domenica 15 settembre 2024

SE DUE SECOLI VI SEMBRAN POCHI
LA STORIA DELLA RIVOLUZIONE SECONDO TRAVERSO







A mò di premessa


A volte succede di adocchiare il titolo di un libro appena uscito e dirsi “questo lo devo leggere”. Così mi è capitato con il libro di Enzo Traverso, Rivoluzione 1789-1989. Un’altra storia (Feltrinelli). Dopodiché l’incombere di altre priorità di lettura, associate a un lavoro impegnativo di cui stavo per licenziare la versione definitiva (1), ma soprattutto l’esauriente presentazione del saggio di Traverso che ho potuto consultare sul blog dell’amico Alessandro Visalli (2), mi hanno fatto rimandare l’acquisto e poi dimenticare il proposito di effettuarlo. Tuttavia questa estate, mentre traducevo il libro di Kevin Ochieng Okoth, Red Africa (l’edizione italiana sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo novembre, con una mia postfazione), mi sono imbattuto in una citazione dell’edizione inglese del testo di Traverso, e il mio interesse si è riacceso, soprattutto perché la citazione si inserisce nel contesto di una critica – condivisa da chi scrive - nei confronti di un movimento comunista occidentale che ha pressoché ignorato il contributo delle lotte di liberazione del Sud del mondo al rinnovamento del marxismo. Dal momento che mi è parso di ricordare che anche Visalli attribuisce a Traverso interessanti spunti di riflessione sul tema, ho rimediato al mancato acquisto di un paio d’anni fa, ed eccomi dunque qui a ragionare sul contributo dell’autore all’analisi di due secoli di esperienze rivoluzionarie. 







Prima di avviare il discorso, faccio un paio di premesse per facilitare al lettore tanto la comprensione del punto di vista di chi scrive, quanto la decisione di acquistare o meno il libro. In primo luogo, devo confessare che sono rimasto piacevolmente sorpreso nel verificare che Traverso ha pubblicato un lavoro che può (anche) essere considerato una approfondita ricerca iconografica sulla produzione di simboli, immagini e figure (quadri, opere d’arte, fotografie, bandiere, manifesti, divise, ecc.) associati ai vari eventi rivoluzionari dei secoli XVIII, XIX e XX. Uno straordinario repertorio visivo che, a mio avviso, vale da solo l’acquisto del volume. Passando all’analisi storica, politica e ideologica, devo invece confessare che ho incontrato una certa difficoltà nell’organizzare le mie riflessioni critiche, dovuta al fatto che alcune idee di Traverso che sottoscrivo quasi integralmente sono intrecciate con valutazioni e giudizi che valuto insufficienti, o con i quali dissento. Questa compresenza di impressioni positive e critiche ha influito sulla struttura rapsodica del testo che state per leggere, nonché sulle ripetizioni dovute al fatto che gli stessi temi vengono affrontati da punti di vista diversi in parti diverse.



Un Marx costruttivista?


Credo che il contributo più interessante di Traverso consista nella distinzione fra due regimi di discorso distinti, se non incompatibili, presenti nell’opera di Marx. In particolare, secondo Traverso, esisterebbero un Marx “determinista”, che emerge soprattutto dai testi fondativi della critica dell’economia politica, e un Marx “costruttivista”, le cui idee si riscontrano soprattutto negli scritti storico-politici, come il 18 Brumaio e altre riflessioni sul ciclo delle lotte rivoluzionarie nella Francia del secolo XIX (3)





A influenzare la tendenza determinista del fondatore del comunismo, argomenta Traverso, ha contribuito il contesto storico in cui si è sviluppata la sua analisi del capitalismo, caratterizzato dal decollo dell’industrialismo ottocentesco. La visione marxiana della funzione “rivoluzionaria” dello sviluppo capitalistico, in quanto motore di un progresso tecnico, economico, civile e culturale in grado di spazzare via i residui delle società preborghesi (visione che emerge in modo paradigmatico nel Manifesto), sostiene Traverso, è il riflesso, se non il prodotto, dell’accelerazione temporale, della neutralizzazione delle distanze geografiche e dell'abbattimento delle barriere geopolitiche resi possibili dalla rivoluzione industriale. La metafora della rivoluzione come “locomotiva della storia”  rispecchia il ruolo del tumultuoso sviluppo delle reti ferroviarie che divorano lo spazio grazie all’accelerazione temporale (senza dimenticare le nuove tecnologie di comunicazione, a partire dal telegrafo). La concezione quasi salvifica dello sviluppo delle forze produttive riscontrabile in certi scritti di Marx, scrive Traverso, appartiene all’epoca della fisica e della termodinamica moderne, e fonda una visione “teleologica” della storia come un lungo cammino lineare verso il progresso. Il punto di vista economicista/determinista, ispirato dal dogma del ruolo centrale dello sviluppo delle forze produttive nell’indirizzare il processo storico, genera a sua volta la fede nell’esistenza di leggi storiche “oggettive”, per cui la transizione fra i modi di produzione comunistico primitivo, antico (o asiatico), feudale, capitalistico, socialista viene interpretata dal “materialismo storico e dialettico” (la versione “ossificata” del metodo marxista partorita dell’ortodossia) come l’esito di “necessità” immanenti alla storia. 







Questa riflessione critica sulle tendenze deterministe della teoria marxista, parzialmente legittimata dallo stesso Marx, non è inedita. Chiunque abbia frequentato il dibattito ideologico degli ultimi decenni sa che analoghe posizioni sono emerse a più riprese. Fra le altre, quelle difese in più occasioni (4) dal sottoscritto simili a quelle formulate da Costanzo Preve in un libro del 1984 (5) . Preve non si limitava però a individuare due regimi discorsivi nel corpus marxiano: ne enumerava perlomeno tre che definiva, rispettivamente, grande narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Il primo identifica nel proletariato industriale il Soggetto storico “oggettivamente” destinato ad affossare il modo di produzione capitalistico; il secondo mutua dai modelli della scienza ottocentesca il concetto del comunismo come esito “scientificamente prevedibile” della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione; il terzo esclude al contrario l’esistenza di automatismi teleologici inscritti nella storia. 


Posto che i primi due coincidono, a grandi linee, con la visione determinista descritta da Traverso, anche se andrebbe precisato che non si trovano solo nelle opere “scientifiche” (secondo i criteri althusseriani) del Marx critico dell’economia politica, ma emergono saltuariamente anche nelle analisi degli eventi storici a lui contemporanei. Posto che il terzo - già presente nel passaggio della Sacra famiglia (opportunamente citato da Traverso) in cui si dice che non è la storia a servirsi dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini (l’hegeliana astuzia della ragione) bensì è la storia a non essere altro che l’attività dell'uomo che persegue i propri fini- trova la sua formulazione più mirabile e compiuta nel capolavoro dell’ultimo Lukacs, l’Ontologia dell’essere sociale (6), laddove l’autore indica nel lavoro il modello di ogni agire intenzionale umano (su questo tornerò più avanti). Posto che lo stesso Lukacs dimostra come anche nell’analisi economica marxiana siano presenti consistenti tracce di “costruttivismo”. Posto tutto ciò, e a prescindere dai distinguo appena evocati, mi sento di affermare che, almeno sin qui, sono in sintonia con le tesi di Traverso, soprattutto nella misura in cui ne viene fatto discendere: 1) che il passaggio dal capitalismo al socialismo non ha carattere spontaneo e ineluttabile; 2 ) che  tutte le rivoluzioni trascendono le loro cause “oggettive” e seguono dinamiche particolari (contingenti) che cambiano il corso “naturale” delle cose e 3) che in ragione di tali considerazioni non è in alcun modo possibile ignorare l’autonomia del politico  (7) dai fattori “strutturali”. 



Note a margine (1). Benjamin 



Il pensiero “eretico” di Benjamin esercita un forte impatto sulla visione di Traverso, il quale sembra affascinato dalla critica radicale che Benjamin avanza nei confronti dell’idea illuminista-borghese di progresso in generale e della sua variante marxista in particolare. In netto contrasto con la cultura della II Internazionale, egemonizzata dalla Socialdemocrazia tedesca, e dalla visione “gradualista” di una transizione al socialismo scandita da riforme “progressiste” in grado di migliorare le condizioni materiali e il livello socioculturale della classe operaia, Benjamin considerava questi “passi avanti” come altrettanti chiodi sulla bara di qualsiasi prospettiva di cambiamento rivoluzionario. Al tempo stesso, pur apprezzando la svolta rivoluzionaria del 17, Benjamin non condivideva il “modernismo” dei suoi leader. Se Marx aveva visto nella rivoluzione la locomotiva della storia, e se Lenin affermava che il socialismo in Russia sarebbe nato dal connubio fra i soviet e l’elettrificazione, Benjamin rovesciava la metafora, equiparando la rivoluzione al freno a mano al quale il popolo si aggrappa per fermare la corsa verso il baratro delle crisi e delle guerre provocate dal “progresso” capitalista. Il suo, scrive Traverso, era un materialismo storico antipositivista che annichiliva in sé l’idea di progresso (8). 


Riferendosi in particolare alle “Tesi sulla storia”, Traverso insiste sulla visione di Benjamin che, al contrario dello storicismo che liquida il passato come un processo irreversibilmente compiuto (anche se andrebbe precisato che tale critica non può essere estesa alla cultura marxista in generale), ritiene che esso aleggi nel presente (si pensi all’immagine dell’Angelus Novus) e possa essere riesumato, riscattando i vinti e gli oppressi di ogni epoca e reintegrandone le storie nell’evento rivoluzionario presente (di qui l’altra metafora della rivoluzione come balzo di tigre nel passato). Contro le critiche che vedono in Benjamin un pensatore idealista e conservatore, Traverso obietta che, formulando il suo progetto di “salvare la storia”,  questo geniale eretico non intendeva affatto “tornare indietro e ripeterla”, bensì un modo di cambiare il presente capace di salvare il passato. 





La Rivoluzione russa: marxismo orientale versus marxismo occidentale? 


Diversamente da Domenico Losurdo (9), Traverso sembra convito che la cultura bolscevica, a partire da Lenin e Trotskij, fosse incontestabilmente occidentalista. Il fatto che la Rivoluzione d’Ottobre sia stata, per dirla con Gramsci, “una rivoluzione contro il Capitale”, nel senso che non ha rispettato il “canone” marxista formulato a fine Ottocento da Engels e Kautsky, che escludeva la possibilità di realizzare il socialismo in un contesto di arretratezza delle forze produttive, qual era quello russo ai primi del Novecento, non sembra scalfire tale convinzione. 


Forse è per questo che la sua simpatia sembra andare a Trotskij più che a Lenin anche se, in base  a quanto ho letto, non credo lo si possa definire trotzkista (almeno in senso stretto). Ciò che lo affascina di Trotskij sembra essere soprattutto il concetto di rivoluzione permanente e il tentativo di identificare i fattori “oggettivi” che hanno reso possibile la rivoluzione con la compresenza di formazioni sociali a differenti livelli di evoluzione storica (tornerò sul punto ragionando sulle rivoluzioni del Terzo Mondo). Quanto a Lenin, Traverso sembra apprezzare soprattutto il Lenin “antiautoritario” di Stato e rivoluzione (10), nella misura in cui, sulla scia di Marx, indica nella Comune di Parigi il modello di un potere popolare “senza stato”.  In effetti quell’opera ripropone la visione ottocentesca – condivisa da marxisti e anarchici – di una rivoluzione destinata a distruggere l’idea stessa di un potere sovrano, anche se la concezione marxiana, e ancor più engelsiana, preferiva ragionare  di estinzione più che di abolizione dello stato. Nel libro di Traverso manca invece un approfondimento del pensiero post rivoluzionario di Lenin (sorprendente l’assenza di una riflessione sull’esperienza della NEP, decisiva per analizzare le inedite forme di transizione socialista attualmente in atto, a partire dalla Cina postmaoista).


Ciò detto, Traverso non cade nella trappola di quegli intellettuali postcomunisti che vorrebbero vedere in Lenin l’antesignano del “totalitarismo” comunista (per inciso: gli sia resa lode per il secco rifiuto di accettare l’assurdo accostamento fra fascismo e comunismo, di cui si è recentemente macchiato il Parlamento europeo, con la complicità della maggioranza del mondo intellettuale “di sinistra”). La sua attenzione si concentra piuttosto sulla militarizzazione della lotta di classe associata alla guerra civile degli anni 18, 19 e 20 (militarizzazione cui Trotskij ha contribuito in misura non minore di Lenin...) e sulla concentrazione del potere nelle mani del partito a scapito della democrazia dei soviet. E qui si inserisce una tesi che ritorna in tutte le analisi che Traverso dedica ai processi rivoluzionari da lui presi in considerazione – una tesi che può essere sintetizzata in un'affermazione a dir poco “forte”: la tradizione rivoluzionaria è la contraddizione insolubile (sottolineatura mia) tra un momento estatico di autoliberazione e la sua inevitabile (idem come sopra) trasformazione in azione organizzata. E ancora: l’emergenza dei simboli e delle istituzioni di una nuova sovranità corrisponde inevitabilmente al riflusso e all'invisibilità della moltitudine che teoricamente essi rappresentano (anche in questo caso i corsivi sono miei). 


Riassumo: mettendo fra parentesi il sintomatico riferimento al concetto negriano di moltitudine (11) , Traverso sembra indicare nel prevalere del momento organizzativo e nella “condensazione” del potere popolare in nuova sovranità statale le cause fondamentali della degradazione del progetto  rivoluzionario. Attenzione però: in nessuna parte del suo lavoro tale degradazione viene associata al concetto di controrivoluzione. La linea operaista/populista di Stalin, ben descritta da Rita di Leo (12), che mirava a rimpiazzare la vecchia leadership bolscevica, di origine borghese e ideologicamente cosmopolita, con nuovi quadri dirigenti di estrazione operaia e contadina, ha sempre raccolto il consenso della maggioranza del popolo russo, come conferma la grande mobilitazione patriottica contro il nazismo. Il punto è che tutta l’analisi della rivoluzione bolscevica fino al fallimento di fine Novecento condotta da Traverso sconta una palese contraddizione. Da un lato, ci viene detto, in sintonia con l’opzione antideterminista richiamata in precedenza, che la degradazione della Rivoluzione del 17 non era ineluttabile, non era “scritta negli astri”, dall’altro lato, come abbiamo appena visto, si parla di inevitabile prevalere del momento organizzativo e di altrettanto inevitabile eclissi della moltitudine da parte del nuovo potere sovrano. 


Tenterò di approfondire il punto più avanti, ragionando sulle rivoluzioni del Terzo Mondo. Per il momento vorrei riprendere l’interrogativo sul marxismo dei bolscevichi: occidentale o orientale? Sull’occidentalismo di Trotskij non sussistono dubbi, il suo punto di vista, come ribadisce Traverso, era che il socialismo non era la negazione ma piuttosto il superamento dialettico del capitalismo e della sua civiltà. In altre parole, il suo pensiero era interno alla visione eurocentrica dello stesso Marx (superata nell’ultimo decennio di vita) che aveva immaginato che l’espansione capitalista avrebbe salvato interi continenti da barbarie, arcaismo e ristagno economico. Anche in Lenin non mancano elementi di occidentalismo, dallo slogan sui soviet all’elettrificazione all’esaltazione del taylorismo (condivisa da Gramsci), e tuttavia la sua teoria dell’imperialismo, che allargava lo scenario della lotta di classe alle lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali, andava in direzione opposta spostando l’asse del conflitto globale dal polo nordoccidentale al polo sudorientale (la conferenza dei popoli coloniali svoltasi a Baku su iniziativa del regime sovietico gettò il seme dello spirito di Bandung che sarebbe germogliato nel secondo dopoguerra).


Note a margine (2). Cultura rivoluzionaria e immaginario “superomista”  


Se c’è una corrente della cultura sovietica che può essere definita a buon titolo occidentalista è senza dubbio quella di un certo di tipo di avanguardia artistica e (pseudo) scientifica, nonché intrisa di un immaginario utopistico che, da un lato, presenta una stretta parentela con il futurismo italiano ed europeo e con la sua esaltazione della tecnica e della velocità, dall'altro anticipa l’immaginario della science fiction angloamericana, fino alle più recenti correnti del cyberpunk e ai sogni “transumanisti” (13) di ibridazione uomo-macchina; il tutto mixato con speranze e aspettative di carattere apocalittico e profetico. Tanto che, nell’analizzare il fenomeno, Traverso chiama giustamente in causa le analisi di Koselleck (14) sull’utopismo moderno come residuo secolarizzato di aspirazioni escatologiche. Traverso cita in merito, fra gli altri, il pioniere della narrativa russa di fantascienza Bogdanov (15) e altri esponenti del gruppo dei cosiddetti “costruttori di dio”. Questi cenacoli culturali annunciavano un futuro in cui la scienza sarebbe divenuta onnipotente, al punto da garantire alla nostra specie l’immortalità. Perfino Trotskij, ricorda Traverso, prefigurava un tempo in cui “l’uomo si abituerà a guardare il mondo come un’argilla docile che dev’essere modellata in sempre più perfette forme vitali”. 




Aleksandr Bogdanov
Aleksandr Bogdanov


Personalmente ritengo che questo afflato profetico, chiaramente ispirato a temi ebraico-cristiani e gnostici secolarizzati, abbia toccato la vetta più significativa in un autore come Ernst Bloch, il quale, nel monumentale Principio speranza (16), sfrutta gli scarsi e reticenti accenni marxiani alla realtà futura del socialismo forzandone le consonanze con gli annunci religiosi di un paradiso in terra a venire. Così, come ho ricordato altrove (17), parla di “un unico movimento avanti  nel mondo trasformabile e implicante felicità”, “di quiete della fine della storia”, di un futuro simile alla “terra dove fluiscono realmente e simbolicamente latte e miele” annunciato da tutte le religioni superiori, del divenire “autenticamente umano” dell’individuo emancipato dall’individualismo borghese in una comunità socialista senza stato, per spingersi infine a immaginare la cancellazione del confine fra uomo e natura in capo a un movimento dialettico in cui quest’ultima compirebbe il proprio fine immanente (evocando suggestioni mistiche alla Teilhard de Chardin) rendendo tutto possibile, anche l'abolizione della morte. 


Che dire di queste visioni se non che erano destinate a scontrarsi con la realtà del concreto processo di costruzione di una società socialista nelle dure condizioni del tempo (non a caso Bloch, deluso dalla realtà in questione, tornerà in Occidente). Mi pare di poter affermare che il divorzio fra comunismo occidentale e comunismo orientale ha a che fare anche con questa stridente differenza, non meno che con la repressione staliniana nei confronti della intellettualità rivoluzionaria.



Libertà positiva o libertà negativa? 


Avevo preavvertito il lettore che si sarebbe imbattuto in qualche ripetizione, e infatti devo subito reiterare l’osservazione fatta poco sopra: Traverso ha il merito di far uscire dalla porta il determinismo di tipo strutturale (economicista), dopo di che lo fa rientrare dalla finestra sotto forma di determinismo “sovrastrutturale” (partito, stato, istituzioni e altre forme organizzative soffocano inevitabilmente l’autonoma iniziativa delle moltitudini). Lo abbiamo visto a proposito dalla ricostruzione storica della rivoluzione russa, lo rivediamo in questa discussione sulla critica dei regimi rivoluzionari nella misura in cui soffocano democrazia e libertà.



Rosa Luxemburg




Da un lato, Traverso approccia il tema in modo condivisibile: rifiuta di definire il regime staliniano come una controrivoluzione, aggiungendo che un’alternativa credibile “di sinistra” a tale regime non è mai apparsa all’orizzonte, per cui, se i bolscevichi fossero stati sconfitti, avrebbe trionfato un regime fascista. Di più: aggiunge che la critica libertaria spiega raramente (mi permetto di correggere: non spiega mai!) come le rivoluzioni possano preservare una completa libertà senza farsi rovesciare. Ma se ciò è vero, Lenin aveva ragione nel controbattere alla critica della Luxemburg – la quale accusava i bolscevichi di feticizzare il momento rivoluzionario trascurando le regole necessarie per stabilire la libertà come ordine durevole – dicendo che se le avessero dato retta i controrivoluzionari li avrebbero spazzati via. 


Apro qui una parentesi sulle rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Bolivia ed Ecuador in particolare), in quanto confermano in pieno quanto appena affermato. Tutti questi regimi rivoluzionari sono andati al potere per vie legali (vincendo cioè le elezioni) dopodiché, avendo mantenuto le regole della democrazia rappresentativa (anche se le nuove costituzioni istituivano inedite forme di democrazia diretta e partecipativa), si sono esposte alle controffensive reazionarie sostenute dall’imperialismo occidentale (Usa e Ue) che, nel caso dell’Ecuador, sono riuscite a restaurare un regime neoliberista (18), in Venezuela sono fallite solo grazie all’appoggio delle forze armate guidate da ufficiali progressisti, mentre in Bolivia vari tentativi di golpe militari sono stati frustrati dall’ampio consenso di una popolazione in larga maggioranza di etnia india. 


Ragionando su questa ondata controrivoluzionaria, l’ex vice presidente boliviano Álvaro Linera (19) mette in luce come le “sinistre” libertarie , pur non essendo in grado – vedi sopra – di indicare alternative politiche ai regimi rivoluzionari in carica, si sono schierati di fatto con le opposizioni di destra, in nome della “restaurazione della democrazia” (peraltro mai messa formalmente on discussione). Confrontandosi con queste posizioni, Linera le attribuisce a una visione demonizzante del potere politico in quanto tale, che ignora l’esigenza di risolvere il problema della sua gestione se si vogliono realmente cambiare le cose. Traverso sembra d’accordo laddove afferma che durante le rivoluzioni arabe la questione del potere si è dimostrata ineludibile. Poi però arretra di fronte allo spettro della sovranità. Nella misura in cui le rivoluzioni sono violenza che distrugge il diritto tradizionale e costituisce la premessa per l’emergere di una nuova sovranità, argomenta, si crea un vuoto: da un lato il potere democratico, popolare, è diffuso e irrapresentabile, dall’altro il potere dell’organizzazione rivoluzionaria (il partito e le nuove istituzioni politiche) si concentra riempiendo questo vuoto e neutralizzando/oscurando il potere popolare. 


Per inciso, questo rischio non turba solo Traverso: autori non sospetti di democraticismo, come Costanzo Preve e Domenico Losurdo, esprimono lo stesso tormento, che il primo  esorcizza evocando la prospettiva della comunità dei liberi produttori indipendenti (2), mentre il secondo, dopo avere rifiutato la soluzione marxista che contrappone la libertà positiva  (la libertà di agire, la libertà rivoluzionaria o, se si vuole, costituente), alla libertà negativa (la libertà dell’individuo borghese da costrizioni esterne, cioè la libertà di mercato), sembra raccogliere la critica di Bobbio alla mancanza di democrazia dei regimi socialisti e invita i comunisti a impadronirsi degli aspetti migliori della cultura liberale (21). 


Concludo il punto mettendo fra parentesi questa contraddizione e riconoscendo a Traverso il merito di avere lucidamente criticato, nella sua riflessione sul tema della libertà, le idee di due mostri sacri come Foucault e Hannah Arendt. Partito  dalla “microfisica” del potere, e dalla riconcettualizzazione della resistenza come sviluppo di pratiche che non si oppongono al potere ma ne reindirizzano dall’interno gli effetti, Foucault è infine approdato alle “tecnologie del sé”, esprimendo simpatie sempre più chiare per individualismo e neoliberalismo, senza essersi mai interessato, lungo tale percorso, alle rivoluzioni, tanto le classiche quanto quelle a lui contemporanee. Quanto ad Hannah Arendt, esaltata in quanto critica del totalitarismo e ispiratrice di aspirazioni di emancipazione individuale, Traverso ne smaschera le idee radicalmente conservatrici ed elitarie. La sua contrapposizione fra la rivoluzione americana, che istituisce la libertà repubblicana, e che la filosofa esalta sorvolando sull’indifferenza nei confronti della schiavitù e sullo spirito intimamente oligarchico, e quella francese, di cui dichiara il presunto fallimento, dovuto alla volontà di unire libertà ed emancipazione sociale, rispecchia un profondo disprezzo nei confronti delle masse popolari. La democrazia radicale di Rousseau, e ancor più  l’egualitarismo socialcomunista, vengono così liquidate come premesse del totalitarismo, mentre si afferma che la politica può esercitare i suoi fini più nobili ed elevati solo separandosi dall’interferenza delle pretese e delle rivendicazioni sociali. 


Perché il socialismo vince solo nel Sud del mondo?  


Non è un caso se  uno dei rari autori bianchi, fra le centinaia di studiosi africani, antillani e afroamericani, citati da Kevin Ochieng Okoth in Red Africa (vedi sopra) è Traverso. Benché  il suo libro si occupi in prevalenza delle rivoluzioni “atlantiche”, ad eccezione della russa, Traverso dedica molte pagine interessanti anche alle rivoluzioni del Sud del mondo, a partire da quella messicana e da quella haitiana (che ha preceduto di quasi due secoli le altre lotte di liberazione nazionale dal dominio coloniale). Anche in questo caso, nelle sue analisi ho trovato molte idee condivisibili assieme a “buchi” che riflettono a mio avviso la difficoltà di liberarsi del tutto dal retaggio eurocentrico. Parto dalle prime.


In primo luogo, Traverso è uno dei pochi studiosi occidentali di formazione marxista che - dopo la svolta anti “terzomondista” dei movimenti sociali maturata a partire dalla fine degli anni Settanta e provocata dal disincanto generato dagli sviluppi post rivoluzionari a Cuba, in Vietnam e Algeria, e dal fallimento della Rivoluzione culturale cinese - abbia continuato a interrogarsi sui motivi per cui le sole rivoluzioni socialiste vittoriose si sono verificate nel Sud del mondo, mentre quelle tentate nei Paesi a capitalismo avanzato sono abortite. Nel secondo dopoguerra il tema era stato affrontato da autori come Baran e Sweezy, i quali avevano ripreso - sia pure con altri argomenti – la tesi di Rosa Luxemburg sul rapporto fra accumulazione capitalistica dei centri e sottosviluppo delle periferie. Più tardi hanno provveduto a dargli continuità (nella sostanziale indifferenza da parte del marxismo “mainstream”) autori come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Gunder Frank e Immanuel Wallerstein, la “banda dei quattro”, come la definisce Alessandro Visalli in Dipendenza (22).  


Vediamo come Traverso tratta a sua volta l’argomento. Anche se non lo esplicita e non l’approfondisce adeguatamente, mi pare di capire che il suo punto di vista tenga conto dei limiti intrinseci allo status materiale e alla “antropologia” del proletariato occidentale: troppo “ricco” (anche grazie ai margini creati dal dominio imperiale sul resto del mondo) e troppo ibridato con i costumi e i valori di una classe media cresciuta a dismisura grazie ai processi di terziarizzazione produttiva (un fenomeno del tutto imprevisto dall’analisi marxista “classica”). Ecco perché le rivoluzioni non sono mai state rivoluzioni “puramente” proletarie ma hanno avuto come protagoniste masse popolari formate da proletari coalizzati con altre classi (in primis contadine) e altri gruppi sociali (intellettuali piccolo borghesi e piccoli imprenditori). 


Questa verità era già emersa nel corso della rivoluzione messicana, che aveva avuto come spina dorsale comunità comunistiche basate sulla proprietà collettiva della terra - cfr. le riflessioni dell’ultimo Marx sull’obscina russa, non a caso citate da molti marxisti latinoamericani (23) - e ha avuto innumerevoli conferme nel corso del tempo. Poiché i comunisti latinoamericani ortodossi hanno sistematicamente ignorato il potenziale sovversivo delle popolazioni indigene, le rivoluzioni del subcontinente hanno spesso assunto carattere “populista”, guidate da leader e partiti emergenti che al contrario hanno saputo sfruttare quel potenziale sovversivo e metterlo al servizio di ampie coalizioni antimperialiste. Questo anche grazie al contributo di intellettuali marxisti “eretici”, a partire dal peruviano Mariategui (24) che già nella prima metà del Novecento aveva capito che il marxismo non doveva essere “importato” dall’occidente ma avrebbe dovuto fondersi con la tradizione ancestrale del comunismo incaico. E ancora con il boliviano Álvaro Garcia Linera (25) che descrive le comunità ancestrali andine come una classe rivoluzionaria sui generis,  “antropologicamente” anticapitalista. O infine, per cambiare continente, con il guineano Amílcar Cabral, il cui progetto rivoluzionario prevedeva un processo di transizione al socialismo articolato in tre fasi: nella prima la lotta sarebbe stata guidata dalla classe-nazione, nella seconda si sarebbero evidenziati i conflitti di classe dentro e fuori dal fronte antimperialista, nella terza si sarebbe passati alla costruzione del socialismo anche grazie al “suicidio” delle avanguardie piccolo borghesi e al loro scioglimento nelle masse popolari. 



Amilcar Cabral




Ma Traverso mette in luce un altro aspetto essenziale di queste rivoluzioni “eretiche” (secondo il canone marxista ortodosso): non è solo questione di composizione di classe, è anche (se non soprattutto) questione di tradizioni culturali. In Asia, Africa e America Latina il marxismo ha potuto divenire forza egemone solo ibridandosi con le culture indigene. Confucianesimo, buddismo e taoismo in Cina, Islam in Indonesia, varie forme di indigenismo in africa e America Latina. I comunisti cinesi della prima ora erano occidentalisti radicali e fedeli al dogma della rivoluzione proletaria (nonché alla linea dettata dalla III Internazionale staliniana), ma dopo la sconfitta delle insurrezioni operaie hanno abbracciato la linea “contadina” di Mao, che li ha condotti alla vittoria (e oggi, aggiungo, sono sempre più orgogliosi del loro retaggio confuciano). È per questo che il comunismo terzomondista si presenta, secondo la metafora di Traverso, come un mosaico di comunismi.


Qui finisce la sintonia, perché le intuizioni di Traverso si arenano nelle secche dei pregiudizi internazionalisti (leggi cosmopoliti) e universalisti delle avanguardie intellettuali occidentali, non senza contraddizioni che lasciano sperare in futuri ripensamenti critici: da un lato, Traverso scrive che, malgrado il loro conclamato universalismo e la loro dimensione globale, le rivoluzioni finiscono spesso (io direi sempre!) per iscriversi in un patrimonio nazionale, e sostiene che questa deriva “nazionalista”, nonché il fatto che, essendo state perlopiù concepite come guerre condotte da eserciti di liberazione, è la causa prima del perché hanno finito per dare vita a dittature di partito; dall’altro lato, dice che l’indigenismo rivoluzionario di Mariategui non era dettato da nostalgia di un passato arcaico, e ammette che “in certe circostanze storiche” (senza specificare quali) l’idea di nazione può incarnare lo spirito di libertà. Per inciso, ho registrato la stessa incongruenza nel libro di Okoth, il quale, da un lato rinfaccia ai critici dei movimenti di liberazione di non saper indicare alternative all’esigenza di costituirsi in nazione in un mondo fatto di nazioni, dall’altro si salva l’anima “di sinistra”citando la frase di Negri che afferma che lo stato-nazione è il “dono avvelenato” delle rivoluzioni dei popoli coloniali... 


Intellettuali organici o bohémien? 


Siamo così arrivati alla parte del libro di Traverso nei confronti della quale avverto la maggiore distanza. Mi riferisco al lungo capitolo sugli intellettuali rivoluzionari nel quale, può darsi che mi sbagli, ma mi pare che l’autore cerchi di riscattare quello strato di simpatizzanti e/o militanti dei movimenti rivoluzionari che gli intellettuali “organici” (ragioneremo più avanti su tale termine) hanno spesso liquidato come “piccolo borghesi”. 


Traverso descrive una serie di figure che hanno svolto ruoli più o meno significativi nei movimenti rivoluzionari nei quasi due secoli presi in esame dal libro, tentando in qualche modo di estrarne una sorta di idealtipo, più o meno stabile nel corso del tempo, fino a farne quasi una (pseudo)classe sociale connotata da caratteristiche ideali più che sociali. Fra i tratti più comuni mette in luce: l’alta percentuale di appartenenti alla comunità ebraica della diaspora, estranei alla particolarità nazionali,  portatori di una cultura cosmopolita e impregnati di valori astratti quali giustizia, uguaglianza e libertà; gruppi minoritari di “reietti” (artisti e scrittori d'avanguardia, neri, femministe, bohémien), “paria” per scelta e lumpenproletari del pensiero (autodidatti restii a farsi ingabbiare dall’istituzione universitaria e dai ranghi dell’industria culturale). Tutti costoro, essendo spesso costretti a spostarsi frequentemente per sfuggire alla repressione o per guadagnarsi da vivere sono a loro volta portatori di uno spirito cosmopolita e antinazionalista. 


Mi sembra chiaro che Traverso è molto più simpatetico nei confronti di questa congrega composita - e in certa misura immaginaria, in quanto non tiene conto delle mutazioni storico culturali che l’hanno di volta in volta trasformata - rispetto alla categoria gramsciana di intellettuale organico. Probabilmente perché Gramsci identificava tale figura con uno strato intellettuale “auto prodotto” dalle avanguardie operaie politicamente organizzate, qualcosa che si avvicinava troppo al “rivoluzionario di professione” teorizzato da Lenin (al quale, come si è visto, Traverso imputa di aver prevaricato la democrazia dei consigli). Anche se, per quanto mi pare ami poco Gramsci, Traverso ha il merito di denunciare lo scempio che il PCI, a partire da Togliatti, ha fatto di concetti come egemonia, blocco storico e guerra di posizione, trasformandoli in una sorta di manifesto di gradualismo socialista (per poi sbarazzarsene dopo la trasformazione in forza liberal democratica e neoliberista). 


Ma torniamo sul pezzo. Anche nel discorso che Traverso sviluppa su questi temi non mancano contraddizioni e incongruenze. Per esempio, propone tre idealtipi di intellettuali rivoluzionari: cosmopoliti radicati (come Ho Chi Min, che dopo avere passato quasi tutta la vita vagando fra Francia, Russia e altrove, mette radici nel Paese d’origine e lo guida alla vittoria nella guerra antimperialista), rivoluzionari tellurici (come Mao, che non ha mai lasciato la Cina ed è divenuto il leader e fondatore indiscusso della Repubblica Popolare) e internazionalisti sradicati (qui gli esempi possono essere molti, anche se il più scontato è Che Guevara). Ebbene questa classificazione dovrebbe far riflettere sul fatto che a vincere sono stati i primi due, mentre il terzo ha sistematicamente fallito, quindi, visto che quest’ultimo è quello che più si avvicina al modello che a Traverso sembra più gradito, sorge il dubbio che il nostro subisca una romantica fascinazione per la sconfitta…



Ho Chi Min




Lasciando da parte le divagazioni pseudo psicologiche (che conto mi verranno perdonate) torno alle contraddizioni. Traverso è lucidamente consapevole della catastrofe che in Occidente ha spazzato via ogni velleità rivoluzionaria.In particolare è consapevole che: 1) il capitale ha vinto “perché è riuscito a plasmare il nostro habitus mentale e a imporsi come modello antropologico” (26); 2) che il pensiero critico è stato sterilizzato alla fonte confinandolo nei recinti universitari; 3 ) che la lezione di Marcuse (27) sulle “controculture” americane di qualche decennio fa, laddove ne metteva in luce la manipolabilità da parte delle strategie di desublimazione e tolleranza repressive, resta pienamente attuale; 4) che l’obiettivo delle rivolte post sessantottine non è deporre un regime politico ma cambiarne i rappresentanti (28). Malgrado tutto ciò, se ne viene fuori con l’affermazione che no global, primavere arabe, OWS, Black Lives Matter, Indignados, Syriza, gilet gialli, Lgbtq “sono tutti momenti di costruzione di un nuovo immaginario sovversivo (sic)”. A questo elenco mancano solo gli ombrelli di Hong Kong, agitati dai nipoti della borghesia compradora al soldo dell’imperialismo britannico, assieme alle bandiere a stelle strisce e all’Union Jack. Come non capire che questi fenomeni sono parte integrante del modello antropologico di cui sopra, assimilabili dall’ala woke del capitalismo occidentale?  


Chi mi legge abitualmente sa che non amo le conclusioni. Del resto, nelle pagine precedenti mi sembra di avere esaurientemente chiarito sia i motivi di consenso che quelli di dissenso nei confronti del lavoro di Traverso, che considero comunque uno dei più stimolanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi. Potrei quindi chiudere qui augurando al nostro di riuscire quanto prima a sbarazzarsi di certi residui di pensiero critico “alternativo”(compito arduo, come posso testimoniare in prima persona, anche se godo del discutibile vantaggio di avere accumulato dai dieci ai quindici anni in più per arricchire la mia dote di motivi di disincanto). Tuttavia, sapendo che vengo spesso accusato di adottare un approccio critico distruttivo, senza indicare soluzioni alternative (il fatidico “che fare”) mi è parso opportuno aggiungere, al posto di una conclusione, l’Appendice qui di seguito, nella quale riassumo quel che penso sul caso cinese. Per due ragioni: in primo luogo perché Traverso mi è parso incapace, come la maggioranza dei marxisti occidentali, di vedere la reale natura di quello straordinario esperimento storico; poi perché chi scrive, pur avendo maturato un profondo scetticismo nei confronti delle pretese universaliste di tutte le teorie rivoluzionarie e di tutti i tentativi di metterle in pratica, è convinto che gli attuali “socialismi imperfetti” (29), pur non rappresentando dei modelli, incarnino la possibilità di imboccare un passaggio stretto fra la resa nei confronti della controrivoluzione neoliberale e la ripetizione dei molti errori commessi da coloro che hanno finora tentato di cambiare il mondo.



Appendice. La Cina, ovvero l’elefante invisibile nel negozio di porcellane


La Cina è l’elefante che ha fatto irruzione nel negozio di porcellane dell’equilibrio geopolitico mondiale, scompaginando il progetto americano di dominio unipolare. In quanto tale lo vedono (e lo temono) tanto le destre quanto le sinistre occidentali. Ma mentre le destre vedono la vera natura del pericolo, cioè il fatto che la crescita economica cinese non si è accompagnata a un cambio di regime politico, per le sinistre tale natura resta invisibile, dal momento che rimuovono la contraddizione considerando la Cina un paese capitalista e imperialista simile alle controparti occidentali. 


Non è il caso di Traverso che, tuttavia, non comprende a sua volta la natura del problema. Da un lato, riconosce che non può esistere libertà senza liberazione dalla necessità, considerazione che condivide con un marxista poco tenero nei confronti del regime cinese come David Harvey, il quale riconosce (30) che l’aver riscattato in tempi brevi ottocento milioni di persone dalla povertà assoluta è stata un’impresa miracolosa inspiegabile in base ai paradigmi economici occidentali. Dall’altra, afferma che la rivoluzione cinese non fu, a differenza di quella sovietica, una reale cesura sociale e politica – giudizio smentito, come vedremo fra breve, da Giovanni Arrighi. Di più: ripete il luogo comune secondo cui il boom economico di Paesi come il Vietnam e la Cina conferma che il mondo è ormai omologato dal processo di mercificazione globale (tesi smentita tanto dall’attuale crisi della globalizzazione, quanto dalle cause che l’hanno provocata). Infine rilancia la tesi (cara a Negri e discepoli e di sapore squisitamente occidentalista) che - dato l’attuale livello di sviluppo delle forze produttive - l’obiettivo non può più essere la liberazione del bensì la liberazione dal lavoro, per cui l’unico parametro di giudizio per valutare il carattere socialista di un Paese è la quantità di tempo libero che offre ai cittadini. In questa Appendice spiegherò perché dissento.


1. Per iniziare: bibliografia minima per prevenuti e disinformati


G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, In AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020;  V. Giacché (a cura di) Economia della rivoluzione (raccolta di testi di Lenin), il Saggiatore, Milano 2017; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019; R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.



 2. La lezione di Giovanni Arrighi. 







Possiamo definire la Cina un Paese che, dopo avere fatto una rivoluzione antimperialista, ha avviato il processo di transizione al socialismo? Partiamo da una serie di dati di fatto. In particolare: anche dopo le riforme degli anni Settanta, i settori strategici dell’economia sono rimasti sotto il controllo dello stato/partito; l’agricoltura è stata (parzialmente) liberalizzata ma non privatizzata; gli investimenti stranieri vengono utilizzati per accelerare lo sviluppo tecnologico, scientifico ed economico, senza influire sugli equilibri generali del sistema; gli investimenti diretti all’estero sono orientati a promuovere lo sviluppo dei Paesi beneficiari e non a ingabbiarli nell’economia del debito; i tentativi della borghesia nazionale di trasformare il proprio potere economico in potere politico vengono puntualmente stroncati; lo straordinario successo economico ha imposto pesanti sacrifici alle classi lavoratrici, ma poi è stato utilizzato per riscattare centinaia di milioni di cittadini dalla povertà assoluta, elevare i salari operai e i redditi contadini, migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse e spostare il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni; infine questo rapido processo di trasformazione socioeconomica non ha favorito una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico. 


Tutto ciò non basterebbe di per sé a giustificare la mia valutazione sulla natura dell’esperimento cinese, la quale si basa piuttosto sul capolavoro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino (31). Sulle tracce di Fernand Braudel e Karl Polanyi, Arrighi sposta l’analisi dal livello puramente economico a quelli sociologico, storico e antropologico. In particolare parte da una lettura “laterale” di alcuni aspetti dell’opera di Adam Smith, il quale, ricorda Arrighi, sosteneva che la Cina era più ricca di qualsiasi Paese europeo grazie al carattere “stazionario” della sua economia, cioè grazie al fatto che, pur non essendo mossa dalla spinta occidentale all’accumulazione illimitata, aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica. Smith definiva “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, contrapponendolo allo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero. 


Partendo da questa contrapposizione, Arrighi critica la tesi marxiana che vede nello sviluppo capitalistico la fase da cui il mondo intero dovrà passare, prima di liberarsene. Per Marx, lo sviluppo che Smith definisce “naturale” non potrebbe sopravvivere in un mondo in cui  si sia diffuso lo sviluppo “innaturale” del capitalismo. Marx era convinto che ogni altra formazione sociale sarebbe collassata non appena venuta a contatto con il mercato capitalistico. Tuttavia, argomenta Arrighi, l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato: esistono culture, tradizioni, modelli di relazioni sociali, forme di vita che non solo hanno resistito, ma hanno generato modelli di sviluppo alternativi a quello dominante, alcuni dei quali fondati sul mercato ma non capitalistici, e la Cina ne è l’esempio più significativo. 


Arrighi parte evocando certe costanti che hanno caratterizzato la millenaria storia cinese. In particolare, ricorda che la rivoluzione industriale occidentale è riuscita a prevalere solo nel XIX secolo sulla “rivoluzione industriosa” orientale, concetto con cui si riferisce alla struttura istituzionale dominante in Asia che, ancorché deficitaria in materia di innovazioni su larga scala, investimenti in capitale fisso e traffici di lunga distanza, favoriva tecnologie ad alta intensità di lavoro, privilegiando le risorse umane rispetto alle risorse materiali. Arrighi ricorda poi che la Cina  non ha mai intrapreso guerre su vasta scala, né ha tentato di costruire imperi d’oltremare nei secoli in cui lo scenario europeo era caratterizzato dalla feroce competizione militare fra nazioni e dalle conquiste imperiali. Nel secolo XVIII lo stato nazione cinese esisteva da tempo immemorabile e aveva sviluppato un immenso mercato interno. Le dinastie Ming e Qing impegnarono tutte le risorse nel consolidamento di relazioni pacifiche con i confinanti e di una economia nazionale basata sull’agricoltura. Queste politiche generarono prosperità e crescita demografica, ma la Cina fu cieca di fronte al pericolo che incombeva da Occidente. Tuttavia non fu la presunta superiorità economica del modello occidentale a metterla in ginocchio: in barba alle previsioni di Marx ed Engels, secondo cui le merci occidentali a buon mercato sarebbero state “l’artiglieria pesante con cui la borghesia europea avrebbe abbattuto le muraglie cinesi”, i mercanti inglesi scoprirono di non poter battere la concorrenza di quelli cinesi. Per sottomettere la Cina gli occidentali dovettero scatenare le guerre dell’oppio, alle quali seguì un secolo di umiliazioni e vessazioni da parte dei “barbari” occidentali e del Giappone, fino all’invasione con cui quest'ultimo  anticipò la Seconda guerra mondiale.  


Cosa ha permesso alla Cina, dopo essersi liberata con la rivoluzione del 1949, di accrescere la propria potenza fino ad assumere il ruolo di competitor nei confronti dell’impero Usa? Arrighi data l’inizio del processo al tempo della grande rivolta dei popoli asiatici e africani contro l’Occidente degli anni Cinquanta, allorché nacque un fronte ampio delle nazioni ex coloniali – il movimento dei “non allineati” – che si allearono per rivendicare un nuovo ordine economico internazionale. Ancorché sconfitta, quella sollevazione non lasciò le cose com’erano prima. In particolare, creò le basi per l’ascesa della potenza collettiva di un arcipelago asiatico che si propose in tempi brevi come “officina del mondo” e fonte di enormi riserve di liquidità. E la Cina, pur inserendosi per ultima in tale concerto, divenne il capofila di questa sfida all’Occidente. 


A coloro che considerano tale “miracolo” come il prodotto della conversione dello stato/partito comunista al credo neoliberale, Arrighi oppone un’altra spiegazione: a determinarlo fu il fatto che, scartando le shock terapy confezionate dal Washington Consensus per “risanare” le economie dell’ex Unione sovietica e relativi satelliti, Deng  ha imboccato una via riformista inspirata a un rigoroso gradualismo. A far decollare l’economia è stata la decisione di imporre alle aziende statali di farsi concorrenza e di accettare la concorrenza delle aziende straniere e delle nuove aziende a partecipazione privata. Alla formazione dell’immenso mercato interno cinese ha poi contribuito la scelta di consentire ai residenti delle aree rurali la possibilità di svolgere attività di trasporto e commercio anche a grande distanza. Infine Arrighi sfata due miti: a favorire l’enorme flusso di investimenti stranieri nelle Zone Speciali istituite dopo le riforme del 78 non è stato il basso costo della forza lavoro bensì l’alta qualità di quest’ultima in termini di salute, livelli di istruzione e ampi margini di autonomia, tre caratteristiche ereditate dall’era maoista; quanto agli investimenti stranieri: più delle multinazionali occidentali, a trainarli furono le imprese dei cinesi della diaspora. Infine gli investimenti occidentali si sono dovuti avvalere della mediazione di “sensali” locali, così la lingua, le usanze e le reti sociali hanno contributo a proteggere l’economia cinese da eccessivi livelli di condizionamento da parte del capitale straniero. 


È stato tutto ciò, argomenta Arrighi, a favorire uno sviluppo di mercato di tipo non capitalistico (quello che i cinesi chiamano socialismo con caratteristiche cinesi o socialismo di mercato). Per i marxisti ortodossi, questa è una eresia. Giusto, ma il punto è che Arrighi evoca un cambio di paradigma: abbandonando la prospettiva globalista di un mondo livellato dal processo di accumulazione capitalistico, mette in luce la novità di un Paese di un miliardo e mezzo di persone che ha ibridato tre fattori apparentemente incompatibili: una millenaria tradizione capace di generare una ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene comune; la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata da un partito marxista-leninista; un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito. 


Il libro di Arrighi non risolve forse tutti i dubbi sulla natura della società cinese, ma basta a liquidare come una idiozia le etichette di capitalismo di stato e potenza imperialista emergente. Resta il dilemma: è un Paese socialista o una formazione sociale di tipo nuovo? Vladimiro Giacché evidenzia (32) le differenze fra il socialismo in stile cinese e la visione marxista “classica” (mutuata dalla Critica al Programma di Gotha di Marx e dall’ Anti Duhring di Engels). Secondo la versione “canonica” il socialismo non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. Un dogma che non verrà messo in discussione neanche dai bolscevichi nei primi anni successivi alla Rivoluzione del 1917, ma s partire dagli anni 1921-23, Lenin criticò chi sosteneva la possibilità di transitare direttamente al socialismo senza passare da una fase di transizione, e sostenne che tale fase sarebbe stata lunga e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. 


Giacché ha ragione di affermare che “se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non può considerarsi tale né la Cina di Mao, né tantomeno quella di Deng e dei successori”. Ricorda però che Lenin, nel 1918, ebbe a dire: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. Perché negare ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare il carattere socialista della Repubblica Popolare? Resta il dubbio se la Cina sia un Paese in transizione verso il socialismo o verso un modello inedito di formazione sociale. I marxisti ortodossi potrebbero replicare che riconoscere il carattere socialista della Cina è un atto di fede basato su argomenti ideologico-politici ma insostenibile sul piano socio-economico, a meno di non riformulare alcune categorie fondamentali del marxismo. È appunto ciò che tentano di fare Alberto Gabriele ed Elias Jabbour in un libro (33) che discuterò nel prossimo paragrafo. 



3. Legge del valore e socialismo 


Secondo Gabriele e Jabbour non esistono allo stato attuale Paesi che rispecchino modelli di ”puro”  socialismo; esistono piuttosto Paesi che si possono definire come “socialistic” o “socialist oriented”  ove soddisfino due condizioni: a) siano governate da forze politiche che rivendicano ufficialmente e credibilmente di essere impegnate nello sviluppo di un sistema socialista; b) siano avanzate in apprezzabile misura in direzione della costruzione del socialismo. Il grado di orientamento in senso socialistico è correlato con obiettivi quali la riduzione della disuguaglianza, la soddisfazione universale dei bisogni di base, la sostenibilità ambientale, ecc. Come si vede la proprietà di “essere socialista” è qui definita in senso “debole”. Per esempio, in un altro passaggio, si allude a modalità di distribuzione dei redditi e della ricchezza nettamente più egualitarie di quelle in auge nei Paesi capitalisti (un’economia mista come quella italiana degli anni Sessanta non era così lontana da soddisfare tale requisito). Infine Gabriele e Jabbour affermano che il socialismo come modo di produzione è radicato solo in certe aree del Sud ed è ancora nella sua infanzia (di fatto considerano “socialist oriented” solo Cina, Vietnam e Laos, mentre tacciono sui socialismi latinoamericani). 


In che misura è possibile utilizzare in questo contesto il concetto di modo di produzione? La categoria marxiana di modo di produzione presuppone l’esistenza di una serie di fattori altamente specifici (il modo di produzione capitalista non è definito solo dalla produzione di merci ma anche da precise figure sociali - borghesia e proletariato – e dalle relazioni di produzione e scambio che le interconnettono, ecc.). Nel senso più astratto, il modo in produzione è un sistema dotato di coerenza interna e leggi di autoconservazione e movimento (Gabriele e Jabbour notano che il concetto è compatibile con quello di sistema elaborato dalla teoria dei sistemi, e io aggiungerei con quello di struttura). Tuttavia si tratta appunto di un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente determinate, possono aderire in misura significativamente diversa (con il termine formazione socioeconomica, Gabriele e Jabbour definiscono un sistema dotato di un certo grado di consistenza e stabilità interne che predomina storicamente in un dato luogo identificato da coordinate spaziotemporali). Laddove Marx ipotizzava che il modo di produzione capitalistico fosse destinato a diffondersi a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non fosse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il suo primato può essere, in differenti contesti storico-geografici, assoluto o relativo. Gli Stati Uniti rappresentano un chiaro esempio di supremazia assoluta del modo di produzione capitalistico, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere in contesti che presentano relazioni di rivalità e/o di simbiosi, così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro. 


Questo pluralismo dei modi di produzione - riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove accanto al capitalismo esistono sia formazioni socioeconomiche socialist oriented che relazioni sociali di tipo precapitalistico – non vieta di riconoscere che il modo di produzione dominante a livello mondiale resta il capitalismo ma, al tempo stesso, non vieta di affermare che, laddove esso convive con altri modi di produzione, a meno di non assumere una visione teleologica della storia, non è possibile stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo. In particolare, occorre prendere atto che il modo di produzione capitalista, ancorché dominante, lo è in misura minore del passato, in quanto il processo di globalizzazione ha offerto ai Paesi socialist-oriented l’opportunità di integrarsi nell’economia mondiale e di competere con i paesi capitalisti senza rinunciare al proprio progetto di transizione al socialismo. Infine Gabriele e Jabbour definiscono Meta Modo di Produzione l’attuale  sistema globale, definito dalle seguenti caratteristiche: produzione di merci e rapporti di produzione e scambio, vigenza della legge del valore e del processo di estrazione del plusvalore, coesistenza fra un macrosettore produttivo e un macrosettore improduttivo. 


La tesi più radicale di Gabriele e Jabbour consiste nell’affermare che l’esistenza del plusvalore non è di per sé indice di sfruttamento di classe né determina il grado di giustizia di una certa società. In quanto relazione sociale, scrivono, lo sfruttamento dev’essere considerato come una categoria sociologica che implica un giudizio etico-politico, nella misura in cui si tratta del frutto dell’asimmetria di potere fra capitalisti e lavoratori. L’appropriazione privata del surplus sociale, sostengono, non è un fatto meramente economico, ma va reinterpretato come un fenomeno sociale olistico prodotto dalla estrema disparità fra individui appartenenti a differenti classi sociali. In un certo senso, ciò significa affermare che non è l’appropriazione privata del surplus a produrre la disuguaglianza di classe ma è la disuguaglianza di potere fra le classi a generare le condizioni per l’appropriazione privata. Ora, se la legge del valore e le interazioni di mercato mantengono il loro ruolo in una formazione sociale in transizione verso il socialismo, è evidente che quest’ultima dev’essere un contesto in cui le categorie in questione subiscono un progressivo depotenziamento. Accantonata la tesi comune a Trotsky ed altri teorici marxisti che negano la possibilità della costruzione del socialismo in un solo Paese, è evidente che il concetto di transizione al socialismo debba essere formulato in termini meno ambiziosi e descritta come un processo di lunga durata in cui permangono i conflitti sociali. 


Secondo la visione sin qui esposta, la sfida del socialismo inteso come modo di produzione sui generis consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni dell’economia. Per ottenere tale risultato si sono imboccate due vie: la via sovietica, caratterizzata dalla pianificazione centralizzata dell’economia, e la via delle economie socialiste di mercato come Cina, Vietnam e Laos (personalmente aggiungerei all’elenco alcuni Paesi latinoamericani).  Queste ultime sono caratterizzate: a) dal fatto che il meccanismo dei prezzi di mercato e la legge del valore sono la forma prevalente di regolazione (almeno nel breve medio termine); b) dal fatto che il ruolo diretto e indiretto dello Stato e il suo controllo sull’economia sono qualitativamente e quantitativamente assai superiori rispetto ai Paesi capitalisti; c) dal fatto che il governo rivendica come obiettivo a lungo termine la realizzazione del socialismo. 


4. Sulle riforme cinesi


Negli anni Cinquanta e nella prima parte degli anni Sessanta (almeno fino alla rottura con l’URSS), la Cina aveva tentato di imitare il modello sovietico: collettivizzazione delle campagne attraverso la costituzione delle Comuni agricole, concentrazione delle risorse nel settore dell’industria pesante e tentativo di costruire un sistema di pianificazione centralizzato. Pur contrastato da una parte del partito, Mao impose di insistere su questa via lanciando prima il Grande Balzo in avanti e, dopo il suo fallimento, la Rivoluzione Culturale contro la direzione del PCC che reclamava una svolta. Dopo la morte di Mao, le riforme iniziano dal settore agricolo dove viene applicato il principio liberalizzazione senza privatizzazione. Mentre la linea precedente imponeva ai contadini di sopportare il peso dell’accumulazione forzata del settore industriale, lo smantellamento delle Comuni e il ritorno all’impresa individuale come unità produttiva di base rilancia l’alleanza fra operai e contadini. L’intuizione di Deng è che questi ultimi possono rappresentare, un fattore strategico per le nuove strategie di sviluppo. Il nuovo sistema prevede che si stipulino contratti fra lo Stato e i contadini, costoro devono versare una quota del surplus al primo, ma possono vendere il resto sui mercati locali (in una fase successiva anche su mercati distanti). Nel contempo vengono effettuati investimenti in Ricerca e Sviluppo che favoriscono il rapido progresso tecnologico del settore. L’insieme di queste innovazioni determina un formidabile incremento della produzione agricola che rappresenta un potente volano per lo sviluppo dell’intera economia.



Deg Xiaoping




Nella prima fase delle riforme lo smantellamento delle Comuni ha offerto un importante contributo al decollo anche da un altro punto di vista. Ai tempi di Mao, le Comuni avevano sviluppato una serie di infrastrutture industriali per rendersi autonome e fungere da isole di resistenza economica, oltre che politico-militare, in caso di invasione. Queste infrastrutture vengono ereditate da piccole e medie imprese di villaggio (cooperative, municipali, in qualche caso private) che negli anni Ottanta e Novanta, prima di essere messe in crisi dalla crescita del settore privato o integrate nel settore statale, hanno innescato un vero e proprio boom. 


Se ci spostiamo sul piano delle grandi imprese industriali e della finanza vediamo come i media e gli “esperti” occidentali intonino un coro unanime: il “miracolo” cinese si spiega con il fatto che il Paese si è convertito al capitalismo pur restando sotto il governo totalitario dello stato/partito, ergo è  questione di tempo prima che esplodano crisi industriali e finanziarie simili a quelle dei mercati occidentali e che il regime comunista si sfaldi, aprendo la strada alla trasformazione del Paese in senso liberal-democratico. Ma le cose non sono andate, e difficilmente andranno in futuro, così. L’abbandono del modello sovietico di pianificazione centralizzata infatti non è coinciso con la fine della pianificazione. L’ascesa del mercato a meccanismo regolatore del sistema economico non si è associata a processi di deregulation di stile occidentale, al contrario: il mercato stesso è plasmato in larga misura dallo Stato, e la pianificazione non è morta ma si è fatta flessibile, articolandosi per settori e progetti. Le linee guida che governano l’azione dello stato/ partito impongono che venga rispettato il principio della prevalenza della proprietà statale e respinta l’ideologia “mercatista” occidentale: Mao è morto ma non è morto lo slogan che recita “la politica deve dirigere tutto”. Così, se è vero che le imprese pubbliche sono oggi in numero inferiore che in passato e concorrono in misura minore al prodotto globale, è altresì vero che sono più grandi e tecnologicamente avanzate e che le loro performance in termini di efficienza e redditività sono superiori a quelle delle imprese private. Questo risultato si è ottenuto applicando il principio “tenere le grandi mollare le piccole”; dando maggiore autonomia ai manager; consentendo la vendita dei prodotti a prezzi più alti di quelli fissati dal piano; esponendo progressivamente le imprese pubbliche alla concorrenza, sia sul piano interno che su quello internazionale. 


L’uso cinese della globalizzazione (finché gli Stati Uniti si sono resi conto che si stava rivelando un boomerang  e hanno avviato una strategia di “delinking” dal mercato cinese e di misure protezioniste) ha consentito di integrare il Paese nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza cedere ai fondamentalisti del mercato. Ciò è stato possibile grazie al controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una relativa autonomia dal dollaro. Naturalmente, la Cina non gode ancora di una totale sovranità monetaria, tuttavia, grazie alle enormi dimensioni della sua economia, al progressivo spostamento del motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni e al controllo politico sul sistema finanziario, è stato possibile contenere l’impatto della crisi delle tigri asiatiche del 1997 e della crisi finanziaria globale del 2007-2008. 


Il processo di riforma è andato avanti a lungo in modo relativamente caotico, per tentativi ed errori, ma ora  sta assumendo forme, principi e valori sempre più definiti e consolidati, e la leadership di Xi Jinping è coincisa con il rilancio delle ambizioni di trasformazione in senso socialista, sancita dal rafforzamento del controllo capillare del Partito su imprese (sia pubbliche che private) e istituzioni economiche e dal varo di politiche redistributive a favore delle classi lavoratrici, finanziate attraverso l’inasprimento dei prelievi fiscali sui profitti. Ciò detto, il processo cinese è associato a fattori storici, geografici e culturali unici, per cui non può essere assunto come un modello esportabile in altri contesti. Tuttavia non vi è dubbio che contenga un insegnamento di carattere generale: per Marx ed Engels il comunismo era un obiettivo realizzabile già nel loro tempo storico, a coronamento di un breve processo di transizione socialista; Lenin, messo di fronte alle  difficoltà della transizione, varò la NEP contro le pretese della sinistra bolscevica che chiedeva l’abolizione immediata dei rapporti monetari di scambio; dall’esperienza cinese ereditiamo invece la consapevolezza del fatto che il passaggio dalla regolazione dell’economia attraverso il mercato a forme avanzate di pianificazione è un processo inevitabilmente assai lento e complesso, e può realizzarsi solo quando il processo di trasformazione del modo di produzione avrà raggiunto un livello assai avanzato (senza dimenticare che il persistere di differenze e conflitti di classe potrebbero decretarne il fallimento, come è avvenuto in Russia, sia pure in un contesto differente). 


Concludo con una postilla sulla distinzione fra emancipazione del lavoro ed emancipazione dal lavoro, un obiettivo rivendicato, fra gli altri, dai “costruttori di dio” (vedi sopra) , dal Bloch del Principio Speranza, dai teorici post operaisti come Negri, Gorz e, mi pare, dallo stesso Traverso. A questa visione, che rischia di ridursi a una sorta di apologia del consumo (cfr. la richiesta di reddito universale incondizionato a prescindere dallo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa), preferisco opporre quella di Lukacs che, nella Ontologia dell’essere sociale, considera il lavoro in quanto ricambio organico uomo-natura come il modello di ogni prassi sociale e il fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, cioè qualcosa da cui non ha senso “emanciparsi”: posto che solo la società capitalistica occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per ridurlo a merce forza-lavoro e a fonte del valore di scambio, l’emancipazione del lavoro significa emanciparsi da questa aberrazione e non emanciparsi dal lavoro, ma piuttosto ricondurre quest’ultimo alla sua natura di ricambio organico uomo – natura.


Note


(1) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023.


(2) https://tempofertile.blogspot.com/2022/09/enzo-traverso-rivoluzione.html?q=traverso



(3) Cfr. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 2022; vedi anche Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti.


(4) Cfr. in particolare, Guerra e rivoluzione, op. cit., vol. I cap. I.


(5) C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.


(6) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.


(7) Il filosofo italiano che ha trattato in modo più approfondito e convincente il concetto di autonomia del politico è Mario Tronti.


(8) Cfr. W Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.


(9) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017.


(10) V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni clandestine, Massa 2017. 


(11) Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001.


(12) Vedi in particolare, R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(13) Mi sono occupato del transumanesimo e delle  altre utopie delle cyberculture californiane in Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000.


(14) Cfr. R. Koselleck, Futuro passato, Hoepli, Milano 2007.


(15) Il più noto romanzo di fantascienza di Bogdanov è Stella Rossa (Alcatraz 2019, con una presentazione dei Wu Ming)


(16) Cfr. E. Block, Il principio speranza, 3 voll. , Mimesis, Milano-Udine 2019.


(17) Vedi Guerra e rivoluzione, op. cit. vol. I, cap. I. 


(18) Ho potuto studiare la Revolucion Ciudadana di Rafael Correa nel corso nell’estate del 2012, trascorsa a Quito. Come ho argomentato in Magia bianca magia nera (Jaka Book, Milano 2013), già allora erano evidenti le contraddizioni (in particolare il conflitto fra governo e associazioni della minoranza di origine india) che avrebbero consentito alle destre neoliberiste di riconquistare il potere.


(19) Vedi A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.


(20) Cfr. C. Preve, Opere, vol. II,  Manifesto filosofico del comunismo comunitario, Inschibbolleth edizioni. 


(21) Cfr. D. Losurdo, La questione comunista, Carocci, Roma 2021. 


(22) A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(23) Vedi la lettera di Marx a Vera Zasulic, in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960; vedi inoltre E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009, vedi infine P. P. Poggio, L’obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976. 


(24) J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.


(25) A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de suenos, Quito 2015. 


(26) Considero La nuova ragione del mondo di P. Dardot e C. Laval (DeriveApprodi, Roma 2013) la migliore analisi di questa controrivoluzione culturale.


(27) Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001. Per un'analisi attualizzata della sostanziale compatibilità fra cultura delle nuove sinistre libertarie e sistema neoliberale vedi L. Boltanski e E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.   


(28) Sull’abdicazione dei nuovi movimenti rispetto nei confronti di qualsiasi progetto di conquista del potere cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012.


(29) Definisco così i regimi di Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela, Bolivia ecc. nel secondo volume di Guerra e rivoluzione, op. cit.


(30) Cfr. D. Harvey, The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020. 


(31) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 (nuova edizione in Mimesis). 


(32) Cfr. V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, In AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020;  V. Giacché (a cura di) Economia della rivoluzione (raccolta di testi di Lenin), il Saggiatore, Milano 2017


(33) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London- New York 2022.

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