Lettori fissi

mercoledì 1 maggio 2024

AL COMPAGNO CARLO FORMENTI

Lettera aperta di Fosco Giannini


Carissimo Carlo, carissimo compagno Formenti,

ho avuto l'onore di conoscerti personalmente solo da pochi anni ed il conoscerti come persona ha confermato in me la grande stima che già nutrivo per il tuo lavoro politico-teorico, che invece avevo già “frequentato”. Conoscendoti, dunque, ho potuto apprezzare, moltissimo, sia l'uomo, il compagno, che l'intellettuale.

Nonostante la tua scelta di dichiarare pubblicamente la tua non adesione (che personalmente mi fa molto male, proprio per la stima che ho nei tuoi confronti) al Movimento per la Rinascita Comunista, non nutro certo sentimenti avversi verso di te. Rimane, intera, la stima e, anche se non ci siamo frequentati tanto, anche l’affetto, cresciuto verso di te per un tuo particolare modo d’essere: quello di rimanere, senza “posa” alcuna, un “giovane rivoluzionario”.

E’ mia colpa non aver interloquito con te negli scorsi giorni, quando, con molta correttezza, hai posto il problema di pubblicare sul tuo blog la dichiarazione di non adesione al MpRC. Mi scuso sinceramente e, a mia parziale scusante, ti dico solo che, in questa fase del nostro lavoro politico, con tante iniziative su buona parte del territorio nazionale, con l’obiettivo della riuscita della nostra Assemblea dell’11 maggio a Roma e con la costruzione in atto di nuove ed importanti relazioni con altri gruppi/movimenti comunisti, non ho il tempo nemmeno per la mia vita, per la mia compagna, per le mie figlie.

Entrare nel merito delle questioni politico- teoriche che hai posto – che è davvero l’unica cosa che conta -  richiederebbe, se fatto con impegno e serietà, un tempo lungo ed uno spazio vasto.

Tuttavia, seppur in modo ultra sintetico, vorrei rapportarmi alle tue osservazioni. In modo, come detto e se me lo perdonerai, davvero secco ed essenziale.

Prima questione: poni il problema del superamento del determinismo, del meccanicismo. Giusto. Totalmente giusto. Ma il punto è che questa è la stessa questione – pari pari - che poniamo nel nostro documento politico-teorico, quando affermiamo chiaramente la necessità di battersi contro ogni residuo positivista, ogni retaggio “secondo internazionalista”, persino ogni residuo “crociano” (quel “crocianesimo”che forse Gramsci, nella sua “cattività”, non riuscì a debellare completamente) collocando al centro, in un rapporto proficuo oggetto-soggetto, l’azione soggettiva dell’uomo, della donna, della “classe”, riassumendo in pieno il pensiero e la prassi di Lenin e di Gramsci, del Gramsci dell’articolo del 1917 dal titolo “Una rivoluzione contro il Capitale”, intendendo, Gramsci, il Capitale di Marx, male, malissimo interpretato, dogmaticamente e  meccanicisticamente travisato (in un travisamento, in verità molto consapevole, utilizzato per rimuovere la rivoluzione e persino la lotta, concreta, sul campo, contro lo squadrismo mussoliniano) dalla Seconda Internazionale. Questa posizione segna di sé diversi capitoli del nostro documento, il documento del MpRC. Io stesso, in uno dei capitoli, mi dilungo su ciò. Peraltro, almeno in un paio di convegni fatti assieme abbiamo potuto constatare quanto, su questa questione, ci siamo trovati d’accordo. In un convegno fatto assieme, addirittura, mentre condannavamo all’unisono tutto il determinismo residuo (tanto) della “sinistra” italiana (uso la parola “sinistra” con lo stesso disagio col quale potrei, io molto proletario, sbucciare una banana con la forchetta ed il coltello), ebbi persino modo di correggerti (immagina con quanta soddisfazione ho potuto correggere Formenti!) circa il giornale sul quale Gramsci aveva scritto “Una rivoluzione contro il Capitale”: tu avevi sbagliato giornale ed io ti avevo ricordato che, invece, era l’Avanti!”

Non vado in ordine, non trovo tempo per nulla e lo sto cercando per te perché ne vale la pena. Perché se ti trascurassi non me lo perdonerei. Corriamo molto, in questa fase, sperando di non cadere nella trappola metafisica già messa in luce da Costanzo Preve, mio amico, quando asseriva che “spesso si crede di andare in bicicletta e andare per grandi spazi mentre invece si pedala su di una cyclette, e si pedala e pedala rimanendo sempre sullo stesso punto, fermi”. Intendendo con ciò che il “fare per il fare” non porta a nulla, anche se questo potrebbe valere sia per i militanti e i dirigenti che per gli intellettuali “puri”.

Sulla questione dello sviluppo delle forze produttive: tu avanzi una critica come se noi avessimo imboccato la strada di un neo-sansimonismo, tutta produttività e produttivismo come segno di un nuovo socialismo. Non è affatto così: noi poniamo la questione dello sviluppo delle forze produttive socialiste proprio per il superamento, dialetticamente, del produttivismo capitalista: come si possono superare i treni a carbone se non con uno sviluppo delle forze produttive che porti ad una nuova tecnologia in grado di giungere a treni capaci di camminare senza attrito sui binari? In altre parole: è lo sviluppo delle forze produttive a determinare un nuovo livello tecnologico in grado di superare la stessa degenerazione del produttivismo. E’ la dialettica della produzione rivoluzionaria, che nel potere socialista può giungere, grazie alla ricchezza tecnologica, a liberare il lavoro, liberarci dal peso del lavoro e liberarci dal mito delle merci, immettendo sul mercato, e nella coscienza di massa socialista solo ciò che serve, non ciò che è funzionale al profitto. In uno splendido romanzo di Guido Morselli, “Il comunista”, un operaio di Reggio Emilia, un operaio intellettuale come ce n’erano un tempo – Walter Ferranini, protagonista del romanzo, – viene eletto alla Camera dei deputati nelle file del PCI; si accorge che in quella sede non c’è un granché da fare e riprende a studiare, a leggere e rileggere Marx. E giunge alla conclusione, condividendo Marx, che “il lavoro è la lotta dell’uomo contro la natura”, per liberarsi dalla dittatura della natura, e a partire dal fatto che il lavoro è una lotta, esso contiene in sé una parte, pesante, di sofferenza oggettiva, di oppressione oggettiva, dalle quali liberarsi attraverso lo sviluppo delle forze produttive da piegare, tuttavia, al potere rivoluzionario. Poi, Carlo, con una franchezza che so non disturberà la tua intelligenza: se tu stesso riconosci come la Repubblica Popolare Cinese oggi, attraverso il suo titanico sviluppo economico, non solo ha fatto uscire dalla miseria e dall’ “equivoco” della Rivoluzione Culturale oltre 800 milioni di cinesi dalla povertà assoluta; non solo ha potuto offrirsi come cardine di un nuovo fronte multilaterale e oggettivamente antimperialista che fa oggi fa molto soffrire il fronte imperialista, ma partecipa in modo colossale, assieme alle rivoluzione dell’America Latina, alla delineazione del Socialismo del XXI Secolo; se questo è e se tu lo riconosci, non è leggermente in contraddizione la tua intemerata contro “lo sviluppo delle forze produttive”?

Rispetto alla questione, giusta, che poni “contro l’esaltazione acritica di scienza e tecnologia”. Vorrei farti notare (non per “ratificare”, in modo untuoso, una nostra, supposta, sovrapponibilità teorica su questo punto, ma per dirti che forse le distanze, tra noi, sono meno grandi di quanto tu stesso possa supporre), vorrei farti notare che nel documento politico-teorico a cui abbiamo lavorato e presenteremo a Roma in forma di volume, composto da 27 capitoli e con un titolo generale che la dice, vuol dirla lunga sullo spirito, e la lettera, del documento stesso (Promuovere la discussione adeguare il pensiero comunista e rivoluzionario. Primi appunti politico-teorici), nel senso che questo documento non vuol essere affatto un punto d’arrivo, ma un modesto punto di partenza,, in questo documento, dicevo, vi è un capitolo sulla scienza e la tecnologia che va esattamente incontro, e incrocia, le questioni che tu stesso poni sul pericolo di una loro esaltazione acritica. 

Sulla questione, da te sollevata nei tuoi 12 punti, nelle tue 12 provocazioni, sull’“ideologia progressista” come potremmo non essere, totalmente, d’accordo? Ci conosci: ti immagini noi, che vogliamo richiamarci, senza enfasi, con i nostri limiti, ad Antonio Labriola, a Marx, a Lenin, a Gramsci, sposare la tesi del “progressismo” senza scontro di classe, senza rivoluzione?

Sul Socialismo del XXI Secolo: nel documento che abbiamo preparato e porteremo a Roma l’11 maggio, la questione del Socialismo del XXI Secolo segna di sé gran parte del lavoro complessivo. Vi sono capitoli interi dedicati alle trasformazioni sociali e alle rivoluzioni - dense di nuovi contenuti politici e teorici che arricchiscono  e ridanno sangue all’estenuato “marxismo” occidentale – dell’America Latina. Come vi sono interi capitoli dedicati al “socialismo dai caratteri cinesi”, alla “nuova Nep” segnata dal pensiero teorico leninista che asseriscono come anche lo sviluppo cinese partecipi alla messa a fuoco, assieme alle rivoluzioni dell’America Latina, del Socialismo del XXI Secolo.

Sulla questione del rapporto tra sovranità nazionale e socialismo, sfondi una porta aperta: come potremmo, da un punto di vista rivoluzionario, non essere d’accordo con te e ancor prima, con Lenin e Gramsci?

Per ciò che riguarda il rapporto tra populismo e comunismo, nel senso di non gettare, aristocraticamente, con postura ideologica borghese,  tutto il populismo alle ortiche, mi piacerebbe tanto tu leggessi l’ultimo capitolo del nostro documento, che come titolo ha proprio “Comunismo e populismo”. E mi piacerebbe tanto che lo leggessi anche perché e stato scritto dal nostro, carissimo amico comune, e compagno, Alessandro Testa.

Ora vorrei citare un tuo densissimo e importantissimo passaggio di un tuo capitolo della “Cassetta degli attrezzi”;

Costruire il partito di classe. La prima generazione di movimenti post comunisti, partoriti dalla crisi delle sinistre "alternative" dei Settanta, al pari di quelli nati dopo il crollo dei socialismi reali e confluiti nel calderone di un'area culturale ampia e variegata (femministe, no global, eco pacifisti, ecc.) condividono il rifiuto nei confronti di ogni organizzazione di tipo verticale. Forma partito e forma stato vengono espulse dal patrimonio ideale in quanto "politicamente scorrette". Qualcuno ha definito "paranoia orizzontalista" questa ossessione che l'organizzazione in quanto tale evochi la possibilità della sua appropriazione da parte di interessi particolari, al rischio che il potere di fare cose si trasformi in potere sugli altri. Senza sfidare questa diffidenza radicale non è possibile affrontare l’impresa di costruire il partito di classe, formula che preferisco a quella di ricostruire il partito comunista. Non solo perché in Italia tutti i termini che usano il prefisso ri suonano iettatori, visti i precedenti non entusiasmanti, ma soprattutto perché, nell’attuale, concreto contesto storico, costruzione della classe e costruzione del partito vanno di pari passo. Parlare di costruire la classe suonerà bizzarro alle orecchie di chi ragiona a partire dai dogmi della tradizione marxista, che pensano che la classe sia un’entità che esiste "in sé e per sé", una “realtà oggettiva” generata dai rapporti di produzione. Ma se è vero che la classe operaia occidentale appare oggi come un’entità fantasmatica, un anacronismo otto-novecentesco, dopo che decenni di guerra di classe dall’alto, ristrutturazioni tecnologiche, delocalizzazioni, “riforme” giuridiche e istituzionali, tradimenti di partiti e sindacati convertiti al neoliberalismo l’hanno trasformata in una nebulosa di atomi individuali…”.

Ecco: per ciò che mi riguarda condivido tutto di questo passaggio. Meno che un punto: perché non più “partito comunista” e, invece, “partito di classe”? Non è un punto da poco, certamente. “Il partito di classe” rischia fortemente di scivolare nell’economicismo e nel sindacalismo, seppur di classe. Mentre il partito comunista, solo il partito comunista, può rappresentare ed offrire un progetto della totalità, della lotta di classe funzionale alla costruzione del socialismo. Inoltre: è il partito comunista, non la classe, a garantire la possibilità di organizzare, in senso antideterminista e antipositivista (per riprendere le tue stesse argomentazioni) la lotta rivoluzionaria. La liquido così, anche se  ci sarebbe da scrivere un libro sulla questione che poni. Ma credo che ci siamo capiti.

Infine, tu poni un problema e lo poni come pietra miliare del tuo distacco da noi. Secondo ciò che hai scritto, noi staremmo lavorando per costruire l’ennesimo partitino comunista. Ti assicuriamo che non è così. Certo, la crisi spaventosa, irreversibile, dell’attuale movimento comunista organizzato italiano (tre partitini, PCI, PRC, PC che, assieme, - anche rispetto allo svuotamento totale del PC “di Rizzo”, liquefattosi dentro Democrazia Sovrana e Popolare e ormai sodale di Alemanno e persino di certa borghesia nera italiana – hanno circa 5 mila iscritti e, quindi, assieme, qualche centinaio di militanti, ma in lotta tra loro) pone ai comunisti italiani la questione strategica della costruzione del partito comunista in Italia. Una questione, tuttavia, che noi non vogliamo affatto risolvere attraverso una scorciatoia organizzativistica, in una precipitazione partitica. Oltre i 5 mila iscritti ai tre partitini comunisti (partitini caduti, tra l’altro, in una debolezza ed una confusione ideologica politicamente drammatica) esistono in Italia, in una vasta diaspora, decine di migliaia di comunisti senza partito e senza organizzazione. Sono dispersi, atomizzati, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nella società, nelle università e nelle accademie. Ci poniamo il compito (e un po’ ci stiamo già riuscendo) di unirli, di offrir loro un nuovo punto di riferimento, politico e ideologico. Un obiettivo, peraltro, difficile quasi quanto quello di costruire il partito comunista. Ma non uguale a quello di costruire, ora, adesso, il partito comunista. Propedeutico, eventualmente, a questo obiettivo. Un obiettivo strategico (strategico!) quello di costruire il partito comunista nella desertificazione comunista italiana, che sarebbe, peraltro, curioso che i comunisti, in Italia, non si ponessero.

Detto tutto ciò, caro Carlo, ciò che per me conta moltissimo è questo tuo passaggio della lettera in cui affermi che non farai parte del progetto del Movimento per la Rinascita Comunista: “Resto disponibile a partecipare al dibattito in tutte le sedi in cui gli amici riterranno opportuno coinvolgermi, a partire dalle iniziative del Centro Studi Domenico Losurdo (se e quando uscirà dal letargo in cui versa da alcuni mesi), anche se non potrò più esserne presidente perché la salute non me lo consente”.

Ecco, questa tua disponibilità è la cosa più importante e da questa dovremmo/vorremmo ripartire, anche attraverso la rivitalizzazione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, un rilancio del Centro Studi che potrà avvenire solo su basi di ricerca aperta e antidogmatica.

Ma, infine, ciò che davvero conta più di ogni altra cosa è la tua salute; ti stimiamo molto e, per come sei fatto, ti vogliamo bene. E’ un po’ che non ti vediamo, ma ti siamo vicini e non vediamo l’ora di tornare a lavorare con te.

Un saluto carissimo, Fosco Giannini.



DUE PAROLE DI RISPOSTA


Caro Fosco 


Ti ringrazio per gli attestati di stima e di affetto che mi rivolgi, né mi reputo “offeso” per non avere ottenuto reazioni immediate alla mia dichiarazione di non adesione al Movimento per la Rinascita Comunista (non sono narcisista e capisco il vostro duro impegno per preparare l’evento dell’11 maggio). 


Ciò detto vengo ai contenuti della tua lettera. Non voglio dilungarmi troppo, dato che ho già ampiamente argomentato la mia posizione nel post di qualche giorno fa. Mi limito a osservare che la convergenza fra quel testo e il vostro documento preparatorio non è totale come sostieni. In merito alla questione forze produttive, produttivismo, ecc. scrivi ad esempio che la mia “intemerata” (?!) contro lo sviluppo delle forze produttive è in contraddizione con il riconoscimento dell’eccezionale sviluppo cinese e dei suoi benefici effetti sulle condizioni del popolo. Nessuna contraddizione: il vero punto è la politica al posto di comando. Lo sviluppo cinese, ancorché quantitativamente impressionante, non sarebbe qualitativamente diverso da quello del capitalismo occidentale, se lo stato-partito non ne controllasse modalità, obiettivi e finalità sociali. 


Ecco perché non condivido l’affermazione secondo cui “è lo sviluppo delle forze produttive a determinare un nuovo  livello tecnologico in grado di superare la stessa degenerazione del produttivismo”. Il punto di vista va rovesciato: è il potere politico a rendere possibile quello sviluppo e soprattutto a renderlo funzionale al bene comune. Altrimenti si cade nella prospettiva positivista che sostiene, ad esempio, che per risolvere i problemi ambientali generati dalla tecnologia occorre più tecnologia. La questione è complessa e richiede buona padronanza del pensiero dialettico. Padronanza che il Morselli da te citato non aveva: la sua visione del lavoro come “lotta dell’uomo contro la natura” non ha niente a che fare con il concetto marxiano di ricambio organico fra uomo e natura (e avrebbe fatto rizzare il capelli in testa a Lukacs).


Analoghi distinguo potrei fare sull’analisi delle cause del crollo sovietico e altre questioni ma, come scrivevo nella Premessa alle mie “Dodici provocazioni”, queste differenze non mi avrebbero impedito di aderire al Movimento e di condurre al suo interno una battaglia teorica . Il vero inciampo riguarda la prassi. Tu scrivi che non avete intenzione di risolvere il problema dell’unità dei comunisti “attraverso una scorciatoia organizzativista”. Ma i fatti smentiscono le parole, visto che il Movimento ha scelto di darsi da subito un assetto partitico con tanto di tessere, gerarchie formali, centralismo democratico e relativi annessi e connessi. 


Ciò è sbagliato tatticamente perché ottiene l’effetto contrario di allontanare le schegge locali (mi hanno contattato almeno quattro gruppetti e credo ne esistano ormai decine) generate dalla disintegrazione dei vari “cespugli” (Rizzo, Alboresi, Acerbo, ecc.). Sono compagni scottati da anni di pratiche centralistiche di sapore personalistico, i quali non hanno bisogno di un nuovo mini contenitore organizzativo (se ne sentono l’odore pensano “il lupo perde il pelo ma non il vizio”) bensì di una fase di ampio e aperto confronto reciproco. Ed è sbagliato strategicamente, perché lo schema leninista classico (figlio della concreta situazione storica della Russia zarista, con quella composizione sociale e la necessità di agire clandestinamente e darsi una struttura di rivoluzionari di professione, ecc.) nel contesto attuale non ha senso (non a caso tutti i partiti comunisti che lo hanno riproposto in Occidente, anche i migliori come quello portoghese, sono in crisi nera). Ecco perché insisto sulla necessità di imparare dall'esperienza populista e parlo di “partito di classe”. Per dirsi comunisti non basta autodefinirsi tali, occorre essere in grado di organizzare le avanguardie di lotta e contribuire attivamente alla ricostruzione d’una classe operaia distrutta da decenni di neoliberismo. Un compito che richiede un lavoro di lunga durata e non può essere ridotto alla chiamata a raccolta dei "reduci" della deriva PCI, Rifondazione, cespugli.


Ne ridiscuteremo serenamente quando ne avremo occasione


Un caro saluto

Carlo Formenti


 

  



















lunedì 29 aprile 2024

PERCHE' L'AMERICA FATICA A MANTENERE IL DOMINIO GLOBALE


Appunti su un numero della rivista Limes







Premessa


Il numero 3 (marzo 2024) di “Limes”, la prestigiosa rivista italiana di geopolitica, dovrebbe essere una lettura obbligata per gli intellettuali e i militanti marxisti che vogliano comprendere a fondo quali sfide orientano le attuali scelte di politica internazionale degli Stati Uniti. A incuriosirmi al punto da acquistare il corposo fascicolo (compro “Limes” solo saltuariamente) sono stati, più del titolo “Mal d’America”, i tre sottotitoli; “Il peso dell’impero mina la repubblica”, “Il Numero Uno non si piace più”, “Come perdere fingendo di vincere”. Li ho trovati stuzzicanti, anche se ad alcuni potrebbero sembrare un modo criptico e allusivo di evocare le contraddizioni che riducono le speranze di chi auspica che il XXI possa essere un nuovo secolo americano. Inoltre mi rendo conto del fatto che possano suonare depistanti alle orecchie d’una cultura comunista ancorata all’analisi “classica” (variamente aggiornata) dell’ imperialismo, appiattita sui meccanismi economici tardo capitalisti e poco propensa a valutare il peso dei fattori “sovrastrutturali”. Motivo per cui si perde la possibilità di capire le motivazioni del nemico che, da un lato, vengono ridotte a un chiacchiericcio ideologico che serve a mascherarne i suoi “veri” obiettivi, dall’altro, vengono depurate dalle tensioni e dalle contraddizioni che le attraversano, neutralizzandone la complessità. 


Un’attenta lettura di queste trecento pagine consente a mio avviso di evitare la duplice trappola appena descritta. In primo luogo perché è lo stesso statuto della geopolitica a favorire un approccio “realistico” ai problemi, sfrondandoli (in parte) degli (inevitabili) pregiudizi valoriali; inoltre perché buona parte degli autori dei quasi trenta articoli sono americani, o comunque interni al dibattito accademico statunitense, per cui ben rappresentano il modo in cui la cultura a stelle e strisce guarda a se stessa e al mondo esterno; infine perché la linea politica di “Limes” è tutto meno che anti-americana e anti-occidentale quindi, se affonda il dito nella piaga di certe contraddizioni, è per ragionare su come dovrebbero essere risolte (ma i politici, intellettuali e giornalisti “atlantisti” di casa nostra non esiterebbero a definire molti di questi articoli come putiniani, filocinesi, pacifisti da divano, ecc.). Nella prima parte del testo che segue discuterò alcuni dei principali temi affrontati nel numero (senza citare i singoli autori, sia per non appesantire la lettura, sia perché gli stessi argomenti ricorrono in più articoli); nella seconda proverò a sintetizzare la lezione che un punto di vista anticapitalista può estrarre da questi materiali.


Prima di entrare nel vivo, è il caso di premettere che, anche se il numero ospita opinioni diverse, a volte contraddittorie, mi pare si possa dire che, dall’insieme, traspare un saldo riferimento alla lezione di George Kennan, originale figura di intellettuale, diplomatico e politico americano. Kennan era un conservatore colto e intelligente, dotato di capacità empatica nei confronti del punto di vista dei nemici dell’impero Usa (favorito dall'approfondita conoscenza della lingua e della cultura russe e dall’esperienza di ambasciatore a Mosca), al quale si deve la prima formulazione della teoria del “contenimento” nei confronti del campo socialista. Teoria che, a differenza della maggioranza delle interpretazioni belliciste che ne furono date successivamente, affermava la necessità di mantenere il conflitto egemonico all’interno di una cornice diplomatica. Kennan era convinto che le ambizioni imperiali della Russia andassero contenute ma anche realisticamente accettate. Per questo fu critico della cultura prevalente nell’establishment di Washington, caratterizzata dalla tendenza ad atteggiarsi a benefattori e maestri dei popoli meno fortunati, che egli considerava una forma di “narcisismo nazionale”. Convinto della necessità di sciogliere la Nato e il Patto di Varsavia in una organizzazione di sicurezza pan europea, nonché del fatto che la riunificazione tedesca dovesse avvenire contestualmente alla neutralizzazione della Germania, dopo l’89 denunciò la penetrazione atlantica nell’ex impero sovietico come un grave errore, prevedendone le conseguenze che sono oggi sotto i nostri occhi. 



Il contributo di “Limes”: perché l’America fatica a dominare il mondo 


Parto da quello che Kennan considerava un limite strutturale della mentalità americana: l’incapacità di capire gli altri, associata alla megalomania imperiale e alla tendenza a non porre un confine alle proprie mire espansive e non a guardare oltre i limiti del proprio mondo. Un tipico esempio di tale opacità, che ricorre in diversi articoli del numero, è l’incapacità di cogliere la peculiarità del sistema cinese, dovuta alla convinzione che la globalizzazione e l'apertura al mercato avrebbero automaticamente causato l'abbandono del socialismo e l’integrazione di Pechino nel sistema capitalista mondiale. Lo stesso dicasi della sottovalutazione della possibilità che la Russia reagisse all’accerchiamento da parte della NATO, una sottovalutazione della forza e della decisione di entrambi gli avversari che li ha spinti assieme invece di dividerli (quel compattarsi delle potenze continentali che l’Impero inglese aveva sempre cercato di scongiurare). 


Non si tratta tanto di ignoranza e stupidità (fattori che pure non mancano in certi ambienti di Washington) quanto degli effetti di lungo periodo di una contraddizione sulla quale molti autori pubblicati da “Limes” pongono l’accento. Il punto è che gli Stati Uniti hanno a lungo negato la propria vocazione imperiale, anche dopo che questa si era manifestata nei fatti a fine Ottocento, con la guerra contro la Spagna e la successiva conquista di Cuba e delle Filippine. Così, se da un lato si costruiva il mito dell’eccezionalismo americano (vedi più avanti), dall’altro si paventava il fatto che l’espansione territoriale potesse entrare in contraddizione con lo status di Repubblica; di qui il mancato riconoscimento che la mentalità imperiale è radicata nella psiche americana fin dalle origini, ereditata dalla madre patria inglese. La rimozione è divenuta sempre meno convincente a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, allorché la volontà di contrastare il blocco socialista ha reso evidente come gli Stati Uniti agissero come potenza globale, sia colonizzando militarmente Germania e Giappone con le proprie basi militari, sia subentrando progressivamente all’Impero britannico nel controllo politico, economico e militare dei suoi ex territori coloniali. I passi decisivi sono stati la guerra del Vietnam, il cui carattere imperialista era fin troppo chiaro (agli occhi degli stessi americani), e la strategia della NATO in Europa dopo il crollo sovietico, che ha reso evidente come gli Stati Uniti tendano ad affrontare i problemi della propria sovratensione estendendosi ulteriormente.  Molti articoli del numero suggeriscono la necessità di uscire da questo circolo vizioso, che sacrifica i valori repubblicani alle esigenze imperiali, aggiungendo che ciò è possibile solo rinunciando a dominare il mondo per limitarsi a difendere il primato, sia evitando una ritirata precipitosa (di cui la fuga da Kabul potrebbe essere vista come un sintomo premonitore), sia scongiurando il rischio di una Terza guerra mondiale. 


George Kennan



A rendere problematica questa via d’uscita contribuiscono vari fattori, non ultimo dei quali (generalmente sottovalutato dagli intellettuali europei) è la fede religiosa in una missione morale per “rifare il mondo”, missione che una nazione “eletta” si auto attribuisce, dipingendosi come una potenza in marcia verso il progresso e la diffusione del proprio sistema di governo, ritenuto il migliore possibile nonché destino inevitabile dell’intera umanità. Eppure questa fede, che il venire meno della sfida sovietica sembrava avere reso incrollabile, e che l’annuncio della “fine della storia” aveva tradotto nella convinzione che il primato americano durerà in eterno, ha iniziato a vacillare a partire dalla prima decade del nuovo millennio. “Limes” tenta di spiegare perché vacilla, e cosa potrebbe sostituirla per impedire una catastrofe globale. Dei motivi per cui vacilla diremo fra poco, sul cosa potrebbe sostituirla credo di poter anticipare che la soluzione immaginata possa essere sinterizzata in tre punti: disimpegnarsi in Medio Oriente; delegare all’Europa il compito della propria difesa; promuovere una coesistenza competitiva con la Cina ma, come vedremo, è proprio l’indebolirsi della fede, assieme alle contraddizioni che ne provocano l'indebolimento, a complicare la possibilità di mettere in atto una simile strategia. 


* * *


Riferendosi alla perdita di efficacia del mito fondativo (l'America come Paese della libertà, della democrazia e del "diritto alla felicità") c'è chi commenta che anche il mito più sofisticato appassisce e muore se non incontra più il sentimento popolare e, per capire il venir meno di tale sentimento, si snocciolano le cifre che testimoniano il fallimento di un capitalismo che non riesce più a garantire  prosperità diffusa. Riporto qui di seguito alcuni dati clamorosi: il 29% dei cittadini è in cura per varie forme di depressione; le morti per suicidio, overdose, alcolismo aumentano a ritmo esponenziale; l'aspettativa di vita è diminuita di 1,3 anni dal 2019 e la mortalità infantile è tornata a crescere. Deindustrializzazione e terziarizzazione dell'economia aumentano la percentuale di lavoratori precari, anche se i posti di lavoro sono in aumento, ma si tratta di occupazioni di bassa qualità e mal distribuite sul piano geografico (la creazione di posti si concentra nelle aree già benestanti). I più colpiti dal processo di precarizzazione (nella misura del 30%) sono i non laureati, ma nemmeno i laureati se la cavano bene (nel loro caso il dato è del 55 %) anche perché i due quinti sono impiegati in mansioni che non richiedono il loro titolo di studio, mentre chi non trova un impiego decente rischia di finire schiacciato dal debito contratto per accedere agli studi superiori. Infine la qualità del sistema educativo (salvo isole di eccellenza) è in calo, al punto che la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti in percentuale di popolazione altamente istruita.


La delocalizzazione imposta dal fondamentalismo neoliberista ha ridotto drasticamente la base industriale, colpendo duramente le comunità locali che campavano sulla manifattura e creando quella Rust Belt che immiserisce le regioni centrali, e che ha fornito una parte significativa della base elettorale di Donald Trump (il suo isolazionismo, incarnato dallo slogan America First tocca corde profonde in milioni di americani che invocano il ridimensionamento del ruolo imperiale e il dirottamento delle risorse che lo alimentano verso progetti di reindustrializzazione). L'attacco ai sindacati (la percentuale degli iscritti è scesa al minimo storico del 6%) ha tolto a questi lavoratori rimasti indietro ogni possibilità di far valere le proprie ragioni. Non stupisce quindi che i sondaggi rivelino che metà degli intervistati non considera più l'America il Paese migliore, e che i nati dopo il 1980 pensino che il ruolo mondiale dell'America comporti più costi che benefici e si dichiarino poco disposti a combattere per difendere il sistema. 


Torneremo più avanti su quest’ultimo dato. Prima è importante sottolineare come i conflitti di classe innescati dal disastro socioeconomico appena descritto siano associati una radicale dislocazione ideologica. Il campo progressista ha ereditato il lascito degli anni Sessanta, allorché la sinistra raccoglieva consensi soprattutto nelle fila della classi istruite (le classi medie “riflessive”, perlopiù benestanti se non ricche) e ciò ha permesso che si incistasse nei campus universitari, dove gli studenti di ieri sono divenuti i professori di oggi. In questo ambiente, profondamente influenzato dalle teorie poststrutturaliste, alligna la cultura “woke” (femminismo, ambientalismo, movimento Lgtbq, ecc.) tanto concentrata sui diritti individuali e civili quanto aliena ai confitti sociali associati all’aumento della povertà e alla disuguaglianza economica. 


I progressisti non capiscono né riconoscono i conflitti di classe perché si sono separati dal popolo (il cosmopolitismo delle élite istruite e abbienti le rende antropologicamente diverse dai ceti non istruiti a basso reddito). Le “guerre di religione” fra l’ala più reazionaria del Partito Repubblicano e l’ala woke della sinistra democratica non entusiasmano le masse, che cercano risposte alla propria sofferenza e alla propria rabbia e, se si schierano con il populismo di destra, non è perché ne condividono i valori, ma è perché odiano le élite democratiche che li hanno traditi. Insomma: la lotta di classe si inasprisce ma non passa più dai canali tradizionali, assumendo anche l’aspetto dello scontro fra territori che vivono contraddizioni diverse: vedi i conflitti sempre più frequenti fra Stati e governo federale.


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Uno dei giudizi che si leggono sempre più spesso in merito al conflitto cino-americano è che, mentre la Cina ha raggiunto, se non superato, gli Stati Uniti sul piano economico, la superiorità americana sul piano militare resta schiacciante. Giudizio del quale ho iniziato a dubitare leggendo il numero di “Limes” che sto qui discutendo. Mentre ribadisce che il bilancio della difesa Usa è il triplo di quello cinese, “Limes” si chiede infatti in che misura ciò sia da considerare un fattore di per sé decisivo. Gli argomenti con cui viene messa in discussione una risposta positiva a tale interrogativo sono molteplici. In primo luogo c’è da registrare un dato di fatto: i numerosi interventi militari americani degli ultimi decenni (in particolare le guerre afgana e irachena) sono state enormi successi operativi ma disastrosi fallimenti, ove commisurati all'obiettivo strategico di “vincere la pace”. La politica militare americana si fonda sul presupposto che le tecnologie avanzate possano in ogni caso prevalere sulla superiorità numerica degli eserciti nemici ma, volendo considerare la guerra russo-ucraina (a tutti gli effetti una guerra locale fra Russia e NATO) un banco di prova di tale paradigma, sorgono in merito non pochi dubbi, sia perché la guerra viene combattuta con modalità più “classiche” di quanto sarebbe stato prevedibile, sia perché, finché resterà su questo piano, la superiorità russa appare incontestabile. Ciò fa prevedere che in uno scontro aperto e diretto con la Cina le difficoltà sarebbero ancora maggiori, tanto è vero che molti istituti di ricerca specializzati in analisi di possibili scenari di guerra danno per scontato che gli Stati Uniti perderebbero una eventuale guerra con la Cina. 


Di fronte a simili previsioni, da sinistra si ribatte che servono solo a portare acqua al mulino del sistema militare-industriale a stelle e strisce, che usa questo allarmismo per chiedere ulteriori investimenti a sostegno delle industrie belliche. Eppure, argomentano alcuni articoli, la questione va analizzata anche da altri punti di vista. In primis: se non si prevede una guerra di breve durata (poche settimane o mesi), in cui conterebbe soprattutto la superiorità tecnologica di cui sopra (senza escludere il ricorso ad armi nucleari), bensì una guerra di lunga durata con modalità più simili di quelle della guerra in Ucraina, gli Stati Uniti pagherebbero a carissimo prezzo lo smantellamento della loro base manifatturiera, provocato dalle politiche neoliberiste, venendosi a trovare in breve tempo a corto di munizioni e armi cruciali. Inoltre sia la Cina che la Russia (per tacere di una loro alleanza) godrebbero di enormi vantaggi non solo sul piano industriale, ma anche sul piano della quantità di truppe da schierare, viste le difficoltà degli Stati Uniti in materia di arruolamento accennate in precedenza: sempre meno giovani sono disposti a vestire l’uniforme, al punto che si è dovuta aumentare l’età massima a 41 anni. In particolare, calano i bianchi e gli abitanti delle grandi città del Nord, un dato compensato solo in parte dall’aumento di neri e ispanici e degli abitanti delle piccole e medie città periferiche (soprattutto del Sud). Inoltre questi ultimi si arruolano soprattutto per motivi economici quindi, volendo attrarre anche i bianchi, occorrerebbe alzare significativamente le paghe che già incidono massicciamente sul bilancio complessivo della difesa. Potrebbero le motivazioni patriottiche in caso di guerra supplire a questi problemi? Può darsi, ma un sondaggio condotto sugli elettori democratici rivela che il 52% per cento tenterebbe di fuggire all’estero in caso di entrata in guerra degli Stati Uniti…





In conclusione, secondo “Limes” la presunta superiorità bellica americana si baserebbe in gran parte sulla confusione fra forza (reale) e potenza (presunta), mentre è sempre più evidente (vedasi le difficoltà create dalla contemporaneità fra guerra russo-ucraina e riacutizzarsi del conflitto palestinese) l’impossibilità di gestire più crisi ad un tempo e l’impensabilità di una guerra da condurre contemporaneamente contro la Russia e la Cina. E’ concepibile che una guerra economica combattuta a suon di sanzioni possa ottenere gli stessi risultati che Reagan aveva ottenuto negli anni Ottanta contro l’Urss? L’efficacia del ricatto economico che gli Stati Uniti hanno sistematicamente esercitato contro nemici e alleati tentati di competere sul loro stesso terreno si è rivelata devastante a partire dalla decisione di Nixon (1971) di sospendere la convertibilità del dollaro in oro. E’ da allora che il “signoraggio” del dollaro – mezzo privilegiato degli scambi internazionali – ha regalato agli Stati Uniti il primato di unico Stato che può stampare moneta a piacimento per pagare i propri debiti, senza provocare inflazioni e tensioni sociali al proprio interno. Un primato che ha consentito di “esternalizzare” il debito e lanciare attacchi speculativi contro Giappone, Tigri Asiatiche ed Europa, ogniqualvolta questi hanno tentato di mettere in discussione il dominio americano. 


Un’arma poderosa che negli ultimi decenni ha indotto le amministrazioni Usa a tentare di ridurre a miti consigli i Paesi che si ribellano alle regole del Washington Consensus a colpi di sanzioni (potendo contare sulla UE come alleato in queste guerre economiche). Tuttavia questa strategia si sta rivelando sempre meno efficace, quando non si trasforma in un boomerang. Per parare il colpo i Brics hanno infatti iniziato a usare altre monete per gestire i propri scambi internazionali, mentre il numero dei Paesi africani e latinoamericani che li imitano è in continua crescita. Per esempio, gli Emirati hanno assunto il ruolo di intermediario fra Occidente e resto del mondo per aiutare stati e imprese ad aggirare le sanzioni senza incorrere in rappresaglie. Anche molte grandi aziende occidentali danneggiate dal “decoupling” (cioè dalle sanzioni finalizzate a tagliare fuori dal mercato globale le economie di Russia, Cina e altri Paesi “ribelli) ricorrono a simili manovre di aggiramento, al punto che si moltiplicano i richiami patriottici dei politici occidentali che invitano le imprese ad accettare danni economici pur di servire gli interessi dei propri Paesi. Certamente è prematuro parlare di “dedollarizzazione” dell’economia globale, ma il clamoroso fallimento delle sanzioni adottate contro la Russia (che stanno danneggiando chi le applica assai più di chi le subisce), e la tentazione di accogliere l’invito cinese a costruire un nuovo ordine multipolare sembra sedurre molte piccole e medie potenze. 


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Facciamo un passo indietro. Si è detto che lo spirito prevalente del numero di “Limes” è quello che già fu di George Kennan: contenere lo sfidante strategico (ieri la Russia oggi la Cina) evitando di alzare la soglia del conflitto fino a farla deflagrare in una guerra globale. Si è aggiunto che la strategia politica auspicata da “Limes” non è genericamente pacifista, o contraria all’obiettivo di conservare il primato globale del blocco atlantico. Cina e Russia (ma anche Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) continuano ad essere definiti Paesi “totalitari” e l’eventualità che si crei “un asse fra potenze autoritarie” in Eurasia continua ad essere considerato come un pericolo mortale per la libertà e la democrazia. Inoltre il numero ospita articoli particolarmente virulenti sul tema della competizione economica con la Cina, nei quali quest’ultima viene definita come un interlocutore negoziale non disposto a competere “lealmente”, ad accettare regole “condivise” (leggasi regole imposte da Washington), e in cui la si accusa di attuare “pratiche predatorie” come il furto di proprietà intellettuale e di sostenere in modo sleale la competitività delle proprie imprese con sovvenzioni statali “illegali” (accuse ridicole ove si consideri che il decollo dell’economia Usa fra fine Ottocento e primo Novecento si è basato sul furto di proprietà intellettuale a danno della nazioni europee, e che il boom della New Economy è stato innescato da colossali investimenti pubblici, con il blocco militare industriale in prima fila). Accuse con le quali viene giustificata la necessità di sospendere la cooperazione scientifica e di ricorrere sistematicamente a barriere doganali che colpiscano in particolare i prodotti tecnologici (terrorizza il sorpasso tecnologico e scientifico realizzato dalla Cina nei campi aerospaziale, ferroviario, biofarmaceutico, software e IA, computer quantistici, cantieristica navale, pannelli solari, ecc.). Poco importa si aggiunge, se questa guerra tecnologica comporterà pesanti costi ambientali e rallenterà la creazione di posti di lavoro, conta solo vincere, a qualsiasi prezzo. 


Guerra industriale, finanziaria, commerciale, scientifica e tecnologia dunque. Ma tutto ciò non è l’anticamera della guerra guerreggiata che si sostiene di voler evitare? Anche qui tocca fare un passo indietro: si è detto che la strategia suggerita è perseguire il contenimento senza arrivare allo scontro militare. Ciò significa rinunciare alla missione religiosa di esportare la liberal democrazia in salsa occidentale nel resto del mondo, e rinunciare alla tendenza all’espansione territoriale illimitata; significa anche imboccare la via del disarmo? Assolutamente no. Il “pacifismo” di “Limes” si ispira alla classica regola dell’antica Roma imperiale “si vis pacem para bellum”. L’Occidente deve insomma rendere più credibile di quanto sia attualmente la sua capacità di deterrenza.  Come? Due le mosse fondamentali: delegare all’Europa la propria autodifesa, concentrarsi su fronte asiatico mobilitando l’Anglosfera (trascuro i ragionamenti sullo scenario Mediorientale per mancanza di spazio). 


Parto dal fronte asiatico e da quella che “Limes” definisce la “militarizzazione dell’Anglosfera”. Qui tornano massicciamente in gioco miti e ideologia. Il nodo è infatti il profondo legame antropologico-culturale fra Inghilterra, ex colonie e Stati Uniti, cementato dal filo rosso della tradizione imperiale e dalle affinità linguistiche, religiose, storiche ed etniche, nonché dal giudizio di Churchill che celebrava “le formidabili virtù dei Paesi anglosassoni” (che i neocons hanno tradotto nella esaltazione dell’Anglosfera come Eldorado della democrazia liberale). Trascurare questo cemento “sovrastrutturale” per concentrarsi esclusivamente sulla convergenza degli interessi materiali, è un grave errore di incomprensione della natura del nemico. E’ soprattutto questa affinità storico-culturale che ha premesso di realizzare prima il Five Eyes, l’alleanza spionistica fra Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda che intercetta comunicazioni quasi ovunque nel mondo (Paesi europei inclusi), poi l’Aukus, l’alleanza militare fra Australia, Regno Unito e Usa, per cingere d’assedio la Cina in vista di una possibile guerra con Taiwan (per l’Australia ciò ha voluto dire, fra l’altro, la fine della rinuncia a ospitare armi nucleari, il che ha provocato aspri conflitti politici interni). 


Winston Churchill



Ma concentrare le risorse sul fronte asiatico è possibile ad un’unica condizione: l’Europa deve assumersi integralmente i costi del contenimento della Russia. Ciò significa, in primo luogo, che deve investire massicciamente per riarmarsi e costruire una forza militare autonoma in grado di reggere uno scontro convenzionale con i russi, senza che ciò richieda l’intervento diretto dell’esercito americano. Il processo, guidato dalla Germania e dai Paesi ex sovietici, Polonia in testa, è già in atto, come testimonia il massiccio coinvolgimento della UE nel conflitto ucraino, ma dovrà progredire molto più rapidamente e avrà pesanti conseguenze sul piano socioeconomico. Il keynesismo di guerra (i mostruosi investimenti – e i relativi profitti – che le industrie belliche europee dovranno compiere per sfornare armi in quantità assai superiore a quelle attuali) non sarà infatti in grado di assorbire gli effetti della parallela, inevitabile liquidazione di ogni residuo di keynesismo sociale: calo dell’occupazione, tagli salariali e ulteriore peggioramento dei servizi sociali (sanità, istruzione, pensioni, ecc.). 





In altre parole, per difendere l’american way of life, l’Europa dovrà dire addio al proprio stile di vita, costruito nei decenni successivi al Secondo conflitto mondiale, rimpiazzandolo con una sorta di economia di guerra, condizione da legittimare con massicce dosi di propaganda contro la minaccia che viene da Oriente, per convincere la gente a tirare la cinghia e magari ad arruolarsi in eserciti da riportare a dimensioni di massa. l’Italia è predisposta a inserirsi in questo contesto fin dal 1954, allorché firmò con gli Usa un trattato bilaterale il cui testo (mai reso pubblico) disciplina le modalità di utilizzo delle basi americane sul nostro territorio.  “Limes” rivela che, secondo Wikileaks, nel 2008 Washington avrebbe posto il veto alla desecretazione del documento in questione, perché teme che i suoi contenuti, che sanciscono il ruolo di succube dell’Italia nei confronti di qualsiasi esigenza operativa del patron americano, possa suscitare reazioni negative da parte dell’opinione pubblica. 


Concludo questa rassegna dei contenuti del numero 3 di “Limes” con una constatazione che la rivista non fa, ma che è implicita in quanto sin qui esposto: delegando all’Europa il compito di autogestire la propria sicurezza, gli Stati Uniti prendono due piccioni con una fava: non solo alleggeriscono il proprio impegno sul Vecchio Continente per concentrare la propria attenzione in Asia, ma danno una formidabile spallata alla capacità competitiva dell’economia europea, sempre più ridotta a vaso di coccio fra i due giganti in lotta e deprivata delle opportunità di sviluppo che la collaborazione con Russia e Cina le avrebbero offerto.  



Lo scenario geopolitico come scontro di classe sul piano mondiale


Parto dall’approccio “alla George Kennan” che “Limes” sembra suggerire agli Stati Uniti per uscire dall'impasse in cui li hanno cacciati le loro contraddizioni. Si tratta di un approccio razionale: rinunciare alle ambizioni di dominio assoluto per conservare una posizione di superiorità relativa. Troppo razionale, nel senso che la ragione geopolitica non tiene in conto sufficiente la potenza del fattore economico e del fattore religioso. Da un lato, la fine della globalizzazione, genera tali contraccolpi su un’economia che decenni di neoliberismo hanno finanziarizzato e terziarizzato, indebolendone la base industriale, per cui solo una guerra sembra poter ricostituire le basi per un rilancio dell’accumulazione e dei profitti. Dall’altro lato, il mito fondativo dell’eccezionalismo americano, la missione di imporre al mondo intero il proprio modello politico culturale, si fonda su una narrazione di tipo religioso refrattaria a ogni critica razionale. 


La logica marxista ortodossa tende a concentrarsi sul primo fattore, personalmente ritengo invece che tale fattore potrebbe (un condizionale rinforzato da molti punti interrogativi) venire parzialmente ridimensionato dai vincoli imposti da esigenze di sopravvivenza. Mi spiego con un esempio: il capitalismo italiano, accettando le regole della UE, ha subito un drastico ridimensionamento, ma ha preferito accettare questa “diminutio” piuttosto che affrontare le sfide di un alto tasso di conflittualità di classe. Provo a generalizzare l’esempio: i singoli capitali seguono la logica della ricerca del profitto immediato, a prescindere da qualsiasi considerazione sociale, etica, ambientale, ecc. Ma il potere politico che incarna gli interessi generali della classe dominante può e deve sacrificare gli interessi immediati agli interessi strategici. Quello che voglio dire è che, a certe condizioni, l’Occidente capitalistico potrebbe accettare la convivenza conflittuale con le economie emergenti senza passare necessariamente da una guerra devastante dagli esiti incerti, che rischia di portare all’estinzione dell’umanità. Lo stesso non vale per la follia religiosa della cultura neocons. La mostrificazione del nemico, dipinto come il male assoluto, non è solo narrazione ideologica (senza dimenticare che l’ideologia – Lukacs docet – è di per sé una formidabile potenza materiale), è frutto di una visione delirante disposta a scatenare l’Armageddon nucleare pur di non arrendersi alle forze del Male. 


Ciò detto, lo scontro fra Occidente e lo schieramento antimperialista (Cina e altri Paesi socialisti, Brics e la stessa Russia, nella misura in cui si difende dall’aggressione della NATO) è oggi di fatto la principale, se non l’unica, forma di una lotta di classe che, a mano a mano che quest’ultima si è affievoliva nei centri tradizionali del capitalismo, ha assunto sempre più la forma del conflitto territoriale fra Nord e Sud del mondo. Ciò significa che alle forze anticapitaliste che vivono nei Paesi occidentali non rimane altro che assistere a tale conflitto, tifando per la vittoria del Sud? Naturalmente no, ma per definire il “che fare” occorre abbandonare l’illusione nostalgica di rilanciare la lotta di classe nelle sue forme storiche. Dunque come ridefinire il campo di battaglia?


In primo luogo va detto che l'immiserimento delle classi popolari negli Stati Uniti e in Europa non è, di per sé, condizione sufficiente a determinare una situazione rivoluzionaria. Molto più importante, da questo punto di vista, mi sembra la radicale perdita di legittimità dei nostri sistemi politici, dato il sostanziale divorzio fra libertà (totalmente appiattita sui diritti dell’individuo proprietario) e democrazia (ridotta a un insieme di rituali procedurali e di fatto trasformata in oligarchia di censo). Di ciò è consapevole la maggioranza dei cittadini (vedasi il calo verticale della partecipazione al voto) il cui disagio e la cui rabbia non trovano tuttavia rappresentanza a causa della “inversione ideologica” richiamata in precedenza: le sinistre divenute espressione dei ceti medio-alti e l’emigrazione del consenso delle masse popolari verso i movimenti populisti di destra. In questa situazione di transizione senza sbocco (pericolosa condizione che Gramsci definiva con la frase “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”), peggiorata dall’aggravarsi del rischio di guerra globale (già in atto a livello virtuale e pericolosamente vicina a divenire reale) la rabbia delle masse può andare in due direzioni: trovare sfogo nell’esaltazione bellicista aizzata dalla propaganda, oppure rivolgere la propria domanda di salvezza, sicurezza e democrazia ai populismi. La seconda alternativa sarebbe un vicolo cieco (una rivoluzione passiva di gramsciana memoria) se egemonizzata dai populismi di destra, ma potrebbe essere l’anticamera della rivoluzione sociale in presenza di movimenti politici coerentemente anticapitalisti.  

AL COMPAGNO CARLO FORMENTI Lettera aperta di Fosco Giannini Carissimo Carlo, carissimo compagno Formenti, ho avuto l'onore di conoscerti...

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