizione), evoca i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo che sintetizza così: “Coniugare potere ed egemonia operaia  e Stato di diritto, farla finita con la vulgata marxista che liquidava come irrilevanti le libertà formali sancite dalla rivoluzione democratico borghese” (23), aggiungendo che questa concezione si fonda sulla visione della rivoluzione antifascista come sviluppo a un livello superiore del Risorgimento (e implica, aggiungerei, la visione della rivoluzione proletaria come attuazione dei principi e valori della rivoluzione democratico borghese dell’89, rimasti in ampia misura inattuati). 


Palmiro Togliatti



In altre parole, secondo Losurdo, la visione togliattiana dimostrerebbe il fatto che i comunisti,  piuttosto che negare o svalutare le conquiste di cui erano stati protagonisti liberali e democratici ,“si proponevano di universalizzarle (mettendo fine alla clausole di esclusione)  e di far valere tali conquiste anche nella materialità dei rapporti economici e sociali tenendo conto di volta in volta della concreta situazione storico-politica” (24). Il riferimento alle clausole di esclusione rinvia sia alla mancata tematizzazione dei diritti dei popoli coloniali (Stuart Mill, che Bobbio annoverava fra i suoi ispiratori, rivendicava in modo esplicito il dispotismo dell’Occidente sulle razze “minorenni”), sia la sordità nei confronti dei diritti negati delle classi subalterne occidentali, a conferma dell’incapacità di pensare la libertà in termini realmente universali. In conclusione: il liberal socialismo di Bobbio, nella misura in cui ignora il conflitto delle libertà (cioè il conflitto di classe), “si configura come una fuga dal conflitto e, in ultima analisi dalla storia”. 

Del resto, a Losurdo non sfugge che, di fronte alla vittoria occidentale nella guerra fredda, il liberal socialismo si è spogliato dei suoi caratteri progressivi, al punto che l’ultimo Bobbio ha finito per sposare la tesi di un Nolte “secondo cui l’orrore del Novecento prende le mosse dalla rivoluzione d’ottobre, piuttosto che dal colonialismo contro il quale i bolscevichi chiamano alla lotta e che Hitler in particolare intende riprendere radicalizzare e far valere nella stessa Europa” (25). È a partire da questa svolta che diventa evidente come le accuse di autori come Bobbio e Popper, secondo cui l’utopia socialista è destinata a rovesciarsi nell’orrore totalitario, possono essere ritorte contro coloro che le proferiscono: “Né Bobbio né Popper si sono posti il problema se per caso nel loro progetto politico non ci sia un elemento di utopia che potrebbe rovesciarsi nel suo contrario. Soprattutto dopo il trionfo conseguito dall’Occidente nella guerra fredda, si è diffusa massicciamente la teoria secondo la quale il trionfo della pace perpetua presupporrebbe l’espansione della democrazia su scala planetaria. È così che il conseguimento dell’ideale, ovvero dell’utopia della pace perpetua ha provocato in Medio Oriente un susseguirsi di guerre di cui non si intravvede la fine” (26). Detto altrimenti: l’interpretazione messianica del marxismo e l’annuncio di “fine della storia” da parte del liberalismo trionfante sono due escatologie contrapposte “di cui la prima colloca la plenitudo temporum nel futuro e la seconda, in quanto escatologia realizzata, nel presente” (26). Eppure, questa lucida presa d’atto non impedisce a Losurdo si affermare che il fallimento del liberal socialismo “non significa affermare che il movimento comunista non abbia nulla da apprendere dalla tradizione liberale” (28). Concluderò quindi questa prima parte spiegando i motivi per cui sono totalmente in disaccordo con quest’ultima affermazione. 

Contrariamente a Losurdo, sono convinto che Galvano Dalla Volpe avesse ragione nell’identificare nella libertas minor, nella libertà negativa o libertà da, il tratto distintivo del liberalismo, e nell’opporvi la libertas maior, la libertà positiva o libertà di, l’elemento caratterizzante di un movimento politico e sociale orientato alla rivendicazione di diritti collettivi. Questo punto di vista coincide con quello di Marx, il quale, polemizzando con l’anarchismo, metteva in luce come mettere al centro la libertà individuale volesse dire non guardare al di là di una società di imprenditori privati. Mentre è vero che il messianesimo di certe correnti tardo marxiste finisce per convergere con il messianesimo liberal socialista, è altrettanto vero che il superamento del messianesimo da parte dell’ultimo Lenin e del partito comunista cinese non è associato al recupero di principi e valori del liberalismo borghese.

In secondo luogo non credo che i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo possano – né tanto meno debbano -  essere assunti a modello di una sintesi fra progetto comunista e contenuti progressivi del liberal socialismo. Di ciò erano ben consapevoli i compagni cinesi che, non a caso, pubblicarono il noto libello “Sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi”. Ma soprattutto considero un grave errore la tesi secondo cui alla rivoluzione comunista spetterebbe realizzare i principi e i valori della rivoluzione dell’89, traditi dalla borghesia. Lenin non condivise mai l’idea che compito della Rivoluzione d’Ottobre fosse quello di passare attraverso una fase borghese cui sarebbe spettato di realizzare i diritti e le libertà negate dal regime zarista (il che è tanto più significativo ove si tenga conto del ritardo storico della società russa). Né la svolta della Nep può essere considerata un ripensamento, in quanto metteva in gioco esclusivamente alcune regole dell’economia di mercato nella forma del capitalismo di Stato, e sotto stretto controllo del partito, ma non si proponeva minimamente di richiamare in vita quel contesto liberal democratico che, secondo i canoni della filosofia liberale, sarebbe consustanziale all’economia di mercato (il che vale a maggior ragione per le riforme cinesi del 78, che il partito si è sempre rifiutato di associare a un’evoluzione del regime in senso liberal democratico). Quanto a Marx, il suo giudizio sull’ideale di uguaglianza e sui diritti dell’uomo sanciti dalla Rivoluzione Francese è inequivoco: per Marx il diritto borghese, come ricorda Lukács (29), non si situa mai oltre una concezione economica dell’eguaglianza, come emerge limpidamente  dal rapporto di compravendita della forza lavoro: il compratore rivendica il diritto a prolungare la giornata lavorativa, il venditore rivendica il diritto a limitarne la durata: diritto contro diritto entrambi consacrati dalla legge di scambio delle merci, ma fra diritti uguali decide la forza. Quanto ai diritti dell’uomo – oggi arma strategica nella guerra fredda dell’Occidente capitalistico contro i Paesi socialisti – sempre Lukács argomenta che il problema nasce dalla separazione fra il cytoyen e l’homme: i diritti dell’uomo che si presentano nelle costituzioni delle rivoluzioni borghesi sono appunto i diritti del homme, che ne sanciscono la separazione e l’autonomia dalla sfera dello Stato, della società, della politica, offrendo all’uomo la piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico (30). Una “libertà” che Marx liquida così: “Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità” (31). 

3. Non condivido inoltre l’idea che la differenza fondamentale fra principi e valori del comunismo e principi e valori del liberal socialismo, non starebbe tanto nel contenuto (riducibile alla triade libertà, uguaglianza, fraternità?) quanto nel maggior grado di universalismo con cui vengono perseguiti dal primo, mentre il secondo li applicherebbe solo agli strati sociali medio alti delle popolazioni occidentali, escludendone i popoli coloniali ed ex coloniali e, di fatto, i membri delle classi subalterne dello stesso Occidente. Dissento non solo e non tanto perché, come argomentato nei punti precedenti, ritengo che i contenuti dei termini sopra evocati non siano affatto gli stessi per comunisti e liberali, ma anche e soprattutto perché non credo che ai principi e ai valori in questione possa essere attribuito valore universale, trascendendo tanto dal contesto storico-temporale quanto da quello geografico-spaziale. Adottando tale prospettiva universalista, Losurdo appare più vicino a Kant e a Bobbio che a Marx, ma soprattutto assume un punto di vista eurocentrico che lo pone obiettivamente in contraddizione con le sue riflessioni sull’opposizione fra marxismo orientale e marxismo occidentale (32). È proprio questa prospettiva eurocentrica che i comunisti cinesi contestano quando la propaganda occidentale accusa la Cina di non rispettare i diritti “universali” dell’uomo. Non a caso, il Partito comunista cinese, mentre è da qualche anno impegnato a discutere riforme che dovrebbero meglio definire, consolidare e applicare il concetto di stato di diritto in Cina, precisa che tale concetto non sarà in alcun caso una replica di quello occidentale, ma rispecchierà le specificità storiche e culturali della Cina, oltre ai principi e ai valori del marxismo leninismo.  

Infine, dal momento che non credo che il liberalismo possa esistere come un insieme di idee astratte, avulse da un contesto storico specifico, ritengo che non abbia senso distinguere fra un liberal socialismo buono e il liberalismo cattivo dei regimi neoliberisti che governano oggi l’Occidente. Le ideologie non fluttuano nel vuoto, sono sempre “incarnate”, calate in una situazione concreta, storicamente determinata, che le modella secondo le proprie esigenze. Ergo: il liberalismo è quello che abbiamo di fronte, quello che sta distruggendo sistematicamente i rapporti di forza delle classi subalterne e che impugna i suoi “principi” e i suoi “valori” come armi nella guerra contro il socialismo. Da questo mostro, checché ne dica Losurdo, i comunisti non hanno nulla da imparare. Né vale riferirsi alla sua tradizione, perché è esattamente quella tradizione – quella che Andrea Zhok definisce la ragione liberale (33) – che ha partorito il mostro.  


II. Linera. Davvero non esiste una via statale al socialismo? 

In una recente intervista rilasciata alla rivista Jacobin (edizione latinoamericana) l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera affronta, fra gli altri, i seguenti temi: perché il golpe di destra ha avuto successo; perché il governo socialista non è stato in grado di reagire immediatamente, ma è riuscito a tornare al potere in tempi brevi; quali sono le prospettive del nuovo ciclo progressista che sembrerebbe sul punto di nascere in America Latina; se sia  davvero necessario che i governi popolari facciano concessioni alle destre; perché è sbagliata l’idea che si possa cambiare il mondo senza prendere il potere e qual è il ruolo dello Stato nella transizione al socialismo. Anche se il tema più legato agli argomenti affrontati nella prima parte di questo articolo è l’ultimo, anche le risposte che Linera dà agli altri quesiti aiutano a ragionare su una questione cruciale non solo per i popoli latino americani ma anche per noi occidentali: in che misura è concepibile una transizione pacifica al socialismo? Per tale motivo, pur concentrandomi soprattutto sull’ultima questione, riassumerò alcuni passaggi salienti delle precedenti.

Ogni golpe, argomenta Linera, è reso possibile dal fatto che una ristretta élite riesce a condividere il proprio progetto con un più ampio gruppo sociale che “la mantiene, la alimenta, la spalleggia, applaude e apprezza i suoi obiettivi”. Secondo Linera, in Bolivia questo gruppo coincide in larga misura con quella che definisce classe media tradizionale. Nell’intervista non viene ulteriormente spiegato tale concetto, ma possiamo presumere si riferisca a strati professionali come manager di imprese private, burocrati e funzionari pubblici, accademici, giornalisti, ecc. oltre che a percettori di rendite di vario genere. Si tratta di strati razzialmente connotati (bianchi e creoli), inferociti dall’ascesa al potere della maggioranza india (se gli indios hanno vinto, è uno dei leitmotiv, è stato grazie a frodi elettorali), e sempre più determinati a contrastare i progetti di allargamento della democrazia. Questa base sociale ha creato un clima favorevole a un’azione di forza, autoritaria, non solo attraverso i media controllati dalle destre e il loro linguaggio aggressivo, ma facendo circolare i propri discorsi attraverso reti sociali basate su canali privati, informali come club sportivi, associazioni culturali, circoli religiosi, ecc.

L’errore commesso dal governo, che ha consentito al golpe di avere successo, è stato credere che si potesse rispondere sul piano politico, confidando che si ripetesse quanto era successo nel 2008, quando la mobilitazione popolare era riuscita a sventare un analogo tentativo. Ciò che non si è previsto è che il golpe venisse appoggiato dall’esercito. Di fronte all’azione militare, il governo doveva decidere se chiamare il popolo a fronteggiare polizia e militari, ma il presidente Morales, cui spettava la decisione, non si è sentito di rischiare la vita di migliaia di persone e ha preferito dimettersi. Ragionando su questi eventi, Linera fa due considerazioni interessanti. La prima riguarda l’esercito: le forze armate, argomenta, sono espressione dell’autonomia relativa dello Stato, detengono un potere dotato di una sua peculiare dinamica. L’unico modo per controllarlo consiste nel cambiare la composizione di classe dell’esercito: si tratta di modificare i percorsi di carriera per generare uno spirito di corpo più vicino al popolo (Linera non  cita l’esempio del Venezuela, ma il pensiero corre inevitabilmente al sostegno decisivo che la rivoluzione di quel Paese ha ricevuto dai militari). La seconda considerazione è sintetizzabile nella frase “noi siamo forti se controlliamo il territorio”, con ciò Linera si riferisce soprattutto al processo del 2000, caratterizzato dall’emergenza di una sovranità popolare territoriale che ha accerchiato le città. È questa sovranità territoriale che, anche dopo il golpe, è in qualche modo riuscita a creare le condizioni per la vittoria elettorale che ha posto fine al golpe e riportato al governo il MAS (Movimiento al Socialismo). È il caso di notare che la lezione boliviana, ove si considerino fattori come la composizione etnica (caratterizzata dalla schiacciante maggioranza di cittadini di origine india) e di classe (che si sovrappone quasi completamente alla composizione etnica), appare inapplicabile in un contesto europeo (anche se il conflitto fra centri e periferie sta assumendo un peso crescente anche qui). Quanto al discorso sulle forze armate: la professionalizzazione degli eserciti occidentali (in assenza di qualsiasi tentativo delle sinistre di preservarne il carattere popolare), assieme all’ideologia delle sinistre radicali che le concepisce a priori come nemiche, rende difficile mettere in atto una strategia sul tipo di quella enunciata da Linera che, tuttavia, resta l’unica praticabile per limitarne il potenziale repressivo.  

Gli anni che vanno dal 2005 al 2015 hanno visto l’ascesa al potere di diversi governi di sinistra nei Paesi latinoamericani. Questo periodo, inedito soprattutto per la contemporaneità e la quasi ubiquità di tali eventi, è stato definito come il giro a la izquierda (la svolta a sinistra) del subcontinente, dando origine a un ampio dibattito teorico: si trattava di socialismo o semplicemente di postneoliberismo? Definire questi processi come socialismo del secolo XXI era solo uno slogan, oppure il termine aveva qualche fondamento? Non si trattava piuttosto di inedite forme di populismo interpretabili in base alle teorie di Ernesto Laclau? Successivamente abbiamo assistito a una violenta controffensiva delle destre, sostenute più o meno direttamente dall’imperialismo nordamericano, che, tuttavia, si è esaurita in tempi relativamente brevi, al punto che oggi sembra prospettarsi un nuovo ciclo progressista. Interpellato sulla natura e sulla durata di tale ciclo Linera, dopo avere premesso che preferisce parlare di ondata (il termine ciclo gli sembra troppo determinista, nella misura in cui evoca un fenomeno governato da leggi “oggettive”), risponde dicendo che la situazione è oggi radicalmente diversa. La mancata, o comunque debole, risposta delle destre conservatrici alla prima ondata aveva alimentato l’illusione che si fosse di fronte al definitivo tramonto del momento neoliberale, ma in realtà quell’apparente impotenza delle destre era in gran parte dovuto al fatto che furono colte di sorpresa, impreparate a reagire. Di fronte alla sfida postneoliberista si limitarono a rispondere riproponendo il vecchio discorso neoliberista che non era più in grado di ottenere il consenso popolare. Poi c’è stata la grande crisi del 2008, che prosegue oggi aggravata dall’evento pandemico, e che ha messo in difficoltà le sinistre al governo; nel frattempo le destre si sono riorganizzate e hanno lanciato una violenta controffensiva. La nuova ondata progressista nasce dunque in uno scenario profondamente mutato, un contesto globale incerto in cui nessuno dei due schieramenti in campo è in grado di prospettare una credibile immagine di futuro, mentre nelle opinioni pubbliche prevalgono paura e incertezza, per cui conclude prevedendo una sorta di tempo sospeso (34) caratterizzato da un’alternanza di ondate e contro ondate destinata a durare a lungo.

Gli intervistatori gli chiedono se questa situazione obbligherà necessariamente i governi popolari a fare concessioni alle destre. E qui la risposta suona particolarmente interessante, in quanto trascende il contesto latinoamericano perché affronta un tema – la possibilità di avviare la transizione a un regime postcapitalista per via pacifica – che ci tocca da vicino. Linera pone una distinzione fondamentale fra le rivoluzioni nate da una vittoria militare del proletariato e quelle avvenute per via elettorale, rispettando le regole della democrazia formale. Per quest’ultime è chiaro che i nuovi governi dovranno convivere per tutto il tempo della loro durata con le vecchie classi dominanti (per cui sarà inevitabile trattare con esse), in quanto sottoposti a vincoli costituzionali che escludono la possibilità di “dissolvere” una classe sociale, anche se Linera non esclude che, ove il processo prendesse un’altra piega, si possa arrivare a un “momento leninista”. (Per inciso, è opportuno notare che, anche in caso di vittoria militare, è inevitabile che nel successivo processo di transizione si debba comunque tenere conto dell’esistenza di gruppi sociali espressione della realtà sociale prerivoluzionaria: basti pensare al peso tuttora esercitato dalla classe capitalistica in Cina). Per non essere ricattabile da un’opposizione che conserva poteri significativi - non solo economici, ma anche politici, culturali e istituzionali - un governo progressista, argomenta Linera, deve garantire allo Stato la possibilità di controllare settori strategici dell’economia che producano almeno il 30% del Pil, e deve essere in grado di sfruttare una serie di meccanismi quali tasse, politiche fiscali, investimenti, nazionalizzazioni, ecc. Quando diviene possibile andare oltre, passando da questo tipo di economia mista alla transizione al socialismo? Nella risposta di Linera ci sono due nodi teorici altamente problematici: in primo luogo, sostiene che le nazionalizzazioni non risolvono il problema della trasformazione del sistema economico (e sin qui posso essere d’accordo), ma poi aggiunge che non vi è possibilità alcuna di socialismo per via statale, in quanto il monopolio statale sui mezzi di produzione è alternativo al loro controllo diretto da parte dei lavoratori. E qui si ripresenta lo spirito del messianesimo criticato da Losurdo, come appare ancora più chiaramente laddove Linera aggiunge che la possibilità di andare oltre si presenterà solo se e quando la società – non i partiti e i governi – si porrà l’obiettivo di democratizzare la ricchezza. 


Alvaro G. Linera con Evo Morales 



Nella parte conclusiva dell’intervista, a questa visione utopistica – che rilancia implicitamente la profezia dell’estinzione dello Stato - si affianca paradossalmente la critica a quelle sinistre radicali che rifiutano a priori l’obiettivo della conquista del potere, sognando un improbabile avvento del comunismo per vie apolitiche. Linera riprende infatti quanto già affermato in lavori precedenti (35): la demonizzazione del potere politico è frutto dell’incomprensione dei meccanismi che regolano i rapporti di forza fra classi sociali; rispecchia un’idea “strumentale” dello Stato, concepito come struttura priva di qualsiasi autonomia e integralmente asservita agli interessi delle élite dominanti, e non come campo su cui agiscono forze contrastanti in perenne lotta reciproca (se i movimenti operai non avessero compreso  tale realtà, e avessero rinunciato a impegnarsi sul terreno del potere politico per conquistare equilibri sociali più favorevoli alle classi subalterne, non sarebbe stato possibile raggiungere nessuno degli obiettivi ottenuti al prezzo di incredibili sacrifici nel corso di un secolo e mezzo di lotte di classe). Il regime boliviano è una forma di capitalismo di Stato, accusano i critici “di sinistra”. Certo, replica Linera, ed è per questo che deve mediare fra interessi contrastanti (i salari – che pure sono aumentati in modo più che significativo - non possono crescere in misura tale da mettere a rischio la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, e il denaro generato dall’economia privata è un fattore strategico per alimentare la crescita economica del Paese e consentire lo sviluppo dei servizi sociali e del welfare, alimentare un benessere diffuso e conservare il consenso necessario alla prosecuzione del progetto di trasformazione). Ma Linera rivendica queste scelte autodefinendosi “un leninista della Nep”, e citando il famoso articolo “Meglio meno ma meglio” con cui il leader bolscevico giustificava la svolta dei primi anni Venti. 

Come conciliare questa visione con l’affermazione di cui sopra, secondo la quale non si potrà mai raggiungere il socialismo per via statale perché così non c’è un controllo diretto del popolo sulla ricchezza bensì un monopolio (statale ma pur sempre tale), dal quale la gente può sentirsi rappresentata, con il quale può dialogare, ma che non smette perciò di essere un monopolio. Per andare oltre, lo si è visto poco sopra, secondo Linera occorrerà che sia la società, e non lo Stato e il partito, a porsi l’obiettivo di democratizzare la ricchezza. Senonché  è lui stesso a fornire un esempio di quanto tale prospettiva sia parte integrante dei miti messianici criticati da Losurdo. Nell’intervista racconta infatti il caso di una miniera autogestita dai 5000 minatori che vi lavorano: ebbene, quei lavoratori si rifiutano di restituire alla società una quota dei propri guadagni, preferendo tenerseli tutti. Si tratta di un fenomeno analogo a quelli diffusi nella Russia postrivoluzionaria che, secondo Rita di Leo (36), hanno avuto un ruolo determinante nello spingere Lenin a imporre la svolta della Nep, anche in quanto strumento per stroncare i comportamenti corporativi attraverso la disciplina del mercato. 

A commento di questo episodio ripropongo un brano di Losurdo già citato in precedenza: L’entusiasmo più o meno corale nell’edificazione di una nuova società può stimolare la sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo e far dimenticare che lo stesso entusiasmo più o meno corale è un momento fugace nell’ambito di un processo di costruzione dell’ordine nuovo che è prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni”. Una caratteristica fondamentale del discorso messianico - o grande narrativo, come preferisce definirlo Costanzo Preve (37) – è l’ottimismo antropologico. L’uomo è buono – o almeno dotato di una naturale tendenza alla fraternità e alla condivisione – e se diventa egoista e cattivo è solo a causa dell’alienazione generata da un modo di produzione fondato sulla proprietà privata, una volta superato quest’ultimo, potrà esprimere tutte le sue potenzialità positive. Manca qui totalmente la consapevolezza che la natura umana presenta dei tratti aggressivi e competitivi che non spariranno magicamente assieme alla proprietà privata; così come manca la consapevolezza che, esaurito l’entusiasmo iniziale per l’avvento di un ordine nuovo, le persone non avranno particolare desiderio di assumersi l’onere della gestione di un processo prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni. 


Lenin spiega la NEP al popolo



Presumo che Linera trascuri questi elementi perché inserito in un contesto culturale latinoamericano in cui l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo, e più in generale i valori di un illuminismo a forte caratterizzazione umanista (basti pensare a certi discorsi di Che Guevara e ai teologi della liberazione) sono fortemente radicati (non a caso, a un certo punto dell’intervista dice: “ci sarà Stato finché non lo avremo demolito nella nostra psiche”, a conferma di questa visione pedagogico-illuminista del processo rivoluzionario). Concludo su questa questione dicendo che, a mio avviso, mentre le visioni utopistiche del comunismo possono continuare a svolgere il ruolo di miti fondativi, di ideologie positive nel senso gramsciano e lukacsiano, occorre ragionare sulla prospettiva di un “socialismo possibile”, senza sottovalutare il ruolo del capitalismo di Stato come passaggio obbligato verso una società post capitalista, e soprattutto occorre accantonare il mito della estinzione dello Stato, riflettendo piuttosto sul modo in cui uno Stato non più al servizio degli interessi del capitale potrà essere ulteriormente democratizzato (ma non adottando i principi e dei valori della tradizione liberale, come vorrebbe l’ultimo Losurdo!).  

Presumo che il lettore attento abbia capito che ho scelto di far dialogare questi testi di due autori che stimo profondamente perché ritengo che, in un certo senso, si integrino e si correggano a vicenda. Entrambi concorrono a demolire le visioni utopistico messianiche di una sinistra radicale che ha rimosso la questione del potere (e Losurdo può aiutare a correggere certi residui antistatalisti tuttora presenti nel discorso di Linera). Entrambi affrontano il tema cruciale della possibilità di una transizione pacifica al socialismo (e Linera, descrivendo le terribili difficoltà della convivenza fra progetto socialista e forme costituzionali ispirate al liberalismo, può aiutare a dissipare le suggestioni “togliattiane” e “bobbiane” di Losurdo). Restano ovviamente aperti e problematici gli argomenti relativi alla transizione a una società postcapitalista, al tipo di democrazia che essa dovrà costruire, alle mutazioni antropologiche necessarie per far fronte al fatto che “i mutamenti morali sono più lunghi di quelli della trasformazione politica” (38) e ad altri temi che ho solo sfiorato in questo scritto.   

Note

(1) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013. 

(2) D. Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci, Roma 2021.

(3) “Soy un leninista de la NEP” https://jacobinlat.com/2021/10/12/soy-un-leninista-de-la-nep-2 

(4) Cfr. E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990; K. Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994. 

(5) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1986.

(6) Cfr. C. Formenti, Ombre rosse, in via di pubblicazione.

(7) Op. cit., p.   56.

(8) Ibidem, p. 62.

(9) Ibidem, p. 137.

(10) Ibidem, p. 132.

(11) Ibidem, p. 134.

(12) Cfr. Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019. Come osservo in Ombre rosse, cit. questo entusiasmo per l’esperimento sovietico non ha impedito a Bloch di prendere successivamente le distanze dal socialismo reale. 

(13) Losurdo, op. cit., p. 163.

(14) Cfr. la trilogia di Rita di Leo: L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012; Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino 2018. 

(15) Losurdo, op. cit., p. 147.

(16) Ibidem, p.p. 85-86.

(17) Ivi.

(18) https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/09/dalla-nep-di-lenin-alle-riforme-cinesi.html 

(19) Cfr. in particolare, C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.

(20) Losurdo, op. cit., p. 41.

(21) Ibidem, p., 44. 

(22) Ibidem, p. 106.

(23) Ibidem, p. 174.

(24) Ibidem, p. 74.

(25) Ibidem, p., 111.

(26) Ibidem, p. 57.

(27) Ibidem, p. 86.

(28) Ibidem, p. 121.

(29) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. III pp. 212-213.

(30) Ibidem, vol. VI, p. 623.

(31) K. Marx, Critica al Programma di Gotha, in  K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, pp. 961-962.

(32) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017. 

(33) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020. 

(34) Questa profezia è in sintonia con la tesi di W. Streeck che, in Come finirà il capitalismo (Meltemi, Milano 2021), sostiene che il capitalismo è destinato a crollare sotto il peso delle sue contraddizioni interne, ma data l’assenza di un progetto alternativo di società in grado di prenderne il posto, al crollo seguirà una lunga fase di interregno caratterizzata dall’entropia sociale e da processi caotici. Non a caso, di questi tempi si sente citare sempre più spesso il detto di Gramsci che recita “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”. 

(35) Cfr. A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(36) Cfr. R. di Leo, opp. citt. 

(37) Cfr. La filosofia imperfetta, cit.

(38) D. Losurdo, op. cit., p. 62. 




          


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