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domenica 6 marzo 2022

Crisi, pandemia, guerra. Verso la mobilitazione totale


Questo testo è la prima stesura di un paragrafo della Prima Parte di un corposo lavoro (due volumi) a cui sto lavorando (la Prima Parte sulla crisi del neoliberalismo, la Seconda sui socialismi reali di ieri e di oggi, la Terza sulle prospettive del marxismo rivoluzionario in Occidente). La Prima Parte è stata appena completata (sempre in prima stesura) mentre la Seconda e la Terza richiederanno mesi di lavoro, per cui l'uscita del libro è prevista per i primi mesi del 2023. Pubblicare una parte (sia pure limitata) di un libro ancora in gestazione e con tanto anticipo sulla pubblicazione può apparire una scelta bizzarra, ma mi ha indotto a farlo il precipitare di eventi che ci avvicinano pericolosamente allo scoppio di una Terza guerra mondiale. Questo testo è stato scritto in pochi giorni come una sorta di interludio/appendice alla Prima Parte, con lo scopo di mettere alcune riflessioni teoriche a confronto con l'attualità storica. Si presta dunque ad argomentare il mio punto di vista sulla situazione geopolitica molto meglio dei brevi interventi con cui cerco di contrastare le narrazioni del pensiero unico neoliberale sul mio profilo Facebook. Il lettore troverà una serie di rinvii interni ad altre parti del libro, alcune già scritte altre da scrivere, che non ho ritenuto di eliminare, anche perché non credo possano disturbare la fruizione del testo. Diversamente dal solito, non ho corredato il post con immagini: la valanga di immagini smaccatamente propagandistiche cui siamo sottoposti in questi giorni mi dà la nausea, per cui ho evitato di alimentare questo disgustoso tsunami.   






Il 2007 passerà alla storia come il punto di svolta che ha sancito la fine della guerra di classe fondata sulla globalizzazione e la sua prosecuzione sotto forma di mobilitazione totale. Come ricordato poco sopra (riferimento al paragrafo precedente), inizialmente i governi neoliberali hanno reagito alla crisi limitandosi a proseguire sulla via tracciata nei decenni precedenti: avanti tutta con i tagli, le privatizzazioni, le ristrutturazioni tecnologiche, la finanziarizzazione, lo smantellamento della democrazia rappresentativa, ecc. Ma presto è apparso evidente che la misura era colma. La rabbia popolare è esplosa in varie forme in tutto l’Occidente permettendo ai populismi di destra e di sinistra di dilagare: Bernie Sanders e Donald Trump danno l’assalto alle vecchie leadership dei Democratici e dei Repubblicani (Trump ci riesce, arrivando a conquistare la presidenza, mentre Sanders si lascia intrappolare nel ruolo di leader dell’ala sinistra dei Democratici); Jeremy Corbyn, anziano esponente della sinistra laburista, conquista la segreteria del partito già guidato da Tony Blair; a sinistra avanzano Podemos in Spagna, France Insoumise in Francia, gli M5S (che di sinistra non sono ma dalle sinistre ereditano cospicue fette di elettorato) in Italia; a destra avanzano Vox in Spagna, Marine Le Pen in Francia, Salvini e la Meloni in Italia; il referendum inglese sulla Brexit viene vinto dagli antieuropeisti mentre in quello sulle riforme costituzionali proposto da Renzi trionfano i no; la sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del 2020 non viene riconosciuta da metà della popolazione e una folla inferocita dà l’assalto a Capitol Hill. 


A questi allarmanti segnali di perdita di consenso si somma la lentezza con cui l’economia si riprende dalla crisi. Ma soprattutto si somma l’inasprimento del conflitto con la Cina, la cui apertura nei confronti del mercato globale, contrariamente alle aspettative occidentali, non solo non ha provocato la caduta del socialismo e la transizione a un’economia capitalistica, ma ha favorito un formidabile incremento di potenza economica, politica, tecnologica, scientifica e militare, oltre alla capacità di proiettare tale potenza in Africa, Asia e America Latina, minacciando l’egemonia occidentale in queste aree. Il tutto sotto il controllo di uno stato/partito che continua a rivendicare la propria adesione all’ideologia marxista-leninista. Come se non bastasse, nel 2019 esplode l’epidemia del Covid che falcia milioni di vittime in tutto il mondo e, costringendo i governi a contenerne la diffusione ricorrendo a drastici provvedimenti che provocano danni alla produzione e al commercio, ricaccia indietro una timida ripresa che non aveva completamente assorbito la crisi del decennio precedente. A questo punto l’Occidente cambia seccamente strategia. Usa e Ue contrattaccano su quattro fronti: massiccio rilancio della spesa e degli investimenti pubblici, stop alla globalizzazione,  guerra al populismo, rinsaldamento del blocco atlantico e guerra fredda contro Cina e Russia. L’obiettivo è spegnere le tensioni sociali attenuando le pressioni su salari, occupazione e welfare, riducendo il consenso politico nei confronti dei movimenti populisti ed evocando un nemico esterno contro cui convogliare la rabbia e la frustrazione popolari. 


La parola d’ordine America First lanciata da Trump contempla, fra i vari aspetti, il tentativo di incentivare il rientro negli Stati Uniti di parte degli investimenti esteri delle multinazionali (e dei relativi posti di lavoro), tentativo che viene proseguito dal successore democratico, che ne accentua il significato di “disaccoppiamento” dall’economia cinese (1).  Si assiste così a una paradossale inversione di ruoli: da un lato Xi Jinping celebra dalla tribuna di Davos le virtù di un mercato mondiale aperto, mentre l’ambiziosissimo progetto della Nuova Via della Seta e i massicci investimenti cinesi in Africa e in America Latina prospettano una globalizzazione alternativa (2); dall’altro lato, negli Stati Uniti e in Europa cresce l’irritazione per la capacità di cinese di rovesciare a proprio favore – con una sorta di mossa di Judo – una mondializzazione economica che nei piani occidentali avrebbe dovuto favorire, dopo il crollo dell’Urss, la colonizzazione capitalistica del mondo intero (Cina compresa). Nasce così un duplice sforzo teso, da un lato, a mettere in atto un processo di disentanglement fra le aree di influenza occidentale e cinese, dall’altro lato, a scatenare una feroce competizione (con ogni mezzo, incluse operazioni di regime change e guerre locali) laddove le rispettive influenze interferiscono e si sovrappongono. La guerra fra Russia e Ucraina, in atto mentre scrivo, segna una formidabile accelerazione del processo: le sanzioni contro la Russia sono destinate  a provocare una segmentazione dei mercati finanziari a livello mondiale e una probabile accelerazione del progetto cinese di costruire circuiti alternativi al dollaro, basati sul renminbi. 


La frammentazione dello scenario geopolitico procede di pari passo con la segmentazione dei mercati. La strategia americana per fronteggiare la perdita di egemonia mondiale appare sempre più orientata a scatenare una guerra preventiva contro la Cina in quanto possibile alternativa egemonica (3). Sotto la presidenza Trump l’atteggiamento americano era orientato ad alzare il livello di scontro con la Cina (restando tuttavia sul piano di una guerra fredda giocata a colpi di sanzioni economiche – vedi la messa al bando del colosso high tech Huawei -, e di campagne propagandistiche per alimentare l’isteria anticinese) e a rompere il fronte fra Cina e Russia, ammorbidendo le tensioni accumulatesi nei confronti di quest’ultima. Con Biden lo scenario muta radicalmente: ferma restando la strategia di accerchiamento nei confronti della Cina sul piano economico, politico e militare, viene impressa una poderosa accelerazione dell’avanzata NATO nei territori dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica, alimentando la tensione in Ucraina fino a provocare l’inevitabile intervento russo. Il progetto è provocare la caduta di Putin e instaurare a Mosca un regime “amico” qual era quello di Eltsin, completando la integrazione/colonizzazione dell’Est Europa da parte del blocco occidentale. Un piano azzardato, nella misura in cui rischia, da un lato, di innescare una spirale fuori controllo che provocherebbe la Terza guerra mondiale (di fatto già in atto, ancorché contenuta in un ambito regionale), dall’altro, se la situazione interna della Russia reggesse, di saldare l’alleanza russo-cinese tanto sul piano economico quanto su quello politico-militare (4), dando vita a un poderoso blocco eurasiatico.


La Ue si è lasciata coinvolgere in questo progetto perdendo qualsiasi residua parvenza di autonomia nei confronti degli Usa. Così è partita una campagna mediatica che alimenta un’isteria russofoba di intensità senza precedenti (non priva di accenti al limite del grottesco ed esplicite venature razziste), una mobilitazione bellicista dell’opinione pubblica che ha fatto piazza pulita di decenni di retorica sul ruolo dell’Unione quale garante di pace, mentre si è presa la decisione di alimentare la guerra (5) inviando armi letali in Ucraina, e si sono adottate contro la Russia sanzioni che minacciano di provocare effetti devastanti sull’economia di molti Paesi membri (a partire dall’Italia). Questa svolta bellicista non si spiega con una sorta di impazzimento collettivo delle élite europee. Il punto è che l’uscita dell’Inghilterra dalla Ue, il perdurare della crisi finanziaria riacutizzata dalla pandemia, i conflitti fra Paesi membri del Nord, del Sud e dell’Est stavano trascinando il progetto europeo verso un punto di implosione. La crisi russo-ucraina rappresenta un’opportunità per cambiare rotta: l’Unione – o meglio la Germania, che esercita al suo interno un’indiscutibile egemonia – sposta l’asse del processo di unificazione dall’economia alla politica, a partire dall’unificazione sul piano militare, e fungendo da braccio armato degli Stati Uniti sul Vecchio Continente, spera cerca di ottenere un sostanzioso bottino di guerra nel caso che il progetto di far crollare il regime russo vada in porto. Anche qui il rischio, nel caso la manovra fallisca, è enorme: in tal caso, i contraccolpi delle sanzioni  sarebbero infatti tremendi, e potrebbero riattivare un conflitto sociale che la mobilitazione totale contro la pandemia e contro il “nemico”, per il momento, sembra in grado di neutralizzare. 


Prima di analizzare come è stata gestita questa doppia mobilitazione, vediamo come si è provveduto a sventare la doppia minaccia del tracollo finanziario e dell’ondata populista/sovranista. La strategia di disentanglement economico e la frammentazione del mondo in aree di influenza politico militare in conflitto reciproco sopra descritto delinea uno scenario geopolitico che somiglia a quello dell’epoca delle due guerre mondiali, dall’inizio del 900 al 1945. La storia non si ripete, ma certe configurazioni possono ripresentarsi ciclicamente, a conferma di quanto sostenevo nel Primo Capitolo in merito alla cecità di un paradigma “progressista” che descrive la storia come un processo lineare e irreversibile verso livelli sempre più elevati di benessere e civiltà. La storia è irreversibile, ma non procede in base a una necessità immanente che ne determini la direzione (6). Analoghe considerazioni possono essere fatte in merito alle tesi di quei globalisti “di sinistra” che liquidavano come demenziali le rivendicazioni “sovraniste” considerandole reazionarie per definizione (perché contrarie a una “direzione” del processo storico che, come appena visto, si è rivelata 

immaginaria), ma anche perché, si diceva, lo stato nazione era “superato”, per cui l’idea di affidargli il compito di promuovere una svolta neo keynesiana era illusoria. Dopodiché la svolta neo keynesiana è puntualmente arrivata. Ovviamente non nel senso di un ritorno al compromesso capitale lavoro del trentennio dorato, ma sotto forma di colossali piani di investimento strutturale, di keynesismo di guerra (con il sistema militare-industriale sempre più fiorente grazie alla guerra fredda e meno fredda), di riconversione produttiva all’insegna del digitale e della green economy, ecc. Il tutto nel segno del “ritorno dello Stato” (7). 


La controffensiva delle élite neoliberali è stata tuttavia ancora più efficace sul piano politico, riuscendo a sbaragliare la minaccia populista nel giro di pochissimi anni. La minaccia in questione era inoffensiva se riferita ai populismi di destra (il caso Trump merita un discorso a parte che affronterò più avanti). In Spagna, Francia e Italia  si trattava infatti di partiti e movimenti allineati con i principi, i valori e gli obiettivi politici neoliberali, che cercavano semplicemente di ottenere più attenzione agli interessi del capitalismo delle piccole-medie imprese e di certi settori di classe media (commercianti, professionisti, ecc.) agitando un sovranismo “di facciata” (fondato soprattutto sul rigetto popolare nei confronti del fenomeno migratorio) ben consapevoli che la loro stessa base elettorale non è a favore dell’uscita dall’Europa. Quanto ai populismi di sinistra me ne occuperò estesamente nella Terza Parte; qui mi limito ad affermare che la loro debolezza ideologica, organizzativa e programmatica è apparsa da subito evidente. Hanno ottenuto effimeri successi elettorali puntando tutto sulla comunicazione (mitizzando il potere di mobilitazione dei nuovi media)  e sulla scelta di leader carismatici, conducendo campagne rivolte a canalizzare la rabbia delle classi proletarie e delle classi medie impoverite su falsi obiettivi (punire la disonestà e la corruzione della casta politica, promuovere il “merito” in ogni ambito professionale, istituzionale e politico, andare al governo il più presto possibile senza avere idee in merito a cosa farsene). Si sono lasciati ingabbiare in alleanze “antifasciste” con i partiti  neoliberali, scambiando i populismi di destra per novelli Hitler e Mussolini. Scendendo nello specifico dei singoli Paesi: Corbyn e Sanders hanno pagato il fatto di essere rimasti incistati, rispettivamente, nel Partito Democratico e nel Labour, finendo stritolati da quelle poderose macchine da guerra; Podemos non è riuscita a radicarsi nei luoghi di lavoro e nei territori, scommettendo esclusivamente su campagne di opinione pubblica, finché dopo avere toccato un picco di consensi elettorali, non appena è iniziata una inversione di tendenza, è finita soffocata dall’abbraccio dei socialisti in una coalizione di governo che la confina in un ruolo subalterno; l’M5S ha commesso tanti e tali errori e effettuato tali e tante giravolte in un brevissimo arco di tempo (dall’alleanza con la Lega a quella con il PD) da autocondannarsi all’estinzione. 


Più complesso, come accennato poco sopra, il discorso su Donald Trump (8). A prescindere dalla peculiarità del personaggio e dal modo in cui è inopinatamente riuscito ad assumere il controllo della macchina elettorale repubblicana, aspetti che meriterebbero un ragionamento ad hoc, la sua presidenza ha rappresentato un vero e proprio caso di rivoluzione passiva in senso gramsciano, fondata sulla saldatura di un blocco sociale alto-basso: in alto, i settori di borghesia americana (carbone, petrolio, siderurgia, ecc.) più esposti agli effetti della “distruzione creatrice” associata alla crescente potenza del settore high tech (digitale, biotech, ecc.) e all’incombente svolta “green”;  in basso, il proletariato immiserito della rust belt, le aree centrali massacrate dal decentramento produttivo nei Paesi in via di sviluppo (di qui la ricettività nei confronti della propaganda anticinese e anti migrazione, due “nemici” identificati come le cause della disoccupazione e della perdita di reddito). Si aggiunga l’odio nei confronti delle classi medie ”riflessive” dei grandi centri urbani, base elettorale della sinistra Dem, ma soprattutto soggetti concentrati esclusivamente sui temi dei diritti civili e individuali e insensibili agli interessi degli strati inferiori della classe lavoratrice. L’intensità di tale odio si è misurata in occasione dell’assalto a Capitol Hill un vero e proprio episodio di guerra civile che ci fa capire come la partita sia ancora aperta.  Partita che in Europa appare per il momento chiusa, vista l’adesione unanime dei populismi alla mobilitazione totale, contro il Covid prima e contro la Russia poi, messa in atto dalle élite neoliberali. 


Il Covid 19 non è un “cigno nero”. Gli episodi di zoonosi (trasmissione di agenti patogeni dagli animali all’uomo) non sono una novità e sono stati sempre più frequenti negli ultimi decenni.  Il biologo statunitense Rob Wallace è autore di un libro (9) in cui analizza il fenomeno come effetto collaterale della rapacità delle industrie agroalimentari e dei processi di deforestazione: da un lato la creazione di enormi allevamenti dove si concentrano le occasioni di contagio, dall’altro la penetrazione sempre più profonda in territori selvaggi fino a non molto tempo fa incontaminati, che mette la specie umana a contatto con virus e batteri nei confronti dei quali non dispone di difese immunitarie, hanno creato le condizioni ideali allo scatenamento di questi eventi pandemici. Per distogliere l’attenzione dalle cause reali del fenomeno, e per alzare il tiro nella guerra fredda contro la Cina, l’amministrazione Trump ha accusato Pechino di aver lasciato sfuggire il virus da un laboratorio di guerra biologica sito in Wuhan (la città dove erano in corso dei giochi militari al momento dell’esplosione della pandemia). Una ricerca dell’OMS (grottescamente accusata dagli Usa di essere “al servizio di Pechino”) ha tassativamente smentito questa versione, così come ha messo in dubbio la possibilità che il virus sia di origine artificiale. Anche se, sulla base del fatto che casi di “polmonite atipica” erano stati registrati negli Stati Uniti mesi precedenti alla presunta data di inizio del contagio , c’è chi ipotizza che, se mai il virus è realmente  sfuggito a qualche laboratorio di guerra biologica, il maggior indiziato è un sito della Virginia (10).  


Tornerò su questi temi in  una Appendice a fine libro specificamente dedicata alla crisi pandemica. Qui mi limito a ragionare brevemente sul modo in cui l’Occidente ha gestito tale crisi. In una situazione resa drammatica da decenni di privatizzazioni e tagli alla spesa sanitaria, i sistemi sanitari dei Paesi a regime neoliberale sono apparsi in gravissima difficoltà, nella misura in cui, più ancora del contagio in sé e della rapidità con cui si diffondeva, il rischio era il tracollo del sistema ospedaliero, incapace di gestire l’altissimo numero di ricoveri (in particolare nei reparti di rianimazione). In questo scenario, la prima preoccupazione non è stata proteggere la salute dei cittadini, bensì impedire il blocco della macchina produttiva, della logistica e di tutte istituzioni pubbliche che garantiscono il normale funzionamento dell’economia. Perciò, invece di assumere le misure drastiche che hanno consentito allo Stato cinese di controllare l’epidemia in tempi ridottissimi – additate come esempi di pratiche “illiberali” e lesive dei diritti individuali (11) -, si è provveduto ad applicare una strategia dello stop and go, alternando momenti di rigore a momenti di lassismo, il che ha dilatato enormemente la durata dell’emergenza. Ma soprattutto, dopo la scoperta di una serie di vaccini relativamente efficaci (12) l’intero sforzo di contrasto al virus è stato concentrato su tale strumento, attivando un poderoso sforzo di mobilitazione totale della popolazione attraverso media, partiti, istituzioni pubbliche allo scopo di convincere anche i più riottosi a vaccinarsi. In assenza di un’opposizione politica degna del nome (13), in grado di denunciare le cause reali della pandemia, l’impotenza di un sistema sanitario indebolito dalle politiche neoliberali, i colossali interessi economici in gioco e, last but not least , l’uso politico dell’emergenza sanitaria per ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, il regime neoliberale è riuscito a utilizzare strumenti come il green pass per disciplinare la popolazione e garantire la normale funzionalità del sistema economico (business as usual). Ora che i ritmi di diffusione del virus sembrano calare, la propaganda di regime è passata dal terrorismo alla minimizzazione del rischio (tutti al lavoro, la ricreazione è finita). Ma la mobilitazione totale e lo stato di emergenza proseguono, spostando l’asse dalla guerra al virus alla guerra fredda che, dopo lo scoppio del conflitto fra Russia e Ucraina, rischia di divenire una Terza guerra mondiale combattuta sul territorio europeo. Sulle cause di quanto sta avvenendo ho già ragionato nel Terzo Capitolo. Per arricchire l’analisi cito quasi integralmente il testo di un articolo di Manolo Monereo apparso sulla rivista Cumpanis (14) :


Da anni la Russia andava avvertendo che la sua sicurezza come nazione e Stato è a rischio (…). Non c’è dubbio che gli Stati Uniti e la NATO hanno voluto questa guerra. Gli ultimi mesi hanno significato per la leadership russa che i suoi interessi strategici non sarebbero stati presi in considerazione e che l’accerchiamento e le intimidazioni sarebbero continuati (...). Quando arrivano tempi come questi, bisogna prestare molta attenzione a quello che dicono i militari. Il capo della marina tedesca, il vice ammiraglio Kay-Achim Schönbach, ha fatto una dichiarazione che gli è costata il posto di lavoro (…): ciò di cui la Russia ha bisogno è il rispetto in senso lato, il riconoscimento dei suoi interessi strategici e di sicurezza (…) La percezione del Cremlino è che l’Occidente non la riconosca come uno Stato, una civiltà o una potenza politica e militare (…). Per anni la Russia è stata demonizzata e Putin criminalizzato. La ragione è che si è posta fine all’era Eltsin e le strutture statali e istituzionali della Federazione Russa sono state ricostruite, è stata ricostruita l’economia e l’apparato militare, tecnologico e di sicurezza è stato rafforzato. Qual è l’obiettivo politico della strategia militare della NATO e di Biden? Lo stesso obiettivo che con la Cina, vale a dire quello di annientare l’attuale gruppo dirigente e metterne in piedi un altro più favorevole agli interessi egemonici degli Stati Uniti. Qual è il segno dei tempi, la tendenza di fondo? La transizione verso un mondo multipolare che mette in discussione l’egemonia degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei organizzati nella NATO. In altre parole, stiamo vivendo la ribellione dell’Est (…). Vengono disegnati due scenari decisionali operativi o geopolitici. Il principale è nel Mar Cinese. L’altro è in Europa e quelli al potere hanno deciso che deve essere risolto in Ucraina. Essere ingenui nei confronti degli Stati Uniti è inaccettabile, e significa chiudere gli occhi di fronte alla storia recente dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria…Dal punto di vista politico-militare, l’unico impero esistente è quello degli Stati Uniti con più di 700 basi militari in 80 paesi e che spendono, insieme alla NATO, il 60% della spesa militare mondiale. Di fronte a questo, la Russia è poca cosa, ma non è disposta ad essere un alleato subordinato di una superpotenza che lotta disperatamente per la propria egemonia. Per anni ho sottolineato che il mondo come lo abbiamo conosciuto sta cambiando radicalmente e che al suo centro c’è il relativo declino degli Stati Uniti. La mia paura era che quella che è conosciuta come la “trappola di Tucidide” sarebbe arrivata e sarebbe arrivata presto. Come è noto, questa espressione si riferisce ai conflitti e alle guerre che vanno di pari passo con il declino delle potenze egemoniche e la loro sostituzione con quelle emergenti. Questo è il punto in cui siamo ora (…). La guerra ritorna in Europa e ritorna la prodigiosa capacità degli Stati Uniti di creare conflitti militari lontano dai suoi confini. Infine, una riflessione. Gli Stati Uniti rimangono una superpotenza di gran lunga la più forte a livello economico, politico e politico-militare. Quello che stiamo vedendo sono manovre in una strategia globale preventiva con la Cina come obiettivo finale. Questo conflitto emergente è solo l’inizio

Concludo ribandendo alcuni punti cruciali. Lo schieramento della Ue al fianco dell’Ucraina, sostenuta con massicci aiuti economici e  militari, è il segnale di una svolta che sposta l’asse del processo di costruzione dell’Unione dal piano economico al piano politico-militare. Già coinvolta nella macelleria jugoslava, l’Europa si mette al servizio del progetto Usa-NATO, che mira a far esplodere la Federazione Russa in una miriade di staterelli colonizzabili dal capitale occidentale. La Germania, che pure non aveva interesse a scatenare questa guerra, dalla quale rischia di subire seri contraccolpi, ha riscoperto la sua tradizione militarista mettendosi alla testa della mobilitazione bellicista. Per gli Stati Uniti, l’Ucraina ha un interesse strategico marginale (il vero nemico è la Cina) ma l’occasione di indurre l’Europa a trazione tedesca a combattere una guerra per procura contro il nemico secondario andava  sfruttata, perché in questo modo l’America ottiene il duplice risultato di indebolire sia il massimo alleato del nemico principale che gli “amici” europei, i quali, comunque vada, dovranno pagare un conto salato. Ciò vale soprattutto per l’Italia, dove il proconsole imperiale Draghi è disinvoltamente passato (con l’appoggio dell’intero arco dalle forze parlamentari) dallo stato di emergenza pandemico allo stato di emergenza bellico. La mobilitazione totale in vista della Terza guerra mondiale – di fatto già iniziata – è partita, e una Italietta disposta a rinnegare l’articolo della Costituzione che sancisce solennemente il ripudio della guerra, rischia di pagare un prezzo ancora più devastante di quello che il Fascismo le impose ottant’anni fa, facendola scendere in campo al fianco del Terzo Reich.


Note

(1) L’intreccio fra le due economie è durato a lungo ed ha avuto un notevole impatto in entrambi i Paesi: gli investimenti americani in Cina sono stati numerosi e consistenti, la Cina ha finanziato il debito americano con massicci acquisti di titoli di stato, infine l’afflusso di prodotti cinesi a basso costo ha consentito ai padroni americani di abbassare gli oneri di riproduzione della loro forza lavoro (alimentando quella che è stata definita Wal Mart Economy, dal nome della catena discount americana che vendeva i prodotti in questione).  Tuttavia gli Stati Uniti non avevano previsto che la Cina avrebbe sfruttato l’interscambio (non solo con gli Usa e altri Paesi occidentali ma anche con Taiwan, Il Giappone e la Corea del Sud) per acquisire know how che hanno dato un formidabile impulso allo suo sviluppo, consentendo alla “fabbrica del mondo” di diventare in tempi brevissimi un agguerrito competitore degli occidentali sul mercato globale. 


(2) Nella Seconda Parte analizzeremo la logica profondamente diversa della strategia cinese rispetto a quella della globalizzazione euroamericana:  investimenti infrastrutturali che favoriscono lo sviluppo delle economie locali (invece di “aiuti” finanziari che strangolano chi li riceve), nessuna interferenza nei confronti degli affari interni dei Paesi beneficiari (invece di condizioni capestro che reclamano riforme antipopolari o sostegno a fazioni interne che promettono cambiamenti di regime favorevoli agli interessi occidentali), prestiti  a tassi agevolati e a lunga scadenza (invece della “trappola del debito” gestita da FMI e Banca mondiale).   


(3) In realtà, come vedremo nella Seconda Parte, la strategia cinese non è finalizzata a “rimpiazzare” gli Usa nel ruolo di dominus mondiale, ma piuttosto a sostituire al mondo monopolare nato dal crollo dell’Urss un mondo multipolare basato sul reciproco rispetto e riconoscimento.   


(4)  Viene rilanciata la politica obamiana del Pivot to Asia, si arruolano Australia, Giappone, Corea e altri Paesi dell’area nel tentativo di costruire di una barriera di contenimento della potenza cinese nel Mar Giallo, si minaccia l’intervento americano in caso di guerra con Taiwan, si foraggia l’opposizione a Hong Kong e si orchestrano continue campagne propagandistiche contro presunti “genocidi” a danno delle popolazioni del Tibet e del Xinjiang.   


(5) Significativa la decisione del governo rosa-verde- giallo tedesco di aumentare fino al 2% e oltre il bilancio della Difesa, il che risponde a una richiesta che gli Stati Uniti avanzavano da tempo, chiedendo all’Europa di assumere in prima persona il costo economico della propria sicurezza.   


(6) Wolfgang Streeck (cfr. Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano 2021) sostiene per esempio che il crollo del capitalismo è inevitabile, ma non comporta minimamente la transizione a qualcosa di “meglio”, a una civiltà più avanzata e progredita perché, data l’attuale assoluta assenza di alternative (su questo personalmente non concordo), la crisi sfocerà assai probabilmente nella catastrofe e nel caos. 


(7) Cfr. T. Fazi, W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano 2018.


(8) Cfr. A. Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis, Milano-Udine 2016; vedi anche, dello stesso autore, La rivolta degli elettori, Mimesis, Milano-Udine 2017.


(9) Cfr. Big Farms Make Big Flu, 2016.


(10)  Cfr. D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli (a cura di), Il Covid è nato negli Usa? La Città del Sole, 2021. Nella mia Postfazione al volume scrivevo: “Il piatto forte della guerra fredda, tuttavia, continua a essere l’accusa (smentita dall’OMS oltre che da numerosi scienziati occidentali) secondo cui l’epidemia del Covid 19 sarebbe stata provocata da un virus sfuggito da un centro di ricerca di Wuhan. L’attendibilità di questa accusa è la stessa (cioè pari zero) del famoso “incidente” del Golfo del Tonchino, che diede avvio ai bombardamenti su Hanoi, e della “pistola fumante” che Colin Powell sventolò sotto il naso dei delegati Onu per giustificare la seconda guerra irachena. Posto che le autorità provinciali cinesi hanno commesso – come riconosciuto dallo stesso governo centrale – un errore di sottovalutazione iniziale del problema, il vero motivo per cui si è messa in piedi questa campagna di disinformazione, è la necessità di distogliere l’attenzione dalla disastrosa gestione occidentale (a partire dagli Stati Uniti) della pandemia, costata milioni di morti a causa dei tagli alla sanità pubblica e dei processi di privatizzazione, laddove la Cina ha compiuto il miracolo di controllare in tempi rapidissimi una emergenza che poteva rivelarsi disastrosa in un Paese con un miliardo e mezzo di abitanti. Ma soprattutto occorre distogliere l’attenzione dagli indizi che provano come il virus circolasse in Spagna, Italia, Francia e Usa mesi prima della sua identificazione a Wuhan, mentre non mancano fondati sospetti che a innescarlo possa essere stato un errore commesso in un centro di ricerca militare situato in Virginia, come viene denunciato nel libro che avere appena letto, per cui il sito di Cumpanis ha lanciato  la petizione all’OMS - alla quale anche chi scrive ha aderito - perché si indaghi sul sito di Fort Detrick.”


(11) La differenza di atteggiamento fra il cittadino cinese, che tollera anche limitazioni drastiche alla propria libertà individuale in situazioni di emergenza, e quello dei cittadini dei Paesi occidentali, assai meno disponibili ad accettare analoghe misure, sta tutta nel diverso grado di fiducia nel fatto che lo Stato agisca nell’interesse generale della comunità: altissimo nel caso dei primi scarso nel caso dei secondi.  

 

(12) Anche in questo caso la competizione in campo scientifico si è immediatamente tradotta in competizione economica e geopolitica: i vaccini russi, cinesi e cubani sono stati scartati come meno efficaci e, di fatto, si è impedito venissero utilizzati nei Paesi occidentali, un mercato rigorosamente “riservato” ai prodotti made in Usa delle multinazionali del Big Pharma, le quali hanno così potuto realizzare favolosi profitti. Per inciso, anche gli aiuti gratuiti offerti da Paesi non occidentali nella prima fase della pandemia, sono stati rapidamente rimossi dai media, per impedire che lasciassero tracce nella memoria collettiva. Per tacere del rifiuto di rendere disponibili i brevetti ai Paesi del Terzo Mondo che, in questo modo, hanno funzionato da incubatore di nuove varianti del virus.


(13)  I movimenti spontanei sorti per contestare l’imposizione del regime vaccinale sono stati purtroppo caratterizzati, ad eccezione di esigue minoranze in grado di distinguere fra uso discriminatorio di strumenti burocratici come il green pass, pericolosità reale del virus e validità scientifica dei vaccini (a prescindere dagli interessi dei produttori), da derive complottiste, antiscientifiche e anarcoidi che ne hanno favorito l’isolamento e la messa in ridicolo.    

 

(14) https://www.cumpanis.net/manolo-monereo/?fbclid=IwAR3ha9pTaDtinn5kROZungEl3XNk81ht64AfQAwGOuxsbKbw9dw1yOfZdG8 


giovedì 3 marzo 2022

2013: I NAZISTI AL POTERE IN UCRAINA


[Testo tratto da A. Pascale, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 109-114.






Per quanto riguarda il caso ucraino tutto ha inizio sul finire del 2013. Il presidente ucraino Yanukovich e il suo governo si trovano ad un bivio, dovendo sostanzialmente scegliere la direzione strategica da far prendere al proprio Paese: da una parte l’integrazione con l’Unione Europea, dall’altra la collaborazione storica con la Russia. Tra il 30 novembre e il 17 dicembre Yanukovich rifiuta la proposta europea, impostata sostanzialmente sulle ricette tipicamente liberiste, e accoglie invece l’accordo con Putin, più vantaggioso economicamente (1). Apriti cielo. Yanukovich viene dipinto immediatamente come un dittatore che si oppone ai diritti, alla libertà e alla democrazia garantiti dall’Unione Europea. Yanukovich sicuramente non è Lenin né un santo, ma è quantomeno difficile definirlo dittatore, in quanto regolarmente eletto nelle elezioni del 2010, riconosciute dall’OCSE come «elezioni trasparenti» (2). Godendo di una maggioranza strutturata in particolare sul consenso delle regioni orientali (quelle più “russofone”) governa un Paese cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra UE e Russia, sfruttando pragmaticamente la rivalità crescente tra le due aree geopolitiche per trarne il massimo vantaggio economico; è ben consapevole, inoltre, della difficoltà di poter orientare nettamente in una precisa direzione strategica un Paese spaccato in due non solo politicamente ma anche culturalmente (ad ovest gli ucraini simpatizzanti della Tymoshenko, ad est le componenti russe e/o filorusse). La decisione di rimanere sotto l’alveo di Mosca porta all’esplosione di alcune manifestazioni di protesta (ribattezzate Euromaidan) che i nostri media hanno subito presentato come non-violente, popolari, di massa e diffuse in tutta Ucraina. Mobilitazioni che sarebbero state ingiustificatamente represse con la forza e con l’utilizzo dei cecchini... In realtà tali manifestazioni degenerano spesso e volentieri nella truce violenza (3), il che comporta inevitabilmente una reazione delle forze dell’ordine. In esse emerge con forza il ruolo giocato dai nazifascisti (in particolar modo dai partiti Svoboda e Pravy Sector, descritti come i corrispondenti ideologici degli italiani Forza Nuova e CasaPound), che caratterizzano i movimenti in chiave esplicitamente anticomunista, contro il ruolo di pacificazione giocato dal Partito Comunista Ucraino. Le proteste inoltre sono localizzate principalmente nell’ovest del Paese, ossia nella zona ucraina più filo-occidentale che aveva dato la maggioranza relativa alla Tymoshenko. Per quanto riguarda i cecchini è altamente probabile che fossero in realtà paramilitari di Euromaidan. Tale sconcertante verità emerge infatti dall’intercettazione di un dialogo tra Catherine Ashton, Alto Rappresentante per la Politica Estera e Difesa dell’UE, e Urmas Paet, ministro degli esteri dell’Estonia (4). Fu insomma architettata una strategia della tensione per far ricadere le colpe sul governo e screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica e del mondo intero. Un inganno che sul momento è servito a simpatizzare per la causa degli “oppressi” ma che ha avuto il prezzo carissimo di 94 morti e oltre 900 feriti. 


La strategia funziona perfettamente, tanto che i media possono alfine esultare per la cacciata del «dittatore» e per «l’avvento della democrazia», omettendo però di ricordare che in questo clima di tensione, la fuga di Yanukovich (avvenuta il 22 febbraio 2014) avviene senza aver dato dimissioni formali, tanto da rendere problematico definire il cambio di governo successivo come legittimo. In questi casi c’è chi parla di rivoluzione e chi di golpe. Difficile però parlare di rivoluzione per un governo che vede tra i suoi membri oligarchi e nazifascisti, favorendo una repressione di massa dei comunisti (fino alla loro completa messa fuorilegge) (5) e degli ebrei (6) mentre si discute di togliere diritti e autonomie alle regioni in cui la maggioranza demografica è composta dalle popolazioni russe. Proprio queste regioni sono quelle che decidono di opporsi più duramente al nuovo regime, avviando inizialmente pratiche pacifiche ed istituzionali. È il caso del referendum secessionista della Crimea, svoltosi il 16 marzo 2014 e giudicato subito come illegittimo, anzi come una manovra imperialista di Putin, condannato come aggressore, terrorista e dittatore che bisogna punire al più presto con sanzioni severe. C’è da chiedersi come un giorno si possa parlare di rivoluzione e il giorno dopo condannare come antidemocratico un referendum che ha visto un’affluenza del 90% della popolazione e che ha dato come responso un 96% favorevole al ritorno della regione alla Russia. Si parla di ritorno perché la Crimea è storicamente una regione russa, donata da Chruščëv alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954. Non c’è dubbio, però, che a pesare nella scelta del popolo di Crimea siano state anche considerazioni materiali e ideali: promesse di miglioramenti dei salari e delle pensioni, di introduzione del TFR e di garanzia della tutela della regione come Stato laico, multietnico, multireligioso e antifascista. Tutto il contrario insomma di quel che offre il governo degli oligarchi ucraini. Stimolati dall’esempio della Crimea, presto si ribellano anche le regioni del Donbass, segnando la nascita delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk (successivamente riunitesi nell'Unione delle Repubbliche Popolari di Novorossija) (7) sostenute da un moto di resistenza popolare in cui i comunisti sono in prima linea (tra loro anche il comandante Mozgovoj, che verrà ucciso il 23 maggio 2015), riuscendo a far approvare anche importanti richiami filosovietici nelle Costituzioni provvisorie che vengono adottate. In questo contesto è innegabile che Putin abbia manovrato diplomaticamente e militarmente per favorire e fomentare tali rivolte. È normale, d’altronde, che non potesse accettare passivamente un colpo di Stato teso ad introdurre a pochi chilometri da Mosca un governo comprendente membri nazisti e totalmente asservito all’UE e alla NATO. Chomsky ha spiegato perfettamente il concetto: è come se il Patto di Varsavia fosse stato allargato al Sud America e fosse oggi in trattativa con Messico e Canada. Come reagirebbero gli USA (8)?


Ne consegue una guerra cruenta dovuta alla volontà del nuovo governo ucraino di prevenire successivi atti secessionisti. I nostri media si guardano bene però dal descrivere nel dettaglio il sanguinoso conflitto, attribuendo violenze bipartisan anche ad atti di particolare ferocia su cui la responsabilità è fin da subito chiara. Il caso più clamoroso è l’efferato massacro di Odessa del 2 maggio 2014 (9), nel quale muore anche il giovane comunista Vadim Papura (diventato un simbolo della repressione) (10) di cui sono disponibili svariate immagini sul web che mostrano la crudeltà sadica degli assassini nazifascisti. Non mancano testimonianze sul fatto che i maggiori crimini siano stati compiuti dalle forze dell’esercito ucraino che non hanno esitato ad utilizzare bombe cluster, fosforo bianco e truppe paramilitari naziste. Violenze tali che non sono mancati molteplici casi di insubordinazione e diserzione di massa tra i soldati ucraini, incapaci di capire il senso del conflitto (11). 


È stato dato ampio risalto mediatico all’interventismo di Putin e della Russia nelle vicende militari, oltre che in quelle politiche, su tutta la guerra civile ucraina. Si è parlato molto meno però dell’interventismo occidentale su tutta la vicenda, nonché delle pesanti responsabilità dell’UE e degli USA per quanto riguarda l’inasprimento del conflitto. Eppure, fin dall’inizio, le manifestazioni di Euromaidan sono state fomentate e incentivate dalla presenza attiva a Kiev di vari statisti occidentali, tra cui spicca la presenza del senatore repubblicano statunitense Joseph McCain, più volte sul palco insieme a Oleh Tyahnybok, leader della formazione neonazista Svoboda. Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato USA, ha presenziato a diversi incontri con esponenti politici golpisti. Non sono mancate posizioni di sostegno ai golpisti da parte del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz (12), seguito a ruota anche da Gianni Pittella, capogruppo parlamentare dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (eletto tra le file del PD). Questo interventismo politico incondizionato affonda le radici su una preparazione meticolosa del golpe durata anni. È stato accertato che le “squadracce” neonaziste che hanno imperversato a Kiev sono state addestrate nei campi NATO dell’Estonia almeno dal 2006 (13). La già citata Victoria Nuland dichiarò pubblicamente già nel dicembre 2013 che gli USA avevano investito 5 miliardi di dollari nelle vicende ucraine (14). A chiudere i sospetti e a dare garanzie di verità è un’intercettazione rivelata da Wikileaks che conferma come il golpe sia stato orchestrato almeno dal 2010. In una telefonata Viktor Pynzenyk (ex ministro delle finanze e ora parlamentare membro del partito Oudar che fa capo a Vitali Klitschko) spiegava all’ambasciatore americano la lunga serie di misure antisociali (privatizzazioni, riforme pensioni, aumento prezzi risorse energetiche, diminuzione Stato sociale, ecc.) che erano disponibili a concedere per l’ingresso nell’UE (15).


Note

1)  A. Mazzone, La Russia batte l'Europa e si compra l'Ucraina, Panorama (web), 18 dicembre 2013.

2)  Redazione La Repubblica, Ucraina, Yanukovich vince di misura. L'Osce: “Elezioni trasparenti”, La Repubblica (web), 8 febbraio 2010.

3) P. Sorbello, Ucraina: violenza sulla piazza, L'Indro, 23 gennaio 2014.

4) G. Masini, Kiev, ecco la telefonata choc che scredita il nuovo governo. Chi ha pagato i cecchini?, Il Giornale (web), 5 marzo 2014. 

5) R. Allertz (a cura di), Avviate in Ucraina le procedure per la messa al bando dei comunisti, Marx21.it, 24 luglio 2014.

6) AC-Solidarité Internationale PCF, Le associazioni ebraiche ucraine denunciano le azioni antisemite dei manifestanti di estrema destra “filo-europei”, Marx21.it, 11 febbraio 2014; per un ulteriore riscontro su un sito più “neutro” si veda Redazione Il Messaggero, Ucraina, attacco a una sinagoga sul Mar Nero. Scoppia un incendio, è il secondo attacco a un tempio ebraico, Il Messaggero (web), 20 aprile 2014. 

7)  A. Benajam, Cos’è la “Novorossija”?, 11 settembre 2014.

8) Redazione L'Antidiplomatico, Chomsky: “L'Ucraina nella Nato? Come se il Patto di Varsavia si fosse allargato a Canada e Messico”, L'Antidiplomatico, 16 aprile 2015.

9) Si veda a riguardo D. Scalea, La strage di Odessa e la stampa italiana: censura di guerra?, Huffington Post (web), 5 luglio 2014 e L. Tirinnanzi, La strage di Odessa e le ipocrisie dell’Occidente, Panorama (web), 9 maggio 2014.

10) Partito Comunista di Ucraina, Vadim Papura, giovane comunista vittima del massacro fascista di Odessa, Marx21.it, 6 maggio 2014.

11) L. Tirinnanzi, Diserzioni nell’esercito ucraino, in 400 sconfinano in Russia, Panorama (web), 5 agosto 2014. 

(12) S. Pieranni, Schulz: «Sì, trattiamo anche con Svoboda», Il Manifesto (web), 27 febbraio 2014.

(13) Rete Voltaire, I manifestanti di Maidan addestrati dalla NATO nel 2006, Voltairenet.org, 7 febbraio 2014.

(14) G. Rossi, Gli Usa dinanzi alla crisi ucraina: le gaffe di Victoria Nuland, il realismo di Henry Kissinger, Secolo d'Italia (web), 18 marzo 2014.

(15) Wikileaks, Former Tymoshenko insider calls her destructive, wants her out of power, Wikileaks.org, 24 febbraio 2010.



giovedì 24 febbraio 2022

LETTERA DI HANS MODROW ALLA LINKE


Hans Modrow

Il novantaquattrenne Hans Modrow è stato membro della Camera del Popolo della DDR dal 58 al 90 per il SED (di cui fu membro del Comitato Centrale dal 67 all'89). E' stato l'ultimo Primo Ministro della DDR. Dopo l'unificazione della Germania è stato eletto al Bundestag e al Parlamento Europeo. E' presidente del Consiglio degli Anziani della Linke. Qualche settimana fa Modrow ha scritto una lettera alle due co-presidenti del partito come contributo alla discussione in vista del congresso che si terrà la prossima estate a Erfurt. Come i lettori potranno verificare la lettera - resa nota dal quotidiano "Junge Welt"- è tutt'altro che tenera con la linea politica della Linke. Ringrazio l'amico Vladimiro Giacché per avermela segnalata e il traduttore "militante" che mi consente di presentarvene qui una versione italiana alla quale ho apportato solo piccole correzioni di forma. Aggiungo solo che in questo drammatico momento che vede iniziare una guerra fra Russia e Ucraina, a coronamento di una ininterrotta serie di provocazioni della NATO e del regime di estrema destra di Kiev, il richiamo che alla fine della sua lettera Modrow rivolge alle sinistre europee, criticandone l'atteggiamento di equidistanza fra potenze occidentali da un lato e Cina, Russia, Cuba, Venezuela, Corea e Vietnam dall'altro assume particolare rilievo.  

Care Susanne e Janine,
per la prima volta in molti anni non ho partecipato alla commemorazione silenziosa a Berlino-Friedrichsfelde, non ho potuto unirmi a voi e a molti altri per onorare coloro sulle cui spalle si regge il nostro partito. Non ero assente per ragioni politiche, ma per motivi di salute. Ero in ospedale. La diagnosi non è esattamente rosea, ed è per questo che ritengo opportuno sistemare le mie cose. Ecco il motivo di questa lettera, che rappresenta anche il mio contributo alla discussione in vista del congresso del partito a Erfurt.
Il Partito della Sinistra – che è emerso dal WASG e dal PDS, e quest’ultimo a sua volta dal SED, che aveva le proprie radici organizzative nel KPD e nella SPD – si trova in una situazione critica. Che non è dovuta solo al risultato disastroso nelle elezioni del Bundestag. Quest’ultimo ne ha semplicemente reso visibile la condizione interna. 

Se il partito non si chiarisce le idee su cosa rappresenta e qual è il suo obiettivo neanche gli elettori lo sapranno. Perché dovrebbero votare per un partito il cui interesse principale sembra essere quello di formare un governo con la SPD e i Verdi? Se ciò risulta evidente tanto nel gruppo dirigente  che tra i rappresentanti eletti non è imputabile all’opera dei singoli compagni e compagne, né è il risultato di una singola decisione sbagliata. È il prodotto di anni di uno sviluppo maturato nel corso di decenni.
Non è possibile capire quando tale processo sia iniziato, e chi ne sia il responsabile, né si può rispondere alla domanda se il socialismo reale avrebbe potuto essere salvato dopo il 20° Congresso del Partito del PCUS nel 1956 o dopo la Primavera di Praga nel 1968. Semplicemente non lo sappiamo.

Mettere tutto in discussione

Conosciamo però le regole del gioco democratico. Le abbiamo accettate, così come abbiamo dovuto prendere atto della realtà sociale, ci piaccia o meno.
Anche Bismarck lo sapeva e agiva di conseguenza: “Si deve trattare con le realtà non con le finzioni”. Una delle regole democratiche del gioco prevede che dopo una clamorosa sconfitta tutto deve essere messo in discussione. Un autoesame critico include obbligatoriamente la questione dei quadri.
Perché se tutti i responsabili rimangono in carica, nulla cambierà. Non basta essere accomodanti e giurare di fare meglio. Un Saul con un mandato politico non è mai diventato Paolo. Quella era una leggenda biblica. Il grado di corresponsabilità varia da un membro del partito all’altro, ma è più grande tra i dirigenti. Un dirigente federale, per esempio, ha una maggiore responsabilità per la strategia e il programma elettorale del partito rispetto a un semplice membro di partito; una responsabilità decisiva si potrebbe dire.

Gli annunci dei leader trovano maggiore diffusione rispetto all’opinione dei gruppi di base; ciò che viene detto nel gruppo parlamentare ha un impatto diverso rispetto, ad esempio, a una dichiarazione del Consiglio degli Anziani. Pertanto, penso che un nuovo inizio non sarà possibile senza conseguenze per singoli quadri dirigenti. Il congresso del partito in estate a Erfurt è, a mio parere, l’ultima possibilità per ripartire: non ce ne saranno altre.

Nel partito da cui provengo tutti e tutte sapevano che, nello slogan dell’unità tra continuità e rinnovamento, il rinnovamento era una parola per coprire la stagnazione. Sappiamo tutti dove siamo andati a finire. Marx forse si sbagliava quando diceva – citando Hegel – che la storia accade due volte, “una volta come tragedia, l’altra volta come farsa”. Anche se la storia non si ripete, le analogie non possono essere del tutto scartate. La mia impressione è che nel nostro partito i processi sembrano ripetersi.

Il SED è crollato perché la direzione era arrogante, proseguiva nel suo discorso indifferente alle critiche e ignorando ciò che la base trovava discutibile. Così questa leadership ha distrutto il partito dall’alto. La fine è nota.

Alla fine dei miei giorni temo la ripetizione. Le conseguenze politiche

del fallimento di più di 30 anni fa può essere visto in Germania orientale. Le conseguenze del fallimento del Partito della Sinistra influenzeranno l’intera Germania e la sinistra europea nel suo insieme. Sono danni irreparabili. Dovremmo esserne consapevoli! Abbiamo quindi una grande responsabilità: ogni compagna, ogni compagno e il partito nel suo insieme.


Come Presidente del Consiglio degli Anziani sono sempre stato consapevole di tale responsabilità. Abbiamo agito in conformità con lo statuto del partito: il Consiglio degli Anziani delibera su propria iniziativa o su richiesta della presidenza del partito riguardo a problemi di linea politica. Presenta proposte o raccomandazioni e partecipa al dibattito pubblico del partito con dichiarazioni. Tuttavia, ho dovuto, abbiamo dovuto prendere atto che le nostre proposte e raccomandazioni non avevano alcun effetto visibile, motivo per cui ho ripetutamente e pubblicamente posto la domanda se ci fosse proprio bisogno di questa istituzione. Eravamo apparentemente superflui e fastidiosi, nessuno aveva bisogno della nostra esperienza.


Nelle mani della Germania occidentale


Ovviamente anche nel nostro partito c’è – come in ogni famiglia – un conflitto generazionale. La tendenza della generazione più giovane a percepire il consiglio degli anziani come fonte di lezioni stantie o di tentativi di dominio non mi è estranea: dopo tutto, anch’io sono stato giovane una volta. Inoltre, il conflitto è aggravato dalle origini diverse. Quelli nati e cresciuti nell’Est hanno sperimentato una socializzazione diversa rispetto ai compagni dell’Occidente. La socializzazione include: educazione, lingua, maniere,

mentalità, esperienza, cultura della collaborazione lavorativa... Tutto questo svanisce con gli anni, mentre i suoi portatori scompaiono. Ma ha un effetto duraturo che va oltre le generazioni. I tedeschi dell’Est, va detto, non sono  migliori. Sono diversi. Di ciò si dovrebbe tenere conto sia nel partito che nel lavoro politico. Se non lo si fa, come è successo di recente per le elezioni, ti viene presentato il conto. Non si vincono le elezioni federali nell’Est, lì si perdono.


Non riesco a scrollarmi di dosso l’impressione che il partito, come è successo alla parte orientale del paese, è ora nelle mani della Germania occidentale. I rappresentanti occidentali e i loro alleati danno il là. Come nello Stato, non c’è unità. Io lo chiamo uno Stato di dualità. E questo sembra essere il caso anche del partito. Sì, lo so, la composizione del partito è cambiata, molti giovani dell’Ovest e dell’Est si sono iscritti. Vengono principalmente dalle città e non dalla campagna, hanno esigenze  e interessi diversi rispetto ai nostri quando avevamo la loro età.

Tanto più importante sarebbe renderli consapevoli della ricca

tradizione da cui proviene il loro/nostro partito, delle sue radici e di ciò per cui le generazioni hanno lottato: non per la stabilizzazione del sistema capitalista, ma per il suo superamento. E il carattere del sistema

non può essere conosciuto con l’aiuto dei servizi sui cosiddetti 

social media, ma dalla teoria e dalla pratica, e dalla loro connessione. 

Non ho quindi paura di chiedere la creazione di un sistema di formazione politica nel partito. Naturalmente, questa non è una panacea, ma è utile per conoscere il mondo e determinare qual è il compito del partito. Anche se la sua condizione è in uno stato di continua evoluzione, il carattere della società di classe non cambia.

Slogan pubblicitari, anglicismi, gendering o la lotta contro la catastrofe climatica non cambiano le condizioni sociali nella società borghese-capitalista. La presunta scomparsa del proletariato industriale

non ha cancellato la classe operaia. La ricerca sociale parla ora del proletariato dei servizi, cioè di chi deve lavorare per pochi soldi per sopravvivere: infermiere e badanti, commesse di supermercati, lavoratori esternalizzati nelle aziende di logistica, lavoratori delle poste, lavoratori del commercio al dettaglio, lavoratori nella ristorazione e nel turismo, e così via. Secondo studi recenti, costoro rappresentano oggi fino al 60% della forza lavoro e sono difficilmente sindacalizzabili. Sono proprio simili alla classe operaia, al 18% occupato nel settore industriale. Questi quasi quattro quinti della società sono a malapena percepiti dal nostro partito: “Non è una classe, non è una maggioranza, solo un fenomeno marginale…”.


La lotta per la pace


Non meno pericolosa è l’assurda equidistanza in tema di politica estera. Non si può essere ideologicamente equidistanti da tutti i movimenti e gli stati. Quelli che cantano la stessa canzone dei capitalisti rispetto a Russia, Cina, Cuba, Venezuela ecc. sono oggettivamente allineati con gli avversari economici e politici di questi stati. Vogliamo aiutarli nella guerra fredda e creare mucchi di macerie e disastri simili a quelli avvenuti negli stati della primavera araba, Afghanistan, Ucraina e ovunque i servizi segreti e la macchina militare dell’Occidente fanno danni irreparabili?

Naturalmente non dobbiamo approvare tutto ciò che accade in altri paesi. Tuttavia, nella nostra valutazione non è solo utile ma anche necessario utilizzare la prospettiva degli altri. Nella lotta per la pace non ci deve essere neutralità. L’ambito culturale cristiano-europeo da cui noi proveniamo, come anche Karl Marx e tutta la cultura capitalista occidentale, non può essere il metro con cui misuriamo il mondo. Ci sono popoli di alta cultura che ci precedono di millenni. E ci sono delle priorità che anche Willy Brandt ha ammesso: la pace non è tutto, ma senza la pace tutto è niente.


Care Susanne e Janine, vi posso promettere di risparmiarvi in futuro

delle lettere come questa. La mia forza è esaurita, posso solo porre la mia speranza nei nipoti, che combatteranno meglio. E come tutti sappiamo, la speranza è l’ultima a morire.


Berlino, 17 gennaio 2022

Un abbraccio solidale

Hans Modrow


lunedì 17 gennaio 2022

RILEGGERE MARX CON GLI OCCHI DI LUKACS






“Ombre rosse”, che sarà a giorni in libreria per i tipi di Meltemi, è un saggio atipico rispetto ai miei libri precedenti, nella misura in cui prende di petto alcuni nodi teorico-filosofici che altrove erano appena abbozzati, o rimanevano sullo sfondo rispetto all’analisi sociologico-politica. L’esigenza di imbarcarmi in questa impresa è nata un paio d’anni fa, subito dopo l’uscita di un volumetto (1) che conteneva la registrazione di una lunga conversazione fra chi scrive e Onofrio Romano, nel corso della quale tentavamo di capire di quali limiti la teoria marxista dovrebbe sbarazzarsi per riacquistare tutto il suo potenziale rivoluzionario. L’intento non era, come troppo spesso capita, riscoprire l’autentico pensiero di Marx per contrapporlo alle falsificazioni degli epigoni. “Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro, scrivevamo, è diverso: partendo dal presupposto che l’originario corpus teorico marxiano - accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano teorico che su quello politico - contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano aggiornati o addirittura archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, se non rischiano di contribuire alla sua conservazione.”  

Nella nostra conversazione venivano indicati una serie di punti di criticità: in particolare, affermavamo la necessità: 1) di problematizzare la visione ottimista secondo cui, una volta superata l’estraneità del lavoratore al prodotto del proprio lavoro attraverso il processo di ri-appropriazione dei mezzi di produzione, si passerà automaticamente dal regno della necessità al regno della libertà; 2) di criticare l’ideologia progressista che accomuna certe parti delle opere di Marx al culto liberale della missione “civilizzatrice” della società capitalista; 3) di superare la concezione economicista che associa la fine del capitalismo a presunte ”leggi” immanenti al modo di produzione, ribadendo che, in assenza di un consapevole progetto rivoluzionario, il capitalismo, come qualcuno ha scritto ironicamente, “ha i secoli contati”; 4) di prendere distanza dall’idea che la scienza e la tecnica in quanto tali – a prescindere dal loro ruolo nella determinazione dei rapporti di forza fra le classi sociali - siano fattori necessariamente progressivi, nonché dall’idea che lo sviluppo delle forze produttive sia fattore necessario e sufficiente per la transizione al socialismo; 5) di abbandonare sia la visione evoluzionista del processo storico, sia le sue rappresentazioni provvidenziali, escatologiche; 6) di superare la  mistica del Soggetto rivoluzionario come entità sostanziale, predefinita, da rimpiazzare con la consapevolezza della necessità di costruire politicamente tale soggetto.

La ricezione di quella provocazione è stata meno vivace del previsto. Forse perché molti amici, avendo già ragionato su questi argomenti, condividevano le nostre riflessioni. Più probabilmente, temo, perché l’interesse nei confronti della teoria marxista è oggi – almeno qui in Occidente – ai minimi storici. O, peggio ancora, perché la critica del marxismo viene data oggi per scontata ed è inspirata da intenti liquidatori, più che dalla volontà di rivitalizzarlo. Ecco perché ho avvertito la necessità di tornare sulle questioni sopra elencate ingaggiando un corpo a corpo con due mostri sacri del marxismo come Ernst Bloch e György Lukács. Un capitolo, il secondo, è dedicato al Principio speranza di Bloch (2), un’opera in cui ho rintracciato molti dei miti che io e Onofrio Romano criticavamo nel dialogo sopra citato, il terzo discute il capolavoro di Lukács L’ontologia dell’essere sociale (3) che, a mio avviso, contiene la formulazione più completa e convincente della direzione da seguire per proiettare il marxismo oltre i suoi limiti storici. Il primo capitolo si occupa invece di un autore italiano tanto controverso quanto geniale, Costanzo Preve, che è stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio, per le sue critiche a una sinistra in via di autodissoluzione, formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile (e forse anche perché la scomunica di cui fu vittima contribuì ad esacerbarne il carattere, innescandone certi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento totale)Qui di seguito anticipo le ultime pagine del capitolo conclusivo.

Se e in che misura quanto sin qui discusso può tradursi in un progetto all’altezza dell’attuale realtà storica? Rispondere è compito che trascende l’obiettivo di questo lavoro, per cui mi limito a buttar giù alcuni appunti preliminari. Mi pare evidente che, dalle analisi degli autori esaminati in queste pagine, l’intero impianto del marxismo occidentale ne esce a pezzi. In particolare ne esce a pezzi l’idea – palesemente eurocentrica – secondo cui all’estensione del dominio imperiale delle metropoli capitalistiche sul resto del mondo andrebbe riconosciuto il “merito” di avere creato i presupposti per la transizione al socialismo. Questa idiozia è frutto di un concentrato di tutte le categorie che sono state qui messe sotto accusa: economicismo, evoluzionismo, progressismo, presunte necessità storiche, feticismo della tecnica e  delle forze produttive, ecc. Un’idiozia che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è divenuta una sorta di pensiero unico delle sinistre “radicali”, a mano a mano che le analisi dei teorici della dipendenza (4) venivano liquidate come “terzomondismo”, lasciando il campo alla certezza che solo la sussunzione del mondo intero sotto il rapporto di capitale può creare le condizioni per una rivoluzione mondiale. A smentire questa visione non sono state tanto le disastrose sconfitte subite dalle classi subalterne occidentali (accompagnate dalla conversione delle sinistre al liberal-liberismo), quanto il fatto che, nel resto del mondo, la penetrazione del mercato non solo non si è automaticamente tradotta in omologazione ai valori, ai principi e ai rapporti sociali e politici di tipo capitalistico, ma ha accompagnato l’emergenza di un’alternativa socialista globale di cui la Cina rappresenta la punta più avanzata. Sul futuro del capitalismo tornano ad addensarsi ombre rosse che vengono dall’Est e dal Sud del mondo. 

Il fatto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite non siano avvenute in Paesi ad elevato sviluppo economico, ma in regioni del mondo “arretrate”, e che ne siano state protagoniste classi operaie in formazione e larghe masse contadine, alleate con strati di piccola borghesia urbana e guidate da partiti rivoluzionari di impostazione marxista-leninista, è stato finora oggetto di semplici prese d’atto empiriche, mentre è mancato il coraggio di riconoscere che le cose non avrebbero potuto andare altrimenti. In effetti: più la classe operaia è sviluppata, organizzata, capace di contrattare migliori condizioni di vita e di lavoro con i capitalisti, più essa si riduce a capitale variabile, a motore interno del modo di produzione e in fattore di accelerazione del suo sviluppo (come già Marx ed Engels avevano intuito osservando l’evoluzione della Socialdemocrazia tedesca). Al contrario le masse popolari periferiche e semiperiferiche, soggette all’oppressione coloniale e neocoloniale, oltre che a forme di supersfruttamento, si percepiscono e si considerano come esterne al rapporto di capitale (5), anche in ragione delle radicali differenze culturali (tradizioni storiche, religiose, principi e valori morali, ecc.) nei confronti dei Paesi del centro. È in questo contesto che la storia ha generato inedite possibilità trasformative, così come è in questo contesto che partiti rivoluzionari originariamente formatisi alla scuola del marxismo occidentale hanno saputo afferrare tali possibilità ma, per farlo, hanno dovuto adattare la teoria alla concreta realtà storica e sociale in cui operavano (i comunisti cinesi la chiamano sinizzazione del marxismo). 

Più di mezzo secolo prima delle riforme cinesi degli anni Settanta, questo rovesciamento dei dogmi marxisti era già avvenuto con la Rivoluzione russa del 1917. L’eresia leninista non è consistita solo nell’avere sostituito la tesi dell’attacco all’anello più debole della catena a quella dell’attacco al livello più elevato di sviluppo del capitale: è consistita ancor più, come osserva Rita di Leo (6), nell’aver liquidato, nei suoi ultimi anni di vita, le visioni estremiste che pretendevano di applicare immediatamente il modello “classico” di transizione alla costruzione del socialismo in Russia; nell’avere compreso che, per superare l’arretratezza dell’economia sovietica e garantire un livello di vita decente alle masse, occorreva reintrodurre robuste dosi di capitalismo nel sistema; occorreva capire che il capitalismo di stato (7),  finché fosse rimasto saldamente sotto il controllo dello stato/partito, non avrebbe significato automaticamente la restaurazione del capitalismo; nell’avere infine compreso che, per intraprendere la lunga, faticosa marcia di avvicinamento al socialismo, non si poteva delegare il controllo della produzione a un’autogestione operaia soggetta all’inevitabile influenza di interessi corporativi, ma bisognava concentrare tutto il potere nelle mani del partito (8).

Non abbiamo qui modo di analizzare l’evoluzione del regime sovietico dopo la morte di Lenin, né tantomeno di discutere le cause del suo recente crollo. Resta il fatto che la svolta post maoista in Cina presenta chiare analogie con quella della NEP. Dopo il fallimento del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, in una situazione che vedeva ottocento milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, si è capito che, per avanzare verso il regno della libertà, ci si sarebbe prima dovuti sbarazzare dei vincoli della necessità. Le riforme economiche del 78 e dei successivi decenni, con l’apertura agli investimenti stranieri nelle zone speciali, e la reintroduzione di criteri manageriali nella gestione delle imprese di stato, hanno permesso al Paese di ottenere gli straordinari successi che sono oggi sotto i nostri occhi. Basta il fatto che il processo sia sempre rimasto sotto il rigido controllo politico dello stato/partito, e che il sistema abbia conservato robusti elementi di socialismo, a respingere l’accusa di avere restaurato il capitalismo in Cina? Per il vivace dibattito che agita il campo marxista in merito a tale interrogativo, rinvio a quanto ho scritto altrove (9) , qui mi limito a citare l’opinione (che condivido pienamente) espressa in merito da Giovanni Arrighi: si possono aggiungere a volontà elementi di mercato a un sistema sociale, ma se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo.  

Certo, le ombre rosse che arrivano da Oriente non annunciano l’avvento del paradiso in terra profetizzato da Bloch. E lo stesso vale per quelle che arrivano da Sud, dai Paesi dell’America Latina impegnati a definire il progetto di un socialismo del secolo XXI.  Delineano però le condizioni di un socialismo possibile, di una lunga transizione dall’esito aperto e imprevedibile, caratterizzata dalla convivenza fra economia pubblica ed economia di mercato e dal persistere della lotta di classe. Quanto a noi occidentali: la disarticolazione delle nostre classi operaie ci condanna a un futuro senza speranza di cambiamento? Certamente la ripartenza, dopo la catastrofica sconfitta che abbiamo subito dal regime liberista, si presenta tutt’altro che facile; né – se rifiutiamo le scorciatoie dell’economicismo – possiamo attenderci granché dalla profonda crisi capitalistica in corso, aggravata dalla pandemia. Paradossalmente, la necessità di ripartire da una classe operaia divisa, immiserita, precarizzata, priva di efficaci strumenti organizzativi e di lotta, potrebbe rivelarsi, almeno da un certo punto di vista, un vantaggio: il proletariato forte, numeroso, omogeneo, organizzato del ciclo fordista non è mai uscito, né poteva/voleva farlo, dallo stato di capitale variabile, né si è mai posto – né avrebbe potuto/voluto farlo – obiettivi antisistema. Questo proletariato, che oggi non esiste in quanto soggetto consapevole e unitario, questo proletariato che appare assai più “estraneo” alle dinamiche sociali e politiche rispetto al suo aristocratico predecessore, potrà tornare ad esistere solo come prodotto di un processo di costruzione politica, potrà rinascere solo assieme al partito che riuscirà a guidare tale processo.  

Note

1. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019. 

2. E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019. 

3. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco, Milano 2012.

4. Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020. 

5. Cfr. N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972. Zitara applica questo concetto al proletariato meridionale italiano, mentre Samir Amin lo estende a livello mondiale. 

6.Per una versione aggiornata delle riflessioni della di Leo sul tema in questione cfr. la trilogia: L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012; Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino 2018. 

7. Ai critici della NEP, Lenin replicava con queste parole: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano.“ 

8. Rita di Leo, nei libri citati in nota (6), sostiene che Stalin, contrariamente alle tesi dei sovietologi “ufficiali”, non avrebbe represso la classe operaia russa; al contrario, avrebbe abbandonato la linea leninista, lasciando ampia autonomia gestionale agli operai di fabbrica. Inoltre la durezza con cui ha perseguitato, oltre ai vecchi intellettuali e tecnici zaristi e ai contadini ricchi, anche i vecchi dirigenti bolscevichi (a loro volta intellettuali di estrazione medio borghese, laddove Stalin faceva eccezione, date le sue origini popolari) sarebbe nata dalla volontà di rimpiazzare l’intera classe dirigente ereditata dal passato con quadri di estrazione proletaria. Effetto di tali scelte sarebbe stato, fra gli altri, quello di creare un rapporto di complicità fra dirigenti di fabbrica di estrazione popolare e forza lavoro, per cui gli operai potevano lavorare a ritmi assai bassi, praticare l’assenteismo, opporsi alle innovazione tecnologiche, ecc. E’ nata così quella divaricazione fra obiettivi ufficiali del piano e realtà produttiva che verrà progressivamente aggravandosi dopo la morte di Stalin, tanto da rendere possibile la nascita di una economia informale emersa dopo il crollo dell’89. 

9. Cfr. Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.




 


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