venerdì 25 marzo 2022

Tra “Vispa Teresa” e tragedia

di Piotr


I dolori del parto di un'epoca nuova

Tutti i momenti di passaggio epocale sono stretti tra la tragedia e le sfide cognitive per cercare di capire i lineamenti della nuova epoca che sta nascendo tra i dolori del parto, che nell'odiosa e disgustosa storia di guerre del genere umano sembrano inevitabili.

Se si è consapevoli che la nottola di Minerva spicca il volo solo dopo che sono calate le tenebre, allora si sa che durante il crepuscolo al più si hanno intuizioni, non certezze razionali. Si hanno ciò che possiamo chiamare “fantasie realistiche”, che non a caso è un ossimoro.

“Tentava la vostra mano la tastiera”, diceva il poeta. E io faccio lo stesso, oltre non posso andare, anche per le mie limitatissime conoscenze e informazioni.

Però, se volete, in giro si trova facilmente chi invece sa tutto e sentenzia sicuro. In TV e sui media ne trovate esempi continui. Peccato che molto spesso sappiano esclusivamente ciò che gli è consentito dai vecchi paradigmi, che per altro già fornivano una visuale ristretta, così che è capitato che blasonati e riveriti esperti potessero incorrere in piccoli errori, come ad esempio preannunciare entusiasmanti sviluppi economici il giorno prima dello scoppio di una crisi devastante (e poi, una volta scoppiata, nemmeno capirne la portata) o pensare a un mondo unificato e pacificato il giorno prima dello scoppio della terza guerra mondiale. Una guerra che è già iniziata da un pezzo anche se qualcuno insiste a pensare o a voler far credere che quella in corso non sia parte di un confronto di portata storica non più rinviabile tra Russia e Stati Uniti, bensì una faccenda tra Russia e Ucraina o il personale delirio zarista di una persona al Cremlino disturbata mentalmente da amanti, figli illegittimi, complessi fisici - eh, la statura! - e traumi infantili (francamente di queste idiozie non se ne può più).


La strategia e la narrazione: la “Vispa Teresa” come dogma popolare

Ovviamente là dove si prendono le grandi decisioni strategiche, in questi errori non si incorre, le cose si sanno veramente. O per lo meno io parto da questo presupposto. L'alternativa sarebbe l'inquietante  ipotesi che si possa arrivare a guerre mondiali “per sbaglio”, ad esempio perché qualche think tank di idioti pensava di poter continuare inerzialmente a minacciare la Russia senza che essa reagisse.

A tratti, confesso, ho anch'io questa sensazione, ma come ipotesi di lavoro, e per il mio benessere mentale, assumo come presupposto che nei posti di comando che contano si facciano ragionamenti magari cinici e amorali ma seri. Ne segue che le miserande narrazioni che a noi giungono sono dovute al fatto che in questi centri di comando si sta molto attenti a non far trapelare la verità e, al suo posto, a volgarizzare una narrazione piena di frottole giustificate da dogmi, cioè la “Vispa Teresa”. Queste sono le frottole e i dogmi, nel senso proprio di deliberazioni non questionabili, che formano la dottrina dei grandi “esperti” funzionali alla divulgazione, appunto, della “Vispa Teresa”, cioè del travestimento di strategie che essi non intendono e che nessuno deve intendere (se poi qualcuno studia come stanno le cose, viene chiamato, a scelta, “complottista” o “agente del nemico” - si pensi ad Alessandro Orsini, persona moderata e riconosciuta esperta di analisi strategiche e di sicurezza internazionale, chiamato da un esponente del PD “pifferaio di Putin” perché spera che si arrivi alla pace prima che scoppi una guerra nucleare a causa della radicalizzazione delle posizioni: una volta qualcuno in orbace l'avrebbe definita una “posizione disfattista”, ma siamo lì). 

Non c'è spazio per dubbi. Le narrazioni diventano “la scienza”, con l'articolo determinativo, l'unica ammessa da un sistema mediatico-accademico ormai senza un barlume di spirito critico (nelle università occidentali da anni, ad esempio, non si insegnano più le idee economiche al plurale, ma una sola, il neo-liberismo, una dottrina impostasi per gestire la crisi del sistema occidentale e funzionale alla crisi, sperimentata negli anni Sessanta del secolo scorso nel Cile fascistoide di Augusto Pinochet e poi diventata verbo liberal – è un punto su cui ritorneremo perché mette in luce forse il più importante errore specifico di valutazione del Cremlino nella crisi ucraina). 

Quando parlo di “grandi strategie” e di ristretti circoli che le cose le sanno veramente e scrivono la “Vispa Teresa” da far divulgare, penso a Washington, penso a Londra, in qualche misura anche a Parigi e Berlino. L'Italia è meglio lasciarla perdere in quanto dall'inizio della cosiddetta Seconda Repubblica ha progressivamente confuso la “Vispa Teresa” con la strategia stessa.

Penso ovviamente anche a Pechino. Per quanto riguarda Mosca la cosa si fa più complessa e quindi anche più interessante.


Lo scontro di due logiche uguali: l'incanto iniziale di Putin e la sua successiva delusione

Per dirla senza riguardo, Putin all'inizio dei suoi mandati ha creduto sinceramente alla “Vispa Teresa”. Convinto liberista, pensava di inserirsi alla pari nel mondo globalizzato occidentale, ma la domanda non è stata accolta. Per prima cosa perché l'accumulazione capitalistica si basa su differenziali si sviluppo economico, politico, militare, conoscitivo e culturale e quindi il Centro ha bisogno che ci sia una Periferia (o meglio un sistema di periferie). In secondo luogo perché quando la Russia, grazie a Putin, è uscita dallo stato di periferia designata che era stato accettato dalla cleptocrazia compradora di Boris Eltsin, la crisi sistemica era ormai in uno stadio molto avanzato e in uno stadio molto avanzato di crisi il Centro ha bisogno di più Periferia, non di meno Periferia. Era l'apice della strategia globalizzazione-finanziarizzazione, che ha dato i suoi frutti fino a quando, come esito inintenzionale, alcune grosse periferie su cui si basava hanno cominciato ad emergere come competitor. 

L'esito è stato inintenzionale ma la morale invece è sempre la stessa: il capitalismo, a causa del suo principio fondante di accumulazione senza fine e senza un fine, supera una contraddizione solo per ritrovarsene davanti una ancora più gigantesca. Di fronte a questo refrain il Centro-in-carica ha solo due strade: o si ripensa (come Centro) o raddoppia la posta, replica le stesse mosse e incrementa esponenzialmente il pericolo di una catastrofe sociale, politica e militare, per sé e per il mondo con cui è in contatto, attualmente l'intero globo terraqueo, la stratosfera, la mesosfera, la termosfera e anche oltre. 

Per ora rimettersi in discussione è considerato più pericoloso del raddoppio. Così l'anno dopo che Putin chiedeva, inutilmente, che la Russia fosse ammessa nella Nato, iniziava la III Guerra Mondiale: era l'11 settembre 2001. Ed ora eccoci qua, in piena merda, per dirla in termini scientifici.


Dalla delusione alla contrapposizione obbligata

La dinamica l'abbiamo già accennata. L'esclusione dal Centro-in-carica, ha spinto il neo-Centro Russia,  che è uno dei neo-Centri emergenti che spingono verso un mondo multi centrico (premessa, qualora la Bomba venga tenuta nel cassetto, al benedetto mondo multipolare), a contrapporsi all'egemonia occidentale. 

Quindi, la colpa dell'Occidente è il suo sistema escludente e la colpa di Mosca è averne mutuata la logica e in più non averne capito in tempo tutte le conseguenze.

La contrapposizione e la strategia del double down hanno consigliato a Washington e alla Nato di preparare la trappola ucraina. La contro strategia di Mosca, vista la mancanza di vie d'uscita, è stata  entrare in forze nella trappola per scardinarla, sparigliare le carte e imporsi definitivamente come neo-Centro. La trappola era preparata da tempo così come la chiusura delle vie d'uscita, ma Mosca ha dovuto aspettare due cose: 1) la modernizzazione dei propri sistemi d'arma, che è esemplificata dai missili ipersonici sostanzialmente non intercettabili nemmeno dalla difesa statunitense, 2) il consolidarsi di un entroterra economico, politico e diplomatico alternativo a quello occidentale.

Una volta verificate le due condizioni, la Russia con l'invasione dell'Ucraina ha tolto agli Stati Uniti il monopolio planetario della violenza e assieme alla Cina gli sta togliendo il monopolio dei mezzi internazionali di pagamento.

Di fatto ciò ratifica la fine del ciclo egemonico statunitense iniziato con la vittoria nella II Guerra Mondiale. E' lo showdown.

Dei monopoli che devono essere appannaggio di un centro egemonico perché esso sia tale, quello delle fonti d'energia se rimarrà agli Stati Uniti lo sarà solo relativamente alla sua residuale area d'influenza; la vicenda del Nord Stream 2 esemplifica ciò che sto dicendo.

Occorre notare che le due condizioni sopra accennate non sono separabili. Quasi una decina di anni fa scrissi che il bluff del Dollaro come moneta internazionale, ruolo tecnicamente finito nel 1971, sarebbe stato scoperto quando al tavolo di poker internazionale si sarebbe seduto un tipo con lo sguardo duro con due grosse pistole al cinturone, che con voce poco rassicurante avrebbe detto: “Vedo!”. Le due grosse pistole erano necessarie per far desistere gli Stati Uniti da una «risposta politica, economica e anche militare selvaggia» (David Harvey). Così sembra essere. Non solo, ma al tavolo da gioco del Far West si è seduto un distinto signore proveniente dal Far East, e che si sospetta sia complice del tipo con lo sguardo duro, che ha gettato come posta un sacco di soldi per far saltare il tavolo.


Qui però si impone un excursus. 

Che siano necessari migliaia di morti, in questo caso e per ora, se non centinaia di migliaia e a volte milioni come è successo altre volte, per decidere con che mezzo si possa pagare un metro cubo di gas per cucinare e produrre energia elettrica, o un barile di petrolio per far funzionare i motori o un ettolitro di grano per nutrirsi, è la testimonianza più evidente della perversità della logica dei cicli egemonici.

Fine excursus


Il mondo si sta spaccando in due (o più?) parti e un brave new world sta nascendo tra le angoscianti  sofferenze che il caos sistemico porta con sé. Qui non ci sono buoni e cattivi. Solo gli interessi sono “at stake”, non i sentimenti e i valori. Ma una cosa è certa: l'Occidente che ha ucciso milioni di civili nelle sue guerre, che ha massacrato l'allora poverissimo Vietnam, il Laos, la Cambogia, che in 13 contro 1 ha bombardato per 78 giorni la piccola Serbia con 1.000 bombardieri (nel tripudio della nostra stampa democratica), che ha bombardato Baghdad e Tripoli, ucciso mezzo milione di bambini iracheni, perché quello era il “prezzo giusto” (Madeleine Albright), devastato l'Afghanistan, la Siria e lo Yemen coi suoi proxy di fanatici tagliagole, coi suoi “eserciti subnazionali” (copyright Rand Corporation), questo Occidente non può dare del “pazzo” e del “criminale” a nessuno. Siamo al punto che Paul Craig Roberts, sottosegretario al Tesoro di Reagan, e quindi a tutti gli effetti uno dei vincitori della Guerra Fredda, è costretto ad affermare che la Russia non ha capito che i suoi sforzi per fare meno vittime civili possibili, all'Occidente non interessano un bel nulla. Anzi, l'Occidente la rispetterebbe di più se radesse al suolo Kiev. 

Dio non voglia! Prego, letteralmente prego, tutti i giorni che questo non accada e che la guerra termini. Ma è così: un killer sanguinario come può rispettare un killer che si fa degli scrupoli?

Tolte di torno le ipocrisie, ritorniamo al punto.


Verso un mondo fratturato. Una o più parti?

Il liberista Putin ora deve combattere contro il Centro-in-carica del liberismo mondiale. Io ho seri dubbi che possa esistere un sistema liberista multipolare o, più in generale, un sistema-mondo capitalista multipolare. Temporaneamente potrebbe esistere una suddivisione in due o più sistemi-mondo che riferiscono a Centri differenti e collegati in alcuni punti da complicati meccanismi di scambio. Una configurazione non stabile. Ma tenendo in conto che il liberismo è in crisi (in realtà il liberismo è la crisi, nella nostra epoca storica ora agli sgoccioli), la forza degli avvenimenti potrebbe portare su strade inedite. Per quello sto utilizzando per Putin, o meglio per il “Putin collettivo” il termine segnaposto, e tutto da specificare, “a-liberista”.

Eravamo infatti rimasti all'apparente (o reale) contraddizione delle nomine della liberista-occidentale Elvira Nabiulina alla testa della Banca Centrale Russa e contemporaneamente di Sergei Glazyev alla testa del Ministero per l'Integrazione e la Macroeconomia dell'Unione Economica Eurasiatica.

Alcuni giorni fa la Russia ha rimborsato in valuta estera le cedole in scadenza dei suoi bond emessi in dollari. C'è chi ha salutato questo atto come l'inizio di un “rinsavimento” di Mosca (anche qui: Putin è pazzo se lancia i missili sull'Ucraina, ma è rinsavito se paga le cedole in dollari: che logica sublime!). Perché l'allegro stupore? Perché si sapeva che la Russia stava mettendo a punto un meccanismo per pagare i suoi debiti in rubli. D'altra parte però gli scambi euroasiatici utilizzeranno una sorta di Diritti Speciali di Prelievo dinamicamente rivalutati sulla base di un paniere di valute nazionali e di merci, dove Yuan e Rublo avranno un ruolo fondamentale. Un meccanismo squisitamente keynesiano, anzi, una sorta di vendetta postuma del britannico Lord Keynes ad opera di avversari del Regno Unito (la Storia è veramente sorprendente). Chiamiamo questa valuta internazionale “DSPE”, Diritti Speciali di Prelievo Euroasiatici. 

Ora il pagamento in valuta estera delle cedolari e i DSPE sono in contrasto solo se si pensa che il sovvertimento dell'ordine monetario nato dalla II Guerra Mondiale (in realtà già sovvertito una prima volta dal Nixon Shock del 1971) possa avvenire con un colpo di bacchetta magica. No, è l'esito di un processo non breve e non semplice. Non basta nemmeno una guerra come quella in Ucraina. Che infatti dimostra quanto le cose siano complicate. Si pensi solo che la Russia invade l'Ucraina ma non le taglia il gas, così come non taglia il gas ai Paesi europei che inviano armi a Kiev per ammazzare i soldati russi e applicano contro la Russia una sanzione dopo l'altra. La novità è che ora i Paesi europei devono pagare il gas russo in rubli (bastava studiarsi l'andamento della composizione delle riserve e dei pagamenti internazionali nell'ultimo decennio e si capiva che era nell'ordine “naturale” delle cose; curioso che ci siano “esperti” che sono caduti dal pero; viene il dubbio che siano esperti contafagioli in speculazioni di Borsa e alchimie finanziarie e nulla più). C'è poi da prender nota della surreale preoccupazione della Russia che il gioco delle sanzioni e contro-sanzioni possa far schizzare il prezzo del gas in Europa, che è una cosa che andrebbe a tutto vantaggio di Mosca.

Intrecci borderline tra complessità e paradosso. Ma non è una novità. La Cina ha sostenuto il debito pubblico statunitense che serviva a sua volta a sostenere l'apparato militare per minacciare la Cina.

Cose simili avvenivano tra USA e URSS durante la Guerra Fredda.

Se poi si va a vedere il Trecento, come spesso suggerisco, si provino a seguire gli intrecci paradossali tra mercanti-banchieri fiorentini, Corona inglese, Guerra dei Cent'anni e industrie tessili a Firenze e nelle Fiandre, con contorno di Rivolta dei Ciompi ed epidemia di peste. C'è di che istruirsi. Forza! E' l'ora di lezione della Storia.


La denazificazione: limiti concettuali, politici e pratici

Quando la Russia ha invaso l'Ucraina parlando di “denazificazione” si sono letti commenti sguaiati come quello di Norma Rangeri su quel “manifesto” che insiste a definirsi, chissà perché, “quotidiano comunista”. Lasciando perdere le isterie filo imperiali, cerchiamo però di capire qual è il vero problema con la “denazificazione”, posto che i nazisti in Ucraina ci sono veramente, sono criminali, hanno un potere inversamente proporzionale allo scarso consenso popolare, sono infiltrati in punti nevralgici e tengono in scacco i governi di Kiev.

Torniamo a Pinochet. I suoi gorilla stragisti e torturatori erano ciò che più appariva di un sordido scenario dietro il quale manovrava una fetta importante di società cilena che cercava benessere e privilegi collegandosi agli Stati Uniti e che avrebbe accolto poi con favore il primo esperimento mondiale di neo-liberismo, condotto dai Chicago Boys.

Similmente i neo-nazisti sono visti da una parte di società ucraina come un tollerabile ausilio al suo sogno di collegarsi alla UE per dar corso ai propri interessi. La Maidan era piena di persone che sicuramente in buona fede (la difesa dei propri interessi crea la falsa coscienza e quindi la buona fede) volevano entrare nella UE (e anche disfarsi degli oligarchi) mentre intorno il gioco sporco lo facevano i neo-nazisti e i cecchini georgiani e lituani pagati da Washington.

A quanto sembra, per molti ucraini è lecito che il “sogno liberista europeo” sia difeso da personaggi con la svastica la cui fanatica russofobia sovrasta e nasconde una, diciamo così, formale riproposta degli schemi nazisti classici come l'antisemitismo, un odioso omaggio alla tradizione storica ma tutto sommato considerato dalle “persone perbene” residuale o folkloristico (cosa per me incomprensibile, ma sembra che le cose stiano così). Ciò rende tollerabile il neo-nazismo ucraino anche ad ebrei e persino ad ebrei di famiglia russofona come Volodymyr Zelensky (anche se in questo caso io penso che più che altro giochi un mix di codardia e totale mancanza di scrupoli). 

Insomma, se l'infezione razzista erutta come odio anti-russo è semplicemente utile. 

Per quanto ci riguarda, dopo decenni di lavaggio del cervello, per un occidentale se non c'è antisemitismo (o c'è ma è considerato solo una stravaganza) non c'è nemmeno nazismo. Le due cose per lui coincidono, anche se nella realtà storica sono coincise solo per una parte, perché un'altra enorme parte è rappresentata dai 27 milioni di sovietici (tra cui ucraini) uccisi, totalmente spariti dai libri di Storia e dall'immaginario collettivo revisionista e di fatto negazionista occidentale.

Così se un russo parla di “denazificazione” oggi, non può sperare che un occidentale possegga alcuna coordinata culturale o politica per capirlo (magari un “giornale comunista” le dovrebbe avere, ma dipende da chi lo dirige). Per lui sarà денацификация (denazificazione in russo) un semplice suono, o più facilmente una scusa per annettersi l'Ucraina. Fa molto effetto vedere un esponente del PD metropolitano milanese nel 2014 a braccetto con sostenitori attivi del battaglione Azov (all'epoca detestato anche dal NYT e da Amnesty) poi invitati in una sezione del PD dedicata ad un partigiano. E fa molto effetto che a protestare fossero i piddini di una generazione precedente. Infatti questo giovane esponente PD non era un farabutto, era così che lo disegnavano i tempi. Lui era semplicemente un antirusso che, come tutto il suo partito, seguiva le direttive del Dipartimento di Stato e della Nato.

E in Ucraina ho l'impressione che le cose siano simili. Ora, io non so quali sono le demarcazioni etnico-sociali del sogno liberista europeo. Non conosco la composizione di classe dell'Ucraina e il suo intreccio con le etnie e le lingue. Ma ho il timore che nemmeno il Cremlino, imbevuto di liberismo, abbia studiato il problema. O che addirittura se lo sia posto. Eppure è un problema che può mettere in discussione le certezze o le speranze che si basano su “Kiev luogo di nascita della Russia” o su “l'Ucraina piccola Russia” eccetera. Cose storicamente vere (gli Ucraini si definiscono - definivano? - “piccoli Russi” nel significato di “Russi del nucleo centrale”), ma la Storia non è mai ferma e bisogna saper distinguere ciò che varia da ciò che è invariante. Quando sento gli “esperti” che tirano in ballo questi topos (o meglio “topoi”) come se fossero invarianti, un po' sbadiglio. Ma mi preoccupa pensare che li usino al Cremlino. Non sarà per questo che non c'è (ancora) stata quella rivolta interna contro i neo-nazisti che molti osservatori si aspettavano? Me la spettavo anch'io, e infatti mi sono imposto un ripensamento. Ma se l'aspettavano anche al Cremlino o era esclusa dai calcoli? Per adesso è inutile pensare di ottenere una risposta. Possiamo mantenere solo i dubbi.

Per finire, l'a-liberismo russo, se si concretizzerà, potrà competere con un liberismo europeo in crisi e con un'Europa rinchiusa dagli USA in un recinto per essere tosata?

Facendo finta che gli USA e la Nato non intervengano militarmente o con altri golpe e che la Russia non mantenga un'occupazione militare, chi vincerà la battaglia delle idee nell'era post-contemporanea? Chi sarà in grado di esercitare egemonia invece che dominio? L'Ucraina è un buon test per un problema che si porrà per tutto il mondo. Se non verrà spartita, magari con un pezzetto, tipo Leopoli, alla Polonia e un altro all'Ungheria (è stupefacente come le nazioni da “espressioni geografiche” diventino con pazienza “espressioni politiche” per poi ritornare “espressioni geografiche” in men che non si dica, appena qualcuno abbia interesse a sfruttare differenze linguistiche, religiose, culturali, etniche o di qualsiasi altro tipo - e potrebbe succedere anche a noi qualora entrassimo nel mirino di qualcuno).

Quel che possiamo con buona verosimiglianza prevedere e che i sogni dell'Ucraina di essere annessa all'Europa si scontreranno con l'impossibilità dell'Europa di soccorrerla in un qualsiasi modo significativo, presa come sarà a cercare di non annegare. Sostanzialmente sarà lasciata a se stessa. L'ultimo dono che riceverà dall'Europa saranno le armi perché la sua agonia continui ancora a lungo a beneficio del sogno del New American Century.


C'è un nuovo green pass che ora viene imposto. Viene rilasciato se si sta dalla parte della Nato e degli USA. Io quello vaccinale ce l'ho, ma questo non lo posso avere.

Tutti vogliono sapere da che parte uno sta. Immagino che un russo stia dalla parte della Russia (non sempre) e che uno statunitense stia dalla parte degli Stati Uniti (non sempre). E' abbastanza naturale. E' meno naturale per un europeo. Ed è innaturale per un europeo che detesta la logica dei cicli sistemici, che ovviamente nessuno si è inventata e si è imposta nel corso della Storia, ma cionondimeno è totalmente perversa.

Quando due elefanti litigano è l'erba che ne fa le spese. Ecco, i miei figli sono l'erba e io sto dalla parte dell'erba.



giovedì 24 marzo 2022

Dall'Errore Fatale all'Idiozia Fatale.
Ovvero: della sconnessione cognitiva e del rischio di guerra nucleare


di Piotr


Partiamo da due votazioni all'ONU che sono una significativa introduzione al discorso che segue.

24 novembre 2014. 

All'ONU la Russia propone una condanna del nazismo. Ucraina, USA e Canada votano contro. L'Italia (governo Monti) si astiene, assieme alla UE. L'Occidente era coerente: come faccio a condannare il nazismo se in Ucraina devo sostenere Settore Destro, Svoboda e banderisti e nazisti assortiti? Non si può.

18 novembre 2021.

La Terza Commissione dell’ONU approva una risoluzione che vieta la glorificazione del nazismo con 125 voti a favore, 53 astenuti (tra cui l'Italia, governo Draghi) e i voti contrari di Stati Uniti e Ucraina. Stesso copione. Come faccio a votare a favore quando so che devo glorificare i nazisti ucraini del battaglione Azov e del battaglione Donbass assieme ai volontari nazisti provenienti da mezzo mondo? Non si può. 


Durante la prima settimana di guerra, in Russia c'era sconcerto e preoccupazione. Poi la situazione è cambiata. Non a causa di leggi restrittive (che sono giunte dopo - e in Ucraina è anche peggio: 11 partiti di fatto fuorilegge e la TV sotto legge marziale), non a causa di imponenti campagne di PR, di informazione o disinformazione, sia perché i mezzi per attuarle sono in mano occidentale, sia perché i Russi, al contrario degli occidentali, comunque non sono capaci di farle; a parte qualche barlume creativo sono rimasti fermi all'Unione Sovietica, sono grezzi (poco più di un burocratico briefing ministeriale, niente di psicologicamente sofisticato, capacità di marketing politico e di public relations a livelli elementari).

E quindi? E quindi, ed è solo un apparente paradosso, la situazione si è rovesciata grazie alla nostra capacità di manipolazione delle masse e per la precisione grazie alla combinazione di due cose: a) la glorificazione occidentale di forze notoriamente naziste e dedite a crimini di guerra e ad altre violenze, b) una forsennata campagna occidentale d'odio contro tutto ciò che è russo: artisti, musicisti, registi, cantanti, scrittori, lingua, tutto. Una campagna di stampo razzista, che ogni russo sente sulla propria pelle, lo disgusta e gli ha fatto tornare in mente una delle periodiche crociate dell'Occidente contro la “Madre Russia”. 


In sintesi, i Russi si sono trovati alle porte dei nuovi cavalieri teutoni, con la svastica sugli scudi, che premono verso Mosca al grido di “Cancelliamo la Russia!”. Questa è oggi la loro percezione e noi abbiamo fatto di tutto perché l'avessero, dall'Errore Fatale dell'espansione a Est della Nato, denunciato 25 anni fa da George Kennan, all'Idiozia Fatale dell'ubriacatura russofobica corrente. 

Il fatto è che noi ci siamo scordati che i Russi una campagna come questa l'hanno già subita otto decenni fa. Ma loro non lo hanno mai dimenticato, perché non possono dimenticare 27 milioni di morti in quattro anni di guerra. 


Il risultato congiunto di Errore Fatale e Idiozia Fatale è stata una crescita costante del consenso per le scelte, obtorto collo sempre più radicali, del Cremlino (così come lucidamente previsto da Kennan nel 1997). Se prima c'erano possibilità modeste di minare la base di consenso per Putin, in questo momento sono pari a zero.


Putin arringa la folla



Se il liberista Putin che voleva entrare nella UE e nella Nato si alienava una grande fetta della società russa (il Partito Comunista Russo è ampiamente il primo partito d'opposizione, non, come ci vogliono far credere, quella sorta di minuscola filiale del Dipartimento di Stato americano che è “Russia del Futuro” di Navalny - esempio di sconnessione cognitiva occidentale), attorno all'a-liberista Putin (non so come altro definirlo), attorno al Putin non solo non ammesso al club occidentale ma odiato perché ha ridato alla Russia dignità nazionale e un inizio di benessere (sulla cui distribuzione c'è molto da discutere e da eccepire), attorno al Putin che pensava di potere fare gli interessi (liberisti) della Russia mettendosi con l'Occidente e poi si è trovato costretto dall'Occidente a doverli fare contro di esso (cosa che qualifica questo scontro come un classico conflitto mondiale da crisi sistemica capitalista, dove non c'è nessun "valore" in gioco, ma solo "interessi"), ebbene attorno a questo Putin si è ricucito e compattato quel consenso che si è potuto toccare palmarmente nel recente grande show cremlinesco allo stadio di Mosca davanti a centomila persone che lo acclamavano, in occasione dell'ottavo anniversario della riunificazione della Crimea alla Federazione Russa.


[Appunti per un altro post.

Sapere se tale consenso, in questa o altre forme, durerà o meno è tutto da scoprire. Dipende dall'andamento della guerra, dipende dalle sanzioni e da come verranno assorbite e ciò a sua volta dipende da cosa vuol dire quel termine “a-liberista” che per ora ho usato come segnaposto. Esemplifico: Putin ha appena confermato Elvira Nabiulina, una liberista e “integrazionista atlantica”, a capo della Banca Centrale Russa nonostante siano in corso feroci polemiche sul fatto che la Nabiulina abbia lasciato gran parte delle riserve valutarie russe in Occidente (che se le è ovviamente inquattate, come è d'uso fare), cosa che per qualcuno è una sorta di “tradimento”. Ma contemporaneamente ha anche nominato Sergei Glazyev (che se non ricordo male era già oggetto di sanzioni occidentali ad personam e sembrava sparito dai radar) come Ministero per l'Integrazione e la Macroeconomia dell'Unione Economica Eurasiatica. Due atti che sembrano in diretta contraddizione. Ma è proprio così? Interesseranno ancora, e dove, le riserve valutarie in dollari ed euro? Interesserà ancora, e dove, fare o non fare default? Certo interessa ai nostri “esperti” ma bisogna vedere se interesserà nella nuova configurazione del sistema-mondo in quella che ho deciso di chiamare “era post-contemporanea” (se c'è il “metaverso” ci può essere anche un'epoca “post-contemporanea”, no?), che segue quell'era contemporanea che nella mia personale periodizzazione inizia con la vittoria dei Nordisti nella Guerra Civile Americana.

Se saremo ancora vivi ne riparleremo. Se non saremo più vivi vuol dire che era anche inutile parlarne, tanto non potevo fare nulla per convincere qualcuno a fermare la corsa verso l'abisso.

Fine degli appunti]


Tornando a noi, viene il forte sospetto che in Russia lascino vedere tutti i media occidentali proprio per ottenere questi risultati. Perché noi in realtà la Russia e i Russi non li conosciamo e suppliamo alla nostra ignoranza con una overdose di arroganza, siamo convinti che tutti i popoli del mondo pensino come noi e che se non pensano come noi devono con le buone o le cattive pensare come noi. Questo è parte integrante della sindrome da sconnessione cognitiva. A dire il vero, il vecchio impero britannico era molto attento a rimanere in contatto con la realtà (per piegarla efficacemente ai suoi voleri). Il fenomeno della sconnessione cognitiva ha preso piede in Occidente con l'impero americano e con un andamento esponenziale. E' una questione di condizioni storiche frammiste a forme mentali che orientativamente definirei “disorganizzate”, non sistemiche. Un intreccio complesso di cui qui non parlerò.


Dicevo “lo stadio di Mosca”. Ma Putin non doveva essere in un bunker segreto in Siberia perché i carri armati di Kiev stavano assediando il Cremlino e gli 007 dissidenti assieme a ricconi e oligarchi inviperiti per le sanzioni gli davano la caccia per eliminarlo? No, stava facendo un bagno di folla. Ma i nostri media non hanno perso l'occasione di dar sfogo alla loro ormai irrefrenabile voglia di raccontare frottole: per loro tutte quelle persone erano “ovviamente pagate”. Questa è ovviamente una balla o una pia illusione (e disprezzo per il proprio pubblico). Ora, il punto è che credere alle proprie bugie aumenta, appunto, la sconnessione cognitiva, cioè la difficoltà di interpretare correttamente la realtà e quindi di incidere su di essa. Come se io pensassi di sconfiggere sul ring un pugile di 100 chili ripetendomi come un mantra “tanto è un pallone gonfiato”. Sai come va a finire! Ma questi sarebbero fatti miei. E' invece criminale se la sconnessione cognitiva rischia di mettere a repentaglio la vita sulla Terra. 

Chi infatti in preda alla sconnessione cognitiva era troppo occupato a tentare di denigrare l'evento cremlinesco come una messinscena, non poteva capire la rilevanza di quel che diceva Putin. Gli sarà sfuggito ad esempio questo passaggio: 

«L'obiettivo principale e la ragione dell'operazione militare che abbiamo lanciato nel Donbass e in Ucraina è alleviare queste persone dalla sofferenza, da questo genocidio. A questo punto, voglio ricordare le parole delle Sacre Scritture: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”.» 


Sapete cos'è questa? È né più né meno che la proclamazione di una “Grande Guerra Patriottica” come quella con cui l'unione Sovietica sconfisse la Germania nazista. 

A chi non sa mai a che ora è la lezione della Storia, ricordo che durante la Grande Guerra Patriottica, Stalin mise di lato l'ideologia socialista, tirò fuori le icone sacre, e coinvolse i pope. Perché una Grande Guerra Patriottica è per la Russia una guerra per la sopravvivenza da combattere fino all'ultimo respiro da parte di tutti indistintamente. Lì non si moriva per Stalin ma per la Madre Russia. 

Se non si capisce questo si va incontro al disastro. 

Putin da anni ripeteva all'Occidente: “Fermatevi! Negoziamo! Noi non abbiamo più lo spazio per arretrare, nemmeno se lo volessimo. Attenzione che i Russi hanno molta paura della guerra, ma sono pronti a combatterla”.


La battaglia di Stalingrado




E così è stato. E se non fossi un credente mi verrebbe in bocca una bestemmia. Perché sto pensando a tutta la gente che muore e che soffre e a quella che soffrirà e morirà.

A questo punto è indispensabile che l'Occidente capisca che non può vincere contro chi combatte una guerra che è percepita come lotta per la sopravvivenza e che combatterà fino all'ultima goccia di sangue. È necessario che l'Occidente capisca che se i Russi hanno attaccato con uno svantaggio di 1 a 3 (o addirittura 1 a 6) invece che con un vantaggio di 3 a 1 o di 5 a 1 come prescrivono i manuali di guerra, è perché il grosso dell'esercito russo, cioè i 3 milioni e 300 mila soldati che non sono andati in Ucraina assieme ai loro 100mila commilitoni, è in patria ad aspettare un attacco della NATO. E se lo aspetta vuol dire che pensa che possa accadere di tutto. E può accadere di tutto perché come ha dichiarato Putin ai Russi non interessa un mondo senza la Russia. Non occorre essere scienziati politici per capire cosa vuol dire.

Durante la Seconda Guerra mondiale, i nazisti hanno imparato a carissimo prezzo, a partire da Stalingrado, la differenza tra una guerra di conquista (la loro) e una guerra di sopravvivenza (quella sovietica). 

Si dice che al contrario speculare dei Russi, gli occidentali non hanno paura della guerra, ma non sono pronti a farla. E si noti un'altra cosa: a differenza della Russia, gli Stati Uniti non hanno mai combattuto una guerra per la propria sopravvivenza. E' una differenza storica, psicologica e culturale, prima ancora che politica, fondamentale.


La Storia ha insegnato che una guerra fatta a 10.000 chilometri di distanza (Afghanistan, Corea, Iraq, Vietnam) prima o poi si perde, non per la lontananza fisica, ma per la “lontananza morale”, anche se si tenta di convincere con mille mezzi e in mille modi diversi che la sicurezza della propria casa è situata a 10.000 chilometri di distanza. Al contrario, una guerra combattuta davanti a casa, prima o poi la si vince. Oppure la casa crolla, ma con tutti i Filistei dentro. 

Speriamo quindi che gli Occidentali non siano veramente pronti a fare la guerra. Perché in Russia ci aspettano, siamo riusciti a disgustarli, e a deluderli, come peggio non potevamo. 

Brecht diceva che rapinare una banca era un crimine, ma che fondare una banca era un crimine ben maggiore. Allo stesso modo, iniziare una guerra è un crimine, ma provocarla ostinatamente e scientemente è un crimine più grande. 

Rischiare di trasformarla in una guerra nucleare è un crimine che non ha fine e non ha perdono.


MOMENTO POPULISTA  E RIVOLUZIONE PASSIVA




In varie occasioni ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe ha assunto da quando la controrivoluzione liberista ha sconfitto le classi lavoratrici, annientandone l’identità socioculturale e inibendole la possibilità di rappresentare politicamente i propri interessi. Questa definizione è stata erroneamente interpretata come una legittimazione “ideologica” del populismo, benché chi scrive abbia sempre sostenuto che il populismo non è né è mai stato un’ideologia; sia perché non esiste un corpus teorico e ideologico condiviso dai movimenti populisti, sia perché gli sforzi di definire elementi comuni a tutti i movimenti populisti del passato e del presente non hanno prodotto altro che degli “idealtipi” inadeguati a cogliere la complessità del fenomeno. Dire che il populismo è la forma in cui oggi si manifesta la lotta di classe non implica attribuirgli connotati positivi. Chi ritiene che il conflitto di classe abbia sempre e comunque valenza progressiva dimentica che le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti, ed è per questo che, in assenza di un progetto politico controegemonico, ogni moto sovversivo tende a risolversi in una “rivoluzione passiva” che cavalca le lotte delle classi subalterne per rivolgerle contro i loro stessi interessi. Dal momento però che non penso neppure che il populismo sia di per sé un fenomeno regressivo, necessariamente destinato ad assumere connotati “di destra”, le mie tesi sono state impropriamente associate a quelle del filosofo argentino Ernesto Laclau. 


Laclau sostiene che la diffidenza e il disprezzo nei confronti del populismo è un riflesso – apparentemente anacronistico - della paura delle oligarchie tardo ottocentesche nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena del conflitto politico: paura della democrazia insomma. Anacronismo apparente, dal momento che la paura in questione torna ad essere attuale nel momento in cui, dopo una lunga fase di neutralizzazione dei conflitti sociali da parte del sistema liberal democratico, quest’ultimo attraversa una crisi radicale che crea le condizioni di un “momento populista”. Di momento populista, sostiene Laclau, si può parlare allorché un sistema egemonico non riesce più a rispondere in modo differenziale alle domande del corpo sociale. In tale situazione tende a instaurarsi una “catena equivalenziale” fra le domande inevase: ci troviamo cioè di fronte, per dirla con le sue parole, a un “accumulo di domande inascoltate e una crescente incapacità del sistema istituzionale di assorbirle in modo differenziale (ognuna isolata dalle altre) [per cui] tra di loro si stabilirà una relazione di equivalenza”. Tale relazione si rafforza a mano a mano che cresce la distanza fra popolo e istituzioni, fino a produrre una dicotomizzazione fra un noi e un loro, a tracciare un confine amico/nemico fra popolo e potere. Se l’equivalenza si estende oltre un limite critico, “diventa difficile determinare quale sia l’istanza cui andrebbero indirizzate”. Emergono così uno o più “nemici” sui quali tende a concentrarsi la rabbia, creando le condizioni per l’unificazione politica dei soggetti che avanzano le rivendicazioni. 


Ernesto Laclau



Le differenze con la visione marxista sono evidenti: mentre quest’ultima associa i conflitti sociali e la possibilità di unificarli alle contraddizioni socioeconomiche generate dai rapporti di produzione, per Laclau le rivendicazioni sono eterogenee, condividono solo l’opposizione a un regime oligarchico (élite, casta, ecc.) vissuto come “cattivo”, per cui l’unificazione si dà sul piano simbolico-discorsivo. Del resto, argomenta Laclau, la società capitalista non genera solo l’antagonismo fra capitale e lavoro, ma una miriade di punti di rottura, la maggior parte dei quali (crisi ecologiche, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc.) esterni al mondo produttivo, perciò non esiste alcuna necessità che indichi negli operai i soggetti privilegiati del conflitto sociale: tutto ciò che sappiamo è che questi ultimi saranno “gli esterni al sistema, gli emarginati, i derelitti”. Il riferimento ai derelitti introduce un tema “morale” estraneo all’approccio strutturalista di Laclau, quasi costui volesse salvare in questo modo la sua originaria anima marxista: da un lato rinnega la categoria di classe sociale, ma dall’altro evoca un “popolo” sì interclassista ma dai connotati plebei. Non meno eclettica la sua rilettura del concetto gramsciano di egemonia: Laclau rimpiazza l’egemonia di classe con la capacità di una particolare rivendicazione di incarnare simbolicamente l’intera catena equivalenziale. È vero che gli obiettivi di un gruppo in lotta per il potere possono essere realizzati solo mobilitando forze più ampie, costruendo un blocco sociale, ma ciò, sostiene Laclau, non ha a che fare con la composizione di classe, bensì con la ”performatività” di un discorso capace di integrare il contenuto simbolico di tutti i discorsi della catena equivalenziale. Ecco perché parla di un Gramsci che avrebbe “anticipato la possibilità di comprendere le identità collettive secondo modalità sconosciute al marxismo”. Ho smontato questa tesi in un capitolo sui Quaderni dal carcere di un mio recente libro, al quale rinvio ; qui mi limito a ribadire come la peculiare concezione di “autonomia del politico” adottata da Laclau – diversa da quella di Mario Tronti e altri  autori - , veda nel politico il prodotto di forze esterne alla sfera dei rapporti socioeconomici.

 

Sono dunque chiare le ragioni per cui sostiene che il linguaggio populista deve restare impreciso e fluttuante: non a causa di un deficit di chiarezza ideologica, ma in quanto l’unificazione populista avviene su un terreno sociale eterogeneo. Parole come ordine, giustizia, uguaglianza non indicano contenuti univoci e positivi, ma sono “significanti vuoti” che evocano cose diverse per soggetti diversi, ancorché partecipi della stessa catena equivalenziale. Ciò detto, per Laclau il linguaggio è un fattore fondamentale ma non sufficiente per la costruzione del popolo: per realizzare tale obiettivo occorrono processi di identificazione che si sviluppino sia in orizzontale (identificazione reciproca fra i membri del gruppo) sia in verticale (identificazione fra i membri del gruppo e il leader). L’insorgenza populista vince solo se si dota di una dimensione verticale che può assumere l’aspetto dell’organizzazione o quello dell’identificazione con il leader (o entrambe). Prima di entrare nel merito del peso che questa concezione ipertrofica del ruolo del linguaggio e del leader ha avuto nel causare il fallimento dei movimenti populisti dopo un’effimera stagione di successi, è il caso di introdurre un altro elemento di criticità che emerge chiaramente dalle tesi di Chantal Mouffe, autrice che non ha solo condiviso il percorso teorico di Laclau ma ne ha raccolto l’eredità. Mentre Laclau definisce il popolo come l’insieme degli ultimi, degli esclusi, degli sconfitti, la Mouffe non associa le rivendicazioni che convergono nella “catena equivalenziale” a soggetti sociologicamente definiti: rescindendo i legami fra discorso politico e società concreta, costei definisce il sociale “come spazio discorsivo, prodotto di articolazioni politiche puramente contingenti, che non hanno nulla di necessario e potrebbero sempre assumere una forma differente”. Di più: gli ultimi sviluppi del suo pensiero, successivi alla morte di Laclau, depongono ogni velleità antisistemica, indicando obiettivi compatibili con la conservazione dei rapporti di produzione capitalistici e del regime liberaldemocratico. L’attuale ordine egemonico, secondo Mouffe, può essere rovesciato senza distruggere le istituzioni liberaldemocratiche, soprattutto dopo che il crollo del sistema socialista ha dimostrato che esso è inadeguato per l’Europa, per cui la sinistra deve riconoscere sia la necessità della democrazia pluralista, sia il fatto che la domanda di democrazia radicale “non implica stabilire un modello completamente distinto che richiederebbe una rottura totale con la democrazia pluralista”, ma deve limitarsi a rivendicare “una radicalizzazione dei principi di libertà e uguaglianza sviluppati in modo insufficiente dalla socialdemocrazia”.


Mettendo a confronto quest’ultima dichiarazione programmatica con la storia recente dei populismi di sinistra, è difficile non trarne la conclusione che tanto i principi teorici che ne hanno inspirato l’azione quanto i tentativi di metterli in pratica, sono falliti. Il momento populista si è dunque esaurito? La risposta non è scontata e, per tentare di sciogliere il nodo, occorre operare una netta distinzione fra il discorso di Laclau e Mouffe in quanto teoria politica nel senso “leninista” del termine, cioè come guida per l’azione, e lo stesso discorso in quanto descrizione empirica di alcune dinamiche attuali del conflitto sociale. Nella seconda parte di questo articolo cercherò di dimostrare che, mentre  il momento populista non si è esaurito, le illusioni di poterne canalizzare l’energia in un progetto di radicalizzazione della democrazia, senza mettere in discussione le strutture socioeconomiche del sistema, sono svanite. 


L’illusione si è dissolta a partire dal continente che ne è stato la culla: le teorie di Laclau sono inspirate dal peronismo argentino, ma il momento populista che si è a più riprese presentato in quel Paese e in altri Paesi latinoamericani a partire dal “giro a la izquierda” che ha visto nascere molti governi post neoliberisti fra la fine dei Novanta e l’inizio del Duemila, ha subito un duro contraccolpo a partire dalla crisi del 2008, è solo in pochi casi - come in Bolivia e in Venezuela - è riuscito a mettre in atto concreti processi di trasformazione sistemica. Significativa, in tal senso, l’evoluzione della Revolucion Ciudadana in Ecuador, che rappresenta un tentativo da manuale di applicare le teorie di Laclau. Dopo una serie di rivolte popolari contro le politiche neoliberiste che avevano avuto come protagonisti prima i contadini di origine indigena poi le classi medie urbane, un gruppo di docenti universitari concepisce a tavolino un progetto di unificazione simbolica di questi movimenti, convincendo Raphael Correa, economista già noto e popolare in quanto aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, a presentarsi alle elezioni presidenziali. Leader dotato di grande talento comunicativo, Correa costruisce una macchina elettorale “personale”, che non si lega né alle sinistre, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani, vincendo a sorpresa le elezioni. Salito al potere, realizza una serie di riforme e di politiche economiche di taglio socialdemocratico ma, a mano a mano che la situazione economica peggiora, paga lo scotto di avere puntato tutto sul governo dell’opinione pubblica, senza costruire salde relazioni con i gruppi sociali che ne avevano favorito la vittoria. Così, quando i suoi successori tornano a praticare politiche neoliberiste, nel Paese non esistono forze organizzate in grado di contrastarle efficacemente. 


Raphael Correa




In Europa le teorie di Laclau-Mouffe, ancorché ampiamente note e discusse in ambito accademico, hanno inspirato un solo tentativo sistematico di metterle in pratica, cioè l’esperienza spagnola di Podemos. Podemos nasce nel 2014, aggregando militanti dei movimenti sociali del 2011-2013 e attivisti dei partiti e dei movimenti di sinistra radicale attorno a un progetto elaborato a tavolino da un gruppo di docenti dell’Università Computense di Madrid, i quali si inspirano appunto alle teorie di Laclau, alla concezione “moltitudinaria” di Antonio Negri e alle rivoluzioni bolivariane in America Latina. La strategia si basa sul ruolo strategico della comunicazione e del linguaggio: la Web Tv che ospita La Tuerka, un talk show condotto da Pablo Iglesias, fustiga la corruzione e le politiche antipopolari delle oligarchie al potere e agisce da collante per le rivendicazioni di un ampio spettro di gruppi sociali (il soggetto di riferimento non sono le classi ma i “cittadini”), oltre a costruire la figura del leader. I fondatori si propongono di assemblare nel più breve tempo possibile una macchina da guerra elettorale in grado di conquistare la maggioranza (usando una definizione scontata, si potrebbe dire che aspirano a essere “maggioranza di governo e di opposizione”). La strategia frutta una rapida crescita dei consensi elettorali che tocca l’acme alle politiche del 2016, quando Podemos ottiene poco più del 20%. Dopodiché inizia un riflusso che tocca il fondo in occasione delle recenti elezioni amministrative di Madrid (il cui esito disastroso ha indotto Iglesias a rassegnare le dimissioni).


Facciamo un  passo indietro. A mano a mano che il progetto di conquistare la maggioranza si rivela irrealistico, Podemos si rassegna alla necessità di stringere alleanze, ma si divide fra la maggioranza di Iglesias, che sceglie la coalizione con Izquierda Unida, e la destra di Inigo Errejon favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe. Dal 2016 Iglesias parla di fine del ciclo populista e della necessità di restituire al partito una chiara identità di sinistra (nei primi anni di vita il movimento aveva rivendicato un’identità né di sinistra né di destra, per strappare voti all’intero arco delle forze politiche tradizionali). Da quel momento, Podemos imbocca un percorso che lo porterà a distinguersi sempre meno dalle sinistre radicali europee. Rispetto alle quali, del resto, presenta la stessa composizione sociale, sia della base militante che dell’elettorato: rappresenta cioè le esigenze e ai valori (vedi il cambiamento del nome in Unidas Podemos, in omaggio all’ideologia politicamente corretta) dei ceti medi riflessivi, per cui è votato soprattutto da studenti e lavoratori “creativi”, mentre, pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta nettamente indietro rispetto al Psoe. 



Pablo Iglesias



Paradossalmente, questa “svolta a sinistra” non si traduce nello sforzo di costruire una forza di opposizione dotata di radicamento sociale, capace di affondare le radici nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei territori, né mette in discussione l’orientamento “comunicazionista” e “governista” del movimento – orientamento che gli consente finalmente di approdare al governo ma in posizione subordinata rispetto al Psoe, del quale è costretto a condividere tanto le politiche antipopolari della Ue quanto la linea aggressiva e imperialistica della Nato (questa scelta, che causa l’abbandono del movimento da parte di molti militanti provenienti dalle fila della sinistra anticapitalista, viene giustificata con la necessità di fare fronte unito contro la minaccia delle destre). 


In questo contesto suona beffardo l’esito elettorale di Madrid, dove il partito di Errejon, uscito da destra da Podemos e rimasto fedele al rifiuto di collocarsi lungo l’asse oppositivo destra/sinistra e alla originaria visione “cittadinista” del movimento, ottiene il triplo dei voti di Podemos. Se tutto il partito avesse seguito questa linea sarebbe arrivato assai prima al governo e si sarebbe potuto giocare rapporti di forza più favorevoli con il Psoe? Il collasso dell’M5S in Italia ci fa capire che tale ipotesi è illusoria. Il paragone non è arbitrario, perché, al di là delle differenze ideologiche e del fatto che L’M5S non si è mai inspirato alle teorie di Laclau, senza dimenticare che la sua cultura, rispetto a quella di Podemos, non è solo anticasta ma radicalmente impolitica – se non antipolitica – la composizione sociale dei due movimenti e dei rispettivi elettorati sono in larga misura sovrapponibili, lo stesso dicasi della strategia comunicazionista, del ruolo esorbitante attribuito alla figura del leader, della scelta di costruire un partito “leggero” privo di strutture articolate sul territorio, nonché dell’ambizione di agire come forza al tempo stesso di governo e di opposizione. Inoltre l’M5S, al pari dell’ala destra di Podemos, non si è mai caratterizzato come una forza antisistema, ha sempre rivendicato come proprio obiettivo strategico la democratizzazione del sistema esistente, non il suo abbattimento. Non è dunque un caso se l’approdo finale è stato lo stesso: andare al governo in posizione subordinata con due “sinistre” come il PD e il Psoe, europeiste e atlantiste in tema di politica estera e neoliberiste in tema di politica economica.


Né hanno avuto un destino molto diverso le sinistre populiste francesi, americane, inglesi e tedesche (vedi l’arretramento della Linke alle ultime elezioni), per tacere della catastrofica avventura di Syriza in Grecia. Dobbiamo quindi recitare il de profundis per il populismo di sinistra? I populismi di sinistra (non diversamente da quelli di destra) hanno funzionato come contenitori della rabbia degli strati sociali più esposti ai disastri provocati da decenni di globalizzazione neoliberista ma, non avendo saputo né potuto offrire concrete e credibili alternative politiche all’esistente, sembrano destinati a sparire o a venire integrati nel sistema, a conclusione di un processo di mutazione e adattamento. Ciò significa che il momento populista è finito? 


Per rispondere occorre ripartire da Laclau e dalla distinzione fra la sua teoria come guida per l’azione e la sua analisi empirica del fenomeno populista: se si guarda alla prima la risposta è sì, se si considera la seconda è no. No, perché un fenomeno come il movimento NoVax risponde pienamente ai requisiti dell’analisi empirica di cui sopra: catene equivalenziali in cui convergono rivendicazioni eterogenee sotto l’aspetto “ideologico” (estrema destra vs estrema sinistra), socioeconomico (piccoli e medi imprenditori che temono l’immiserimento vs frange sindacali che temono l’uso del Green Pass come strumento di discriminazione sui luoghi di lavoro), psicologico (paura della potenziale dannosità del vaccino vs insofferenza per le limitazioni alla libertà individuale) e l’elenco potrebbe proseguire. Altrettanto eterogeneo il ventaglio dei nemici su cui si indirizza la rabbia: i media che fanno terrorismo e diffondono false notizie, Big Pharma che sfrutta la pandemia per accumulare sovraprofitti, i governi e i partiti politici che li sostengono e sfruttano la situazione per instaurare uno stato di emergenza permanente e ridurre i diritti individuali e collettivi. Tutti questi motivi di insofferenza hanno fondamento reale, ciò che manca è invece un soggetto politico che interpreti razionalmente le diverse ragioni di conflitto, le ordini gerarchicamente e le imputi a una logica sistemica, invece di affogarle in una melassa complottista in cui tutto si confonde. Manca cioè un reale momento di verticalizzazione che può essere solo politico-organizzativo e non “affettivo”, discorsivo/simbolico. 


Quando Lenin lancia la parola d’ordine pace e terra fa un’operazione “populista”, identifica un valore simbolico in grado di unificare, in un concreto contesto storico, forze sociali eterogenee, ma l’operazione riesce solo perché può contare su macchina politica organizzata che mira più in alto. Certo: c’è autonomia del politico e c’è egemonia, ma senza perdere di vista la natura di classe di tale egemonia, l’interesse di classe che tale autonomia si propone di servire . Viceversa l’egemonia “discorsiva” che emerge dal fenomeno di cui ci stiamo occupando è una generica rivendicazione di “libertà” (un significante vuoto se mai ve n’è uno!), esalta cioè la stessa ideologia su cui si fonda il potere politico, economico e culturale contro cui ci si ribella. È così che funzionano le rivoluzioni passive e, in assenza di un  consapevole e organizzato progetto politico di natura antisistemica, le dinamiche conflittuali che l’analisi empirica di Laclau descrive tanto accuratamente possono produrre solo rivoluzioni passive.                    

  

 


domenica 20 marzo 2022


      SULL'UNITA' DEI COMUNISTI IN TEMPO DI GUERRA

Intervento di Carlo Formenti all'evento di sabato 19 marzo sull'unità dei comunisti organizzato dall'Associazione Cumpanis