AL COMPAGNO CARLO FORMENTI
Lettera aperta di Fosco Giannini
Carissimo Carlo, carissimo compagno Formenti,
ho avuto l'onore di conoscerti personalmente solo da pochi anni ed il conoscerti come persona ha confermato in me la grande stima che già nutrivo per il tuo lavoro politico-teorico, che invece avevo già “frequentato”. Conoscendoti, dunque, ho potuto apprezzare, moltissimo, sia l'uomo, il compagno, che l'intellettuale.
Nonostante la tua scelta di dichiarare pubblicamente la tua non adesione (che personalmente mi fa molto male, proprio per la stima che ho nei tuoi confronti) al Movimento per la Rinascita Comunista, non nutro certo sentimenti avversi verso di te. Rimane, intera, la stima e, anche se non ci siamo frequentati tanto, anche l’affetto, cresciuto verso di te per un tuo particolare modo d’essere: quello di rimanere, senza “posa” alcuna, un “giovane rivoluzionario”.
E’ mia colpa non aver interloquito con te negli scorsi giorni, quando, con molta correttezza, hai posto il problema di pubblicare sul tuo blog la dichiarazione di non adesione al MpRC. Mi scuso sinceramente e, a mia parziale scusante, ti dico solo che, in questa fase del nostro lavoro politico, con tante iniziative su buona parte del territorio nazionale, con l’obiettivo della riuscita della nostra Assemblea dell’11 maggio a Roma e con la costruzione in atto di nuove ed importanti relazioni con altri gruppi/movimenti comunisti, non ho il tempo nemmeno per la mia vita, per la mia compagna, per le mie figlie.
Entrare nel merito delle questioni politico- teoriche che hai posto – che è davvero l’unica cosa che conta - richiederebbe, se fatto con impegno e serietà, un tempo lungo ed uno spazio vasto.
Tuttavia, seppur in modo ultra sintetico, vorrei rapportarmi alle tue osservazioni. In modo, come detto e se me lo perdonerai, davvero secco ed essenziale.
Prima questione: poni il problema del superamento del determinismo, del meccanicismo. Giusto. Totalmente giusto. Ma il punto è che questa è la stessa questione – pari pari - che poniamo nel nostro documento politico-teorico, quando affermiamo chiaramente la necessità di battersi contro ogni residuo positivista, ogni retaggio “secondo internazionalista”, persino ogni residuo “crociano” (quel “crocianesimo”che forse Gramsci, nella sua “cattività”, non riuscì a debellare completamente) collocando al centro, in un rapporto proficuo oggetto-soggetto, l’azione soggettiva dell’uomo, della donna, della “classe”, riassumendo in pieno il pensiero e la prassi di Lenin e di Gramsci, del Gramsci dell’articolo del 1917 dal titolo “Una rivoluzione contro il Capitale”, intendendo, Gramsci, il Capitale di Marx, male, malissimo interpretato, dogmaticamente e meccanicisticamente travisato (in un travisamento, in verità molto consapevole, utilizzato per rimuovere la rivoluzione e persino la lotta, concreta, sul campo, contro lo squadrismo mussoliniano) dalla Seconda Internazionale. Questa posizione segna di sé diversi capitoli del nostro documento, il documento del MpRC. Io stesso, in uno dei capitoli, mi dilungo su ciò. Peraltro, almeno in un paio di convegni fatti assieme abbiamo potuto constatare quanto, su questa questione, ci siamo trovati d’accordo. In un convegno fatto assieme, addirittura, mentre condannavamo all’unisono tutto il determinismo residuo (tanto) della “sinistra” italiana (uso la parola “sinistra” con lo stesso disagio col quale potrei, io molto proletario, sbucciare una banana con la forchetta ed il coltello), ebbi persino modo di correggerti (immagina con quanta soddisfazione ho potuto correggere Formenti!) circa il giornale sul quale Gramsci aveva scritto “Una rivoluzione contro il Capitale”: tu avevi sbagliato giornale ed io ti avevo ricordato che, invece, era l’Avanti!”
Non vado in ordine, non trovo tempo per nulla e lo sto cercando per te perché ne vale la pena. Perché se ti trascurassi non me lo perdonerei. Corriamo molto, in questa fase, sperando di non cadere nella trappola metafisica già messa in luce da Costanzo Preve, mio amico, quando asseriva che “spesso si crede di andare in bicicletta e andare per grandi spazi mentre invece si pedala su di una cyclette, e si pedala e pedala rimanendo sempre sullo stesso punto, fermi”. Intendendo con ciò che il “fare per il fare” non porta a nulla, anche se questo potrebbe valere sia per i militanti e i dirigenti che per gli intellettuali “puri”.
Sulla questione dello sviluppo delle forze produttive: tu avanzi una critica come se noi avessimo imboccato la strada di un neo-sansimonismo, tutta produttività e produttivismo come segno di un nuovo socialismo. Non è affatto così: noi poniamo la questione dello sviluppo delle forze produttive socialiste proprio per il superamento, dialetticamente, del produttivismo capitalista: come si possono superare i treni a carbone se non con uno sviluppo delle forze produttive che porti ad una nuova tecnologia in grado di giungere a treni capaci di camminare senza attrito sui binari? In altre parole: è lo sviluppo delle forze produttive a determinare un nuovo livello tecnologico in grado di superare la stessa degenerazione del produttivismo. E’ la dialettica della produzione rivoluzionaria, che nel potere socialista può giungere, grazie alla ricchezza tecnologica, a liberare il lavoro, liberarci dal peso del lavoro e liberarci dal mito delle merci, immettendo sul mercato, e nella coscienza di massa socialista solo ciò che serve, non ciò che è funzionale al profitto. In uno splendido romanzo di Guido Morselli, “Il comunista”, un operaio di Reggio Emilia, un operaio intellettuale come ce n’erano un tempo – Walter Ferranini, protagonista del romanzo, – viene eletto alla Camera dei deputati nelle file del PCI; si accorge che in quella sede non c’è un granché da fare e riprende a studiare, a leggere e rileggere Marx. E giunge alla conclusione, condividendo Marx, che “il lavoro è la lotta dell’uomo contro la natura”, per liberarsi dalla dittatura della natura, e a partire dal fatto che il lavoro è una lotta, esso contiene in sé una parte, pesante, di sofferenza oggettiva, di oppressione oggettiva, dalle quali liberarsi attraverso lo sviluppo delle forze produttive da piegare, tuttavia, al potere rivoluzionario. Poi, Carlo, con una franchezza che so non disturberà la tua intelligenza: se tu stesso riconosci come la Repubblica Popolare Cinese oggi, attraverso il suo titanico sviluppo economico, non solo ha fatto uscire dalla miseria e dall’ “equivoco” della Rivoluzione Culturale oltre 800 milioni di cinesi dalla povertà assoluta; non solo ha potuto offrirsi come cardine di un nuovo fronte multilaterale e oggettivamente antimperialista che fa oggi fa molto soffrire il fronte imperialista, ma partecipa in modo colossale, assieme alle rivoluzione dell’America Latina, alla delineazione del Socialismo del XXI Secolo; se questo è e se tu lo riconosci, non è leggermente in contraddizione la tua intemerata contro “lo sviluppo delle forze produttive”?
Rispetto alla questione, giusta, che poni “contro l’esaltazione acritica di scienza e tecnologia”. Vorrei farti notare (non per “ratificare”, in modo untuoso, una nostra, supposta, sovrapponibilità teorica su questo punto, ma per dirti che forse le distanze, tra noi, sono meno grandi di quanto tu stesso possa supporre), vorrei farti notare che nel documento politico-teorico a cui abbiamo lavorato e presenteremo a Roma in forma di volume, composto da 27 capitoli e con un titolo generale che la dice, vuol dirla lunga sullo spirito, e la lettera, del documento stesso (Promuovere la discussione adeguare il pensiero comunista e rivoluzionario. Primi appunti politico-teorici), nel senso che questo documento non vuol essere affatto un punto d’arrivo, ma un modesto punto di partenza,, in questo documento, dicevo, vi è un capitolo sulla scienza e la tecnologia che va esattamente incontro, e incrocia, le questioni che tu stesso poni sul pericolo di una loro esaltazione acritica.
Sulla questione, da te sollevata nei tuoi 12 punti, nelle tue 12 provocazioni, sull’“ideologia progressista” come potremmo non essere, totalmente, d’accordo? Ci conosci: ti immagini noi, che vogliamo richiamarci, senza enfasi, con i nostri limiti, ad Antonio Labriola, a Marx, a Lenin, a Gramsci, sposare la tesi del “progressismo” senza scontro di classe, senza rivoluzione?
Sul Socialismo del XXI Secolo: nel documento che abbiamo preparato e porteremo a Roma l’11 maggio, la questione del Socialismo del XXI Secolo segna di sé gran parte del lavoro complessivo. Vi sono capitoli interi dedicati alle trasformazioni sociali e alle rivoluzioni - dense di nuovi contenuti politici e teorici che arricchiscono e ridanno sangue all’estenuato “marxismo” occidentale – dell’America Latina. Come vi sono interi capitoli dedicati al “socialismo dai caratteri cinesi”, alla “nuova Nep” segnata dal pensiero teorico leninista che asseriscono come anche lo sviluppo cinese partecipi alla messa a fuoco, assieme alle rivoluzioni dell’America Latina, del Socialismo del XXI Secolo.
Sulla questione del rapporto tra sovranità nazionale e socialismo, sfondi una porta aperta: come potremmo, da un punto di vista rivoluzionario, non essere d’accordo con te e ancor prima, con Lenin e Gramsci?
Per ciò che riguarda il rapporto tra populismo e comunismo, nel senso di non gettare, aristocraticamente, con postura ideologica borghese, tutto il populismo alle ortiche, mi piacerebbe tanto tu leggessi l’ultimo capitolo del nostro documento, che come titolo ha proprio “Comunismo e populismo”. E mi piacerebbe tanto che lo leggessi anche perché e stato scritto dal nostro, carissimo amico comune, e compagno, Alessandro Testa.
Ora vorrei citare un tuo densissimo e importantissimo passaggio di un tuo capitolo della “Cassetta degli attrezzi”;
“Costruire il partito di classe. La prima generazione di movimenti post comunisti, partoriti dalla crisi delle sinistre "alternative" dei Settanta, al pari di quelli nati dopo il crollo dei socialismi reali e confluiti nel calderone di un'area culturale ampia e variegata (femministe, no global, eco pacifisti, ecc.) condividono il rifiuto nei confronti di ogni organizzazione di tipo verticale. Forma partito e forma stato vengono espulse dal patrimonio ideale in quanto "politicamente scorrette". Qualcuno ha definito "paranoia orizzontalista" questa ossessione che l'organizzazione in quanto tale evochi la possibilità della sua appropriazione da parte di interessi particolari, al rischio che il potere di fare cose si trasformi in potere sugli altri. Senza sfidare questa diffidenza radicale non è possibile affrontare l’impresa di costruire il partito di classe, formula che preferisco a quella di ricostruire il partito comunista. Non solo perché in Italia tutti i termini che usano il prefisso ri suonano iettatori, visti i precedenti non entusiasmanti, ma soprattutto perché, nell’attuale, concreto contesto storico, costruzione della classe e costruzione del partito vanno di pari passo. Parlare di costruire la classe suonerà bizzarro alle orecchie di chi ragiona a partire dai dogmi della tradizione marxista, che pensano che la classe sia un’entità che esiste "in sé e per sé", una “realtà oggettiva” generata dai rapporti di produzione. Ma se è vero che la classe operaia occidentale appare oggi come un’entità fantasmatica, un anacronismo otto-novecentesco, dopo che decenni di guerra di classe dall’alto, ristrutturazioni tecnologiche, delocalizzazioni, “riforme” giuridiche e istituzionali, tradimenti di partiti e sindacati convertiti al neoliberalismo l’hanno trasformata in una nebulosa di atomi individuali…”.
Ecco: per ciò che mi riguarda condivido tutto di questo passaggio. Meno che un punto: perché non più “partito comunista” e, invece, “partito di classe”? Non è un punto da poco, certamente. “Il partito di classe” rischia fortemente di scivolare nell’economicismo e nel sindacalismo, seppur di classe. Mentre il partito comunista, solo il partito comunista, può rappresentare ed offrire un progetto della totalità, della lotta di classe funzionale alla costruzione del socialismo. Inoltre: è il partito comunista, non la classe, a garantire la possibilità di organizzare, in senso antideterminista e antipositivista (per riprendere le tue stesse argomentazioni) la lotta rivoluzionaria. La liquido così, anche se ci sarebbe da scrivere un libro sulla questione che poni. Ma credo che ci siamo capiti.
Infine, tu poni un problema e lo poni come pietra miliare del tuo distacco da noi. Secondo ciò che hai scritto, noi staremmo lavorando per costruire l’ennesimo partitino comunista. Ti assicuriamo che non è così. Certo, la crisi spaventosa, irreversibile, dell’attuale movimento comunista organizzato italiano (tre partitini, PCI, PRC, PC che, assieme, - anche rispetto allo svuotamento totale del PC “di Rizzo”, liquefattosi dentro Democrazia Sovrana e Popolare e ormai sodale di Alemanno e persino di certa borghesia nera italiana – hanno circa 5 mila iscritti e, quindi, assieme, qualche centinaio di militanti, ma in lotta tra loro) pone ai comunisti italiani la questione strategica della costruzione del partito comunista in Italia. Una questione, tuttavia, che noi non vogliamo affatto risolvere attraverso una scorciatoia organizzativistica, in una precipitazione partitica. Oltre i 5 mila iscritti ai tre partitini comunisti (partitini caduti, tra l’altro, in una debolezza ed una confusione ideologica politicamente drammatica) esistono in Italia, in una vasta diaspora, decine di migliaia di comunisti senza partito e senza organizzazione. Sono dispersi, atomizzati, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nella società, nelle università e nelle accademie. Ci poniamo il compito (e un po’ ci stiamo già riuscendo) di unirli, di offrir loro un nuovo punto di riferimento, politico e ideologico. Un obiettivo, peraltro, difficile quasi quanto quello di costruire il partito comunista. Ma non uguale a quello di costruire, ora, adesso, il partito comunista. Propedeutico, eventualmente, a questo obiettivo. Un obiettivo strategico (strategico!) quello di costruire il partito comunista nella desertificazione comunista italiana, che sarebbe, peraltro, curioso che i comunisti, in Italia, non si ponessero.
Detto tutto ciò, caro Carlo, ciò che per me conta moltissimo è questo tuo passaggio della lettera in cui affermi che non farai parte del progetto del Movimento per la Rinascita Comunista: “Resto disponibile a partecipare al dibattito in tutte le sedi in cui gli amici riterranno opportuno coinvolgermi, a partire dalle iniziative del Centro Studi Domenico Losurdo (se e quando uscirà dal letargo in cui versa da alcuni mesi), anche se non potrò più esserne presidente perché la salute non me lo consente”.
Ecco, questa tua disponibilità è la cosa più importante e da questa dovremmo/vorremmo ripartire, anche attraverso la rivitalizzazione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, un rilancio del Centro Studi che potrà avvenire solo su basi di ricerca aperta e antidogmatica.
Ma, infine, ciò che davvero conta più di ogni altra cosa è la tua salute; ti stimiamo molto e, per come sei fatto, ti vogliamo bene. E’ un po’ che non ti vediamo, ma ti siamo vicini e non vediamo l’ora di tornare a lavorare con te.
Un saluto carissimo, Fosco Giannini.
DUE PAROLE DI RISPOSTA
Caro Fosco
Ti ringrazio per gli attestati di stima e di affetto che mi rivolgi, né mi reputo “offeso” per non avere ottenuto reazioni immediate alla mia dichiarazione di non adesione al Movimento per la Rinascita Comunista (non sono narcisista e capisco il vostro duro impegno per preparare l’evento dell’11 maggio).
Ciò detto vengo ai contenuti della tua lettera. Non voglio dilungarmi troppo, dato che ho già ampiamente argomentato la mia posizione nel post di qualche giorno fa. Mi limito a osservare che la convergenza fra quel testo e il vostro documento preparatorio non è totale come sostieni. In merito alla questione forze produttive, produttivismo, ecc. scrivi ad esempio che la mia “intemerata” (?!) contro lo sviluppo delle forze produttive è in contraddizione con il riconoscimento dell’eccezionale sviluppo cinese e dei suoi benefici effetti sulle condizioni del popolo. Nessuna contraddizione: il vero punto è la politica al posto di comando. Lo sviluppo cinese, ancorché quantitativamente impressionante, non sarebbe qualitativamente diverso da quello del capitalismo occidentale, se lo stato-partito non ne controllasse modalità, obiettivi e finalità sociali.
Ecco perché non condivido l’affermazione secondo cui “è lo sviluppo delle forze produttive a determinare un nuovo livello tecnologico in grado di superare la stessa degenerazione del produttivismo”. Il punto di vista va rovesciato: è il potere politico a rendere possibile quello sviluppo e soprattutto a renderlo funzionale al bene comune. Altrimenti si cade nella prospettiva positivista che sostiene, ad esempio, che per risolvere i problemi ambientali generati dalla tecnologia occorre più tecnologia. La questione è complessa e richiede buona padronanza del pensiero dialettico. Padronanza che il Morselli da te citato non aveva: la sua visione del lavoro come “lotta dell’uomo contro la natura” non ha niente a che fare con il concetto marxiano di ricambio organico fra uomo e natura (e avrebbe fatto rizzare il capelli in testa a Lukacs).
Analoghi distinguo potrei fare sull’analisi delle cause del crollo sovietico e altre questioni ma, come scrivevo nella Premessa alle mie “Dodici provocazioni”, queste differenze non mi avrebbero impedito di aderire al Movimento e di condurre al suo interno una battaglia teorica . Il vero inciampo riguarda la prassi. Tu scrivi che non avete intenzione di risolvere il problema dell’unità dei comunisti “attraverso una scorciatoia organizzativista”. Ma i fatti smentiscono le parole, visto che il Movimento ha scelto di darsi da subito un assetto partitico con tanto di tessere, gerarchie formali, centralismo democratico e relativi annessi e connessi.
Ciò è sbagliato tatticamente perché ottiene l’effetto contrario di allontanare le schegge locali (mi hanno contattato almeno quattro gruppetti e credo ne esistano ormai decine) generate dalla disintegrazione dei vari “cespugli” (Rizzo, Alboresi, Acerbo, ecc.). Sono compagni scottati da anni di pratiche centralistiche di sapore personalistico, i quali non hanno bisogno di un nuovo mini contenitore organizzativo (se ne sentono l’odore pensano “il lupo perde il pelo ma non il vizio”) bensì di una fase di ampio e aperto confronto reciproco. Ed è sbagliato strategicamente, perché lo schema leninista classico (figlio della concreta situazione storica della Russia zarista, con quella composizione sociale e la necessità di agire clandestinamente e darsi una struttura di rivoluzionari di professione, ecc.) nel contesto attuale non ha senso (non a caso tutti i partiti comunisti che lo hanno riproposto in Occidente, anche i migliori come quello portoghese, sono in crisi nera). Ecco perché insisto sulla necessità di imparare dall'esperienza populista e parlo di “partito di classe”. Per dirsi comunisti non basta autodefinirsi tali, occorre essere in grado di organizzare le avanguardie di lotta e contribuire attivamente alla ricostruzione d’una classe operaia distrutta da decenni di neoliberismo. Un compito che richiede un lavoro di lunga durata e non può essere ridotto alla chiamata a raccolta dei "reduci" della deriva PCI, Rifondazione, cespugli.
Ne ridiscuteremo serenamente quando ne avremo occasione
Un caro saluto
Carlo Formenti