sabato 19 agosto 2023





CHE COSA HO IMPARATO DA MARIO TRONTI


Questo non è un necrologio. Odio questo genere letterario perché, avendo a lungo lavorato nella redazione cultura di un grande quotidiano, lo associo a quelli che in gergo giornalistico si definiscono “coccodrilli”, vale dire gli articoli “precotti” che ogni redazione conserva nel proprio data base, in attesa di sfoderarli per celebrare la morte di questo o quel personaggio famoso. Sono scritti che raramente si sottraggono alla retorica, all’abuso di luoghi comuni e al mix di distacco e artificialità che caratterizza un testo costruito “a tavolino”, privo cioè delle emozioni suscitate dall’evento reale della morte. Quello che segue è invece il tributo che sento di dovere al pensiero di un autore che ha contribuito non poco a indirizzare il mio lavoro teorico recente. Un tributo che non ha pretese di “oggettività” accademica, nella misura in cui ricostruisce il pensiero di Tronti enucleandone gli aspetti che più si avvicinano al mio punto di vista sul mondo attuale, mentre trascura quelli che sento meno affini. 







1. Operai e capitale. Ovvero la difficoltà di sbarazzarsi di una eredità ingombrante

La biografia teorica e politica di Tronti è caratterizzata da un paradosso: benché l’avesse “rinnegata” non molti anni dopo averla scritta, Operai e capitale (1) è rimasta la sua opera di gran lunga più conosciuta, e ha continuato a esercitare una profonda influenza anche dopo che l’autore ne aveva preso le distanze, segnando il punto di vista che intere generazioni di militanti hanno avuto, e hanno tuttora, in merito alle chance di superare il modo di produzione capitalistico. Dato che non mi interessa fare storia della teoria marxista degli anni Sessanta in Italia, mi limito qui di seguito a richiamare sinteticamente quelle che considero le tesi fondamentali contenute nel libro in questione: 1) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinano in misura sostanziale i tempi e le modalità; 2) il cosiddetto “operaio massa”, vale a dire la figura che il proletariato di fabbrica ha assunto nella fase fordista dell'organizzazione capitalistica del lavoro, sviluppa obiettivi, pratiche e metodi di lotta che esprimono una coscienza politica spontaneamente anticapitalista, rivoluzionaria. In altre parole, in questa fase storica il lavoro vivo incarna una politicità immediata; 3) le tradizionali organizzazioni operaie, a partire dal PCI, ignorano questa realtà per cui, invece di riconoscere le potenzialità rivoluzionarie della coscienza di parte inscritta nella propria base sociale, imboccano la via del “nazional popolare”, neutralizzano cioè la parzialità operaia per imbrigliarla in una strategia che riduce la parte al tutto e la subordina a un progetto di “democrazia progressiva”; 4) viceversa Tronti – al contrario di Gramsci e dei suoi successori – non vedeva più il Principe nel partito ma lo identificava direttamente con la classe, l’unico vero soggetto rivoluzionario; 5) corollario di tale visione non era la negazione di qualsiasi ruolo del partito rivoluzionario, bensì la sua trasformazione: da coscienza “esterna” alla classe a strumento deputato a coordinare e organizzare sul piano tattico la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.


2. La “conversione” di Tronti. Ovvero il riconoscimento della autonomia del politico

La presa di distanza dalle tesi appena descritte avviene, come si è detto, non molti anni dopo la pubblicazione di Operai e capitale. Pur non ripudiando il principio secondo cui sarebbero le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico, Tronti ammette che, nella misura in cui tale determinazione non esita in un processo rivoluzionario guidato e organizzato (come si vede, l’idea di un partito ridotto a svolgere mansioni puramente tattiche inizia a vacillare), il capitale è perfettamente in grado di sfruttare le stesse lotte operaie ai propri fini (Tronti non si è convertito alle tesi di Gramsci, ma qui è difficile non riconoscere le analogie con la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”). Questo iniziale riconoscimento della autonomia del politico si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista evidenzieranno il  nodo problematico che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene ricondotta a contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alcuna via di uscita dal processo di riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, essa stessa capitale, non riesce a divenire autonoma, per cui la teoria che vede nello sviluppo capitalistico una variabile dipendente delle lotte operaie mostra la corda. La via d’uscita va quindi  ricercata nella rivalutazione del ruolo del politico. Ma qui sorge un altro nodo problematico, visto che Tronti conserva una visione squisitamente novecentesca del politico. Per lui, come argomenta Franco Milanesi in un bel libro (2), il politico conserva il senso di visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione. La politica è tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico. Nel solco tracciato da Marx, Lenin e Schmitt, occorre riconoscere cha la politica è forzatura, invenzione, volontà di sconvolgere il flusso temporale; non è continuità nel progresso bensì successione di fratture, interruzioni, ribaltamenti, è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico. Come inquadrare questa visione nel contesto delle disastrose sconfitte della classe operaia negli anni Ottanta e successivi? 


Nell’ultimo Tronti (3) le implicazioni di questa svolta assumono toni tragici: negli anni Ottanta, argomenta, il movimento operaio non ha perso una battaglia, ha perso la guerra e, a seguito di tale sconfitta, è stata la politica stessa a tramontare, riducendosi a mera gestione amministrativa per conto del capitale. I governi sono sempre più tecnici e meno politici e le maggioranze parlamentari hanno il compito esclusivo di eleggere dei consigli di amministrazione dell’azienda-paese. I partiti non hanno semplicemente cambiato forma, hanno rinunciato alle ragioni stesse della propria esistenza, riducendosi a collettori di voti e ad agenzie di comunicazione. Questa visione radicalmente pessimista si estende all’intera realtà contemporanea e il suo innesco catastrofico coincide con il crollo del sistema socialista: è a partire da allora che nelle sinistre si diffondono sentimenti di condanna e di rifiuto nei confronti non solo delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico del 1917, ma dell’intero “secolo breve”, descritto come una sorta di museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (4). Viceversa per Tronti il Novecento è piuttosto un secolo “tragico” che imponeva decisioni e scelte di vita radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut, dello slogan socialismo o barbarie. L’ideologia postmoderna che emerge dal suo naufragio si sbarazza di questo spirito con le parole che annunciano la “fine delle grandi narrazioni” (5) o addirittura la “fine della storia”(6). Sparita la grande politica novecentesca che lacerava la continuità del flusso temporale costringendolo a procedere per fratture, ribaltamenti e catastrofi, la storia assume la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente. 

Tronti indica nella coppia amico/nemico il bersaglio preferito di questa reazione antinovecentesca che accomuna destre e sinistre, conservatori e progressisti: assistiamo una mobilitazione totale contro la visione dicotomica della società che conduce alla condanna senza appello del punto di vista antagonista che era stato a fondamento di un secolo di storia del movimento operaio. Il risultato è la mutazione della tragedia in farsa: la lotta politica scade a reality show, il che non neutralizza la ferocia della lotta di classe (basti pensare alla macelleria sociale perpetrata dalla rivoluzione neoliberale) né, tantomeno, quella dei conflitti internazionali: nelle nuove guerre che le potenze occidentali scatenano contro le nazioni e i popoli che si ribellano al loro dominio l’inimicizia non viene civilizzata, al contrario diviene assoluta, le “guerre umanitarie” contro gli “stati canaglia” ne trasformano i leader locali in altrettanti “mostri”. Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi, Assad (oggi Putin) vengono tutti rappresentati, sfidando il senso del ridicolo, come altrettanti Hitler. Che ne è della politica in questo contesto? Provo a rispondere riprendendo le riflessioni critiche di Tronti: 1) sul fallimento del 68 e dei movimenti che ne hanno ereditato lo spirito (postoperaisti, femministe ecc.); 2) sulla necessità di rivendicare la tradizione rivoluzionaria novecentesca come “rivoluzione conservatrice”; 3) sulla necessità di ricostruire una prospettiva dicotomica, antagonista, nell’era dell’eclissi del soggetto di classe. Svolgerò infine alcune considerazioni in merito alle ragioni della paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi. 





3. La deriva neoliberale del 68

I giovani del 68, argomenta Tronti, erano radicalmente anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva voler dire, e questo è ciò che in effetti ha voluto dire, liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro quella gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento, punteggiati da guerre e rivoluzioni scatenate dall’utopia del libero mercato. Negli anni Settanta può così trionfare quello che autori come Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (7): l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei nuovi movimenti, che si allontanano progressivamente dall’impegno per la difesa dei bisogni proletari, diviene adesione inconsapevole a una nuova cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull'edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale della razionalità del limite in qualsiasi campo dell’esistenza e dell’agire umani. 

Nel 68 Tronti non vede una svolta epocale, un grande inizio, bensì la fine, la conclusione del Novecento. Più che di un grande balzo trasformativo, si è trattato, alla fine dei conti, di un banale cambio di ceto politico, in seguito al quale la storia si è progressivamente convertita nello scorrere di “un tempo senza epoca”, nel quale ogni increspatura viene scambiata per una svolta epocale, mentre nessuna vera svolta è più possibile a fronte di una realtà caratterizzata dalla dittatura del presente, un presente che ignora passato e futuro. Se il grande Novecento è stato l’epoca delle grandi rivoluzioni – grandi anche nel loro tragico fallimento - la sua parte terminale è invece il tempo delle rivoluzioni immaginarie, fallite prima ancora di iniziare. Paradigmatico, in tal senso, il destino del femminismo, movimento nei confronti del quale Tronti confessa di avere inizialmente nutrito simpatia e interesse, almeno finché il “femminismo della differenza” è stato neutralizzato dal prevalere del proprio lato emancipatorio. Nel momento in cui l’emancipazione vince, la rivoluzione perde: avanzando verso l’uguaglianza fra generi le donne non sono salite ma scese sulla scala delle libertà; hanno acquisito nuovi diritti, ma i diritti qualsiasi società moderna è più che disposta a concederli, perché è consapevole che si tratta di un altro modo per assicurare il potere a chi comanda. Nella misura in cui l’emancipazione si è sviluppata in senso contrario alla differenza di genere, la politica della differenza si è piegata alla logica borghese di neutralizzazione e depoliticizzazione; la vittoria dell’emancipazione sancisce l’inclusione senza residui del femminile nel sistema. Si tratta un  destino condiviso da tutti i nuovi movimenti, i quali hanno finito per soccombere, più che di fronte alla repressione o a minacce totalitarie, al trionfo di una democrazia intesa esclusivamente come emancipazione individuale, di un progetto che mira a isolare l’individuo e a impedirgli di entrare in rapporto con altri individui, a costruire una massa atomizzata agevolmente manipolabile. 


Giudizi analoghi, tanto più amari in quanto implicano una dura autocritica delle sue antiche tesi, Tronti esprime nei confronti della deriva postoperaista. Si potrebbe dire, argomenta, che il “peccato originale” dell’operaismo è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, vale a dire l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione capitalistico. Si tratta di un principio di immanenza che si rovescia perversamente in principio di cattura, sintetizzato nello slogan secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, dopodiché, non essendoci più alcun fuori, non c’è alcuna possibilità di fuoriuscita. Da qui  l’illusione di poter battere il capitale sul suo stesso terreno, che è quello dell’accelerazione-intensificazione dello sviluppo (sociale, politico e culturale, oltre che economico). Illusione, argomenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. La critica di Tronti affonda fino al nocciolo duro della teoria operaista (e tocca qui i più espliciti accenti autocritici), vale a dire fino all’idea secondo cui la soggettività operaia rappresenta, al tempo stesso, l’unico vero motore dello sviluppo capitalistico e il principio immanente del suo rovesciamento. “Abbiamo forse caricato gli operai di un progetto eccessivo”, ammette (8), e la nostra illusione è svanita nel momento in cui è apparso chiaro che “la rude razza pagana” non ce l’avrebbe fatta a rovesciare il capitale. Né avrebbe potuto farcela, perché gli operai rappresentano sì una parte, ma una parte interna al capitale (si potrebbe dire che la scoperta trontiana dell’autonomia del politico, è stata la scoperta che aveva ragione Lenin: la coscienza spontanea degli operai non supera la coscienza tradeunionista e può divenire rivoluzionaria solo attraverso l’organizzazione politica). 


Il pessimismo tragico di Mario Tronti si oppone  all’ottimismo euforico di Antonio Negri, l’altro grande vecchio dell’operaismo italiano. Incapace di prendere atto della natura contingente del ciclo di lotte dell’operaio massa, e tantomeno disposto a rinunciare al dogma secondo cui è sempre la forza lavoro a determinare lo sviluppo del capitale, Negri cerca di proiettare il carattere spontaneamente antagonista dell’operaio massa su una successione di figure prive di consistenza reale: dall’operaio sociale alla moltitudine. Tronti liquida la metafora dell’ “operaio sociale” come un tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. Quanto alla moltitudine, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica. Negri e altri tentano di negare l’evidenza proponendo una lettura “biopolitica” dell’antagonismo fra capitalismo immateriale e lavoratori della conoscenza: visto che il capitale mette oggi al lavoro la vita stessa, il conflitto non è più fra capitale e lavoro, bensì fra capitale e umanità intera. Ma questa visione si regge su uno sfrenato ottimismo tecnologico che attribuisce al capitalismo immateriale il merito di avere realizzato la profezia dei Grundrisse: fine della legge del valore e transizione immediata al comunismo, resa possibile dal fatto che i lavoratori della conoscenza sono in grado di assumere il controllo di un processo lavorativo già compiutamente socializzato grazie alla loro cooperazione spontanea. Un discorso  che ignora il fatto che i mezzi di produzione e i prodotti immateriali sono in grado di confiscare più di ogni altro l’attività lavorativa umana e di egemonizzare le coscienze di lavoratori e consumatori (9). Contro  l’imperativo che impone di essere ipermoderni, celebrando ogni accelerazione nell’evoluzione tecnologica come un balzo in avanti verso il comunismo, si erge la diffidenza trontiana nei confronti della natura demonica della tecnologia, nonché l’invito a riconoscere il lato conservatore delle rivoluzioni novecentesche, la loro resistenza nei confronti dell’innovazione come arma di colonizzazione del sociale da parte  del capitale. 



4. Un rivoluzionario conservatore


La visione trontiana della rivoluzione presenta notevoli analogie (del resto rivendicate in più occasioni) con quella di Benjamin (10). Al pari del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti considera le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come  il compimento della rivoluzione borghese, come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista era profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, un punto di vista sintetizzabile nella convinzione che il progresso tecnologico, lo sviluppo delle forze produttive, avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata di quella capitalistica. Criticando questa illusione, Benjamin, citato da Tronti, diceva che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”. Lo stesso Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni (che per i postoperaisti diviene l'imperativo a essere assolutamente moderni) coincide di fatto con l’essere per lo sviluppo della società capitalista. Contro questa concezione continuista del progresso umano, secondo cui l’innovazione capitalistica è necessariamente destinata convertirsi nell’innovazione socialista, si contrappone il punto di vista discontinuista della rivoluzione d’ottobre guidata da Lenin, l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici, una  brusca interruzione che impone con la forza le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico e che fa sì, secondo Tronti, che la rivoluzione del 17 somigli più alle rivoluzioni conservatrici che a quelle borghesi. Questa auto rappresentazione del proprio pensiero come “rivoluzionario conservatore” si fonda oltretutto su un radicale pessimismo antropologico: diversamente da Rousseau e dai suoi emuli contemporanei di sinistra, Tronti non crede a una umanità che nasce “buona” ma poi viene corrotta dalla società (per cui basterebbe riformare quest’ultima per eliminare il male dal mondo), ma è convinto che il male sia radicato nella natura stessa dell’uomo, il che rende ancora più fondamentale la missione civilizzatrice del politico. 


Purtroppo, come si è visto, per Tronti l’appello alla centralità del politico non può che suonare nostalgico dopo la catastrofe antipolitica di fine Novecento. A venir meno, infatti, è stato lo spirito rivoluzionario di una classe che non si fondava sulla sua capacità di incarnare l’interesse generale di un popolo, di una nazione o dell’umanità intera bensì, al contrario, sulla natura costitutivamente di parte dei suoi interessi. Che ne è di questo punto di vista irriducibilmente di parte in un mondo in cui il soggetto operaio sembra essersi dissolto nella massa individualizzata? La risposta di Tronti suona decisamente spiazzante se non addirittura enigmatica laddove scrive che “il punto di vista operaio non esiste più, rimane il punto di vista” o, con parole ancora più radicali che “l’odio di classe non esiste più, resta l’odio”. Con queste due affermazioni, Tronti sembra dirci che, mentre la parte non dispone più di un soggetto, né di un progetto, che la rappresentino, esistono ancora la possibilità e la volontà di opporsi al tutto, all’ordine complessivo, alla “forma di vita” dominante così come essa si esprime in politica, in economia, nella cultura, nell'agire quotidiano. 


In altre parole, per sopravvivere a se stessa la politica dovrebbe transitare dalla contestazione dei rapporti di produzione alla contestazione di un’intera civiltà, lo spirito dell’inimicizia  non dovrebbe più rivolgersi solo contro il capitale, bensì contro l’intera civiltà occidentale. Così, dopo avere ironizzato sulla retorica dei principi e dei valori occidentali che accompagna le reazioni agli attentati degli integralisti islamici, Tronti afferma che quei valori e quei principi non sono i suoi e, benché non ritenga giusto attaccarli in quel modo, ciò non lo induce a difenderli in nome della difesa di uno stato di cose che considera turpe. Insomma: l’ultimo Tronti non è divenuto un pensatore pacifista, al punto che, ricordando le sue conversazioni con Miglio e Bobbio ai tempi in cui erano tutti e tre in parlamento, racconta come Miglio – con grande scandalo di Bobbio – avesse affermato di considerare la vendetta come la categoria politica più importante, e che lui, al contrario di Bobbio, si era riconosciuto in quell’affermazione, associandola al detto di Benjamin secondo cui non si combatte per le generazioni a venire, bensì per vendicare le sofferenze e i soprusi degli antenati asserviti. Questa postura vale anche per il tema della guerra, rispetto al quale Tronti dichiara  di non avere mai condiviso l’utopia di un mondo pacificato: meglio riconoscere che la dimensione della guerra fa parte della natura umana e che, più che esorcizzarla, occorrerebbe “civilizzarla” (tema squisitamente schmittiano). Una funzione venuta meno dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, eventi che hanno inaugurato l’era delle “guerre umanitarie” in cui il nemico è stato ridotto a criminale, legittimando qualsiasi mezzo per annientarlo. Donde il monito a una classe politica che, avendo smarrito la capacità di interpretare la geopolitica, non sa riconoscere, né tantomeno governare, le trasformazioni di un mondo che minaccia di innescare conflitti distruttivi non più fra nazioni ma fra interi continenti. A questo punto si fa pressante l’interrogativo sulle ragioni di quella che ho sopra definito la paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi. 





5. Perché questo “vecchio bolscevico” è rimasto con gli aborti politici partoriti dal PCI?

Sarò sincero: questa domanda per me resta a tutt’oggi priva di una risposta accettabile, per cui mi limito a elencare qui di seguito le motivazioni che lo stesso Tronti mi ha fornito nel lungo dialogo che  abbiamo avuto qualche anno fa (11), motivazioni che considero a dir poco inconsistenti, dopodiché  proverò a formulare una ipotesi sul vero errore di prospettiva che sta alla base di una scelta apparentemente inspiegabile. Le motivazioni addotte nell’occasione appena accennata sono sintetizzabili in quattro punti che ruotano attorno al concetto che Tronti sintetizza con la necessità di “essere bolscevichi”.


Uno. Essere bolscevichi, argomenta, significa essere maggioritari, scegliere di operare laddove si concentra la forza necessaria per cambiare le cose. E’ per questo motivo, sostiene che ha fondato la rivista Classe Operaia, prendendo le distanze dall’esperienza minoritaria di Quaderni Rossi, e quando anche Classe Operaia divenne una setta, ha deciso di rientrare nel PCI, perché convinto “che occorra sempre stare nel grosso della forza anche se non corrisponde alla mia idea”.


Due. Essere bolscevichi, aggiunge, vuol dire comprendere la necessità del professionismo in politica. Non la politica come mestiere, bensì la politica come beruf, il termine weberiano che compendia in sé i significati di professione e vocazione. Tronti considera necessaria la professione politica perché non crede nell’ottimismo democratico che attribuisce a tutti i cittadini la capacità di decidere, per cui rifiuta la retorica sulla democrazia partecipativa.


Tre. Essere bolscevichi significa inoltre diffidare dell’estremismo: “La politica cammina su due gambe, il conflitto e la mediazione, se cammina solo sulla prima abbiamo l’estremismo, se cammina solo sulla seconda abbiamo l’opportunismo” (evidentemente non ha saputo/voluto prendere atto che la politica delle formazioni in cui ha militato per decenni camminava solo su quest'ultima gamba)


Quattro. Essere bolscevichi significa infine essere realisti: ”Il realismo”, dice, “si misura sulla durata delle conseguenze che tu attribuisci al tuo agire”, per cui, se vuoi che tali conseguenze durino, a volte devi rinunciare a determinati principi e valori, perché è più probabile che tu riesca a realizzarli se il tuo progetto dura nel tempo, mentre, se ti intestardisci a volerli mettere in atto qui, subito e a qualsiasi costo, andrai quasi certamente incontro al fallimento. 


La mia ipotesi è che il vero motivo dell’abbaglio trontiano risieda nella quarta motivazione. Tronti ci dice di avere scelto di collocarsi laddove si concentra la forza per il cambiamento, sacrificando valori e principi ai vincoli dettati dalla contingenza storica in vista di una loro possibile, futura ripresa e realizzazione. Ma a quali vincoli “oggettivi” si riferisce? Mi pare evidente che qui entra in campo, in barba a molte delle intuizioni critiche formulate dallo stesso Tronti, una visione rimasta costantemente maggioritaria nel marxismo occidentale, vale a dire quella secondo cui nessuna volontà rivoluzionaria può avere ragione delle “leggi” economiche dello sviluppo capitalistico, nonché degli scenari geopolitici “sovradeterminati” da tali leggi. Così il “realismo” trontiano ricade però in una visione della storia come processo lineare, unidirezionale, animato da una necessità immanente, “naturale”, in palese contraddizione con le sue riflessioni sul politico come rottura del flusso “normale” degli eventi storici. 


Se qualcosa ho potuto imparare da Tronti è quindi solo grazie alle lezioni di altri maestri che, come Gyorgy Lukacs (12), mi avevano vaccinato contro le insidie del determinismo e del meccanicismo. Ecco perché, malgrado questa pur grave debolezza del Tronti “realista” – che gli amici delle sinistre radicali non gli hanno mai perdonato –, resto convinto che nessun progetto di ricostruzione di un punto di vista rivoluzionario possa prescindere dal suo contributo teorico su temi quali l’autonomia del politico, i disastrosi effetti dell’infatuazione del marxismo occidentale per il progresso tecnologico e lo sviluppo economico; la critica della svolta individualista delle culture di movimento (e la loro conseguente cattura da parte del campo liberale); la rivendicazione della tradizione novecentesca della logica amico/nemico e del punto di vista di parte associato alla lotta di classe. Per quanto riguarda in particolare quest'ultimo punto, mi preme citare tre frasi estratte da altrettanti scritti recenti: “il cemento dell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale, non uno stare con ma uno stare contro”; “compito del partito è oggi semplificare politicamente la complessità sociale. Tornare a dividere l’uno in due al di là di tutte le apparenze sistemiche”; “che una parte va ricostruita è indubbio, altrimenti non c’è partito né politica, ma quale parte parte, strutturata come, riferita a cosa, in quale forma organizzata”. Rispondere agli ultimi quattro quesiti è il compito di qualsiasi forza politica intenzionata a rilanciare una prospettiva anticapitalista.


Note 


(1) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

(2) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano 2014

(3) In questo scritto farò riferimento soprattutto alle seguenti opere di Tronti: Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011; Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015.

(4) Vedi, in particolare, M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

(5) Cfr. J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(6) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(7) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Cfr. M. Tronti (a cura di C. Formenti), Abecedario ( con due Dvd); DeriveApprodi, Roma 2016.

(9) Sulla capacità del neocapitalismo digitale di plasmare l’identità e la cultura di lavoratori e consumatori cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Vedi anche il mio Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(10) Per una ricostruzione del pensiero “antimoderno” di Benjamin vedi A. Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano 2023.

(11) Vedi Abecedario, op. cit.

(12) Cfr. La mia Prefazione a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. vedi anche C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022. 

  






  

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