sabato 13 febbraio 2021

DOMINIO SENZA EGEMONIA. APPUNTI PER UNA STORIA DELLE CLASSI DIRIGENTI ITALIANE 

Pubblico qui di seguito il testo integrale dell'intervento di cui ho letto un estratto nel corso del convegno "Malattia nazionale. Distorsioni di un capitalismo piccolo piccolo" che è appena stato trasmesso sui canali della Rete dei Comunisti e di Contropiano

La borghesia italiana non è mai riuscita a costruire uno Stato decente né ad aggregare un blocco sociale in grado di esercitare una reale egemonia (in senso gramsciano). Di conseguenza per conservare il potere, da un lato ha spesso dovuto ricorrere al dominio, schiacciando con la forza la resistenza delle classi subalterne quando si sono ribellate (senza riuscire a loro volta a produrre una concreta alternativa sistemica), dall’altro lato ha altrettanto spesso dovuto ricorrere all’appoggio esterno di potenze straniere. 
Ciò vale fin dalla nostra costituzione come nazione indipendente. Il cosiddetto Risorgimento è stato l’esito, più che di una rivoluzione popolare (di cui si sono avuti solo accenni con episodi isolati come le Cinque Giornate di Milano e la Repubblica Romana), di guerre di conquista del Regno di Savoia a spese di altri staterelli, guerre che sono state vinte grazie all’appoggio francese prima e prussiano poi (senza dimenticare la benevola neutralità inglese: vedi lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). In particolare, l’annessione del Regno delle Due Sicilie è stata una vera e propria colonizzazione interna, associata all’espropriazione delle risorse del Meridione, che sono servite a finanziare l’accumulazione primitiva del capitalismo settentrionale, (vedi le analisi di Nicola Zitara) e dalla repressione selvaggia delle masse contadine cui non è stato concesso nulla perché occorreva assicurarsi il consenso dei latifondisti. 

Il trasformismo e il giolittismo che hanno gestito il Paese unificato nei decenni successivi hanno offerto una ulteriore conferma della cronica incapacità di dare vita a robuste istituzioni statali e a una classe dirigente degna di tale nome. Si è tenuta in piedi la baracca attraverso alleanze a geometria variabile fra le diverse élite e i loro interessi corporativi e sfruttando il sottogoverno gestito da reti di solidarietà familistica. Un compito facilitato dal ritardo con cui venivano sviluppandosi la grande industria e la classe operaia, e dal prevalere di una componente contadina arretrata e segmentata secondo le regioni di appartenenza. Una massa contadina che ha fornito la materia prima del carnaio della Grande Guerra, nella quale il Paese si è avventurato accodandosi alla coalizione vincente in cambio di qualche guadagno territoriale (vedi la retorica della “quarta guerra d’indipendenza” sbandierata dai manuali scolatici di storia fino al secondo dopoguerra).

La prima vera grande sfida che le classi dominanti hanno dovuto affrontare è stata, dopo la Grande Guerra, quella lanciatagli dalla classe operaia che era venuta crescendo in numero e coscienza politica e sindacale nel triangolo industriale, il cui decollo era stato accelerato dallo sforzo bellico. Una classe che guardava con simpatia alla Rivoluzione bolscevica del 17 e si riconosceva nel Partito Socialista e nel Partito Comunista nato a Livorno nel 1921.

Ancora una volta, la sfida non è stata vinta grazie alle capacità egemoniche delle classi dominanti bensì attraverso la repressione violenta. Al fascismo, espressione dell’ideologia e degli interessi della piccola borghesia urbana e rurale e del blocco agrario, i capitalisti industriali e finanziari hanno delegato il lavoro sporco, dimostrandosi disposti a rinunciare a mantenere il controllo sul governo e sull’apparato statale (in realtà contavano sul fatto che lo avrebbero potuto riprendere non appena sconfitto il nemico di classe, ma l’autonomia del politico li ha fregati, costringendoli ad accettare il ventennio mussoliniano). 

Con la sconfitta subita nella disastrosa avventura della Seconda guerra mondiale, e con l’avvento della Repubblica e la conseguente approvazione della Costituzione del 48, si apre l’unico periodo in cui si può parlare di egemonia delle classi dirigenti emerse dalle macerie belliche. Si tratta di un’egemonia sui generis che rispecchia, sia il compromesso imposto dal contributo decisivo che socialisti e comunisti avevano dato alla vittoriosa guerra di Resistenza, sia la collocazione “frontaliera” dell’Italia fra l’Europa controllata dagli Alleati occidentali e il blocco sovietico che, grazie alla vittoria sul nazismo, si era esteso fin nel cuore del Vecchio Continente. L’incombente presenza sovietica, pur avendo l’Urss accettato l’appartenenza della nostra penisola al blocco atlantico, esercitava un’influenza potente sul proletariato italiano, nel frattempo cresciuto notevolmente di peso numerico, culturale e politico e sconsigliava una liquidazione violenta delle sue organizzazioni (sul tipo di quella attuata in Grecia) che avrebbe provocato un bagno di sangue. 


Malgrado le dure repressioni degli anni Cinquanta nelle grandi fabbriche del Nord, in particolare alla Fiat, quella che è venuta progressivamente instaurandosi è stata una sorta di convivenza conflittuale fra le forze della conservazione (la DC e i suoi alleati) e le forze progressiste (PCI e PSI). All’ombra di questo compromesso politico è potuto crescere il compromesso sociale fra capitale e lavoro. Con caratteristiche peculiari rispetto ad altre versioni del modello fordista: mentre altrove – in particolare negli Stati Uniti e in Inghilterra - tale modello era il frutto della crescita di gigantesche imprese monopolistiche private e della necessità di concedere salari relativamente elevati per sostenere la domanda di beni di consumo durevole, da noi le condizioni strutturali di questo circolo virtuoso non si sarebbero sviluppate (l’esistenza della Fiat e di poche altre grandi fabbriche settentrionali non sarebbe bastata), in assenza di un massiccio intervento diretto dello Stato in economia. E’ stata l’economia mista cresciuta fra la fine dei Cinquanta e la prima metà dei Sessanta a dare l’impulso decisivo per il boom italiano, con il suo contorno di riforme, modernizzazione culturale e con la sua dialettica politica, conflittuale ma non antagonista, fra blocco conservatore e blocco progressista. Come detto in precedenza, questo è forse l’unico periodo della nostra storia in cui si può parlare di una classe dirigente capace di esercitare egemonia e non semplicemente dominio sulle classi subalterne, cooptandole parzialmente nel sistema di gestione del potere.

A rompere quell’equilibrio non concorsero solo fattori “esterni” come crisi petrolifera, caduta del saggio di profitto, stagflazione e rottura degli accordi di Bretton Woods ma anche una sorta di nemesi delle secolari sofferenze del proletariato meridionale. Mi riferisco al ruolo degli immigrati meridionali impiegati come operai comuni nell’alzare il tiro della conflittualità di classe. Per nulla sensibili alla cultura della trattativa e della cogestione degli operai professionalizzati inquadrati nei partiti e nei sindacati tradizionali, costoro lottarono con energia dirompente per ottenere forti aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione e allentamento della disciplina aziendale, contribuendo ulteriormente alla riduzione dei margini di profitto. Ritengo viceversa che il peso esercitato dall’alleanza fra gli operai, il movimento studentesco e le formazioni politiche nate dal progressivo sfaldamento di quest’ultimo sia stato sopravalutato (sopravvalutazione dovuta in larga misura alla retorica sulla narrazione degli “anni di piombo”), nel senso che quelle sinistre radicali persero ben preso la loro spinta propulsiva, dando origine all’onda lunga dei nuovi movimenti e alla loro prevalente concentrazione sui diritti civili e individuali. 

Ben altro impatto ebbe il modo in cui il PCI reagì ai sintomi sempre più evidenti della tentazione delle classi dominanti e dei loro apparati repressivi di passare dall’egemonia al dominio e alla repressione violenta (stragi di stato). Una preoccupazione aggravata dalla ferocia con cui gli Stati Uniti avevano stroncato l’esperimento socialista cileno. Il compromesso storico, la celebrazione dell’austerità e la dichiarazione di fedeltà all’Alleanza Atlantica furono di fatto una candidatura a garantire un esercizio pacifico dell’egemonia sulle classi popolari per conto delle classi padronali, frenando una spinta operaia che già veniva esaurendosi spontaneamente sotto i colpi delle ristrutturazione capitalistica (decentramento produttivo, tagli di organico, ristrutturazione tecnologica, ecc.). Eppure nemmeno quella macelleria sociale, che dopo la marcia dei quarantamila quadri della Fiat del 1980 incontrò sempre meno resistenza, fu sufficiente a chiudere la partita.

Era infatti necessario destrutturare l’economia mista che aveva fatto maturare le condizioni per il ciclo di lotte operaie. A occuparsene furono i vari Carli, Draghi, Ciampi, Andreatta, Amato e Prodi che imposero prima l’autonomizzazione della Banca d’Italia dal potere politico, poi l’adesione al trattato di Maastricht e l’ingresso nell’area euro - tutti passaggi avvenuti con la benedizione di un PCI già avviato a concludere la trasformazione in partito liberale, definitivamente sancita dopo la caduta dell’URSS. A quel punto, il vincolo esterno (lo vuole l’Europa) aveva preso il posto delle minacce di repressione violenta in quanto otteneva gli stessi risultati senza innescare reazioni simmetriche.

Lo smantellamento dell’industria di Stato e la sconfitta delle classi lavoratrici non hanno tuttavia creato le condizioni per l’ascesa di grandi imprese private capaci di competere sul mercato internazionale, proprio perché la borghesia italiana aveva scelto di accettare un ruolo subalterno sul piano internazionale pur di mantenere il proprio dominio sulle classi lavoratrici.  Quella scelta ha inferto ferite mortali a un sistema Paese già penalizzato dalla cronica debolezza delle strutture statali (con la riforma dell’articolo V e il decentramento regionale quella debolezza diverrà vero e proprio sfascio, come certificato dall’attuale incapacità di gestire l’emergenza pandemica). Gli esiti sono noti: nanismo delle imprese (che si cercherà di far passare per un fattore positivo con le narrazioni sui distretti e con la retorica del “piccolo è bello”), terziarizzazione del lavoro (con prevalenza dei settori del turismo, del ristoro e dell’intrattenimento – a basso valore aggiunto e caratterizzati da lavoro precario e sottopagato - rispetto al terziario avanzato e innovativo), aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; sfascio dei servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti), degrado ambientale e territoriale, disoccupazione e sottooccupazione cronica (con la proliferazione di lavori precari, temporanei, finto autonomi, sottopagati, ecc.).

Questi processi in atto da quattro decenni hanno determinato radicali trasformazioni nella composizione di classe e nelle forme della rappresentanza politica. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo avuto l’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Per quanto riguarda le seconde, Tangentopoli ha avviato una crisi irreversibile dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione ma che soprattutto si erano scavati la fossa favorendo l’indebolimento delle loro stesse basi sociali, dopodiché Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali fondati sulla mobilitazione di una massa composita di individui sensibili alla comunicazione mediatica più che ai programmi politici. I movimenti spontanei di rivolta hanno a loro volta scontato gli effetti di questo marasma sociale, culturale e politico, dando vita a esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa, al “cittadinismo” dei vari girotondi, indignati ecc. con base nella piccola e media borghesia urbana e privi di qualsiasi velleità antisistema (via ai corrotti, potere agli onesti), e a esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi. Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S. 

Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni Novanta e il partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Fra il governo Monti e l’appena insediato governo Draghi - due momenti in cui l’alta finanza ha assunto in prima persona il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo ogni finzione di democrazia - abbiamo assistito alla rapida ascesa, culminata con le elezioni del 2018, e alla ancora più rapida caduta di un populismo bicefalo. Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (anche perché la sua base sociale è legata a doppio filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche). Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”, ma che, nella sua breve vita, ha attraversato una tumultuosa serie di mutazioni. Alla fase pionieristica dei Meetup (egemonizzata dagli esponenti delle nuove professioni emergenti – soprattutto nel settore delle nuove tecnologie e caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale e dal rifiuto intransigente del professionismo politico) si è rapidamente passati alla fase governista, allorché il movimento, incoraggiato dai successi ottenuti nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, ha dato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo è venuto raccogliendo un consenso assai più ampio e trasversale: operai , impiegati, nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, membri delle classi medie “riflessive”, artigiani e piccoli imprenditori con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo. 

Nessuno di questi esperimenti è tuttavia riuscito a risolvere l’annoso problema della costruzione di una élite politica capace di esercitare una reale funzione egemonica. La Lega perché, malgrado la sua riconversione a partito nazionale, è sempre rimasta espressione delle componenti più deboli di una classe imprenditoriale già di per sé affetta da pesanti carenze strutturali e culturali. Quanto all’M5S si è trattato di un’incarnazione quasi da manuale delle teorie del filosofo franco-argentino Ernesto Laclau: un aggregatore di domande eterogenee provenienti da settori sociali altrettanto eterogenei nei confronti di un sistema incapace di dare risposte, una forza che è riuscita a costruire una sgangherata “catena equivalenziale”, sempre per usare il linguaggio di Laclau, alla quale è però mancata la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare un vero progetto politico, tenuta insieme  solo dal collante della critica alla “casta” e da un “programma” che si riduce all’idea di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate attraverso i meccanismi della democrazia digitale. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema, nessuna indicazione concreta su obiettivi e mezzi in materia di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico incapace di gestirlo. 
Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Ma la crisi pandemica non gli ha permesso di realizzare l’obiettivo di sostituirsi alle vecchie élite incarnate dai partiti tradizionali. La tragicomica successione di compromessi e contorsioni finalizzate a scongiurare le elezioni e il “licenziamento” di gran parte dei suoi parlamentari non ha potuto evitare la catastrofe finale. Sarebbe tuttavia sbagliato leggerne il fallimento come una “rivincita” della politica tradizionale per la quale Renzi avrebbe agito da braccio armato. Ancora una volta le vicende italiane possono essere interpretate solo in ragione dell’incapacità egemonica delle classi dominanti – a prescindere dalle forze politiche chiamate di volta in volta a rappresentarne gli interessi – e dalla conseguente necessità di evocare un intervento esterno chiamato al tempo stesso a salvarle e a ribadirne la subalternità a livello economico e geopolitico. Il commissariamento del Paese da parte di Mario Draghi, che assume i connotati di un vero e proprio golpe bianco con la messa in mora dei partiti e dello stesso Parlamento e la sospensione di fatto della democrazia rappresentativa, non è frutto solo dello stato di eccezione provocato dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica (per inciso, nell’occasione trova ennesima conferma la definizione schmittiana secondo cui “sovrano è chi decide dello stato di eccezione”), può essere compresa solo a partire dal sintomatico e ossessivo richiamo da parte del presidente del consiglio incaricato alla collocazione atlantista ed europeista dell’Italia dove l’accento cade sul primo dei due aggettivi.  

La precipitazione della crisi italiana è infatti coincisa significativamente con la sconfitta elettorale di Trump e con il ritorno al potere del blocco sociale incarnato da Biden e dalla lobby neocons di cui costui è espressione, Tanto la vittoria di Trump di quattro anni fa quanto la sua recente sconfitta sono un sintomo della crisi di egemonia degli Stati Uniti. È evidente che gli Stati Uniti restano di gran lunga la prima potenza mondiale sul piano politico-militare, e anche – sia pure di stretta misura nei confronti della Cina – sul piano economico (in senso finanziario assai più che industriale); ma è chiaro che faticano sempre più a conservare un controllo assoluto sul resto del mondo (ne sia prova l’incapacità di mantenere ordine nel “cortile di casa” latinoamericano, dove non sono ancora riusciti a indurre un regime change in Venezuela e dove la piccola Bolivia ha rimesso al potere il governo socialista pochi mesi dopo il golpe militare). Tale difficoltà ha a che fare con l’esaurimento della spinta propulsiva del processo di globalizzazione, il quale, assai più che di presunte “leggi” economiche, è stato il frutto della volontà americana di dominio imperiale sul pianeta unificato dal crollo dell’URSS. Un progetto che ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, nella misura in cui ha generato le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti). I contraccolpi economico-sociali di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti, come l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media che hanno votato per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che ne rappresenta gli interessi.

Il progetto di Trump (disimpegno da vari teatri di guerra, rientro dei capitali investiti in Asia e altrove dalle multinazionali per rilanciare l’occupazione interna, freno all’immigrazione per ridurre la concorrenza nei confronti dei working poor autoctoni, ecc.) è fallito anche perché frenato dal potere interdizione del deep power degli apparati statali. Ma a dargli il colpo di grazia è stata la crisi pandemica e la folle linea negazionista dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Così il blocco sociale che lo aveva premiato quattro anni fa si è sfaldato: una parte – soprattutto le classi lavoratrici – è rientrata nell’ovile democratico, lasciandosi convincere, con più validi argomenti della volta precedente, dalla sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta la base socialmente più eterogenea e ideologizzata a destra che ha mostrato la sua faccia tanto violenta quanto folcloristica nell’assalto a Capitol Hill.


Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (la scelta della squadra di governo è una vetrina politically correct di donne e appartenenti  alle minoranze etniche e sessuali ma non prevede alcun esponente delle sinistre) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari e high tech (che hanno festeggiato silenziando i profili del presidente uscente) sugli altri settori del capitale nazionale; verrà riannodato il filo rosso delle politiche economiche condotte dai vari Clinton e Obama; ma soprattutto verrà perseguito con feroce determinazione l’obiettivo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) è già partita in grande stile e verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. 

Questo disegno non è attuabile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio dei loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue. Ma l’Europa ha subito effetti non meno devastanti a causa del coronavirus, aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni e tagli alla spesa e ai servizi pubblici, al punto che, per fronteggiare l’emergenza, si è compiuta una brusca inversione di rotta, allentando i vincoli di bilancio ed erogando enormi quantità di denaro pubblico per riaffidare allo Stato il ruolo di garante in ultima istanza della sicurezza generale. È vero che l’emergenza pandemica ha consentito all’establishment europeo di ridimensionare la sfida populista, ma il consolidamento dei tradizionali equilibri istituzionali non risolve le contraddizioni scatenate dalla crisi, per cui l’Europa non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e ruolo geopolitici, di accettare supinamente un rilancio della leadership statunitense, soprattutto se le viene richiesta una partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese che implica pesanti conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti. Sintomi di queste contraddizioni interimperialistiche fra le due sponde dell’Atlantico: l’accordo con la Cina raggiunto in barba alla contrarietà americana, la scarsa propensione ad accettare il veto Usa sull’adozione del 5G targato Huawei, le velleità di ridimensionare la leadership del dollaro sui mercati finanziari globali, la reticenza della Germania nell’appoggiare le crociate antirusse. In questo contesto globale fluido, contraddittorio e turbolento andava garantita la tenuta dell’anello più debole della catena, per cui il prolungarsi dell’instabilità politica italiana diveniva intollerabile, al pari di certe “licenze” dei due governi Conte, come l’accordo stipulato con la Cina d’un paio d’anni fa. Mario Draghi è il proconsole imperiale incaricato di riportare l’ordine in questa provincia mal gestita da una borghesia cronicamente incapace di autogovernarsi e di governare i propri sudditi,  con il doppio incarico di garantire l’esecuzione tanto delle direttive europee che di quelle americane (forse più delle seconde che delle prime). 

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