domenica 24 novembre 2024

LE CRITICHE D’UN FILOSOFO SOVIETICO 
 ALLE SINISTRE RADICALI OCCIDENTALI
UN DIBATTITO DEL 73 CHE AIUTA A CAPIRE
PERCHÉ’ IL CAPITALE HA VINTO








Alcune settimane fa Alessandro Visalli, il quale era giunto a conoscenza della sua esistenza da un post su Internet, mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il  libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista. 


In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.  



I bersagli critici di Batalov 


Sul piano ideologico e filosofico, le critiche di Batalov puntano il dito in particolare contro il sociologo americano Wright Mills; contro i membri della scuola di Francoforte e il loro concetto di “dialettica negativa” (1), Adorno ma sopratutto Marcuse, citato così spesso da occupare pagine e pagine del libro; contro Sartre e l’esistenzialismo; contro Frantz Fanon e i teorici “terzomondisti”; contro il pensiero di Mao e la Rivoluzione Culturale. All’ampiezza di questa schiera di presunti inspiratori della Nuova Sinistra fa riscontro l’area geografica relativamente ristretta alla quale dedica la sua analisi: si concentra soprattutto sui movimenti di Stati Uniti e Francia (il che spiega lo spazio privilegiato accordato ad autori come Mills, Marcuse e Sartre) mentre a Paesi che pure hanno avuto un ruolo importante in quella stagione di lotte, come l’Italia e la Germania, dedica scarsa attenzione.Veniamo ora alle accuse rivolte alla cultura e alla prassi politica dei movimenti in questione. 



E. J. Batalov



La prima si riferisce al fatto che si auto definivano come una forza rivoluzionaria in grado di rimpiazzare il proletariato, in quanto – al pari di Mills e Marcuse – ritenevano  quest’ultimo del tutto integrato nella società dei consumi e compartecipe dei valori borghesi. 


La seconda riguarda il riemergere di uno spirito anarcoide di sapore ottocentesco: l’ideologia dei movimenti occidentali, scrive Batalov, era radicalmente anti partitica e antistatalista in base all’idea che ogni organizzazione è un’incarnazione materiale del principio burocratico, o meglio che la burocrazia è una caratteristica inalienabile dell’organizzazione in quanto tale e, di conseguenza, associavano le loro aspirazioni non tanto al socialismo quanto con un concetto astratto di società libera. 


La terza chiama in causa l’esaltazione dello spontaneismo, associata all’assenza di qualsiasi chiara definizione del futuro da costruire: il movimento è tutto mentre l’obiettivo non conta nulla, nella misura in cui si pensa che la società futura è il movimento stesso e le nuove forme di socialità cui dà vita. La quarta è in un certo senso un corollario della terza, in quanto coincide con l’estetizzazione delle forme e dei metodi di lotta:  si prediligono comportamenti studiati deliberatamente per scioccare conformisti e benpensanti (épater les bourgeois); si esprime il bisogno di una creatività libera e disalienata, si cerca la bellezza nelle relazioni; “l’immaginazione al potere, siate realisti chiedete l’impossibile”, recitavano gli slogan del Maggio francese, e qui Batalov richiama in causa Marcuse e il suo invito a travalicare i limiti delle pseudo trasgressioni ispirate dal consumismo (vedi il concetto di “tolleranza repressiva” (2)). 


La quinta è l’apologia della violenza considerata uno strumento di per sé rivoluzionario e liberatorio. La confusione di mezzi e fini, e l’assenza di un’analisi ponderata della necessità o meno di ricorrere alla violenza in base alle condizioni concrete di tempo e luogo, chiosa Batalov, è una minaccia per una negazione davvero rivoluzionaria, mentre la negazione e il rifiuto assoluti di tutti gli aspetti della cultura precedente tendono a degenerare in rifiuto della cultura in sé e quindi nel nichilismo. 


A questo punto – circa a metà della lettura - confesso di essermi domandato se Boltanski e Chiapello, nello scrivere la loro splendida analisi del “nuovo spirito del capitalismo” (3), si siano almeno in parte ispirati a Batalov, laddove parlano della separazione fra critica sociale (retaggio del movimento operaio tradizionale) e critica artistica (espressione dei nuovi movimenti degli anni 60 e 70). Senonché fra i due punti di vista c’è una differenza di fondo: i due sociologi francesi scrivono a posteriori, avendo cioè potuto assistere all’evoluzione politico-culturale delle generazioni che erano state protagoniste dei movimenti degli anni 60 , per cui ne descrivono l’integrazione nei nuovi meccanismi di gestione delle imprese e delle istituzioni postfordiste, così come hanno potuto assistere al deragliamento dei nuovi movimenti (femministe, lgbtq, ambientalisti, ecc.) verso la cultura woke del politicamente corretto, concentrata sui diritti civili e sui valori individualisti del neoliberalismo. Viceversa Batalov non poteva conoscere questa evoluzione che sarebbe maturata nei decenni successivi al momento in cui scriveva. La sua è stata un’intuizione profetica? Sì, se si accetta l’idea secondo cui tale evoluzione era inevitabile e necessaria, se invece si pensa che quella complessa e convulsa stagione avrebbe potuto avere esiti differenti, è il caso di evidenziare come l’analisi di Batalov peccasse di semplicismo e si basasse su una serie indebite generalizzazioni. Vediamo quali.


Uno. Dopo una prima ondata spontaneista (tipica dei movimenti studenteschi), settori consistenti delle sinistre radicali avevano tentato di dare vita a embrionali formazioni neo comuniste di tipo partitico, mentre accusavano i partiti comunisti ufficiali di opportunismo e revisionismo, quindi erano tutto meno che anarchici ed estetizzanti. Ciò vale in particolare per l’Italia, dove alla rivolta studentesca aveva fatto seguito una formidabile mobilitazione operaia duramente critica nei confronti delle organizzazioni partitiche e sindacali tradizionali.


Due. Batalov paragona le sollevazioni studentesche in Occidente al movimento cinese delle Guardie Rosse, ma questo significa rimuovere le radicali differenze storiche, culturali, politiche ed economiche fra i due contesti, identificando i fenomeni sull’unica base del peso maggioritario della componente giovanile-studentesca. Qui gioca ovviamente l’intento propagandistico anti-cinese, frutto della rottura fra le due grandi nazioni socialiste, Nè il povero Batalov poteva immaginare che, di lì a poco, la Cina “eretica”, chiusa l'infelice parentesi della Rivoluzione Culturale, avrebbe imboccato la via delle riforme, che l’avrebbe portata agli attuali vertici di potenza economica e politica globale, mentre l’ortodossa Unione Sovietica si sarebbe afflosciata sotto il peso dei propri errori e dell’offensiva imperialista. 





Tre. I giudizi liquidatori nei confronti di Frantz Fanon e di altri teorici della rivoluzione coloniale (accusati, al pari di Marcuse e Sartre, di essere i “cattivi maestri” della Nuova Sinistra occidentale) sono in palese contrasto con il giudizio di Lenin in merito al ruolo strategico (e non di mero supporto tattico agli interessi del socialismo reale) delle lotte di liberazione nazionale per l’attuazione della rivoluzione socialista mondiale. Così Batalov squalifica sia l’idea secondo cui la lotta contro l’imperialismo può inizialmente  prescindere dalle divisioni di classe fra gli oppressi (4), sia le tesi di coloro che “vorrebbero farci credere che nei paesi coloniali solo i contadini sono rivoluzionari”. Purtroppo per lui, le rivoluzioni antimperialiste in America Latina (da quella cubana a quelle bolivariane) hanno confermato che questa credenza è fondata, almeno in determinati contesti geografici, mentre i partiti comunisti ortodossi hanno dovuto accontentarsi dei nuovi spazi politici creati da leader come Chavez e Morales (5).



Le cause socioeconomiche dell’emergere della Nuova Sinistra  


Batalov si concentra su alcuni aspetti associati all’impatto delle innovazioni tecnologiche, sempre più rapide, sull’organizzazione del processo produttivo, sulle trasformazioni culturali e sul peso crescente dell’industria culturale.


In primo luogo, sottolinea come la rivoluzione tecnologica tenda ad erigere una barriera cognitiva fra le diverse generazioni. I giovani d’oggi, scrive – e fa riflettere il fatto che lo dica nei primi anni Settanta, nei quali l’accelerazione temporale era assai inferiore ai livelli raggiunti dopo la rivoluzione digitale - crescono in un mondo che muta tanto rapidamente da indurli a creare delle proprie sottoculture o controculture per differenziarsi dalle idee, dai principi e dai valori della cultura mainstream. 


Più importanti del conflitto generazionale, tuttavia, sono a suo avviso i conflitti di interesse creati dalle trasformazioni del ruolo socioeconomico della classe intellettuale. A causa dell’enorme sviluppo dell’industria culturale (media, pubblicità, trattamento delle informazioni, ecc.),  dell’automatizzazione dei processi industriali e della terziarizzazione produttiva, l’intellettuale si trasforma in ”operaio” di questi nuovi processi produttivi, un “lavoratore parziale” impiegato in questo o quel settore specifico, cui sfuggono la comprensione e il controllo del processo complessivo. Lo scrittore si trasforma in “tecnico letterario” (copywriter, sceneggiatore, redattore, ecc.) e qualcosa di simile avviene per l’ingegnere, l’architetto, ecc. Il divario fra competenze acquisite e mansioni svolte, e fra aspettative e realtà in termini di carriera retribuzione ecc.  aumenta progressivamente, alimentando l'insoddisfazione e lo spirito di rivolta, a partire dalle masse studentesche, cresciute numericamente perché l’aumento della domanda di lavoro qualificato favorisce l’accesso di nuovi strati sociali al processo formativo. 


È da questi strati sociali, scrive Batalov, che le sinistre radicali attingono i propri militanti, i quali non appartengono più alla borghesia ma non appartengono ancora pienamente al proletariato: “un nuovo tipo di rivoluzionari utopisti non proletari”, li definisce il filosofo sovietico, “nato dalle contraddizioni della società capitalista avanzata”.





Il tema appena esposto contiene, al tempo stesso, un elemento comune e una differenza fra l’approccio di Batalov e le analisi di una parte significativa delle sinistre radicali. Il concetto di proletarizzazione dei lavoratori intellettuali viene dato infatti per acquisito da entrambe le parti. La differenza è che, per Batalov, come abbiamo appena visto, si tratta di un processo in corso ma ancora incompiuto. Inoltre il filosofo russo rimprovera alle sinistre radicali occidentali di voler sostituire al proletariato tradizionale, dato per ormai imborghesito e integrato, questi strati emergenti nel ruolo di avanguardie rivoluzionarie. In realtà, perlomeno se ci riferiamo alle sinistre “operaiste” (italiane ma non solo), la questione è più complessa. Per queste ultime, infatti, a essere integrata era l’aristocrazia degli operai professionali, inquadrata nei partiti e nei sindacati tradizionali, mentre gli operai addetti a mansioni meramente esecutive, stressanti e mal retribuite (operaio-massa) erano il nerbo di un nuovo soggetto antagonista, del quale gli strati del lavoro intellettuale proletarizzato erano parte integrante. 


Queste differenze nell’analisi della composizione di classe nella società tardo capitalista producono una divaricazione in merito alle prospettive temporali del processo rivoluzionario. Da un lato, le sinistre radicali considerano il nuovo contesto socioeconomico come condizione necessaria e sufficiente per il rovesciamento del potere del capitale, e accusano di opportunismo le organizzazioni tradizionali della classe operaia, le quali coltivano l’illusione di sfruttare una democrazia borghese ormai morta e sepolta per attuare una transizione pacifica al socialismo. Dall’altro, Batalov ribatte che gli obiettivi utopistici sono praticabili solo quando esiste già la base materiale per la loro attuazione (visione in palese contrasto con la teoria leninista dell’anello debole secondo la quale la rivoluzione è possibile se, quando e dove le élite borghesi non riescono più  esercitare la propria egemonia); nega poi che la democrazia borghese, malgrado i suoi difetti e la crisi che sta attraversando, possa essere data per morta e sostiene che dev’essere difesa in quanto esito di secolari lotte popolari. 


Infine, Batalov ribadisce quella che a suo avviso è la concezione corretta (in base ai dogmi del “diamat” di staliniana memoria) del processo rivoluzionario. Il primo dogma consiste in una visione rigorosamente “continuista” del processo storico: rovesciamento dialettico dell’esistente senza rotture (6). Ecco alcune citazioni paradigmatiche: “un sistema storico concreto nasce da un altro”; la rivoluzione è “proiezione nel futuro delle tendenze presenti nello sviluppo sociale contemporaneo”; “questi processi (cioè le trasformazioni in atto nella società tardo capitalista) allo stesso tempo promuovono oggettivamente la creazione delle precondizioni materiali per il socialismo che a sua volta completa il lavoro storico iniziato dal capitalismo”; il socialismo è “sublimazione rivoluzionaria della democrazia borghese” (tutte le sottolineature, al pari di quelle che seguiranno, sono mie). 


Il secondo dogma riguarda il principio di immanenza – di necessità interna – che sovradetermina rigidamente i comportamenti e i ruoli dei soggetti sociali. La tesi di chi parla di integrazione della classe operaia occidentale è insostenibile perché sono “i fattori oggettivi che determinano la posizione del proletariato nella società capitalista come classe rivoluzionaria”, quindi chi ha un atteggiamento pessimista su questo tema “può indicare l’opportunità ma in nessun caso la necessità storica di cambiamenti rivoluzionari”; chi pretende di contestare il sistema dall’esterno dimentica che essere qualitativamente fuori dal sistema esistente significa “non avere possibilità di svilupparsi al suo interno”;  “la rivoluzione costituisce una transizione da una necessità a un’altra”. Per concludere Batalov concede ai movimenti che mette sotto la sua lente critica l'unica chance di fungere da catalizzatori della storia che possono sgombrare il terreno alla possibilità di mettere in atto “la vera necessità storica”. 


Siamo insomma di fronte al catalogo di un marxismo ridotto a una elencazione “scientifica” delle leggi di movimento che governano il processo storico, e questo pochi anni dopo che il più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukacs, aveva consegnato alle stampe il suo capolavoro (7) in cui faceva piazza pulita di questa paccottiglia determinista. Se aggiungiamo il sintomatico silenzio sui drammatici conflitti interni al blocco socialista (da Budapest a Praga) e sulle non esaltati performance dei partiti comunisti di osservanza sovietica in Europa e in America Latina; l’omaggio a Cuba senza dedicare un cenno a Che Guevara; l’infelice citazione di una frase di Lenin in cui si celebrano le lodi del taylorismo per ribadire l’importanza dello sviluppo delle forze produttive ai fini della realizzazione del socialismo; la celebrazione della coesistenza pacifica come strategia vincente nei confronti del capitalismo (si è visto come è andata finire). Se aggiungiamo tutto questo, si sarebbe tentati di schierarsi dalla parte delle sinistre radicali contro la requisitoria di questo loro censore. Ma sarebbe un errore. In primo luogo perché le cinque accuse che ho citato in apertura di questo articolo (vedi sopra) sono a mio avviso giustificate. Ma soprattutto perché anche le esperienze più orientate alla costruzione di un’alternativa comunista all’ortodossia sovietica scontavano, come cercherò di dimostrare fra poco, non pochi dei limiti teorici che ho appena attribuito a Batalov.

  

Perché le sinistre (vecchie e nuove) sono state asfaltate dalla controrivoluzione neoliberista


Parto da un appunto di Batalov alle tesi di Marcuse e degli altri teorici della integrazione della classe operaia: la sinistra radicale e i suoi cattivi maestri, scrive, hanno esagerato la capacità della borghesia di realizzare i propri obiettivi. Io direi che, al contrario, la sinistra radicale ha drammaticamente sottovalutato la capacità di resilienza del sistema capitalista, mentre Batalov e le élite del socialismo reale l‘hanno ignorata del tutto. 


La prima causa di tale cecità è stata l’incomprensione dell’evoluzione dell’imperialismo nella transizione dal colonialismo al neocolonialismo. A parte le infelici battute di Batalov sui leader e sui teorici (a partire da Fanon) delle lotte di liberazione nazionale, è sintomatico che il filosofo russo sprechi fiumi di inchiostro su Marcuse e Sartre mentre tace sulle analisi marxiste (da Baran e Sweezy al quartetto Samir Amin, Arrighi, Frank e Wallerstein) sul concetto di dipendenza (8) e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo. Idem dicasi delle sinistre radicali occidentali, le quali, esauriti gli effimeri entusiasmi per le vittorie vietnamite, la Rivoluzione Culturale e altri eventi “periferici”, hanno liquidato come “terzomondismo” l’interesse per il Sud del mondo (mentre condividevano con Batalov il disprezzo per le masse contadine, “arretrate” e dunque incapaci di svolgere un vero ruolo rivoluzionario). Questa ignoranza condivisa ha impedito di capire che la questione della integrazione delle aristocrazie operaie del Nord rinviava a un fattore strutturale (la possibilità da parte delle metropoli di elargire alle proprie classi subalterne parte del bottino sottratto alle periferie) piuttosto che psicologico-culturale.  





Un secondo elemento condiviso da vecchi e nuovi dogmatismi di (presunta) origine marxista consiste nella costellazione determinismo – oggettivismo - economicismo. Di Batalov si è detto. Quanto alle sinistre radicali: il nuovo soggetto antagonista – variamente denominato come lavoratori cognitivi, operaio sociale, ecc. - è investito della stessa funzione “oggettivamente rivoluzionaria”, in ragione della sua collocazione nel processo produttivo, attribuita in precedenza alla “vecchia” classe operaia; la crisi capitalistica degli anni Settanta viene analizzata come una tendenza irreversibile, governata da “leggi” scientifiche; la rivoluzione tecnologica è infine descritta come il punto di non ritorno della contraddizione oggettiva fra forze produttive e rapporti di produzione (questa narrazione assumerà toni deliranti a partire dagli anni Novanta (9), con l’esaltazione della rivoluzione digitale come strumento di democratizzazione di economia, politica e società). 


Detto che a negare uno sbocco rivoluzionario al breve e intenso ciclo di lotte dell’operaio fordista fra la fine dei 60 e l’inizio dei 70 non è stata la carenza di fattori materiali, “oggettivi” bensì, da un lato, l’assenza di organizzazioni e programmi politici in grado di saldare un ampio fronte popolare per la conquista del potere politico, dall’altro, il fatto che l’egemonia delle élite dominanti non stava affatto attraversando una crisi terminale (in barba ai sogni dei teorici della lotta armata); detto ciò tutte le presunte “leggi” e i fattori oggettivi sopra descritti si sono rivelati altrettante leve nelle mani del capitale: decentramento produttivo (oggi l’83% del lavoro industriale si trova nei Paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo); ristrutturazione tecnologica selvaggia (drastica riduzione del proletariato tradizionale, terziarizzazione, femminilizzazione e precarizzazione del lavoro); finanziarizzazione dell’economia; cooptazione degli strati superiori del lavoro cognitivo nelle stanze di controllo e comando del sistema; disinnesco della carica antagonista dei nuovi movimenti sociali, ridotti a impegnarsi per obiettivi compatibili con i principi e i valori neoliberali.  


Nel frattempo l’Unione Sovietica e il socialismo reale affondavano sotto il peso della mancata riforma di un sistema economico penalizzato dalle rigidità di una pianificazione eccessivamente centralizzata, e incapace di esaudire la domanda popolare di beni di consumo;  dall’enorme spreco di risorse imposto dalla gara agli armamenti con il blocco occidentale (problema esacerbato dalla disastrosa avventura afgana); da decenni di scarsa attenzione nei confronti dei problemi di tecnici, professionisti e intellettuali (una classe media che si vendicherà mettendosi alla testa della controrivoluzione). E, al momento del crollo del Muro di Berlino, i figli e i nipoti delle sinistre radicali criticate da Batalov accorreranno a celebrare la rinnovata unificazione della “democrazia” mondiale, ignari che la presunta “fine della storia” associata a quell’evento avrebbe innescato uno spietato progetto di espansione globale del dominio imperialistico. Finché il formidabile sviluppo della Cina socialista, il ritorno in campo di una Russia uscita dagli anni terribili dell’adesione alle ricette del Washington Consensus, e l’emergenza di un fronte di resistenza al dominio imperiale degli Stati Uniti guidato dai Brics hanno riaperto i giochi. Ma questa è un’altra storia. 


Note

(1) Cfr. T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970.


(2) Cfr. H. Marcuse, “Tolleranza repressiva” in E. P.  Wolff, Barrington Moore Jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968.


(3) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


(4) A formulare la tesi opposta è stato, fra gli altri, il leader della guerra di liberazione della Guinea Bissau, Amilcare Cabral (vedi il post che gli ho dedicato su questo blog: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/11/i-popoli-africani-contro-limperialismo-3.html


(5) Sul rapporto fra rivoluzioni bolivariane e partiti comunisti “ortodossi” vedi quanto ho scritto in Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013 e nel terzo capitolo del secondo volume (“Elogio dei socialismi imperfetti”) di Guerra e liberazione, Meltemi, Miano 2023.


(6) La critica più radicale di questa concezione continuista che concepisce la rivoluzione socialista come la prosecuzione e il compimento delle promesse non mantenute della rivoluzione borghese è uno dei pochi esponenti della Scuola di Francoforte che Batalov evita – non a caso – di citare, vale a dire quel Walter Benjamin che descrive la rivoluzione come un “balzo di tigre” che segna una discontinuità assoluta nel flusso del temporale della storia (Cfr. Angelus Novus,  Einaudi, Torino 1962).


(7) Fu lo stesso Marx a smentire l’idea secondo cui l’obiettivo della sua ricerca teorica fosse stato quello di descrivere le leggi generali che governano il processo storico e la transizione fra diversi modi di produzione (vedi la sua lettera a un recensore dell’edizione russa del Capitale in India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). Ma a formulare la critica più spietata di una interpretazione teleologica della concezione marxiana della storia (cioè dell’idea che il processo storico sia “direzionato” da leggi immanenti) è appunto G. Lukacs in Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.


(8) Cfr. A Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(9) Cfr. le mie critiche agli apologeti “di sinistra” della rivoluzione digitale in Cybersoviet (2008), Felici e sfruttati (2011) e Utopie letali (2013). 












Nessun commento:

Posta un commento