Lettori fissi

sabato 6 marzo 2021

 SPAGNA E ITALIA. L'OFFENSIVA DELLE OLIGARCHIE

Democrazie mediterranee sotto attacco 

Manolo Monereo 

Il dialogo e il confronto con Manolo Monereo, ex dirigente del partito comunista spagnolo e di Izquierda Unida, nonché ex deputato di Podemos e una delle menti più lucide della sinistra iberica (e non solo), sono stati per me, in questi anni di crisi globale, fattori di arricchimento culturale ed umano. È quindi con piacere che mi accingo a scrivere del suo ultimo (1) libro Oligarquia o democracia. España, nuestro futuro, (l’editore è El Viejo Topo, che ringrazio per avere pubblicato le edizioni spagnole di due miei lavori recenti (2)). Si tratta di una corposa antologia (più di 400 pagine) che raccoglie una cinquantina di articoli (ad alcuni dei quali hanno collaborato Javier Aguilera, Julio Anguita, Héctor Illueca e Stuart Medina, oltre a Miguel Riera che firma il Prologo) usciti fra la primavera del 2017 e la fine del 2020 sulle riviste El Viejo Topo e Cuartopoder

In questa recensione mi concentrerò sugli scritti pubblicati nei due periodi che vanno, rispettivamente, dall’autunno del 2018 a quello del 2019 e dall’inizio alla fine del 2020, scegliendo, fra i vari argomenti trattati, quelli che più si prestano a evidenziare la rapida evoluzione del quadro politico spagnolo e le sue analogie con quello italiano.  Prenderò poi spunto dalle riflessioni di Monereo per riproporre alcuni giudizi che ho espresso in un mio precedente post, dedicato al libro di Francesco Campolongo e Loris Caruso su Podemos e il populismo di sinistra (3) (giudizi che ad alcuni amici spagnoli possono essere sembrati troppo severi, nella misura in cui rispecchiano la mia convinzione che la situazione italiana – in cui il processo di liquidazione degli ultimi residui di sistema democratico si è appena compiuto - anticipi l’esito di quella spagnola, dal momento che anche lì manca un progetto politico che possa imporre una soluzione alternativa).

Nel primo periodo esaminato da Monereo le situazioni dei due Paesi presentano un chiaro parallelismo, benché associato a una sorta di sfasamento temporale. Se in Spagna il “momento populista” (4) ha trovato in Podemos una espressione politica di sinistra, fallendo però “l’assalto al cielo”, In Italia le espressioni sono state due, l’una di destra (la Lega) l’altra moderatamente progressista (l’M5S), che, dopo le elezioni del 2018, si sono inopinatamente alleate, dando vita al primo governo Conte. Nel contempo, sempre in Italia, nasceva, sia pure faticosamente e contraddittoriamente, una composita area “sovranista di sinistra” che, pur non appoggiando il governo, ne apprezzava alcune timide aperture alle esigenze delle classi subalterne , ma soprattutto cercava di sfruttarne la conclamata – ancorché mai tradotta in azione politica – diffidenza nei confronti dell’Unione Europea a guida tedesca, per alimentare la consapevolezza popolare in merito al suo ruolo di baluardo degli interessi del capitalismo finanziario globale, progettato per distruggere i risultati di decenni di lotte proletarie e neutralizzare i principi costituzionali che li avevano resi possibili. 

In questo lasso di tempo Monereo guarda con simpatia, prima al lancio del Manifesto per la sovranità costituzionale (5) poi, dopo il fallimento del processo di formazione di una nuova forza politica che avrebbe dovuto inspirare, ad altre iniziative di quell’area politico culturale, fra cui il lancio dell’associazione Nuova Direzione e le Tesi (6) che ne hanno accompagnato la nascita. Alle reazioni negative che questi eventi suscitano sia in Italia che in Spagna, con le accuse di ”rossobrunismo” rivolte ai protagonisti, Monereo replica in alcuni articoli che denunciano “la dittatura del politicamente corretto”, nei quali non si limita a criticare il dogmatismo ideologico di una sinistra sorda agli interessi concreti delle masse popolari, colpiti dalle politiche economiche imposte dalla UE, ma punta il dito contro la proposta di costruire un “fronte antifascista europeo” che circola negli ambienti delle sinistre vecchie e nuove: combattere il populismo di destra senza porre rimedio alle circostanze che lo hanno generato, scrive, significa rompere i già deboli rapporti con le classi popolari. Difendere la UE dalla “barbarie populista”, significa accettare di fatto la regressione dal costituzionalismo sociale, dalle democrazie avanzate frutto di decenni di conflitti di classe, a una democrazia liberale funzionale al mercato. Questo progetto si alimenta di una paura che, sia il Psoe di Pedro Sanchez in Spagna che il PD in Italia, riescono ad alimentare e a sfruttare, contando sull’appoggio delle pressioni di Bruxelles e di una formidabile campagna mediatica, fino a determinare, in Italia, la caduta del primo governo Conte e la nascita del secondo, fondato sull’alleanza fra Pd e M5S, in Spagna, la formazione del governo Sanchez in coalizione con Podemos che accetta un ruolo subalterno (il compito di Sanchez è facilitato dalla presenza di una destra radicale apertamente neofranchista).    


Monereo capisce quando Podemos sta per cadere nella trappola, spiega perché esiste tale rischio e tenta vanamente di addurre argomenti per cercare di scongiurarlo. Il vero problema, scrive, consiste nel fatto che la spinta al cambiamento del 15M si è esaurita e, con essa, la possibilità di arrivare, come immaginato nella fase ascendente dei movimenti, a un nuovo processo costituente capace di reintegrare i diritti sociali distrutti dalla rivoluzione liberista e, al tempo stesso, di offrire soluzione alla questione catalana. Il punto è capire “come essere rivoluzionari in condizioni storico-sociali non rivoluzionarie”. La risposta è quella di Gramsci: passare dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. Che significa? Costruire identità, radicamento sociale, alleanze, formare quadri, lavorare alla definizione di un progetto alternativo di Paese. In una parola: tempo, fatica, sacrificio. Non sarà la via scelta da Podemos, e Monereo si chiede amaramente se non sia stato proprio per evitare di imboccarla che si è deciso di rincorrere la chance di andare al governo con il Psoe. 

Scegliere se governare o no, precisa, non è mai questione di principio, dipende dai programmi, dai rapporti di forza e dall’interpretazione della congiuntura storica. Il programma di Podemos non è certo rivoluzionario, è assimilabile a quello di una socialdemocrazia radicale (7), ma purtroppo nessun riformismo, debole o forte che sia, è possibile nei Paesi della UE; ne segue che, per essere coerente con il suo programma, Podemos dovrebbe impegnarsi a cambiare le relazioni fra Spagna e UE. Invece nelle campagne elettorali della UE si tace, o se ne parla solo per rassicurare gli elettori in merito al proprio europeismo (sia pure critico). Del resto, Podemos non è in grado di assumersi compiti così impegnativi perché, avendo perso base sociale e radici nel territorio, ha cessato di essere un attore principale, un protagonista capace di organizzare attorno a sé il mutamento politico della Spagna e, per di più, sta vivendo una crisi organizzativa, dato che la vita interna del partito si è ridotta “all’approvazione online di programmi e liste elettorali” (il che conferma la sua omologia “strutturale” con l’M5S, ma di questo più avanti). Come se non bastasse, si trova di fronte un Psoe che può ottenere l’egemonia nel sistema politico solo riducendo il peso elettorale e sociale di Podemos. Quindi Iglesias cosa si inventa? Fa una campagna elettorale per governare con un partner che si nega e che fa di tutto – fino ad ammiccare alla destra di Ciudadanos – pur di lasciarlo sulla graticola. Ecco come Monereo descrive ironicamente questo atteggiamento: “dal momento che non ci fidiamo del Psoe, governiamo con lui”.  

A questo punto occorre fare due incisi. Il primo riguarda l’ammirazione che Monereo esprime nei confronti della “genialità” (giudizio che ripete più volte) della campagna elettorale condotta da Iglesias, il quale riesce a convincere gli alleati e parte del suo elettorato che la proposta di andare al governo con Sanchez è “una rivendicazione democratica e anti oligarchica”. Non so se l’ammirazione sia frutto dell’amicizia che lega Monereo a Iglesias malgrado le divergenze politiche, o se derivi dal fatto che quell’invenzione comunicativa è effettivamente riuscita a frenare l’emorragia di voti, il che alla fine ha costretto Sanchez ad accettare l’alleanza (personalmente continuo a pensare – come ho scritto nella recensione al lavoro di Campolongo e Caruso – che il talento comunicativo di Iglesias abbia influito negativamente, più che positivamente, sull’evoluzione del suo partito). In ogni caso, per realizzare l’obiettivo di andare al governo, il programma viene ridotto a modeste garanzie in materia di politiche del lavoro, rinunciando a ogni velleità in tema di rivendicazioni nei confronti della UE, della collocazione internazionale della Spagna, della questione nazionale (indipendentismo catalano) che viene delegata alla gestione del Psoe. Il secondo inciso riguarda quello che potremmo definire una sorta di chiasmo, o di specularità rovesciata, fra le relazioni Psoe-Podemos e PD-M5S: mentre Podemos ha fatto di tutto per strappare al Psoe un’alleanza in cui occupa una posizione subalterna, il PD, pur partendo da una consistenza elettorale assai minore di quella dell’M5S, è riuscito, cogliendo l’occasione della crisi del primo governo Conte, a rovesciare di fatto – se non sul piano numerico – i rapporti di forza, “resettando” il programma dei grillini sui propri obiettivi.

Concludo questa rassegna sugli scritti del primo periodo citando un articolo di argomento geopolitico.  Commentando la guerra commerciale fra Huawei e Google, Monereo ne evidenzia il significato squisitamente politico: le imprese multinazionali, scrive, hanno sempre dietro di sé uno stato nazione cui si sottomettono quando è necessario, ed è per questo che la disputa in questione va interpretata come un episodio della lotta per l’egemonia fra Stati Uniti e Cina, che ha come posta in palio la ridefinizione della distribuzione del potere nel sistema mondo. Gli Stati Uniti, aggiunge, devono organizzare una coalizione di stati con l’obiettivo di impedire alla Cina di divenire la prima potenza economica, politica e militare in un mondo in transizione. In questa guerra l’America non distingue fra commercio mondiale, innovazione tecnologica e potenza bellica. Ed è proprio per questo, aggiungo io, che delegare la gestione della politica estera spagnola all’atlantismo del Psoe è responsabilità gravissima di Podemos, con effetti paragonabili a quelli della svolta della politica estera italiana associata al passaggio dal primo al secondo governo Conte: vengono accantonate le timide aperture nei confronti di Cina e Russia per ricompattarsi nelle fila della santa alleanza occidentale, assieme a una UE priva di reale autonomia nei confronti degli Stati Uniti.  

Inizio l’esposizione e il commento degli articoli del 2020 restando sul tema della geopolitica. Ragionando sulla formidabile capacità di risposta che il regime cinese ha dimostrato nell’affrontare la pandemia del covid19, Monereo la attribuisce alla forza dello stato e ricorda che, dietro uno stato forte, “c’è il controllo sulla libera circolazione dei capitali, la socializzazione degli investimenti e un apparato finanziario sotto dominio pubblico”. Queste caratteristiche non bastano a fare della Cina una paese “realmente” socialista? Rifiutando l’approccio dottrinario e astratto che inspira questo dilemma, Monereo rinvia alle considerazioni di Samir Amin, laddove il marxista egiziano invita a concepire la transizione al socialismo come un processo di lunga durata, pieno di contraddizioni, avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte (8). Ma soprattutto irride la tesi che associa la realizzazione del socialismo all’avvento di un fantomatico governo mondiale, frutto della vecchia idea occidentale e cristiana che sogna una umanità unificata da un nuovo ordine cosmico costruito sulle rovine dei vecchi stati: a quale cultura spetterà il ruolo, ironizza, di incarnare questo mondo pacificato e “universale” (l’allusione alla democrazia e ai diritti dell’uomo esportati a suon di bombe è implicita).

Ma il nodo centrale che ritorna nella maggior parte di questi scritti del 2020 ruota attorno a tre argomenti: perché la reazione delle élite nei confronti del governo Psoe/Podemos è così dura, qual è il vero obiettivo di questa offensiva e quale alternativa politica alla crisi identitaria e organizzativa di Podemos è possibile immaginare. 
Pedro Sanchez e Pablo Iglesias 


Perché tanto rancore nei confronti di un governo moderatamente socialdemocratico? La risposta, scrive Monereo, non sta in ciò che questo governo fa, ma in ciò che impedisce di fare. La cagnara anticomunista contro Podemos può suonare bizzarra a orecchie ingenue (così come ancora più bizzarre sono suonate qui in Italia le accuse di comunismo rivolte a una forza ben più moderata di Podemos qual è l’M5S). Ma la stranezza è apparente. Per spiegarla occorre comprendere che l’anticomunismo in assenza di una reale minaccia comunista è sintomo del fatto che l’oligarchia si sente vittoriosa per cui, passata la paura, rilancia l’offensiva, insegue obiettivi più ambiziosi. Iglesias non ha capito che la moderazione non basta: moderato o radicale, il suo partito verrà spietatamente attaccato finché sparirà, o finché non saranno riusciti a fargli fare la fine di Tsipras e Syriza, cioè a convertirli in politicanti come gli altri, a reciderne i residui rapporti con le classi subalterne, a uccidere ogni speranza di cambiamento. Né ha capito che il vero bersaglio dell’offensiva non è lui, bensì Pedro Sanchez: per ottenere il passaporto di garante del sistema, Sanchez deve sbarazzarsi di Podemos, deve tornare ad avere le mani libere per poter realizzare senza esitazioni e tentennamenti le politiche dettate dal blocco di potere interno e dalla UE. 

Per le oligarchie la crisi è un’occasione imperdibile: partendo da un’analisi spietata della realtà (anche più cinica di quanto possano immaginare i loro critici), e dalla convinzione che le tendenze in atto siano irreversibili, vogliono “portarsi avanti”, assumere un controllo assoluto e incontrastato dei processi in corso. La società e il governo devono essere messi di fronte a uno stato di necessità talmente cogente da indurli ad accettare la direzione economica della UE e i nuovi piani di austerità e riforme associate agli ”aiuti”. Di più, memore  del detto di Carl Schmitt (9) che recita “sovrano è chi decide nello stato di eccezione”, Monereo identifica l’obiettivo ultimo dell’offensiva: passare dallo stato di necessità allo stato di eccezione. Per continuare il ping pong fra Spagna e Italia che sto suggerendo a mano che seguo i suoi ragionamenti, si potrebbe dire che l’obiettivo ideale di cui stiamo parlando è quello che qui da noi è stato raggiunto con la caduta del secondo governo Conte e l’insediamento del governo di “unità nazionale”, presieduto dal proconsole imperiale Mario Draghi. 

Cosa può fare Podemos per opporsi a questo esito? Mi pare che la descrizione che Monereo fa dello stato attuale del partito di Iglesias non alimenti illusioni. Passare in pochissimo tempo dall’assalto al cielo alla difesa della democrazia e della costituzione vigente non è stata cosa da poco, ma passare dalla guerra di movimento alla guerra di posizione, identificando quest’ultima con l’andata al governo assieme al Psoe, è stato decisamente troppo. Così com’è troppo continuare a illudersi che dalla UE possano arrivare politiche solidali e fantasticare su programmi di ricostruzione, dimenticando che la Spagna non è più un paese sovrano. Questo sarebbe piuttosto il momento di contrastare le politiche neoliberali della UE e di contestare i Trattati, esigendo di monetizzare e mutualizzare il debito, scommettendo sul fatto che Spagna e Italia non sono la Grecia e che, senza di loro, l’Europa non sta in piedi. Purtroppo Podemos non è in grado di farlo nemmeno se lo volesse. Perché si è incastrato in un governo senza programma né strategia; perché si è convertito in una forza minoritaria che mira a fare politica nell’area egemonizzata dal Psoe; perché ha perso base sociale e radici nel territorio: i circoli si sono indeboliti o sono spariti, i militanti di base si sono ritirati a vita privata, il partito si è convertito in un “partito manifesto”, bastato su incarichi pubblici e politici di mestiere finanziati dallo stato che si relazionano al paese solo attraverso i media, una forza incapace di generare un immaginario alternativo. Ciò detto, da vecchio combattente, Monereo non vuole rinunciare alla speranza e, negli ultimi articoli raccolti in questa antologia, invita a lavorare in funzione della costruzione di una nuova forza politica, di una costituente della sinistra spagnola. 

Concluderò 1) rilanciando alcuni dei nodi teorici che avevo abbozzato nel post sul libro di Campolongo e Caruso, 2) rivolgendo a Monereo alcune domande (cui spero possa e voglia rispondere) in merito alla sua attuale prospettiva politica, 3) spiegando infine perché l’idea da cui era partito qui in Italia il progetto di Nuova Direzione (non molto lontana da quella di Monereo descritta poche righe sopra) si è dimostrata difficile, se non impossibile, da mettere in atto nelle condizioni generate dalla crisi pandemica. 

Parto dai parallelismi che ho evidenziato fra le coppie Podemos/Psoe e M5S/PD. Se si assume un’ottica ideologico-culturale è chiaro che potrebbero apparire opinabili, ma io li interpreto sul piano strutturale. I processi di “normalizzazione” di Podemos e dell’M5S (cui si potrebbero accostare quelli di Syriza, di France Insoumise, delle sinistre Dem americana e del Labour inglese, in una parola dei populismi di sinistra occidentali) mettono in crisi l’ipotesi che io stesso, fra altri, avevo avanzato in merito a una possibile declinazione rivoluzionaria del populismo. Imprimendo una torsione gramsciana alle teorie di Laclau (dalla catena equivalenziale al blocco storico, dall’egemonia intesa come manipolazione retorico linguistica del senso comune, alla sua declinazione in termini di rapporti di forza fra interessi di classe), mi era parso che il “momento populista” (inteso come “momento Polanyi”, cioè come rivolta della società tutta contro gli effetti della sua colonizzazione da parte del mercato) potesse essere “cavalcato” da forze social comuniste in grado di spostare progressivamente la rabbia popolare verso obiettivi più avanzati. 
Ciò che rendeva debole quell’ipotesi era la mancanza di una approfondita analisi delle trasformazioni della composizione di classe indotte da mezzo secolo di controrivoluzione liberista. Assieme ad Alessandro Visalli ho abbozzato un primo tentativo in tal senso nella sezione delle Tesi di Nuova Direzione dedicate a questo tema. La nostra proposta intrecciava parametri diversi per definire i contorni del proletariato contemporaneo, basandosi, più che sui livelli retributivi, su una serie di opposizioni: capacità o meno di contrattare il prezzo della propria forza lavoro (a prescindere dal tipo di inquadramento giuridico della stessa); disponibilità o meno di fonti di reddito diverse dall’attività lavorativa (beni immobili, titoli di vario genere, assicurazioni, ecc.); livelli di educazione (“capitale culturale” per usare un neologismo in voga); collocazione geografica (centri metropolitani gentrificati versus periferie e città di provincia); livelli di precariato, ecc. Dall’ elenco restavano fuori, oltre a manager, professionisti, percettori di rendite, piccoli e medi imprenditori, anche i quadri intermedi con ruoli di controllo sulla forza lavoro oltre a quegli strati di lavoratori intellettuali (nuove professioni, lavoratori della conoscenza, “creativi” ecc.) che, anche se con retribuzioni relativamente basse e/o penalizzati da competenze sovradimensionate rispetto alle effettive opportunità di impiego e carriera, conservano aspettative e identità di status tipiche delle classi medio elevate. 

Il problema è che è proprio quest’ultimo strato a esercitare l'egemonia nelle formazioni populiste di sinistra. Ciò ha fatto sì che questi movimenti – pur con forti differenze nei vari paesi – abbiano assunto quelle caratteristiche che, nel post dedicato al libro di Campolongo e Caruso, ho definito neogiacobine sul piano ideologico (riferimento ai “cittadini”, alla “gente”, piuttosto che alle classi subalterne, politically correctness, rivendicazione di un ritorno a una immaginaria democrazia “originaria”) e neoborghesi sul piano strutturale (resistenza ai processi di esautoramento da parte delle nuove oligarchie – la “trama” di cui parla Monereo - non classificabili come borghesia in senso classico). Le conseguenze di questa composizione di classe sono evidenti: comunicazionismo, elettoralismo, governismo, leaderismo mediatico, debolezza organizzativa, scarse radici nel territorio. Come dimostrano ampiamente le analisi della composizione sociale tanto dell’elettorato quanto della base di queste formazioni, la loro capacità di attrazione nei confronti delle classi subalterne è scarsa o, nella migliore delle ipotesi, episodica (vedi il boom elettorale dell’M5S, rapidamente rientrato a seguito delle ripetute svolte in senso moderato). Ciò ha fatto sì che una quota significativa del consenso degli strati sociali medio bassi, meno scolarizzati, residenti nelle periferie o in provincia, sia andata ai populismi di destra, come certificano, anche in questo caso, le analisi della composizione sociale dei flussi elettorali. 

Doveva andare necessariamente così? Per chi non crede in un rigido determinismo storico la risposta non può che essere negativa. Resta il fatto che la condizione per cui avrebbe potuto andare diversamente, coincide con l’esistenza di forze politiche in grado di unificare, in primo luogo, i frammenti di un proletariato disarticolato e deprivato di identità culturale da decenni di guerra di classe dall’alto (10). Solo a partire dalla ricostituzione di quel nucleo, sarebbe stato possibile costruire un blocco sociale capace di opporsi al progetto oligarchico. Ma oggi quelle forze non esistono (o se esistono sono troppo deboli) in nessun paese occidentale. Che fare dunque, o, per usare le parole di Monereo, come essere rivoluzionari in un tempo storico che rivoluzionario non è?

La risposta proposta da Nuova Direzione è consistita nel tentativo di aggregare forze che da anni criticavano l’acquiescenza delle sinistre nazionali e internazionali verso le conseguenze dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione e verso le regole della governance sovranazionale imposte dalla UE. Partendo dall’attenzione suscitata dal lancio del Manifesto per la sovranità costituzionale, volevamo ricostruire un punto di vista socialista sugli esiti della Grande crisi iniziata nel 2008, inspirato agli interessi delle classi subalterne e delle periferie. L’ambizione egemonica di questo progetto, tenuto conto della scarsa consistenza numerica dell’Associazione, può apparire folle. Ma era giustificata dalla convinzione che l’ondata populista, pur se mostrava i primi sintomi di esaurimento, potesse aprire una finestra di opportunità per l’irruzione dal basso di forze ed energie antisistemiche. L’idea non era quella di crescere assorbendo altre soggettività politico culturali, ma di funzionare da catalizzatore “di essere pesci nel mare, non pensare di diventare noi stessi il mare”, come ha scritto Visalli. 

A un anno di distanza, dobbiamo prendere atto che la crisi pandemica ha prosciugato il mare. Integrando in un colpo solo l’intero sistema dei partiti, assieme a tutte le varianti populiste, sotto il proprio comando, il golpe bianco impersonato da Draghi è un esempio perfetto di quella che Monereo chiama transizione dallo stato di necessità allo stato di eccezione: il vero sovrano ha mostrato il suo volto, rivendicando il diritto esclusivo di decidere di cui è convinto di essere il legittimo depositario. Le reazioni sono state a dir poco scarse: si va dalla fronda interna all’M5S, malinconicamente trincerata nella nostalgica rivendicazione della “purezza” delle origini, al ribellismo di frange irrazionali e puramente reattive (No Vax, negazionisti, complottisti ecc.), alla “opposizione del re” incarnata dalla destra di Fratelli d’Italia. Né credo ci si possa aspettare spontanee ribellioni di massa sul tipo dei gilet gialli francesi: come insegnano le vicende greche, dopo sconfitte particolarmente dure, e dopo il tradimento da parte di forze politiche che avevano suscitato speranze di cambiamento, le reazioni prevalenti sono lo scoramento e la rassegnazione. 

Inoltre non va sottovalutata la possibilità che l’Europa colga l’occasione della crisi pandemica per recuperare consenso e credibilità 1) promuovendo investimenti nei settori delle infrastrutture, delle tecnologie avanzate, nei servizi e nella pubblica amministrazione; 2) tamponando gli effetti più drammatici dei processi di impoverimento generati dalla crisi; 3) ricomprando la fedeltà dei ceti medi a scolarizzazione elevata e dotati di competenze utili alla riattivazione di un ciclo di sviluppo. Mi rendo conto che molti (e io stesso fino a poco fa) pensavano e pensano che l’attuale regime oligarchico “non possa” assumere iniziative del genere, ma giova ricordare che Lenin sosteneva che non esistono crisi che il regime capitalistico, se non  viene rovesciato politicamente, non riesca prima o poi a superare. In ogni caso io e Visalli – in dissenso con la maggioranza dei compagni di Nuova Direzione – riteniamo che la fase sia mutata così radicalmente che il progetto delle Tesi appare di fatto superato (del resto la teoria, per un marxista, non deve produrre modelli astratti ma analisi concrete delle situazioni concrete). Per questo pensiamo che passare dalla guerra movimento alla guerra di posizione voglia dire riprendere le fila di un lavoro teorico che non può che essere collettivo, che deve cioè coinvolgere un bacino di energie e di intelligenze assai più ampio di quello di cui dispone Nuova Direzione, e voglia anche dire contribuire a produrre risorse e competenze in  vista della auspicabile fase costituente di una nuova formazione socialista che, data l’attuale dispersione delle forze, potrà avvenire solo a coronamento d’un lavoro lungo, faticoso e paziente. 

A questo punto non mi resta che chiedere a Monereo in che misura ritiene che questa prospettiva sia compatibile con il contesto spagnolo. E' probabile che in Spagna esistano condizioni più favorevoli delle nostre all’avvio di un simile processo costituente. Anche se non credo che ciò potrebbe comunque impedire che il passaggio dallo stato di necessità allo stato di eccezione avvenga anche lì in tempi relativamente rapidi. Ma se ciò è vero, mi chiedo (e gli chiedo) se e in che forme pensa che si debba/possa riproporre l’obiettivo di riconquistare la sovranità nazionale e popolare, assieme al diritto delle classi subalterne di decidere del proprio destino. In particolare, mi chiedo (e gli chiedo) se pensa che la rivendicazione di restaurare la democrazia nelle forme codificate dalle costituzioni sociali possa ancora avere un senso non puramente ideologico, o se non sia piuttosto il caso di riproporre lo slogan “siate realisti, chiedete l’impossibile” che, nel caso, vuol dire immaginare forme di partecipazione democratica radicalmente alternative a quelle che la "ribellione delle élite" ha definitivamente consegnato al passato. Un’ultima considerazione: qualunque sia la via che sceglieremo per affrontare la traversata del deserto che ci attende, occorrerà armarsi di coraggio, perché gli scenari di guerra che si preparano non lasceranno molto margine a forme di resistenza che possano essere etichettate come “collusione con il nemico”.

Note

(1) Alcuni dei lavori precedenti di Manolo Monereo sono disponibili in italiano. Cfr., in particolare, Un progetto di liberazione. Repubblica, sovranità, socialismo (con Héctor Illueca), Meltemi, Milano 2020; vedi anche “Plutocrazia contro democrazia” in AAVV ( a cura di C. Formenti), Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro, Meltemi, Milano 2021.
(2) L’editore El Viejo Topo ha pubblicato le edizioni spagnole de La variante populista (DeriveApprodi, Roma 2016) e de Il socialismo è morto viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019).
(3) F. Campolongo, L. Caruso, Podemos e il populismo di sinistra. Dalla protesta al governo, Meltemi, Milano 2021.
(4) Ho discusso il concetto di momento populista ne La variante…cit.
(5) Il Manifesto si trova all’indirizzo  https://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Manifesto-per-la-sovranit%C3%A0-costituzionale-4.pdf 
(6) Le Tesi sono consultabili sul sito di Nuova Direzione all’indirizzo https://www.nuova-direzione.it/le-tesi-di-nuova-direzione  
(7) Sul programma politico di Podemos vedi F. Campolongo, L. Caruso, op. cit.
(8) sul dibattito in merito alla natura della società e del regime cinesi che ha coinvolto, oltre a Samir Amin, vari altri autori marxisti, da Giovanni Arrighi a David Harvey, vedi quanto ho scritto nel mio ultimo libro, Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 
(9) Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972; vedi anche Il Nomos della Terra, Adelphi, Milano 1991. 
(10) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012




  
      
                    
     

  


    

lunedì 1 marzo 2021

LUCI E OMBRE DI UN SOGNO NEOGIACOBINO

L’assalto al cielo mancato di Podemos


Il libro di Francesco Campolongo e Loris Caruso, Podemos e il populismo di sinistra. dalla protesta al governo (appena uscito per i tipi di Meltemi), è un buon viatico alla comprensione di un fenomeno politico che, agli occhi di molti militanti delle sinistre radicali europee (e anche, mi sembra di poter dire, agli occhi dei due autori) è probabilmente l’unico esempio di esperimento riuscito di populismo di sinistra nel Vecchio Continente. Come i lettori scopriranno, il mio parere è meno ottimista, ma di questo più avanti. Il lavoro di Campolongo e Caruso è un ibrido in cui convivono le caratteristiche del reportage (ospita una robusta massa di dati, notizie e informazioni), della ricerca accademica (molti i riferimenti scientifici, che ritroviamo nella ricca bibliografia finale) e della discussione teorica politicamente impegnata. Per estrarne gli spunti che considero utili all’approfondimento del tema, articolerò la mia esposizione in due parti: nella prima, mi limiterò a sintetizzare il racconto delle origini, della storia e dell’evoluzione di Podemos contenuto nei capitoli dal secondo al settimo compresi; nella seconda discuterò le tesi interpretative degli autori esposte nel primo ottavo e nono capitolo (anche se qualche annotazione critica verrà anticipata nella prima parte, attraverso brevi incisi). Ho scelto questa soluzione perché si presta a evidenziare come l’accurata descrizione del fenomeno Podemos offertaci da Campolongo e Caruso si presti a diverse interpretazioni.


I. Capitoli 2-7. Ovvero: tutto quello che vorreste sapere su Podemos

La nascita ufficiale di Podemos è il 17 gennaio 2014, ma gli incubatori che la hanno preparata, fornendone la “materia prima” diversi anni prima, sono quattro: l’ambiente universitario (in particolare l’Università Complutense di Madrid) da cui provengono tutti i fondatori, una Web Tv che produce La Tuerka (La Vite), un talk show settimanale di successo, i movimenti sociali del 2011-2013 (15M e Mareas) e i rapporti dei fondatori con i populismi latinoamericani di sinistra. La provenienza ideologica è variegata: l’associazione studentesca Contrapoder, di orientamento post operaista/neo autonomo che si inspira al modello italiano delle Tute Bianche (che il leader Pablo Iglesias conosce da vicino, essendosi laureato in Italia dove ha frequentato quegli ambienti politici), militanti comunisti e della sinistra radicale insoddisfatti delle proprie organizzazioni e militanti dei movimenti sociali. Il tema dell’influenza dei modelli latino americani verrà trattato nella seconda parte, dove spiegherò che, a mio avviso, tale influenza è mediata soprattutto dalle teorie dell’argentino Laclau (inspirate dai movimenti peronisti), mentre l’unico Paese “bolivariano” con cui si possano evidenziare concrete analogie è l’Ecuador di Correa (i casi boliviano e venezuelano sono diversi).

Campolongo e Caruso insistono sul ruolo strategico de La Tuerka, sottolineando come Podemos sia stato "il primo partito della sinistra radicale ad avere assunto lo spazio mediatico come contesto che implica un alto grado di professionalizzazione". Prima di formalizzare la propria esistenza, i fondatori parleranno addirittura del progetto di una “televisione-partito” (definizione che al sottoscritto suscita sinistre memorie della conversione in partito della Mediaset). Sarà il successo come protagonista di talk show a fare di Iglesias il leader indiscusso di Podemos, tuttavia, precisano gli autori, se è vero che senza tv Podemos non sarebbe mai potuta nascere, è altrettanto vero che senza il movimento del 15M – che garantisce alla Web Tv un pubblico di massa – Iglesias non sarebbe diventato una star mediatica. Al tempo stesso, è un errore descrivere Podemos come una proiezione politico organizzativa del 15M. Questo movimento presentava infatti caratteri dichiaratamente antipolitici, rifiutando qualsiasi tipo di rappresentanza politicamente organizzata delle proprie istanze, mentre i fondatori di Podemos sono al contrario convinti fautori della “autonomia del politico”: si propongono infatti di costruire, dall’alto e “a tavolino”, una macchina da guerra capace di utilizzare il fermento sociale come carburante di un progetto che sia al tempo stesso maggioritario e di rottura (e questo mi fa scattare un'altra sgradevole associazione: quella con la ossimorica definizione di “maggioranza di lotta e di governo” in uso per i populismi nostrani). Ecco perché il soggetto di riferimento di Podemos (soprattutto nella fase iniziale, più marcatamente populista) non sono le classi popolari ma i cittadini.



Il fatto che la prassi politica di Podemos sia fondata prevalentemente, se non esclusivamente, sulla comunicazione mediatica, si riflette nello scarso impegno diretto sul fronte dell’organizzazione di momenti di mobilitazione (con la significativa eccezione della Marcia del Cambiamento, cui hanno partecipato 300.000 persone). In effetti, tutte le energie del nucleo fondatore sono concentrate sull’obiettivo prioritario di vincere le elezioni politiche per andare al governo (obiettivo che si spera di realizzare già nel 2015), quindi si lavora a costruire una macchina elettorale di cui  si montano i pezzi in funzione (e nel corso) delle scadenze elettorali (da qui la battuta “ci siamo allacciati le scarpe correndo”).  Nelle numerose tornate elettorali spagnole dell’ultimo lustro (dovute all’impossibilità di definire una maggioranza di governo)  i risultati oscilleranno dall’8,4% delle europee del 2014, al 12,9% delle ultime politiche, toccando il massimo nelle politiche del 2016, allorché Podemos supera di poco il 20%. 

A mano a mano che diviene chiaro che il progetto di conquistare da solo la maggioranza è irrealistico, Podemos accetta l’idea di stringere alleanze con altre forze politiche. Così, dopo uno scontro interno fra Pablo Iglesias e l’altro big di Podemos, Inigo Errejon (da sempre favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe) nasce la coalizione con IU (Izquierda Unida). Al tempo stesso, si evita di enfatizzare i contrasti con il Psoe, in vista di un possibile accordo futuro (che si realizzerà solo in tempi recenti) e si insiste nell’accreditare l’immagine di una “rivoluzione tranquilla”, per non spaventare l’elettorato moderato. Dal 2016 in avanti, Iglesias parla esplicitamente di fine del ciclo populista e della necessità di passare “dalla guerra di movimento alla guerra di posizione” (Campolongo e Caruso danno credito a questa svolta “gramsciana”, mentre io, come spiegherò più avanti, nutro fondati dubbi in merito), restituisce al partito connotati esplicitamente di sinistra e riconosce la necessità di affondare radici nel sociale. 

Inigo Errejon

Negli ultimi quattro anni Podemos ha dovuto affrontare due sfide inedite che gli sono costate care: da un lato, lo scoppio della questione catalana (in cui sostiene la difficile posizione: no all’indipendenza, sì a una riforma costituzionale che sancisca la natura plurinazionale e federale dello Stato spagnolo, per cui si troverà presa in mezzo dallo scontro fra nazionalismi contrapposti), dall’altro, l’emergenza di una destra neofranchista che, con la lista di Vox,  raggiunge risultati elettorali a doppia cifra (il che la spingerà a cercare con più insistenza, anche al costo di compromessi, l’alleanza con il Psoe, onde evitare la vittoria delle destre). In questo contesto si sviluppa un estenuante tira e molla con il Psoe (alla cui guida si è nel frattempo reinsediato Sanchez, restituendo al partito una certa caratterizzazione “di sinistra”), che dura a lungo perché il Psoe non vuole “compromettersi” con Podemos, tanto che preferirebbe addirittura allearsi con Ciudadanos (formazione populista con posizioni di destra, sia pure moderate). L’attuale coalizione nasce nel momento in cui Sanchez capisce di non avere alternative, pena regalare il governo alle destre, per cui accetta finalmente l’abbraccio con Podemos, cui concede però solo tre ministeri (di cui due marginali, con poche competenze e scarsa capacità di spesa, annotano Campolongo e Caruso). A seguito della decisione di andare al governo con Sanchez, Podemos deve subire la scissione della sinistra anticapitalista (Errejon era già uscito da destra, dando vita a una propria formazione politica). Dopo questa sintetica cronistoria, seguirò gli autori nella loro ricostruzione: 1) del discorso politico e programmatico del partito; 2) della sua struttura organizzativa; 3) della composizione socio culturale del suo elettorato (tralasciando per motivi di spazio il tema delle strategie comunicative adottate nel corso delle varie campagne elettorali).

Il discorso politico (la “narrazione”) di Podemos evolve nel corso delle due fasi appena descritte, anche se Campolongo e Caruso sottolineano che la sua struttura retorica - fondata sull’opposizione bipolare gente/casta, basso/alto, democrazia/oligarchia, maggioranza/élite, cambiamento/continuità – resta sostanzialmente immutata. La fase populista si ispira rigorosamente al modello teorico di Laclau (ne discuterò nella seconda parte): si tratta di aggregare una serie di domande sociali diffuse ma frammentarie, individuandone un minimo comun denominatore da definire grazie un nucleo simbolico essenziale, nucleo da costruire attraverso il ruolo del leader e le campagne mediatiche. L’obiettivo è ottenere un consenso trasversale sganciato da specifici settori sociali in base a un modello che la sociologia politica definirebbe “partito pigliatutto”. In questa fase Podemos cerca di sbarazzarsi di ogni connotato che lo qualifichi come una nuova formazione “di sinistra”: Iglesias afferma per esempio di voler conquistare anche i voti del Partido Popular, perché “il Paese è pieno di gente decente che vuole il cambiamento e il potere non ha paura della sinistra ma della gente” (sulle implicazione dell’uso del termine gente al posto di popolo tornerò più avanti).

La “gente” in  questione è fatta di giovani, studenti, lavoratori dipendenti autonomi e precari, pensionati, commercianti, piccoli e medi imprenditori, professionisti, artigiani. È la retorica del 99% inaugurata da Occupy Wall Street, per cui non resta fuori nessuno, ad eccezione della casta dei poderosos, dei potenti “che comandano senza presentarsi alle elezioni”, e dei politici che ne rappresentano gli interessi. La narrazione si riappropria di parole chiave come nazione, patria, sovranità, libertà e democrazia (intesa come necessità di ripristinare la matrice originaria della democrazia spagnola, vale a dire i principi sanciti dalla Costituzione del 78, stravolti dalle élite oligarchiche che hanno usurpato il potere). Da notare però che il patriottismo di Podemos (ritagliato sul modello delle rivoluzioni latinoamericane), al pari della rivendicazione della sovranità nazionale e popolare, non arrivano a mettere in questione l’appartenenza all’Unione Europea, restando nei binari dell’europeismo “critico”.

A partire dal 2016, dall’alleanza con IU e dall’affermazione di Iglesias che sancisce la fine della fase populista, il linguaggio subisce una torsione in senso anticapitalista. Si abbandona il termine casta che viene sostituito dal termine trama (un concetto coniato da Manolo Monereo che sintetizza il complesso intreccio fra oligarchie economiche, politiche e mediatiche). Inoltre si passa da un discorso che presenta Podemos come candidato a riparare i guasti della crisi e delle politiche neoliberiste e a colpire la corruzione, più che a inseguire trasformazioni rivoluzionarie, alla definizione di un programma politico che, se non rivoluzionario, è assimilabile a quello di una socialdemocrazia radicale: transizione energetica e nuovo modello produttivo, reindustrializzazione, finanziamenti per la modernizzazione tecnologica, riforma fiscale, costituzione di una banca nazionale interamente pubblica, abolizione dell’articolo costituzionale che sancisce l’obbligo della parità di bilancio. Un programma radicale che continua tuttavia a essere affiancato da una retorica rassicurante che rappresenta Podemos come una forza responsabile e matura, pronta ad assumere ruoli di governo.

Sul piano organizzativo è interessante notare – anche se gli autori non sottolineano tale aspetto – come Podemos, fatte salve le differenze ideologiche, presenti notevoli somiglianze con l’M5S. Pur ereditando dalle sinistre “partecipative” un’ideologia orizzontalista e antigerarchica, la prassi organizzativa di Podemos è di tutt’altro tenore: la forte centralizzazione della leadership resta una costante lungo tutta la storia del partito, mentre l’articolazione territoriale, basata sui circoli, non ha mai svolto un ruolo determinante. In questo senso, mi pare esitano evidenti analogie sia con le “fabbriche di Niki” (che furono accantonate dopo avere contribuito al trionfo elettorale di Vendola) sia con i Meetup grillini (progressivamente scomparsi dall’orizzonte della vita politica dell’M5S). In altre parole, Podemos è un caso tipico di partito leggero e verticale, un modello comune nella fase di personalizzazione e mediatizzazione della politica che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Per iscriversi basta inviare una mail e una copia del documento di identità. Questa scarsa impegnatività ha fatto sì che gli iscritti sfiorino oggi il mezzo milione; si tratta di persone che non sono né attivisti né militanti, per cui rappresentano una fetta di elettorato piuttosto che una “base” classica (Campolongo e Caruso li definiscono “una base estroflessa”, che entra in contatto con i vertici attraverso i media, cioè con una relazione di tipo top down, piuttosto che partecipando alla vita del partito). 

Quanto ai militanti, quelli che una volta venivano definiti quadri intermedi, va detto che costoro hanno ben poche opportunità di “pesare”, visto che i circoli non dispongono di strumenti con cui contribuire alle decisioni interne, le quali vengono prese (o meglio ratificate) attraverso consultazioni basate sulla dimensione comunicativa. Dimensione che attualmente poggia sulla piattaforma Plaza Podemos (un equivalente della piattaforma Rousseau dell’M5S, di cui riproduce la sproporzione fra le centinaia di migliaia di iscritti e le poche migliaia di votanti). L’organo sovrano del partito è l’Assemblea cittadina che elegge gli organi esecutivi, cioè il segretario e il Consiglio cittadino (81 membri). Quest’ultimo nomina a sua volta – su proposta del segretario – un esecutivo di 10-15 membri, che è il gruppo dirigente reale. Malgrado i propositi di democratizzazione enunciati nel corso dell’Assemblea di Vistalegre 2 (2016), questa struttura verticistica non ha subito a tutt’oggi sostanziali modifiche.

Anche la composizione socioculturale dell’elettorato è simile a quella della sinistra radicale (non solo spagnola ma di tutto il mondo occidentale): Podemos offre rappresentanza soprattutto alle esigenze e ai valori delle classi medie colte e in particolare dei loro strati giovanili. Ed è, anche, un partito che raccoglie consenso nei centri urbani assai più che in provincia. Benché Campolongo e Caruso non enfatizzino queste caratteristiche (che sono un fenomeno comune a tutto il mondo occidentale, come hanno messo in luce molti ricercatori  – fra cui Thomas Piketty (1) – e che certificano una inversione sociologica fra elettorati di destra e sinistra) i dati che loro stessi snocciolano parlano da soli: il partito è votato soprattutto da studenti e lavoratori qualificati (con prevalenza degli appartenenti alla “classe creativa”) mentre pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta costantemente indietro rispetto al Psoe. Nel 2016 risulta il più votato nelle classi medio alte e si piazza al secondo posto nella classe media; nel 2019 ottiene il 16,4% dei voti delle classi medio alte e il 14,4% di quelli della nuova classe media; il livello di consenso si abbassa in maniera direttamente proporzionale al livello di istruzione e al calare del numero di abitanti delle città in cui si vota. Per dirla in breve: l’esperimento populista, cioè il progetto originario di costruire una maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale si può dire fallito. Si può invece sostenere che l’obiettivo di dare vita a una sinistra radicale capace di operare efficacemente nel mutato contesto economico, politico, sociale e culturale in cui ci troviamo a vivere dopo decenni di controrivoluzione liberista sia riuscito? A questa domanda io e gli autori diamo risposte diverse, come vado ora a spiegare .


Capitoli 1, 8 e 9. Ovvero: se il nuovo somiglia al vecchio 

Parto da una premessa che mi accomuna ai due autori: se per populismo intendiamo una serie di fenomeni quali la polarizzazione manichea fra quelli di sotto e quelli di sopra, la personalizzazione della leadership, la centralità della comunicazione (e in particolare della comunicazione mediatica), le strutture partitiche leggere, la semplificazione del linguaggio ecc. allora occorre ammettere che populista non è oggi questo o quel partito, né tantomeno una particolare ideologia politica, bensì il campo politico nel suo complesso, che è venuto assumendo tali caratteristiche a seguito delle profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali dell’ultimo mezzo secolo. Nei miei ultimi lavori (2) ho cercato di andare oltre questo livello fenomenico superficiale, avanzando la tesi che il populismo sia la forma che assume il conflitto sociale e politico in un’epoca in cui le classi sociali hanno subito un processo di destrutturazione identitaria. Il passo successivo consiste nel domandarsi se esista un populismo di sinistra e come lo si possa caratterizzare. 

Campolongo e Caruso ricordano che il concetto è emerso in riferimento ai movimenti latinoamericani degli ultimi decenni, il che è corretto dal punto di vista terminologico ma non basta, dal momento che quei movimenti presentano caratteristiche diverse. Dal mio punto di vista, la discriminante decisiva consiste nel capire se esista un progetto rivoluzionario che – lucidamente e consapevolmente – si proponga di attraversare/utilizzare la forma populista del conflitto per proiettarlo verso obiettivi più avanzati, comunque li si voglia definire (post neoliberismo, socialdemocrazia radicale, socialismo). E’ questo il caso di Podemos? Mi pare che Campolongo e Caruso propendano per il sì, e la svolta del 2016, allorché Iglesias dichiara esaurita la fase populista e enuncia obiettivi programmatici più avanzati, sembrerebbe confortarne il giudizio. Io ritengo invece che, malgrado quella svolta, Podemos sia rimasto impigliato in una logica che gli ha impedito di compiere il salto di qualità. Cercherò ora di spiegare perché.

I danni collaterali del comunicazionismo 

Il medium è il messaggio, recitava McLuhan (3), una formula che è stata spesso liquidata come un paradosso vagamente criptico e provocatorio, dal quale si è raramente tentato di estrarre il reale significato. Semplificando drasticamente, si può affermare che il grande studioso canadese voleva dire che le tecnologie di comunicazione non sono “strumenti” neutri che veicolano i contenuti desiderati da chi li maneggia ma, al contrario, condizionano pesantemente, non solo la forma dei messaggi, bensì i loro stessi contenuti. Assumere lo spazio mediatico come terreno strategico della propria prassi politica, al punto di autodefinirsi (vedi sopra) un partito-televisione, è una scelta che ha precise implicazioni a svariati livelli. In primo luogo, vuol dire dare per scontata la dimensione di campagna elettorale permanente che, come osservano Campolongo e Caruso, è strutturalmente associata a una sfera pubblica ipermediatizzata. Questa dimensione non si lascia “usare”, impone scelte precise a chi ne accetta le regole: progressiva atrofia della capacità (e persino della volontà) di elaborare un pensiero strategico; le elezioni come orizzonte prevalente, se non esclusivo, della propria azione politica; deficit organizzativo (se non si investe nei circoli non è tanto e solo frutto di un’ideologia verticistica, ma la conseguenza del fatto che essi sono meno funzionali dei canali mediatici allo scopo di influenzare gli orientamenti dell’elettorato);  il deficit in questione impedisce di acquisire una conoscenza concreta e reale dei soggetti sociali e dei territori, per cui il “gentismo” smette di essere una tattica di comunicazione per ottenere il consenso più ampio possibile, e diventa progressivamente l’unico modo in cui si immagina e ci si rappresenta il proprio referente sociale. Se si evita di enfatizzare la contrapposizione di classe, andando in cerca di forme di identificazione più ampie, non è tanto e solo perché si ritiene che oggi le linee di frattura siano altre, come la contrapposizione fra “i vinti e i vincitori della globalizzazione”, ma perché non si dispone di adeguati strumenti di indagine teorica ed empirica per analizzare la nuova composizione di classe, che la sparizione delle tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale ha reso letteralmente invisibile.

Gramsci a testa in giù

Campolongo e Caruso definiscono gramsciana la cultura politica di Podemos. Dissento. Il pensiero cui essa fa riferimento è quello di un Gramsci “rivisitato” dai dipartimenti di cultural studies e gender studies delle università occidentali (ma anche dagli atenei degli altri continenti in cui si coltivano i post colonial studies) ai quali si deve una vulgata che ha trasformato il fondatore del Partito Comunista Italiano in un soggetto immaginario che avrebbe avuto poco da spartire con il marxismo (per tacere del leninismo). Questa arbitraria trasfigurazione si basa soprattutto sui concetti di egemonia e di senso comune: nelle pagine che Gramsci dedica alla lotta controegemonica per la conquista del senso comune si è infatti voluto vedere, non un riequilibrio fra i concetti di struttura e sovrastruttura, che le versioni meccaniciste del marxismo interpretano nel senso di un determinismo assoluto della prima sulla seconda, bensì il rovesciamento totale del loro rapporto gerarchico. Del resto, per introdurre il principio di autonomia del politico nella cassetta degli attrezzi della teoria marxista, non si era dovuto attendere Gramsci, il quale, non a caso, definì la Rivoluzione d’Ottobre come una rivoluzione contro il Capitale, riferendosi alla “eresia” di Lenin che aveva rinnegato la teoria (prevalente nella II Internazionale) in base alla quale la rivoluzione socialista è possibile solo nei Paesi a capitalismo avanzato, rimpiazzandola con il principio di attacco all’anello più debole della catena, cioè alle condizioni di estrema debolezza di un sistema politico, istituzionale e culturale e non solo di crisi socioeconomica. Quanto al mito di un Marx “economicista”, determinista e cieco nei confronti del peso delle ideologie nel processo storico, questa idiozia è stata definitamente liquidata da un gigante del marxismo come Gyorgy Lukacs (4).


Tornando a Podemos, va precisato che, se Gramsci è diventato un punto di riferimento teorico, lo si deve soprattutto alla rilettura che ne ha fatto il filosofo argentino Ernesto Laclau che, come già ricordato, è l’ispiratore del progetto originario di Podemos. E la visione di Laclau, dopo il suo abbandono del marxismo, è appunto fondata sui paradigmi del pensiero strutturalista e poststrutturalista di cui sopra (cioè sulla “svolta linguistica” delle scienze sociali). Podemos non ha mai avuto uno stato maggiore teorico di peso: Iglesias è un animale politico e uno straordinario comunicatore, non una mente teorica, diversamente da Inigo Errejon, Monedero e Manolo Monereo. Gli ultimi due si sono lateralizzati in fasi diverse della vita del partito (per inciso, Monereo è il solo che avrebbe potuto indurre una vera svolta gramsciana nella cultura di Podemos, ma ha pagato lo scotto di essersi opposto al patto di governo con il Psoe), viceversa Errejon, prima di allontanarsi, ha indubbiamente giocato un ruolo importante come trait d’union fra le teorie di Laclau e la prassi del partito. Per completare questo inciso dovrò compiere altri tre passi: rimarcare la distanza fra i concetti di Laclau e Gramsci, anche laddove apparentemente coincidono; mettere in luce l’arretramento che la visione di Errejon rappresenta rispetto allo stesso Laclau; ridimensionare l’enfasi sulla somiglianza fra movimenti latinoamericani e Podemos. 

Laclau parla di catena equivalenziale, riferendosi alle domande che diversi gruppi sociali rivolgono a un sistema incapace di dare loro risposta e alla possibilità che queste domande possano trovare un minimo comun denominatore, aggregandosi attorno a nucleo simbolico comune, cioè a una domanda che divenga egemone rispetto a tutte le altre, finendo per rappresentarle tutte. La natura di classe dei soggetti che esprimono tali domande è irrilevante (anzi: mettere l’accento sul loro carattere di parte sarebbe di ostacolo alla costruzione del popolo come soggetto politico unitario) e l’egemonia in questione ha un carattere puramente retorico discorsivo. Nulla di simile in Gramsci, che parla semmai di costruzione di un blocco sociale in cui le identità di classe sono decisive (nel senso che la direzione politica del blocco spetta al proletariato e alle sue organizzazioni, che possono accettare mediazioni e compromessi con altre classi, ma senza rinunciare mai ai propri obiettivi strategici) e che, pur concependo a sua volta il contropotere egemonico come lotta per il senso comune, concepisce la retorica nazional popolare come strumento al servizio degli interessi di classe. Detto in altre parole: Gramsci appartiene, piaccia o no, al campo marxista, mentre Laclau appartiene al campo linguistico-strutturale. Naturalmente è sempre possibile “trapiantare” singoli concetti da un campo all’altro, ma solo al prezzo di svuotarli del significato originario. Ciò detto, ho sempre affermato (5) che a Laclau vanno riconosciuti due meriti importanti: 1) l’avere definito il “momento populista” come espressione di una domanda di democrazia radicale rivolta a sistemi politici che non possono più esaudirla; 2) l’avere definito il popolo come il prodotto di una costruzione politica, e non come un’entità fondata su sangue suolo e tradizioni consolidate. 

Secondo passo. Errejon, in  sintonia con l’evoluzione del pensiero di Chantal Mouffe successiva alla morte di Laclau (6) – Errejon e Mouffe sono non a caso legati da un rapporto di e amicizia e stima reciproca (7) -, ha impresso al discorso di Laclau una torsione che ne ha neutralizza il potenziale antisistemico. Se Laclau pensava che gli attuali sistemi liberali non sono in grado di offrire risposta alle domande di democrazia radicale, per cui la contraddizione fra popolo ed élite è antagonista, il duo Errejon Mouffe rivendica viceversa la possibilità di restaurare un contesto liberal democratico in cui queste domande possono trovare risposta. Ne discende che la contraddizione fra popolo ed élite non è più di carattere antagonistico bensì agonistico. Il che alimenta il dubbio che le continue rassicurazioni con cui Podemos rigetta l’accusa di essere una forza antisistema non siano un semplice espediente tattico (vedi più avanti l’accusa rivolta alle élite di essere i “veri” sovversivi).

Laclau e Mouffe


Infine (terzo passo) vengo ai legami con le rivoluzioni bolivariane (che la destra ha sistematicamente sfruttato per accusare Podemos di essere al servizio dei regimi socialisti latinoamericani). Posto che è indubbio che molti dirigenti di Podemos abbiano svolto il ruolo di consulenti per quei governi, esiste un solo Paese con cui possano essere stabilite sostanziali analogie, ed è l’Ecuador di Raphael Correa (8). Come è avvenuto per Podemos, il progetto della Revolucion Ciudadana (vedi più avanti il paragrafo sul “cittadinismo”) è concepito a tavolino da un gruppo di docenti universitari (che lavorano alla Flacso di Quito). Costoro convincono un personaggio pubblico già noto e popolare (Correa è un economista che aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, ed è persona dotata di grande talento comunicativo) a presentarsi alle elezioni presidenziali. Correa vince al primo colpo (ciò che anche Podemos, come si è visto, si era illuso di poter fare). E come Podemos non nasce come prolungamento organizzativo del 15M, allo stesso modo Correa costruisce una sua macchina elettorale che non si lega né ai tradizionali partiti di sinistra, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani. Anzi, con questi soggetti, una volta conquistato il potere, avrà conflitti frequenti e anche duri, accusandoli di essere portatori di interessi “corporativi” (cioè di classe o comunque di parte) e di sabotare la realizzazione del bene collettivo. 

Raphael Correa


Del tutto diverso, per fare un controesempio, il percorso della rivoluzione boliviana, che ha assunto fin dall’inizio una chiara connotazione socialista e di classe, ancorché atipica, nel senso che in questo caso l’identità etnica e di classe coincidono in larga misura (il 70% della popolazione è di origine india e rappresenta la quasi totalità della classe contadina e una quota maggioritaria della classe operaia e del sottoproletariato urbano). L’ex vicepresidente Alvaro G. Linera nei suoi libri (9) ha descritto queste particolarissime condizioni argomentando, fra l’altro, che le comunità originarie indigene (che non conoscono proprietà privata e incarnano una sorta di comunismo primitivo) nella misura in cui lottano contro i tentativi di colonizzazione da parte del mercato, rappresentano a tutti gli effetti una classe antagonistica nei confronti del capitale. Ai loro movimenti è spettata l’egemonia (simboleggiata dall’elezione di Evo Morales, leader dei cocaleros e primo presidente indio della storia) sul processo rivoluzionario – egemonia che non si è esercitata attraverso la comunicazione mediatica bensì attraverso i loro consigli di autogestione democratica (cabildos), che hanno organizzato anche le lotte degli altri soggetti sociali coinvolti nel movimento. Mi pare di poter concludere dicendo che, oggi come oggi, Gramsci (e Mariategui, che è stato l’araldo del suo pensiero in America Latina) sono più di casa a La Paz che a Madrid.


I margini di ambivalenza sono esauriti  

Nell’ultima parte del libro gli autori avanzano due ipotesi teoriche con cui tentano di inquadrare l’esperienza di Podemos, e più in generale il fenomeno dei populismi di sinistra, in una prospettiva storica più ampia. La prima si fonda sul presupposto in base al quale il tratto determinante dell’attuale dinamica politica economica e sociale dei paesi occidentali sarebbe l’ambivalenza. Mi sono già misurato criticamente (10) con questa categoria in lavori in cui ho polemizzato con l’analisi post operaista degli effetti socioeconomici delle nuove tecnologie digitali: gli autori appartenenti a quel campo teorico, mentre ammettono che la rivoluzione digitale – dopo avere generato illusioni in merito al suo possibile impulso a processi di democratizzazione dell’economia e della politica – ha finito al contrario per favorire concentrazione monopolistica, decentramento produttivo, maggiore sfruttamento e precarizzazione della forza lavoro, sostengono tuttavia che le tecnologie in questione conservano ampi margini di ambivalenza, nel senso che lascerebbero tuttora aperta la possibilità di sviluppi democratizzanti. 

Campolongo e Caruso estendono questo punto di vista alludendo all’opposizione fra un “polo regressivo oligarchico” e un “polo partecipativo mobilitante”. Il primo coincide con la realtà che tutti abbiamo sotto gli occhi: da un lato, un sistema politico “postdemocratico”, che riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni rappresentative mentre rafforza il potere dell’esecutivo, e neutralizza la capacità dei cittadini di contribuire alla formazione delle decisioni politiche; dall’altro lato, i processi di finanziarizzazione e globalizzazione economica che hanno concentrato risorse e potere decisionale nelle mani di un ristrettissimo gruppo di persone. Il secondo polo, scrivono, va in direzione apparentemente (qui l’avverbio è decisivo!) opposta, nel senso che si diffonde una retorica sempre più pervasiva che inneggia alla orizzontalità, alla partecipazione dal basso e alla democrazia diretta, nonché alla disintermediazione dei rapporti fra vertici e base attraverso l’uso della Rete (cavallo di battaglia dell’M5S) e che contrappone la società civile e i movimenti sociali ai partiti tradizionali - per inciso, ricordo che uno dei massimi teorici di questa “democrazia del controllo”, che subentrerebbe alla lotta per il potere, è Pierre Rosanvallon (11). 

Campolongo e Caruso ammettono (al pari dei teorici post operaisti) che il dispositivo oligarchico ha gioco facile nell’integrare queste istanze, sfruttandone le retoriche e le pratiche orizzontaliste per indebolire ulteriormente le assemblee legislative e per neutralizzare la negoziazione fra le parti sociali e i rispettivi interessi contrapposti. E tuttavia (ancora al pari dei teorici post operaisti) sostengono che fra i due poli ci sarebbe anche contraddizione - e fin qui posso essere d’accordo - e, sia pure in misura limitata, incompatibilità - e qui il disaccordo è radicale. Personalmente ritengo infatti che, come hanno ampiamente dimostrato i lavori di Boltanski e Chiapello (12) e di Dardot e Laval (13) il dispositivo della ragione liberale (14) sia riuscito a incorporare senza residui, e a rendere totalmente funzionali ai propri obiettivi economici e politici, queste spinte “libertarie” che potremmo definire come una sorta di onda lunga del 68 e dei successivi movimenti sociali (per essere onesti, gli stessi Campolongo e Caruso riconoscono che le forme di azione collettiva che agiscono secondo questa linea di ambivalenza sono sempre a rischio di essere riassorbite, nella misura in cui il primo polo è sempre egemonico). 

Uno dei tratti distintivi di queste convulsioni libertarie è il “cittadinismo”. Infatti i movimenti come il 15M, le Mareas, Occupy Wall Street o i gilet gialli eleggono il cittadino a soggetto privilegiato delle proprie rivendicazioni “antisistema” (o meglio antipolitiche e antipartitiche, nel senso che in nessuno di questi casi il bersaglio sono i rapporti sociali di produzione). Ma il cittadinismo, che in Italia ha trovato la sua espressione massima nel M5S prima che il movimento divenisse forza di governo, è un tratto condiviso, come si è visto, anche dalla retorica di Podemos, tratto che non mi pare sia stato superato nemmeno dopo la svolta di sinistra. Il che ci conduce alla seconda ipotesi teorica di Campolongo e Caruso. 


Neogiacobini o neoborghesi?

I due autori propongono una periodizzazione storica articolata su tre cicli. Il primo va dalla Rivoluzione del 1789 (in realtà viene fatto partire qualche decennio prima) alla Comune di Parigi (1871), ed è caratterizzato dalla rivendicazione della sovranità popolare e dalla “frattura democratica”; inoltre dà origine all’idea di nazione democratica, che include le idee del riconoscimento dei diritti umani e della partecipazione politica di tutti i cittadini ed è fondata sulle categorie del cittadino, della nazione, del popolo e della volontà generale. Il secondo va dal 1871 al 1980, ed è caratterizzato dalla frattura di classe, oltre ad assumere come valore fondante la rivendicazione di uguaglianza. Quello che va dal 1980 ad oggi sarebbe dunque il regno dell’ambivalenza di cui sopra, dell’opposizione fra polo oligarchico e polo partecipativo, ma soprattutto sarebbe caratterizzato dal ritorno della frattura democratica. Visto da questa prospettiva l’esperimento politico di Podemos assumerebbe una coloritura “neogiacobina”. I giacobini, scrivono Campolongo e Caruso, hanno inventato il modello germinale del partito di massa ma, al tempo stesso, si opponevano alla parzialità, alle fazioni che dividono il popolo e alla politicizzazione degli interessi particolari. Podemos, dopo una fase populista/giacobina, ha recuperato le sue radici di sinistra senza rinnegare del tutto la fase precedente, approdando quindi a quello che gli autori definiscono un “discorso di classe senza classe”: la  lotta per difendere gli interessi delle classi subalterne passa dal ritorno ai fondamenti stessi della democrazia, mentre le élite vengono accusate di essere i “veri” sovversivi, cioè coloro che vogliono sovvertire l’ordine democratico “originario”. 

Premesso che considero opinabile e arbitraria la periodizzazione storica appena descritta, e premesso che non condivido il giudizio implicitamente positivo degli autori su questo approdo del tormentato percorso evolutivo di Podemos, ritengo tuttavia che la loro ipotesi contenga un nucleo di verità che abbozzerò brevemente qui di seguito, riservandomi di tornare sul tema in altra sede. L’evoluzione del sistema capitalistico successiva alla controrivoluzione liberista ha determinato la progressiva marginalizzazione delle borghesie tradizionali – relegate in posizioni subalterne tanto in campo economico che politico - da parte di un’oligarchia internazionale che controlla finanza, settori industriali di punta, media, università, ruoli istituzionali strategici, ecc. ecco perché non mi pare azzardata l’ipotesi che tutti i movimenti populisti contemporanei siano espressione di – o almeno siano egemonizzati da – quei settori di borghesia che hanno subito processi di emarginazione e indebolimento. Le loro differenti coloriture ideologiche rispecchiano gli interessi, i bisogni e le aspettative di differenti strati delle classi in questione (differenze relative sia ai livelli di reddito che a quelli culturali: per es. imprenditori versus professionisti ecc.) Ritengo che il giudizio sia applicabile anche alle cosiddette sinistre radicali e, a giudicare dalla composizione socioculturale del suo elettorato (vedi sopra), anche a Podemos. Le lotte della borghesia sette/ottocentesca erano lotte progressive che proiettavano una classe emergente alla conquista del potere, quelle delle borghesie di oggi sono lotte di retroguardia, tentativi dei pronipoti ed eredi di quella tradizione rivoluzionaria di conservare un minimo peso decisionale in un sistema che le sta inesorabilmente esautorando. Giacobini e neogiacobini possono forse condividere le rivendicazioni di democrazia e sovranità popolare, ma la democrazia di cui parlano non è la stessa: quella originaria era reale (almeno per gli appartenenti a una certa classe), quella attuale è un miraggio, nella misura in cui il divorzio fra liberalismo e democrazia, come argomenta Streeck (15) è ormai irreversibile. Il primo ha vinto, la seconda è morta e sepolta e può essere rimpiazzata solo da forme politiche del tutto nuove. 

Qual è il ruolo delle classi subalterne in tale contesto? Nei paesi occidentali è oggi azzerato, nella misura in cui decenni di ristrutturazione capitalistica, di smantellamento delle loro organizzazioni sindacali e politiche, di destrutturazione identitaria, le hanno rese letteralmente invisibili. La rabbia e la frustrazione che accumulano si esprimono attraverso comportamenti elettorali schizofrenici e/o attraverso l’adesione a movimenti populisti di destra (soprattutto) e di sinistra (meno) in cui restano costantemente sotto l’egemonia del ribellismo borghese di cui sopra, in cui fungono cioè da massa di manovra di quelli che Gramsci definirebbe tentativi di rivoluzione passiva. Il fatto che siano invisibili, tuttavia, non vuol dire che non esistano più. Il compito prioritario di un populismo di sinistra dovrebbe essere precisamente quello di renderle nuovamente visibili, creando gli strumenti culturali e organizzativi perché possano a ridare voce ai loro interessi di parte, invece di venire mobilitati per inesistenti “interessi generali”. 

La svolta del 2016 aveva alimentato anche in me l’illusione che Podemos potesse svolgere tale ruolo. Mi sbagliavo. E non perché il programma di Podemos è quello di una socialdemocrazia radicale (al contrario trovo che questo sia l’unico aspetto positivo, visto che quegli obiettivi sono i soli praticabili dato l’attuale rapporto di forze), ma perché il suo discorso politico continua a mischiare la retorica “cittadinista” con l’eredità libertaria e orizzontalista dei movimenti post sessantottini (femminismo, diritti civili e individuali, ecc.), un discorso che appare tagliato su misura per la media borghesia colta e creativa mentre suona estraneo, se non ostile, alle orecchie degli invisibili. Per tacere della scelta di ritrovarsi incastrati in un governo che ribadisce in ogni occasione la propria fedeltà europeista e atlantica, il che non è problema di poco conto, visto che l’Occidente è impegnato in una nuova guerra fredda contro Russia, Cina e tutti i Paesi socialisti (compresi i governi bolivariani che hanno inspirato la nascita di Podemos).


Postilla su redistribuzione e riconoscimento

Oltre a Laclau, un altro nume tutelare della cultura di Podemos è la filosofa femminista americana Nancy Fraser. A questa autrice va riconosciuto il merito di aver offerto un originale contributo alla critica marxista dell’economia capitalistica, e di avere preso le distanze dalle correnti mainstream del femminismo che si sono alleate al liberalismo. Questa alleanza, che ha generato quel neoliberismo “progressista” che è in larga misura responsabile del rigetto delle classi subalterne nei confronti delle sinistre, le quali ne hanno fatto il proprio marchio distintivo, è il prodotto della transizione dal femminismo della prima ondata – che aveva esteso la critica del capitalismo dalla sfera produttiva a quella riproduttiva – al femminismo della seconda ondata, che si è lasciato trascinare nell’orbita delle politiche identitarie, e ciò proprio nel momento in cui il neoliberismo dichiarava guerra all’uguaglianza sociale; di qui un esito tragicamente ironico. <<Invece di approdare a un paradigma più ampio e ricco, che abbracciasse sia la ridistribuzione che il riconoscimento, le femministe abbandonarono un paradigma monco per un altro, dall’economicismo al culturalismo>> (16). 

La questione cui voglio accennare in questa postilla, senza avere la pretesa di sviscerarne le complesse implicazioni, si riferisce a quel “paradigma più ricco, capace di abbracciare sia la ridistribuzione che il riconoscimento” cui allude la Fraser. Ciò che intende emerge dai suoi confronti con autori come Axel Honneth e Rahel Jaeggi (17), dai quali si evince che Fraser, pur criticando le posizioni ideologiche del femminismo “emancipazionista”, rifiuta di ammettere che il capitalismo contemporaneo non ha più alcun legame con la cultura patriarcale e che, al contrario, è nel suo interesse sbarazzarsi quanto prima di questo residuo del passato, promuovendo il più rapidamente possibile l’integrazione delle donne nel sistema, sia femminilizzando il lavoro, sia elevando il maggior numero possibile di donne a ruoli direttivi in economia, in politica e nella società. Ecco perché sostiene la necessità di “bilanciare” il peso fra istanze di riconoscimento e istanze di ridistribuzione. Il guaio è che questo messaggio non suona alle orecchie delle sinistre radicali come un invito a recuperare attenzione per quelle lotte sociali che da anni hanno espunto dalla propria lista di priorità, suona invece come un invito a premere ancor più l’acceleratore sul fronte delle lotte per il riconoscimento dei diritti individuali e dei gruppi portatori delle più disparate identità culturali, sessuali, ecc. Mi pare che Podemos non faccia in questo senso eccezione (basti pensare alla grottesca esibizione di politically correctness che ha dettato il cambiamento del nome del partito in Unidas Podemos). Non mi sembra quindi tanto paradossale il fatto che il partito, malgrado la sua professione di fede femminista, raccolga scarsi consensi fra le donne che appartengono ai ceti inferiori e meno scolarizzati. Credo si spieghi con qualcosa di simile alla diffidenza che induce le donne dei movimenti indigenisti boliviani a definire señorial il femminismo delle “sorelle” bianche che appartengono alla media borghesia creola.


Note

(1) Cfr. T. Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020.

(2) Vedi, in particolare, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.

(3) Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967.

(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dall’essere sociale, Pgreco, Milano 2012 (4 voll.).

(5) Cfr. opp. citt

(6) Laclau e Mouffe erano notoriamente legati da uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione, oltre che coautori di varie opere. Ma gli scritti recenti della Mouffe (cfr. For a Left Populism, Verso, London-New York 2018) introducono significative novità rispetto al pensiero di Laclau.

(7) Cfr. I. Errejon, C. Mouffe, Construir Pueblo, Icaria, Barcellona 2016.

(8) Sulla Revolucion Ciudadana di Correa cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaca Book, Milano 2014.

(9) Cfr. A. G. Linera, La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros, Buenos Aires 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.

10) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011 e Utopie letali, Jaca Book, Milano 2013. 

(11) Cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013. 

(12) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(13) P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2017.

(14) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2019.

(15) W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013. 

(16) Cfr. N. Fraser, Fortunes of feminism, p. 4 dell’edizione elettronica (traduzione mia).

(17) Cfr. N. Fraser. A. Honneth, Ridistribuzione o riconoscimento? Meltemi, Milano 2007; vedi anche N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

   


     

     


mercoledì 24 febbraio 2021


 

ESISTONO SCENARI ALTERNATIVI ALLO STATO DI COSE PRESENTE? DIECI AUTORI CERCANO DI RISPONDERE 

 

Qui di seguito anticipo la mia Introduzione al volume collettaneo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro", che sarà in libreria il prossimo 11 marzo per i tipi di Meltemi.    

Introduzione

di Carlo Formenti

Il progetto di questo libro è nato nell’autunno del 2019 da uno scambio di idee fra Pierluigi Fagan, Piero Pagliani e il sottoscritto. Fagan ci ha segnalato La grande regressione, un volume collettaneo del 2017 a cura di Heinrich Geiselberger (pubblicato in italiano da Feltrinelli) che raccoglieva 14 interventi di vari autori (fra cui Arjun Appadurai, Zygmunt Bauman, Nancy Fraser, Bruno Latour e Slavoj Zizek) invitati a fare il punto sullo “stato del mondo” dopo le crisi che lo hanno investito dall’inizio del nuovo millennio. Per quanto interessante, questa rassegna ha un limite: tutti i contributi analizzano da diversi punti di vista la crisi, ma senza prospettare possibili vie d’uscita, quasi gli autori si limitassero a ripetere il detto di Gramsci che recita “il vecchio muore ma il nuovo non può ancora nascere”. Perciò ci siamo chiesti perché non compiere un passo ulteriore, immaginando possibili scenari alternativi allo stato di cose presente, senza scadere in sterili esercizi di futurologia. Dopodiché abbiamo iniziato a cercare interlocutori disposti a condividere il rischio dell’impresa.

Tradurre quella suggestione nel prodotto editoriale che avete in mano non è stato compito banale. La pandemia del Covid19 ha reso più complicato trovare compagni di avventura e distribuirci gli argomenti da affrontare, ma soprattutto ha rallentato lo scambio di idee e informazioni nel corso della stesura dei contributi, obbligandoci a interagire esclusivamente attraverso i canali virtuali. Devo dire che, anche considerati questi intralci, il risultato è andato aldilà delle mie previsioni, nel senso che, dai dieci scritti che vi apprestate a leggere, mi pare emerga un quadro abbastanza coerente delle tendenze di fondo che potrebbero caratterizzare i prossimi decenni. Ovviamente non mi azzardo a sostenere che qui troverete un’anticipazione veritiera e attendibile di ciò che ci aspetta. Prevedere il futuro è impresa al limite dell’impossibile e, visto che è difficile che chi ci prova non nutra – magari inconsapevolmente - idee precise in merito all’auspicabilità di certi sviluppi rispetto ad altri, è inevitabile che, per quanto ci si sforzi di restare nei limiti di un’analisi rigorosa della realtà e dei potenziali sviluppi che essa sembra contenere, non si potrà evitare di proiettare, in maggiore o minore misura, i propri desideri sull’oggetto dell‘indagine. 

Ciò premesso, non è un caso se questo volume trova collocazione nella collana “Visioni eretiche”, che chi scrive dirige da qualche anno per l’editore Meltemi. Non solo perché cinque degli “eretici” qui raccolti (Manolo Monereo, Onofrio Romano, Alessandro Visalli e Andrea Zhok, oltre al sottoscritto) vi hanno da poco pubblicato alcuni loro lavori, ma anche perché il pensiero degli altri cinque (Pierluigi Fagan, Carlo Galli, Piero Pagliani, Raffaele Sciortino e Alessandro Somma) non è meno lontano dal pensiero unico che da anni imperversa nelle aule universitarie, sui media e nelle élite politico-culturali del nostro come di altri Paesi occidentali. Il che non implica che i discorsi che troverete qui appartengano a un’unica area ideologica, né tanto meno che siano omologabili a un unico approccio teorico, metodologico o disciplinare. Anzi, è proprio perché sono espressione di punti di vista diversi (fra gli autori vi sono filosofi, sociologi, costituzionalisti, logici, politologi, dirigenti politici, esperti di geopolitica) che sorprende il relativo tasso di coerenza del quadro previsionale cui accennavo poco sopra. 

Prima di avere in mano tutti i manoscritti avevo immaginato – sulla base degli argomenti che mi erano stati anticipati - di distribuire il materiale in tre sezioni tematiche (socioeconomica, sociopolitica e geopolitica) ma, una volta che ho potuto disporre dell’intero pacchetto, mi sono reso conto che la maggior parte dei contributi avevano un approccio trasversale, per cui risultava difficile costringerli in quella griglia. Ho quindi preferito ordinare gli articoli in un’unica sequenza, seguendo l’ordine alfabetico degli autori. Per offrire una chiave di lettura unitaria dell’opera, questa Introduzione è stata costruita in modo da evidenziare i cinque fili rossi che, a mio parere, attraversano in diversa misura tutti i contributi: crisi della globalizzazione neoliberista; scenari geopolitici; impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa populista; verso un mondo post neoliberale; prospettive socialiste per il secolo XXI. Infine, nei passaggi in cui rilancio idee e concetti di uno o più autori, ne segnalo fra parentesi i nomi. In questo modo il lettore può scegliere a quali articoli dare la precedenza (è raro che si legga un volume collettaneo tutto di seguito, seguendo pedissequamente la sequenza dei testi).    

1. Crisi della globalizzazione neoliberista
Mi pare si possa affermare che nei vari articoli questo thread tematico viene affrontato da tre punti di vista: a) natura eminentemente politica del regime neoliberista, da analizzare come esito di un consapevole progetto di attacco capitalistico ai rapporti di forza delle classi subalterne; b) critica radicale dell’idea secondo cui il ruolo degli stati nazione sarebbe superato dalla internazionalizzazione dei flussi di capitali, merci e persone; c) incidenza della crisi pandemica su un processo di de globalizzazione già in atto.

a) il sistema neoliberale nato dalla rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta è studiato per “affamare la bestia”, per ostacolare l’accesso delle classi subalterne a fonti di reddito garantite attraverso una serie di dispositivi di precarizzazione: i singoli devono essere obbligati a scegliere i propri fini e a procurarsi da soli le risorse per realizzarli, mentre ogni interferenza politica che impedisca o mitighi tale costrizione viene condannata come un abuso, una “deresponsabilizzazione” (Romano). L’intervento statale viene ammesso esclusivamente in casi di grave crisi finanziaria (o economico sanitaria: vedi pandemia in corso) e deve rigorosamente limitarsi ad agire come sostegno collaterale al funzionamento dei mercati competitivi (Zhok). Lo stato è chiamato a tradurre in leggi proprie le leggi del mercato e a utilizzare la concorrenza come strumento di direzione politica delle condotte umane (Somma). Qualsiasi scostamento dalla “normalità” capitalistica è percepito come destabilizzante, come una falla che apre la strada all’ideologia “statalista” rischiando di essere foriera di sviluppi socialisti. La costruzione europea svolge alla perfezione tale compito di sorveglianza/repressione di ogni tentativo di deviazione dalla normalità capitalistica,   spoliticizzando il mercato e neutralizzando il conflitto sociale. In questo senso, la Ue è la realizzazione del sogno di Hayek (1), che auspicava l’avvento di una federazione fra stati come strumento per abbattere tutti gli ostacoli alla libera circolazione dei fattori produttivi, sottraendo alle organizzazioni dei lavoratori il potere di controllare l’offerta dei loro servizi (Somma). Un sogno che certificava la consapevolezza, da parte di questo nume tutelare del pensiero liberale, del fatto che la dimensione nazionale sta alla base del conflitto di classe.

b) La dimensione nazionale non sta solo alla base del conflitto di classe, definisce anche quale posizione una certa sezione delle classi dominanti occupa nei confronti delle altre. Il capitale necessita infatti di quadri giuridici in cui muoversi, ma non è in grado di definirli autonomamente, tale compito spetta allo stato che stipula accordi più o meno favorevoli con gli altri stati secondo la sua potenza, per cui la potenza del capitale sarà proporzionale alla potenza dello stato di origine (Romano). La dimensione spaziale, in barba alla narrazione ideologica che la dà per liquidata grazie alla sua neutralizzazione da parte delle tecnologie di trasporto e di comunicazione, resta ineludibile (Galli). Il campo dei flussi (di capitali, merci e persone) non può emanciparsi se non in misura limitata dal campo dei luoghi (stati, nazioni, sistemi politici) con il quale è costretto a fare i conti perché esso non è solo un limite ma è anche condizione imprescindibile per il processo di accumulazione capitalistica (Pagliani). Potere del Denaro e Potere del Territorio si intrecciano in un rapporto che è fatto al tempo stesso di collaborazione e conflitto e che scandisce le diverse fasi di sviluppo del sistema capitalistico. È per questo che il concetto astratto (il modello idealtipico) di modo di produzione andrebbe rimpiazzato con analisi storiche concrete capaci di distinguere fra epoche e nazioni in cui prevale la logica territoriale ed epoche e nazioni in cui prevale la logica dei flussi, anche se in ciascuna fase storica tende a imporsi la logica sistemica della potenza di volta in volta egemone (Pagliani) (2). 

c) Il quarantennale ciclo neoliberista che ha visto la bilancia pendere a favore del Potere del Denaro a spese del Potere del Territorio, della logica dei flussi rispetto alla logica dei luoghi, è una delle cause fondamentali, se non la causa fondamentale, che ha innescato, dopo la crisi finanziaria del 2008, la crisi pandemica attualmente in corso, nella misura in cui ha favorito un’elevata mobilità di merci e persone, formidabili addensamenti di popolazione (incremento demografico e urbanizzazione) e fenomeni di zoonosi dovuti alle aree sempre più vaste di contatto fra umani e specie animali esotiche (Zhok). Ora la pandemia sembra in grado di alimentare un trend di de-globalizzazione che, tuttavia, era già in atto da tempo, come segnalato dal fatto che il volume degli scambi globali quanto a merci era in costante declino da almeno dieci anni (Zhok, Fagan). Al tempo stesso questa inversione di tendenza non è di per sé in grado di infliggere un colpo mortale alla logica neoliberista, soprattutto perché il freno alla globalizzazione si esercita in modo asimmetrico (meno sui capitali, in misura relativa sulle merci, severo sulle persone) e tende così ad aumentare il potere della finanza sull’economia reale (Zhok). Il che acuisce ulteriormente le contraddizioni sistemiche, già inasprite sia dalla crisi dei “settori spugna” a basso valore aggiunto ed elevato tasso di sfruttamento (spettacolo, turismo, ristorazione, accoglienza, ecc.) che avevano assorbito parte della disoccupazione creata dalla concentrazione monopolistica nei settori strategici (a partire dall’economia digitale cui la crisi pandemica offre un’ulteriore occasione di espansione), sia dalla nuova polarizzazione centro/periferia, che tende ad assumere una configurazione a pelle di leopardo, sia dal fatto che l’inarrestabile processo di urbanizzazione dei decenni precedenti appare sempre più insostenibile (Visalli).

2) Scenari geopolitici
La riflessione geopolitica è presente, sia pure con pesi differenti, in tutti i contributi del libro. Senza pretendere di riassumere in poche righe la complessità delle argomentazioni sviluppate dai vari autori, credo sia possibile evidenziare gli elementi di convergenza che elenco qui di seguito: 

a) Mi pare che in queste pagine ritorni una visione “classica” della geopolitica che, archiviate le interpretazioni “ideologiche” del “grande gioco” figlie della guerra fredda (che torna oggi di attualità dopo la breve parentesi monocratica di incontrastato dominio imperiale nordamericano), cioè le interpretazioni ispirate da un immaginario “scontro di civiltà” fra ideologie universaliste, viene ricondotta al confronto fra attori plurali portatori di interessi geoeconomici e geopolitici in conflitto reciproco (Galli). In alcuni articoli (Galli, Monereo) la dinamica di questo confronto viene analizzata evocando il concetto di Grande Stato. Gli effetti del formidabile processo di concentrazione di risorse finanziarie, tecnologiche, industriali, scientifiche e militari innescato da decenni di globalizzazione fanno sì che solo gli Stati di grandi dimensioni spaziali e demografiche (attualmente Stati Uniti, Cina e Russia, cui in futuro potrebbero aggiungersi India, Brasile e alcuni Stati africani) siano in grado di esercitare contropotere nei confronti sia delle megaimprese transnazionali sia dei propri competitor politici. Accanto a questi colossi gravitano le medie potenze, gli Stati “rentier” e gli Stati falliti (Galli) e fra costoro solo le prime hanno un limitato margine di manovra autonomo. L’Unione Europea non  può essere considerata alla pari degli altri grandi. Non perché priva di sufficienti risorse economiche ma perché, non essendo un  soggetto sovrano, non ha capacità unitaria di individuare i propri interessi strategici, per cui è esposta al rischio che i suoi membri cadano sotto l’egemonia dell’uno o l’altro Grande Stato (Galli) (Monereo dà anche un’interpretazione “regionale” del concetto di Grande Stato, attribuendo tale ruolo a Francia e Germania in contrapposizione agli altri membri dell’Unione). 

b) Un secondo elemento comune consiste nel dare per scontato che gli Stati Uniti, anche ove riuscissero a riproporsi come guida di un’ampia coalizione occidentale, non sono più in grado di esercitare un potere globale incontrastato (Visalli, Galli, Fagan). Nessuno mette in discussione il fatto che gli Stati Uniti dispongano tuttora di una schiacciante superiorità militare e di formidabili risorse industriali e finanziarie, ma tutti sembrano concordi nell’affermare che la loro capacità “non  certo di dominare ma almeno di controllare il mondo si fanno sempre più scarse” (Fagan). Con l’emergenza di nuovi colossi nel gruppo dei Paesi in via di sviluppo (BRICS ma non solo) è l’intera geostoria in cui si ambienta la geopolitica ad apparire terremotata. Il baricentro del mondo si sposta a Oriente (come certifica il colossale accordo commerciale fra Cina, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia e altri Paesi annunciato nei giorni in cui scrivo queste righe, che “pesa” per il 30% del volume mondiale degli scambi mentre esclude gli Stati Uniti). Né si può escludere che questo nuovo baricentro possa convertirsi da asiatico in afroasiatico (Fagan). Questo perché cresce a ritmi rapidissimi la penetrazione di Cina, Giappone e Corea del Sud sui mercati africani, instaurando rapporti che vengono percepiti come meno coloniali rispetto a quelli con le potenze occidentali e che, soprattutto, invece di frenare lo sviluppo dei Paesi africani depredandone le risorse e oberandoli di debiti, tendono a creare le condizioni per l’emergenza di nuove potenze anche in quell’area continentale.  

c) Più variegate sono le diagnosi in merito all’emergenza o meno di un polo egemone alternativo rispetto al declinante (sia pure in senso relativo) impero statunitense. Da un lato, c’è chi, pur individuando nella Cina la nuova potenza egemone, aggiunge come ciò appaia oggi solo una possibilità, che non esclude quella del protrarsi di una convulsa e caotica fase multipolare, con i relativi rischi di perdita di controllo e di catastrofici eventi bellici (Visalli). Altri sottolineano che tale rischio è associato all’incapacità degli Stati Uniti di accettare e gestire il proprio declino relativo e al loro tentativo di compattare l’occidente contro il resto del mondo (Fagan).  Altri ancora negano del tutto la possibilità di un passaggio di consegne egemonico, paventando una fase multipolare che, frammentando ciò che è ancora – sia pure più debolmente – unito, rischierebbe di precipitare nel caos il sistema capitalistico mondiale prima che sia possibile innescare un processo di transizione socialista (Sciortino).

3. Impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa populista  
a) Ragionando sulla declinante capacità delle sinistre di rappresentare gli interessi delle classi subalterne (e conseguentemente di egemonizzarne il consenso), molti contributi si concentrano sulle cause culturali di tale incapacità che affondano le radici nella mancata comprensione dei grandi mutamenti economici e sociopolitici in corso dagli anni Settanta del Novecento. Un’incomprensione che si è tradotta, da un lato, nella conversione ai principi e valori del neoliberismo, dall’altro, nella riproposizione di dogmi teorici che la nuova realtà rende anacronistici. In particolare, le sinistre sembrano avere assunto come un dato di fatto scontato e irreversibile l’unità di un mondo globale unificato dall’economia, senza rendersi conto che, come dimostra la crisi della globalizzazione dell’ultimo decennio, questa unità è stata soprattutto una narrazione ideologica, tesa a legittimare l’idea della sostituibilità della politica da parte di economia, tecnica e diritto (Galli). Contro la visione irenica dell’economia come portatrice di unità e di pace fra i popoli, oltre che di benessere e prosperità universali, e contro un’ideologia “internazionalista” che ha smarrito gli originali connotati di classe per appiattirsi sul cosmopolitismo borghese, si sostiene che nel mondo a venire l’economico non potrà più essere l’ordinatore, e che tale ruolo dovrà essere necessariamente restituito alla politica (Fagan, Galli). 

b) Alla critica della conversione neoliberale delle sinistre socialdemocratiche si affianca la critica del retaggio libertario, antistatalista e antipolitico dei movimenti sociali eredi del 68. Pur nella loro apparente radicalità rispetto alle sinistre tradizionali, questi movimenti hanno a loro volta contribuito a recidere i legami con gli interessi, i bisogni e la cultura delle classi subalterne, favorendo la proliferazione di istanze di riconoscimento (da tradurre in diritti individuali e civili) in capo a soggetti privi di connotazioni di classe (strati generazionali, minoranze etniche, religiose e sessuali, ecc.). Un’evoluzione che ha prodotto un dirottamento delle energie dalla lotta per il potere (considerato un fattore di per sé negativo) all’impegno per condizionarne le scelte senza mettere in discussione il sistema (Formenti)

c) La durezza della crisi provocata dal regime neoliberale crea le condizioni di un nuovo “momento Polanyi” (3) , vale a dire della reazione della società alla colonizzazione capitalista di tutti i rapporti sociali. La resistenza dei vincoli comunitari alla omogeneizzazione mercantile, tuttavia, può avere caratteri reazionari, conservatori o emancipatori (Pagliani), può cioè spalancare le porte a una “rivoluzione passiva”, per citare il concetto con il quale Gramsci definiva i sommovimenti in cui le classi subalterne restano sotto l’egemonia di forze conservatrici, lottando per obiettivi in conflitto con i loro stessi interessi. La diagnosi comune a molti contributi è che ciò sia avvenuto con l’emergere dei movimenti populisti nell’ultimo decennio del Duemila. Definito da alcuni forma spuria della lotta di classe in assenza di una leadership rivoluzionaria (Formenti), da altri  sostituto funzionale della lotta di classe a carattere reattivo (Sciortino), da altri ancora “contenitori dell’ira” incapaci di convertirsi in contenitori di potere (Visalli), questo fenomeno sembra prossimo a giungere ad esaurimento tanto nelle sue forme di destra quanto in quelle di sinistra. Le prime, invece di rappresentare i reali conflitti sociali, sono andate in cerca di nemici esterni al popolo (le caste, gli immigrati, ecc.) e, nella misura in cui non incarnano il risentimento per il regime neoliberale, bensì per le sue promesse tradite, finiranno inevitabilmente per venire riassorbite nella logica del sistema (Visalli). Le seconde (delle quali Podemos rappresenta un esempio paradigmatico), dopo essere inizialmente riuscite ad incarnare l’aspettativa di una radicale alternativa sistemica, tendono (e sempre più tenderanno) a ricompattarsi in un fronte unito contro le destre guidato dalle formazioni liberali “di sinistra” (Formenti). 

4. Verso un mondo post neoliberale? 
Il titolo di questa raccolta, “Dopo il neo liberalismo”, potrebbe suggerire l’impressione che gli autori condividano una visione teleologica del processo storico, che ritengano che la fine del liberalismo sia una necessità immanente a tale processo.  Non è così. La visione che emerge da questa “indagine collettiva sul futuro”, per citare il nostro sottotitolo, è un’altra: siamo tutti convinti che il regime nato dalla controrivoluzione neoliberale sia insostenibile e che quindi il futuro ci riservi mutamenti economici, politici e sociali radicali, ma siamo altrettanto consapevoli che la natura di tali mutamenti è in larga misura indeterminata, dal momento che dipende da fattori complessi e contingenti. Al tempo stesso riteniamo che sia importante sforzarsi di capire, se il vecchio muore, da dove nascerà il nuovo, quali strumenti esistono per superare l’equilibrio sistemico neoliberale (Visalli). Parlare di strumenti significa alludere a un progetto politico, dunque a un campo di indagine in cui il confine fra previsione e auspicio si assottiglia, per cui le previsioni appaiono necessariamente condizionate dal verificarsi di  certe condizioni. 

a) Se sarà possibile restituire centralità al “costituzionalismo sociale” nato dal compromesso storico del secondo dopoguerra e al suo potenziale emancipativo, questo costituzionalismo resistente alla normalità capitalistica potrebbe agire da presupposto di un radicale mutamento di sistema (così Somma, che ragiona soprattutto sulla Costituzione italiana, mentre Monereo estende il ragionamento a tutte le costituzioni nate dal superamento di regimi fascisti). Il passo decisivo consentito da tale svolta consisterebbe nel restituire spazio strategico al conflitto economico, cioè alla possibilità di plasmare l’ordine economico in base alla contrapposizione capitale/lavoro e più in generale fra interessi in conflitto (Somma) (il che comporterebbe, per inciso, abolire le “riforme” costituzionali imposteci dalla Ue e finalizzate appunto alla neutralizzazione del conflitto economico sociale). Questa riaffermata centralità del conflitto consentirebbe, fra l’altro, di evocare un concetto non meramente formale della sovranità popolare, estendendolo fino a comprendere la contrapposizione governanti/governati e attribuendo al popolo la titolarità della potestà di governo costituente e costituita (Somma, ma vedi Galli sul rapporto fra potere costituito e potere costituente). 

b) Altrettanto importante sarebbe riuscire a sfruttare la gestione politica della pandemia, sottraendola alla dimensione di “eccezionalità” attribuitale dai regimi neo liberali, per dimostrare come la circolazione molecolare permanente possa essere interrotta sulla base di una decisione politica collettiva (Romano). Di fronte alla crisi che ne ha inceppato i meccanismi, il regime neo liberale cerca di guadagnare tempo senza cambiare logica, respinge l’idea che lo sviluppo economico debba essere riportato sotto il controllo intenzionale da parte della politica per evitare che rappresenti una minaccia permanente per la vita umana (Zhok), sostenendo che ciò vorrebbe dire instaurare una dittatura (non si può bloccare del tutto la circolazione del virus senza mettere a rischio la “libertà”, cioè la libera circolazione dei fattori produttivi denaro, merci e forza lavoro). La posta in gioco nel conflitto fra queste due prospettive è altissima, perché non riguarda solo l’economia ma anche la possibilità di superare la visione che rappresenta la realtà sociale come il prodotto accidentale della miriade delle volontà singole, di superare cioè l’antropologia individualista come fondamento della civiltà liberale in quanto unità di politica, cultura e mercato (Romano). 

c) Se sarà infine possibile, preso atto dell’assenza di un soggetto politico in grado di orientare l’inevitabile processo di trasformazione in corso verso esiti emancipatori piuttosto che regressivi, mettere mano alla sua costruzione a partire dalla definizione dei soggetti sociali da coinvolgere/mobilitare in tale impresa. Una delle zavorre concettuali che pesano maggiormente sulla capacità dei movimenti di ispirazione marxista di svolgere un ruolo significativo nella direzione delle lotte sociali nei Paesi occidentali, è l’ostinazione con cui si impegnano a identificare un soggetto sociale “oggettivamente” rivoluzionario. Riduzione del peso numerico e politico del proletariato industriale (falcidiato dai processi di terziarizzazione del lavoro, dalle ristrutturazioni tecnologiche, dal decentramento della produzione verso i Paesi in via di sviluppo), disarticolazione del corpo di classe che l’offensiva neo liberale è riuscita a dividere contrapponendo strati generazionali, uomini e donne, autoctoni e immigrati, garantiti e precari, lavoro pubblico e lavoro privato, hanno innescato una sterile ricerca di possibili “avanguardie” da individuare attraverso improbabili analisi sociologiche. Analisi in cui è mancata sia la consapevolezza del peso del conflitto centri/periferie nelle nuove lotte sociali (vedi il caso dei gilet gialli), sia un’adeguata attenzione alla complessa articolazione delle classi intermedie, caratterizzata dalla progressiva separazione fra strati superiori, integrati nel blocco sociale egemone sul piano economico, sociale e culturale, e strati inferiori investiti da processi di immiserimento. L’unica via d’uscita da queste contraddizioni potrà venire dalla costruzione, attraverso una lunga fase di guerra di posizione, di un inedito blocco sociale fondato sull’alleanza fra lavoro effettivamente produttivo e periferie (Visalli). Si tratta di condurre un paziente lavoro di costruzione politica di una rinnovata consapevolezza degli interessi di classe, subordinando, almeno in una prima fase, l’obiettivo delle alleanze fra classi a quello della ricomposizione del proletariato (Formenti).  

5. Prospettive socialiste per il secolo XXI 
Esistono concrete possibilità che l’eventuale evoluzione verso un mondo postneoliberale possa coincidere con una rinnovata vitalità del progetto socialista? Fino a non molti anni fa, grosso modo dalla caduta del Muro alla crisi del 2008, questa domanda sarebbe apparsa poco più di una boutade provocatoria. Lo straordinario successo della Cina, il ciclo delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, l’ascesa di leader politici come Sanders e Corbyn, che sono riusciti a ottenere significativi livelli di consenso pur professandosi socialisti in Paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, dove la parola stessa era stata a lungo bandita, restituiscono attualità all’interrogativo. Nel libro non troverete risposte univoche, visto che,  come già spiegato nel precedente paragrafo, nessuno degli autori crede nell’esistenza di una necessità immanente al processo storico che ne determini la direzione. Troverete piuttosto dei tentativi di descrivere le condizioni che potrebbero riaprire una prospettiva socialista per il secolo XXI. Ne elenco qui di seguito quattro.

a)  Dovremo smettere di identificare società di mercato e società con mercato, accettando l’idea che socialismo non significa necessariamente nazionalizzazione senza residui (abolizione di ogni forma di proprietà privata) e pianificazione centralizzata. Polanyi, Arrighi e Samir Amin, fra gli altri, ci hanno aiutato a capire che la società di mercato è quella forma - del tutto unica e foriera di spaventosi effetti sociali – attraverso la quale il capitalismo è riuscito a plasmare la totalità delle relazioni umane in funzione delle esigenze di un processo di accumulazione illimitato. La sua diffusione planetaria è stata l’approdo di un lungo processo storico non necessitato da presunte leggi oggettive (Pagliani). Viceversa il mercato è sempre esistito prima dell’avvento del capitalismo e non vi sono motivi (se non nelle teste dei cultori di una concezione dogmatica del marxismo) per cui non possa esistere dopo la sua fine.  I programmi che hanno ispirato le rivoluzioni antiliberiste in America Latina, e che figurano nei progetti di alcune forze politiche del mondo occidentale (potenziamento del mercato interno, realizzazione della piena occupazione e incremento della quota di reddito spettante ai salari, controllo politico sui flussi di capitale e merci, riduzione della dipendenza da esportazioni e importazioni con conseguente riduzione della dipendenza dal mercato globale e accorciamento delle catene del valore, potenziamento del welfare e dei servizi sociali) (Visalli) possono sembrare espressione di una visione “riformista” compatibile con il sistema capitalista ma, per citare Rosa Luxemburg, il vero problema è se le riforme vengono considerate obiettivi fine a sé stessi o strumenti per creare le condizioni di un cambiamento rivoluzionario di sistema. Forse il momento storico è maturo per transitare dall’idea (tipica del marxismo occidentale) della rivoluzione come evento catastrofico a quella di processo continuo e progressivo (Fagan) incarnata dalla via cinese al socialismo. 

 b) Socialismo e ambientalismo dovranno necessariamente convergere in un unico progetto. La pandemia del covid 19 dovrebbe averci definitivamente convinto che l’unica prospettiva etico politica all’altezza del nostro tempo è una nuova alleanza tra paradigma ambientalista e analisi socialista (Zhok). Tuttavia la realizzazione di tale alleanza richiede un coraggioso sforzo di revisione teorica e culturale per superare i limiti intrinseci a entrambi i paradigmi che li pongono in una relazione conflittuale che potremmo definire come opposizione fra istanze anti antropocentriche da un lato e istanze umanistiche dall’altro o, se si vuole, fra progressismo e conservazione (Zhok). Nel discorso ambientalista è immanente il rischio di una “disneyzzazione” della natura, a causa del manicheismo che contrappone la natura buona all’uomo cattivo; una visione che rimuove il fatto che gli esseri umani non hanno accesso a un punto di vista assiologico indipendente dalla loro soggettività, approdando paradossalmente all’esito di antropomorfizzare la natura che vorrebbe salvare. Viceversa, il discorso socialista appare tradizionalmente appiattito sui valori guida dell’illuminismo borghese: progressismo, modernismo, nuovismo (Zhok). Sul versante della cultura socialista la trasformazione dovrebbe quindi prendere le mosse da un rifiuto del progresso inteso come crescita di potenza verso le altre nazioni, l’uomo e l’ambiente naturale (Visalli). Si tratta di mandare in soffitta quella mistica delle forze produttive – l’idea che il progresso scientifico e tecnologico sarebbe di per sé in grado di determinare la transizione dal capitalismo al socialismo – che è uno dei tratti fondamentali della cultura marxista da più di un secolo (Formenti). Affidare alla politica il ruolo di decidere cosa, come e quanto produrre implica abbandonare la spinta alla valorizzazione economica illimitata, anche se ispirata a criteri di giustizia e uguaglianza (Romano). La crescita illimitata è un obiettivo non negoziabile in un’ottica liberal capitalista, ma anche in un’ottica socialista tradizionale. Tuttavia è fondamentale comprendere che rinunciare a tale imperativo non significa aderire necessariamente a un piano di decrescita, a uno stato stazionario, bensì subordinare la crescita al bene comune e sottoporla a controllo e limitazione da parte della politica (Zhok).

c) Occorre scommettere sul fatto che la Cina continui a riuscire nell’impresa di differenziarsi dal resto del mondo sul piano dei valori politici e ideologici pur adottando i meccanismi del sistema capitalistico (Galli), che continui cioè – per usare la formula dell’ultimo Arrighi (4) - ad usare il mercato per liberare dalla povertà i propri cittadini, senza cedere ai capitalisti la direzione politica del Paese. A questa condizionalità occorre aggiungerne un’altra che la sovradetermina: dobbiamo scommettere sul fatto che la lotta di classe in Cina riesca a impedire che il Paese regredisca a un regime capitalista, non solo sul piano delle forme economiche, ma anche su quello delle forme politiche. La possibilità che questa contraddizione fra universalismo del mercato e particolarismo del soggetto politico (Galli) possa reggere sul lungo periodo, accompagnando un lento periodo di transizione verso il socialismo, è ammessa da due autori marxisti che provengono dalla tradizione delle teorie della dipendenza (Visalli), come Arrighi e Samir Amin. Questo punto di vista resta tuttavia eretico rispetto al mainstream del marxismo occidentale che, nella misura in cui continua a pensare che la struttura economica sovradetermini necessariamente la sovrastruttura politica, dà per acquisita la restaurazione del capitalismo in Cina a partire dalle riforme di Deng Siao Ping. Nel libro il lettore troverà una variegata gamma di punti di vista sull’enigma cinese, che si estendono fra due posizioni polarmente contrapposte. Da una parte, il modello cinese viene preso a spunto (assieme alle rivoluzioni bolivariane) per superare l’ingenua visione utopistica del socialismo come un mondo pacificato, emancipato da ogni tipo di conflitto sociale, cui si contrappone l’idea di un “socialismo possibile”, nel quale permangono disuguaglianze e conflitti sociali, sia pure di natura e intensità diverse da quelli della società capitalistica (Formenti). Dall’altra si attribuisce natura inequivocabilmente capitalista al sistema cinese, riconoscendo al tempo stesso l’esistenza al suo interno di una dialettica fra classi lavoratrici e stato che configura una sorta di via orientale alla socialdemocrazia (Sciortino). Mi pare viceversa condivisa da tutti l’importanza del ruolo della Cina, se non come modello alternativo di sistema, almeno come potente contrappeso all’egemonia statunitense.  

d) Dovremo riuscire a elaborare una visione alternativa di democrazia. Che la “democrazia reale” (per usare una definizione di Colin Crouch (5), cioè la liberal democrazia in auge in tutti i Paesi occidentali, sia in fase di avanzato degrado è un dato di fatto riconosciuto anche da molti esponenti delle élite politiche e accademiche. Si parla comunemente di post democrazia, di democrazia oligarchica, di democrazia limitata (Monereo) in riferimento a fenomeni come il ridimensionamento del potere legislativo nei confronti del potere esecutivo, la crisi dei partiti politici, la personalizzazione e mediatizzazione del ruolo dei leader, la “gentrificazione” delle funzioni rappresentative (più della metà dei deputati e senatori nordamericani appartengono alla élite dei super ricchi), la riduzione della partecipazione popolare al voto, l’esorbitante peso delle lobby finanziarie e industriali sulle decisioni politiche (vedi il fenomeno delle “porte girevoli” con ex esponenti politici cooptati nel top management di grandi imprese private e viceversa) e l’elenco potrebbe proseguire. Malgrado tutto ciò, si continua a sostenere che questo sistema, benché corrotto, ingiusto e inefficiente, continua a essere il minore dei mali possibili ove paragonato ai regimi totalitari che vigono in Cina e in altri Paesi (i media occidentali inseriscono nell’elenco anche nazioni i cui governi sono andati al potere a seguito di processi elettorali assolutamente regolari: vedi il caso del Venezuela e della Bolivia, dove il popolo ha da poco confermato la propria fiducia al partito “totalitario” che era stato rovesciato da un golpe di destra). Ma è vero che non esistono alternative? La Costituzione italiana, attraverso gli articoli che affermano la necessità di promuovere l’uguaglianza sostanziale e non solo formale fra i cittadini, ha non a caso ispirato la riflessione togliattiana sulla “democrazia progressiva” come ordine politico alternativo a quello di matrice liberale. E’ la ragione per cui il capitalismo mondiale punta il dito contro il carattere “criptosocialista” della nostra Carta, e che ha indotto i nostri governanti a mettere ripetutamente mano a “riforme” costituzionali per adattarla ai principi ordoliberali che ispirano le istituzioni europee. La parola d’ordine per rovesciare questo stato di cose è staccare una volta per tutte la forma democrazia dalla forma mercato, prendendo atto, come invita a fare Wolfgang Streeck (6), che il loro divorzio, al pari di quello fra democrazia e liberalismo, è fatto compiuto. La democrazia in quanto accesso delle classi popolari alla possibilità di partecipare realmente al processo di decisione politica è stata una breve parentesi che ha interrotto, nel secondo dopoguerra, una lunga storia di democrazia puramente formale. Per riconquistarla occorre cominciare a pensarla come processo di democratizzazione, come  programma di lotta (Monereo).       

Note
1 Von Hayek, F., la via della schiavitù, Feltrinelli, Milano 2011.
2 Qui la riflessione di Pagliani si muove nel solco tracciato da Giovanni Arrighi (cfr. Il lungo secolo XX, Feltrinelli, Milano 2008)
3 Polani, K., la grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
4 Arrighi, G., Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.
5 Crouch, C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003. 
6 Streeck, W., Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
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