SPAGNA E ITALIA. L'OFFENSIVA DELLE OLIGARCHIE
Democrazie mediterranee sotto attacco
Manolo Monereo |
Pedro Sanchez e Pablo Iglesias |
Manolo Monereo |
Pedro Sanchez e Pablo Iglesias |
I. Capitoli 2-7. Ovvero: tutto quello che vorreste sapere su Podemos
La nascita ufficiale di Podemos è il 17 gennaio 2014, ma gli incubatori che la hanno preparata, fornendone la “materia prima” diversi anni prima, sono quattro: l’ambiente universitario (in particolare l’Università Complutense di Madrid) da cui provengono tutti i fondatori, una Web Tv che produce La Tuerka (La Vite), un talk show settimanale di successo, i movimenti sociali del 2011-2013 (15M e Mareas) e i rapporti dei fondatori con i populismi latinoamericani di sinistra. La provenienza ideologica è variegata: l’associazione studentesca Contrapoder, di orientamento post operaista/neo autonomo che si inspira al modello italiano delle Tute Bianche (che il leader Pablo Iglesias conosce da vicino, essendosi laureato in Italia dove ha frequentato quegli ambienti politici), militanti comunisti e della sinistra radicale insoddisfatti delle proprie organizzazioni e militanti dei movimenti sociali. Il tema dell’influenza dei modelli latino americani verrà trattato nella seconda parte, dove spiegherò che, a mio avviso, tale influenza è mediata soprattutto dalle teorie dell’argentino Laclau (inspirate dai movimenti peronisti), mentre l’unico Paese “bolivariano” con cui si possano evidenziare concrete analogie è l’Ecuador di Correa (i casi boliviano e venezuelano sono diversi).
Campolongo e Caruso insistono sul ruolo strategico de La Tuerka, sottolineando come Podemos sia stato "il primo partito della sinistra radicale ad avere assunto lo spazio mediatico come contesto che implica un alto grado di professionalizzazione". Prima di formalizzare la propria esistenza, i fondatori parleranno addirittura del progetto di una “televisione-partito” (definizione che al sottoscritto suscita sinistre memorie della conversione in partito della Mediaset). Sarà il successo come protagonista di talk show a fare di Iglesias il leader indiscusso di Podemos, tuttavia, precisano gli autori, se è vero che senza tv Podemos non sarebbe mai potuta nascere, è altrettanto vero che senza il movimento del 15M – che garantisce alla Web Tv un pubblico di massa – Iglesias non sarebbe diventato una star mediatica. Al tempo stesso, è un errore descrivere Podemos come una proiezione politico organizzativa del 15M. Questo movimento presentava infatti caratteri dichiaratamente antipolitici, rifiutando qualsiasi tipo di rappresentanza politicamente organizzata delle proprie istanze, mentre i fondatori di Podemos sono al contrario convinti fautori della “autonomia del politico”: si propongono infatti di costruire, dall’alto e “a tavolino”, una macchina da guerra capace di utilizzare il fermento sociale come carburante di un progetto che sia al tempo stesso maggioritario e di rottura (e questo mi fa scattare un'altra sgradevole associazione: quella con la ossimorica definizione di “maggioranza di lotta e di governo” in uso per i populismi nostrani). Ecco perché il soggetto di riferimento di Podemos (soprattutto nella fase iniziale, più marcatamente populista) non sono le classi popolari ma i cittadini.
Il fatto che la prassi politica di Podemos sia fondata prevalentemente, se non esclusivamente, sulla comunicazione mediatica, si riflette nello scarso impegno diretto sul fronte dell’organizzazione di momenti di mobilitazione (con la significativa eccezione della Marcia del Cambiamento, cui hanno partecipato 300.000 persone). In effetti, tutte le energie del nucleo fondatore sono concentrate sull’obiettivo prioritario di vincere le elezioni politiche per andare al governo (obiettivo che si spera di realizzare già nel 2015), quindi si lavora a costruire una macchina elettorale di cui si montano i pezzi in funzione (e nel corso) delle scadenze elettorali (da qui la battuta “ci siamo allacciati le scarpe correndo”). Nelle numerose tornate elettorali spagnole dell’ultimo lustro (dovute all’impossibilità di definire una maggioranza di governo) i risultati oscilleranno dall’8,4% delle europee del 2014, al 12,9% delle ultime politiche, toccando il massimo nelle politiche del 2016, allorché Podemos supera di poco il 20%.
A mano a mano che diviene chiaro che il progetto di conquistare da solo la maggioranza è irrealistico, Podemos accetta l’idea di stringere alleanze con altre forze politiche. Così, dopo uno scontro interno fra Pablo Iglesias e l’altro big di Podemos, Inigo Errejon (da sempre favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe) nasce la coalizione con IU (Izquierda Unida). Al tempo stesso, si evita di enfatizzare i contrasti con il Psoe, in vista di un possibile accordo futuro (che si realizzerà solo in tempi recenti) e si insiste nell’accreditare l’immagine di una “rivoluzione tranquilla”, per non spaventare l’elettorato moderato. Dal 2016 in avanti, Iglesias parla esplicitamente di fine del ciclo populista e della necessità di passare “dalla guerra di movimento alla guerra di posizione” (Campolongo e Caruso danno credito a questa svolta “gramsciana”, mentre io, come spiegherò più avanti, nutro fondati dubbi in merito), restituisce al partito connotati esplicitamente di sinistra e riconosce la necessità di affondare radici nel sociale.
Inigo Errejon |
Negli ultimi quattro anni Podemos ha dovuto affrontare due sfide inedite che gli sono costate care: da un lato, lo scoppio della questione catalana (in cui sostiene la difficile posizione: no all’indipendenza, sì a una riforma costituzionale che sancisca la natura plurinazionale e federale dello Stato spagnolo, per cui si troverà presa in mezzo dallo scontro fra nazionalismi contrapposti), dall’altro, l’emergenza di una destra neofranchista che, con la lista di Vox, raggiunge risultati elettorali a doppia cifra (il che la spingerà a cercare con più insistenza, anche al costo di compromessi, l’alleanza con il Psoe, onde evitare la vittoria delle destre). In questo contesto si sviluppa un estenuante tira e molla con il Psoe (alla cui guida si è nel frattempo reinsediato Sanchez, restituendo al partito una certa caratterizzazione “di sinistra”), che dura a lungo perché il Psoe non vuole “compromettersi” con Podemos, tanto che preferirebbe addirittura allearsi con Ciudadanos (formazione populista con posizioni di destra, sia pure moderate). L’attuale coalizione nasce nel momento in cui Sanchez capisce di non avere alternative, pena regalare il governo alle destre, per cui accetta finalmente l’abbraccio con Podemos, cui concede però solo tre ministeri (di cui due marginali, con poche competenze e scarsa capacità di spesa, annotano Campolongo e Caruso). A seguito della decisione di andare al governo con Sanchez, Podemos deve subire la scissione della sinistra anticapitalista (Errejon era già uscito da destra, dando vita a una propria formazione politica). Dopo questa sintetica cronistoria, seguirò gli autori nella loro ricostruzione: 1) del discorso politico e programmatico del partito; 2) della sua struttura organizzativa; 3) della composizione socio culturale del suo elettorato (tralasciando per motivi di spazio il tema delle strategie comunicative adottate nel corso delle varie campagne elettorali).
Il discorso politico (la “narrazione”) di Podemos evolve nel corso delle due fasi appena descritte, anche se Campolongo e Caruso sottolineano che la sua struttura retorica - fondata sull’opposizione bipolare gente/casta, basso/alto, democrazia/oligarchia, maggioranza/élite, cambiamento/continuità – resta sostanzialmente immutata. La fase populista si ispira rigorosamente al modello teorico di Laclau (ne discuterò nella seconda parte): si tratta di aggregare una serie di domande sociali diffuse ma frammentarie, individuandone un minimo comun denominatore da definire grazie un nucleo simbolico essenziale, nucleo da costruire attraverso il ruolo del leader e le campagne mediatiche. L’obiettivo è ottenere un consenso trasversale sganciato da specifici settori sociali in base a un modello che la sociologia politica definirebbe “partito pigliatutto”. In questa fase Podemos cerca di sbarazzarsi di ogni connotato che lo qualifichi come una nuova formazione “di sinistra”: Iglesias afferma per esempio di voler conquistare anche i voti del Partido Popular, perché “il Paese è pieno di gente decente che vuole il cambiamento e il potere non ha paura della sinistra ma della gente” (sulle implicazione dell’uso del termine gente al posto di popolo tornerò più avanti).
La “gente” in questione è fatta di giovani, studenti, lavoratori dipendenti autonomi e precari, pensionati, commercianti, piccoli e medi imprenditori, professionisti, artigiani. È la retorica del 99% inaugurata da Occupy Wall Street, per cui non resta fuori nessuno, ad eccezione della casta dei poderosos, dei potenti “che comandano senza presentarsi alle elezioni”, e dei politici che ne rappresentano gli interessi. La narrazione si riappropria di parole chiave come nazione, patria, sovranità, libertà e democrazia (intesa come necessità di ripristinare la matrice originaria della democrazia spagnola, vale a dire i principi sanciti dalla Costituzione del 78, stravolti dalle élite oligarchiche che hanno usurpato il potere). Da notare però che il patriottismo di Podemos (ritagliato sul modello delle rivoluzioni latinoamericane), al pari della rivendicazione della sovranità nazionale e popolare, non arrivano a mettere in questione l’appartenenza all’Unione Europea, restando nei binari dell’europeismo “critico”.
A partire dal 2016, dall’alleanza con IU e dall’affermazione di Iglesias che sancisce la fine della fase populista, il linguaggio subisce una torsione in senso anticapitalista. Si abbandona il termine casta che viene sostituito dal termine trama (un concetto coniato da Manolo Monereo che sintetizza il complesso intreccio fra oligarchie economiche, politiche e mediatiche). Inoltre si passa da un discorso che presenta Podemos come candidato a riparare i guasti della crisi e delle politiche neoliberiste e a colpire la corruzione, più che a inseguire trasformazioni rivoluzionarie, alla definizione di un programma politico che, se non rivoluzionario, è assimilabile a quello di una socialdemocrazia radicale: transizione energetica e nuovo modello produttivo, reindustrializzazione, finanziamenti per la modernizzazione tecnologica, riforma fiscale, costituzione di una banca nazionale interamente pubblica, abolizione dell’articolo costituzionale che sancisce l’obbligo della parità di bilancio. Un programma radicale che continua tuttavia a essere affiancato da una retorica rassicurante che rappresenta Podemos come una forza responsabile e matura, pronta ad assumere ruoli di governo.
Sul piano organizzativo è interessante notare – anche se gli autori non sottolineano tale aspetto – come Podemos, fatte salve le differenze ideologiche, presenti notevoli somiglianze con l’M5S. Pur ereditando dalle sinistre “partecipative” un’ideologia orizzontalista e antigerarchica, la prassi organizzativa di Podemos è di tutt’altro tenore: la forte centralizzazione della leadership resta una costante lungo tutta la storia del partito, mentre l’articolazione territoriale, basata sui circoli, non ha mai svolto un ruolo determinante. In questo senso, mi pare esitano evidenti analogie sia con le “fabbriche di Niki” (che furono accantonate dopo avere contribuito al trionfo elettorale di Vendola) sia con i Meetup grillini (progressivamente scomparsi dall’orizzonte della vita politica dell’M5S). In altre parole, Podemos è un caso tipico di partito leggero e verticale, un modello comune nella fase di personalizzazione e mediatizzazione della politica che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Per iscriversi basta inviare una mail e una copia del documento di identità. Questa scarsa impegnatività ha fatto sì che gli iscritti sfiorino oggi il mezzo milione; si tratta di persone che non sono né attivisti né militanti, per cui rappresentano una fetta di elettorato piuttosto che una “base” classica (Campolongo e Caruso li definiscono “una base estroflessa”, che entra in contatto con i vertici attraverso i media, cioè con una relazione di tipo top down, piuttosto che partecipando alla vita del partito).
Quanto ai militanti, quelli che una volta venivano definiti quadri intermedi, va detto che costoro hanno ben poche opportunità di “pesare”, visto che i circoli non dispongono di strumenti con cui contribuire alle decisioni interne, le quali vengono prese (o meglio ratificate) attraverso consultazioni basate sulla dimensione comunicativa. Dimensione che attualmente poggia sulla piattaforma Plaza Podemos (un equivalente della piattaforma Rousseau dell’M5S, di cui riproduce la sproporzione fra le centinaia di migliaia di iscritti e le poche migliaia di votanti). L’organo sovrano del partito è l’Assemblea cittadina che elegge gli organi esecutivi, cioè il segretario e il Consiglio cittadino (81 membri). Quest’ultimo nomina a sua volta – su proposta del segretario – un esecutivo di 10-15 membri, che è il gruppo dirigente reale. Malgrado i propositi di democratizzazione enunciati nel corso dell’Assemblea di Vistalegre 2 (2016), questa struttura verticistica non ha subito a tutt’oggi sostanziali modifiche.
Anche la composizione socioculturale dell’elettorato è simile a quella della sinistra radicale (non solo spagnola ma di tutto il mondo occidentale): Podemos offre rappresentanza soprattutto alle esigenze e ai valori delle classi medie colte e in particolare dei loro strati giovanili. Ed è, anche, un partito che raccoglie consenso nei centri urbani assai più che in provincia. Benché Campolongo e Caruso non enfatizzino queste caratteristiche (che sono un fenomeno comune a tutto il mondo occidentale, come hanno messo in luce molti ricercatori – fra cui Thomas Piketty (1) – e che certificano una inversione sociologica fra elettorati di destra e sinistra) i dati che loro stessi snocciolano parlano da soli: il partito è votato soprattutto da studenti e lavoratori qualificati (con prevalenza degli appartenenti alla “classe creativa”) mentre pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta costantemente indietro rispetto al Psoe. Nel 2016 risulta il più votato nelle classi medio alte e si piazza al secondo posto nella classe media; nel 2019 ottiene il 16,4% dei voti delle classi medio alte e il 14,4% di quelli della nuova classe media; il livello di consenso si abbassa in maniera direttamente proporzionale al livello di istruzione e al calare del numero di abitanti delle città in cui si vota. Per dirla in breve: l’esperimento populista, cioè il progetto originario di costruire una maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale si può dire fallito. Si può invece sostenere che l’obiettivo di dare vita a una sinistra radicale capace di operare efficacemente nel mutato contesto economico, politico, sociale e culturale in cui ci troviamo a vivere dopo decenni di controrivoluzione liberista sia riuscito? A questa domanda io e gli autori diamo risposte diverse, come vado ora a spiegare .
Capitoli 1, 8 e 9. Ovvero: se il nuovo somiglia al vecchio
Parto da una premessa che mi accomuna ai due autori: se per populismo intendiamo una serie di fenomeni quali la polarizzazione manichea fra quelli di sotto e quelli di sopra, la personalizzazione della leadership, la centralità della comunicazione (e in particolare della comunicazione mediatica), le strutture partitiche leggere, la semplificazione del linguaggio ecc. allora occorre ammettere che populista non è oggi questo o quel partito, né tantomeno una particolare ideologia politica, bensì il campo politico nel suo complesso, che è venuto assumendo tali caratteristiche a seguito delle profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali dell’ultimo mezzo secolo. Nei miei ultimi lavori (2) ho cercato di andare oltre questo livello fenomenico superficiale, avanzando la tesi che il populismo sia la forma che assume il conflitto sociale e politico in un’epoca in cui le classi sociali hanno subito un processo di destrutturazione identitaria. Il passo successivo consiste nel domandarsi se esista un populismo di sinistra e come lo si possa caratterizzare.
Campolongo e Caruso ricordano che il concetto è emerso in riferimento ai movimenti latinoamericani degli ultimi decenni, il che è corretto dal punto di vista terminologico ma non basta, dal momento che quei movimenti presentano caratteristiche diverse. Dal mio punto di vista, la discriminante decisiva consiste nel capire se esista un progetto rivoluzionario che – lucidamente e consapevolmente – si proponga di attraversare/utilizzare la forma populista del conflitto per proiettarlo verso obiettivi più avanzati, comunque li si voglia definire (post neoliberismo, socialdemocrazia radicale, socialismo). E’ questo il caso di Podemos? Mi pare che Campolongo e Caruso propendano per il sì, e la svolta del 2016, allorché Iglesias dichiara esaurita la fase populista e enuncia obiettivi programmatici più avanzati, sembrerebbe confortarne il giudizio. Io ritengo invece che, malgrado quella svolta, Podemos sia rimasto impigliato in una logica che gli ha impedito di compiere il salto di qualità. Cercherò ora di spiegare perché.
I danni collaterali del comunicazionismo
Il medium è il messaggio, recitava McLuhan (3), una formula che è stata spesso liquidata come un paradosso vagamente criptico e provocatorio, dal quale si è raramente tentato di estrarre il reale significato. Semplificando drasticamente, si può affermare che il grande studioso canadese voleva dire che le tecnologie di comunicazione non sono “strumenti” neutri che veicolano i contenuti desiderati da chi li maneggia ma, al contrario, condizionano pesantemente, non solo la forma dei messaggi, bensì i loro stessi contenuti. Assumere lo spazio mediatico come terreno strategico della propria prassi politica, al punto di autodefinirsi (vedi sopra) un partito-televisione, è una scelta che ha precise implicazioni a svariati livelli. In primo luogo, vuol dire dare per scontata la dimensione di campagna elettorale permanente che, come osservano Campolongo e Caruso, è strutturalmente associata a una sfera pubblica ipermediatizzata. Questa dimensione non si lascia “usare”, impone scelte precise a chi ne accetta le regole: progressiva atrofia della capacità (e persino della volontà) di elaborare un pensiero strategico; le elezioni come orizzonte prevalente, se non esclusivo, della propria azione politica; deficit organizzativo (se non si investe nei circoli non è tanto e solo frutto di un’ideologia verticistica, ma la conseguenza del fatto che essi sono meno funzionali dei canali mediatici allo scopo di influenzare gli orientamenti dell’elettorato); il deficit in questione impedisce di acquisire una conoscenza concreta e reale dei soggetti sociali e dei territori, per cui il “gentismo” smette di essere una tattica di comunicazione per ottenere il consenso più ampio possibile, e diventa progressivamente l’unico modo in cui si immagina e ci si rappresenta il proprio referente sociale. Se si evita di enfatizzare la contrapposizione di classe, andando in cerca di forme di identificazione più ampie, non è tanto e solo perché si ritiene che oggi le linee di frattura siano altre, come la contrapposizione fra “i vinti e i vincitori della globalizzazione”, ma perché non si dispone di adeguati strumenti di indagine teorica ed empirica per analizzare la nuova composizione di classe, che la sparizione delle tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale ha reso letteralmente invisibile.
Gramsci a testa in giù
Campolongo e Caruso definiscono gramsciana la cultura politica di Podemos. Dissento. Il pensiero cui essa fa riferimento è quello di un Gramsci “rivisitato” dai dipartimenti di cultural studies e gender studies delle università occidentali (ma anche dagli atenei degli altri continenti in cui si coltivano i post colonial studies) ai quali si deve una vulgata che ha trasformato il fondatore del Partito Comunista Italiano in un soggetto immaginario che avrebbe avuto poco da spartire con il marxismo (per tacere del leninismo). Questa arbitraria trasfigurazione si basa soprattutto sui concetti di egemonia e di senso comune: nelle pagine che Gramsci dedica alla lotta controegemonica per la conquista del senso comune si è infatti voluto vedere, non un riequilibrio fra i concetti di struttura e sovrastruttura, che le versioni meccaniciste del marxismo interpretano nel senso di un determinismo assoluto della prima sulla seconda, bensì il rovesciamento totale del loro rapporto gerarchico. Del resto, per introdurre il principio di autonomia del politico nella cassetta degli attrezzi della teoria marxista, non si era dovuto attendere Gramsci, il quale, non a caso, definì la Rivoluzione d’Ottobre come una rivoluzione contro il Capitale, riferendosi alla “eresia” di Lenin che aveva rinnegato la teoria (prevalente nella II Internazionale) in base alla quale la rivoluzione socialista è possibile solo nei Paesi a capitalismo avanzato, rimpiazzandola con il principio di attacco all’anello più debole della catena, cioè alle condizioni di estrema debolezza di un sistema politico, istituzionale e culturale e non solo di crisi socioeconomica. Quanto al mito di un Marx “economicista”, determinista e cieco nei confronti del peso delle ideologie nel processo storico, questa idiozia è stata definitamente liquidata da un gigante del marxismo come Gyorgy Lukacs (4).
Tornando a Podemos, va precisato che, se Gramsci è diventato un punto di riferimento teorico, lo si deve soprattutto alla rilettura che ne ha fatto il filosofo argentino Ernesto Laclau che, come già ricordato, è l’ispiratore del progetto originario di Podemos. E la visione di Laclau, dopo il suo abbandono del marxismo, è appunto fondata sui paradigmi del pensiero strutturalista e poststrutturalista di cui sopra (cioè sulla “svolta linguistica” delle scienze sociali). Podemos non ha mai avuto uno stato maggiore teorico di peso: Iglesias è un animale politico e uno straordinario comunicatore, non una mente teorica, diversamente da Inigo Errejon, Monedero e Manolo Monereo. Gli ultimi due si sono lateralizzati in fasi diverse della vita del partito (per inciso, Monereo è il solo che avrebbe potuto indurre una vera svolta gramsciana nella cultura di Podemos, ma ha pagato lo scotto di essersi opposto al patto di governo con il Psoe), viceversa Errejon, prima di allontanarsi, ha indubbiamente giocato un ruolo importante come trait d’union fra le teorie di Laclau e la prassi del partito. Per completare questo inciso dovrò compiere altri tre passi: rimarcare la distanza fra i concetti di Laclau e Gramsci, anche laddove apparentemente coincidono; mettere in luce l’arretramento che la visione di Errejon rappresenta rispetto allo stesso Laclau; ridimensionare l’enfasi sulla somiglianza fra movimenti latinoamericani e Podemos.
Laclau parla di catena equivalenziale, riferendosi alle domande che diversi gruppi sociali rivolgono a un sistema incapace di dare loro risposta e alla possibilità che queste domande possano trovare un minimo comun denominatore, aggregandosi attorno a nucleo simbolico comune, cioè a una domanda che divenga egemone rispetto a tutte le altre, finendo per rappresentarle tutte. La natura di classe dei soggetti che esprimono tali domande è irrilevante (anzi: mettere l’accento sul loro carattere di parte sarebbe di ostacolo alla costruzione del popolo come soggetto politico unitario) e l’egemonia in questione ha un carattere puramente retorico discorsivo. Nulla di simile in Gramsci, che parla semmai di costruzione di un blocco sociale in cui le identità di classe sono decisive (nel senso che la direzione politica del blocco spetta al proletariato e alle sue organizzazioni, che possono accettare mediazioni e compromessi con altre classi, ma senza rinunciare mai ai propri obiettivi strategici) e che, pur concependo a sua volta il contropotere egemonico come lotta per il senso comune, concepisce la retorica nazional popolare come strumento al servizio degli interessi di classe. Detto in altre parole: Gramsci appartiene, piaccia o no, al campo marxista, mentre Laclau appartiene al campo linguistico-strutturale. Naturalmente è sempre possibile “trapiantare” singoli concetti da un campo all’altro, ma solo al prezzo di svuotarli del significato originario. Ciò detto, ho sempre affermato (5) che a Laclau vanno riconosciuti due meriti importanti: 1) l’avere definito il “momento populista” come espressione di una domanda di democrazia radicale rivolta a sistemi politici che non possono più esaudirla; 2) l’avere definito il popolo come il prodotto di una costruzione politica, e non come un’entità fondata su sangue suolo e tradizioni consolidate.
Secondo passo. Errejon, in sintonia con l’evoluzione del pensiero di Chantal Mouffe successiva alla morte di Laclau (6) – Errejon e Mouffe sono non a caso legati da un rapporto di e amicizia e stima reciproca (7) -, ha impresso al discorso di Laclau una torsione che ne ha neutralizza il potenziale antisistemico. Se Laclau pensava che gli attuali sistemi liberali non sono in grado di offrire risposta alle domande di democrazia radicale, per cui la contraddizione fra popolo ed élite è antagonista, il duo Errejon Mouffe rivendica viceversa la possibilità di restaurare un contesto liberal democratico in cui queste domande possono trovare risposta. Ne discende che la contraddizione fra popolo ed élite non è più di carattere antagonistico bensì agonistico. Il che alimenta il dubbio che le continue rassicurazioni con cui Podemos rigetta l’accusa di essere una forza antisistema non siano un semplice espediente tattico (vedi più avanti l’accusa rivolta alle élite di essere i “veri” sovversivi).
Laclau e Mouffe |
Infine (terzo passo) vengo ai legami con le rivoluzioni bolivariane (che la destra ha sistematicamente sfruttato per accusare Podemos di essere al servizio dei regimi socialisti latinoamericani). Posto che è indubbio che molti dirigenti di Podemos abbiano svolto il ruolo di consulenti per quei governi, esiste un solo Paese con cui possano essere stabilite sostanziali analogie, ed è l’Ecuador di Raphael Correa (8). Come è avvenuto per Podemos, il progetto della Revolucion Ciudadana (vedi più avanti il paragrafo sul “cittadinismo”) è concepito a tavolino da un gruppo di docenti universitari (che lavorano alla Flacso di Quito). Costoro convincono un personaggio pubblico già noto e popolare (Correa è un economista che aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, ed è persona dotata di grande talento comunicativo) a presentarsi alle elezioni presidenziali. Correa vince al primo colpo (ciò che anche Podemos, come si è visto, si era illuso di poter fare). E come Podemos non nasce come prolungamento organizzativo del 15M, allo stesso modo Correa costruisce una sua macchina elettorale che non si lega né ai tradizionali partiti di sinistra, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani. Anzi, con questi soggetti, una volta conquistato il potere, avrà conflitti frequenti e anche duri, accusandoli di essere portatori di interessi “corporativi” (cioè di classe o comunque di parte) e di sabotare la realizzazione del bene collettivo.
Raphael Correa |
Del tutto diverso, per fare un controesempio, il percorso della rivoluzione boliviana, che ha assunto fin dall’inizio una chiara connotazione socialista e di classe, ancorché atipica, nel senso che in questo caso l’identità etnica e di classe coincidono in larga misura (il 70% della popolazione è di origine india e rappresenta la quasi totalità della classe contadina e una quota maggioritaria della classe operaia e del sottoproletariato urbano). L’ex vicepresidente Alvaro G. Linera nei suoi libri (9) ha descritto queste particolarissime condizioni argomentando, fra l’altro, che le comunità originarie indigene (che non conoscono proprietà privata e incarnano una sorta di comunismo primitivo) nella misura in cui lottano contro i tentativi di colonizzazione da parte del mercato, rappresentano a tutti gli effetti una classe antagonistica nei confronti del capitale. Ai loro movimenti è spettata l’egemonia (simboleggiata dall’elezione di Evo Morales, leader dei cocaleros e primo presidente indio della storia) sul processo rivoluzionario – egemonia che non si è esercitata attraverso la comunicazione mediatica bensì attraverso i loro consigli di autogestione democratica (cabildos), che hanno organizzato anche le lotte degli altri soggetti sociali coinvolti nel movimento. Mi pare di poter concludere dicendo che, oggi come oggi, Gramsci (e Mariategui, che è stato l’araldo del suo pensiero in America Latina) sono più di casa a La Paz che a Madrid.
I margini di ambivalenza sono esauriti
Nell’ultima parte del libro gli autori avanzano due ipotesi teoriche con cui tentano di inquadrare l’esperienza di Podemos, e più in generale il fenomeno dei populismi di sinistra, in una prospettiva storica più ampia. La prima si fonda sul presupposto in base al quale il tratto determinante dell’attuale dinamica politica economica e sociale dei paesi occidentali sarebbe l’ambivalenza. Mi sono già misurato criticamente (10) con questa categoria in lavori in cui ho polemizzato con l’analisi post operaista degli effetti socioeconomici delle nuove tecnologie digitali: gli autori appartenenti a quel campo teorico, mentre ammettono che la rivoluzione digitale – dopo avere generato illusioni in merito al suo possibile impulso a processi di democratizzazione dell’economia e della politica – ha finito al contrario per favorire concentrazione monopolistica, decentramento produttivo, maggiore sfruttamento e precarizzazione della forza lavoro, sostengono tuttavia che le tecnologie in questione conservano ampi margini di ambivalenza, nel senso che lascerebbero tuttora aperta la possibilità di sviluppi democratizzanti.
Campolongo e Caruso estendono questo punto di vista alludendo all’opposizione fra un “polo regressivo oligarchico” e un “polo partecipativo mobilitante”. Il primo coincide con la realtà che tutti abbiamo sotto gli occhi: da un lato, un sistema politico “postdemocratico”, che riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni rappresentative mentre rafforza il potere dell’esecutivo, e neutralizza la capacità dei cittadini di contribuire alla formazione delle decisioni politiche; dall’altro lato, i processi di finanziarizzazione e globalizzazione economica che hanno concentrato risorse e potere decisionale nelle mani di un ristrettissimo gruppo di persone. Il secondo polo, scrivono, va in direzione apparentemente (qui l’avverbio è decisivo!) opposta, nel senso che si diffonde una retorica sempre più pervasiva che inneggia alla orizzontalità, alla partecipazione dal basso e alla democrazia diretta, nonché alla disintermediazione dei rapporti fra vertici e base attraverso l’uso della Rete (cavallo di battaglia dell’M5S) e che contrappone la società civile e i movimenti sociali ai partiti tradizionali - per inciso, ricordo che uno dei massimi teorici di questa “democrazia del controllo”, che subentrerebbe alla lotta per il potere, è Pierre Rosanvallon (11).
Campolongo e Caruso ammettono (al pari dei teorici post operaisti) che il dispositivo oligarchico ha gioco facile nell’integrare queste istanze, sfruttandone le retoriche e le pratiche orizzontaliste per indebolire ulteriormente le assemblee legislative e per neutralizzare la negoziazione fra le parti sociali e i rispettivi interessi contrapposti. E tuttavia (ancora al pari dei teorici post operaisti) sostengono che fra i due poli ci sarebbe anche contraddizione - e fin qui posso essere d’accordo - e, sia pure in misura limitata, incompatibilità - e qui il disaccordo è radicale. Personalmente ritengo infatti che, come hanno ampiamente dimostrato i lavori di Boltanski e Chiapello (12) e di Dardot e Laval (13) il dispositivo della ragione liberale (14) sia riuscito a incorporare senza residui, e a rendere totalmente funzionali ai propri obiettivi economici e politici, queste spinte “libertarie” che potremmo definire come una sorta di onda lunga del 68 e dei successivi movimenti sociali (per essere onesti, gli stessi Campolongo e Caruso riconoscono che le forme di azione collettiva che agiscono secondo questa linea di ambivalenza sono sempre a rischio di essere riassorbite, nella misura in cui il primo polo è sempre egemonico).
Uno dei tratti distintivi di queste convulsioni libertarie è il “cittadinismo”. Infatti i movimenti come il 15M, le Mareas, Occupy Wall Street o i gilet gialli eleggono il cittadino a soggetto privilegiato delle proprie rivendicazioni “antisistema” (o meglio antipolitiche e antipartitiche, nel senso che in nessuno di questi casi il bersaglio sono i rapporti sociali di produzione). Ma il cittadinismo, che in Italia ha trovato la sua espressione massima nel M5S prima che il movimento divenisse forza di governo, è un tratto condiviso, come si è visto, anche dalla retorica di Podemos, tratto che non mi pare sia stato superato nemmeno dopo la svolta di sinistra. Il che ci conduce alla seconda ipotesi teorica di Campolongo e Caruso.
Neogiacobini o neoborghesi?
I due autori propongono una periodizzazione storica articolata su tre cicli. Il primo va dalla Rivoluzione del 1789 (in realtà viene fatto partire qualche decennio prima) alla Comune di Parigi (1871), ed è caratterizzato dalla rivendicazione della sovranità popolare e dalla “frattura democratica”; inoltre dà origine all’idea di nazione democratica, che include le idee del riconoscimento dei diritti umani e della partecipazione politica di tutti i cittadini ed è fondata sulle categorie del cittadino, della nazione, del popolo e della volontà generale. Il secondo va dal 1871 al 1980, ed è caratterizzato dalla frattura di classe, oltre ad assumere come valore fondante la rivendicazione di uguaglianza. Quello che va dal 1980 ad oggi sarebbe dunque il regno dell’ambivalenza di cui sopra, dell’opposizione fra polo oligarchico e polo partecipativo, ma soprattutto sarebbe caratterizzato dal ritorno della frattura democratica. Visto da questa prospettiva l’esperimento politico di Podemos assumerebbe una coloritura “neogiacobina”. I giacobini, scrivono Campolongo e Caruso, hanno inventato il modello germinale del partito di massa ma, al tempo stesso, si opponevano alla parzialità, alle fazioni che dividono il popolo e alla politicizzazione degli interessi particolari. Podemos, dopo una fase populista/giacobina, ha recuperato le sue radici di sinistra senza rinnegare del tutto la fase precedente, approdando quindi a quello che gli autori definiscono un “discorso di classe senza classe”: la lotta per difendere gli interessi delle classi subalterne passa dal ritorno ai fondamenti stessi della democrazia, mentre le élite vengono accusate di essere i “veri” sovversivi, cioè coloro che vogliono sovvertire l’ordine democratico “originario”.
Premesso che considero opinabile e arbitraria la periodizzazione storica appena descritta, e premesso che non condivido il giudizio implicitamente positivo degli autori su questo approdo del tormentato percorso evolutivo di Podemos, ritengo tuttavia che la loro ipotesi contenga un nucleo di verità che abbozzerò brevemente qui di seguito, riservandomi di tornare sul tema in altra sede. L’evoluzione del sistema capitalistico successiva alla controrivoluzione liberista ha determinato la progressiva marginalizzazione delle borghesie tradizionali – relegate in posizioni subalterne tanto in campo economico che politico - da parte di un’oligarchia internazionale che controlla finanza, settori industriali di punta, media, università, ruoli istituzionali strategici, ecc. ecco perché non mi pare azzardata l’ipotesi che tutti i movimenti populisti contemporanei siano espressione di – o almeno siano egemonizzati da – quei settori di borghesia che hanno subito processi di emarginazione e indebolimento. Le loro differenti coloriture ideologiche rispecchiano gli interessi, i bisogni e le aspettative di differenti strati delle classi in questione (differenze relative sia ai livelli di reddito che a quelli culturali: per es. imprenditori versus professionisti ecc.) Ritengo che il giudizio sia applicabile anche alle cosiddette sinistre radicali e, a giudicare dalla composizione socioculturale del suo elettorato (vedi sopra), anche a Podemos. Le lotte della borghesia sette/ottocentesca erano lotte progressive che proiettavano una classe emergente alla conquista del potere, quelle delle borghesie di oggi sono lotte di retroguardia, tentativi dei pronipoti ed eredi di quella tradizione rivoluzionaria di conservare un minimo peso decisionale in un sistema che le sta inesorabilmente esautorando. Giacobini e neogiacobini possono forse condividere le rivendicazioni di democrazia e sovranità popolare, ma la democrazia di cui parlano non è la stessa: quella originaria era reale (almeno per gli appartenenti a una certa classe), quella attuale è un miraggio, nella misura in cui il divorzio fra liberalismo e democrazia, come argomenta Streeck (15) è ormai irreversibile. Il primo ha vinto, la seconda è morta e sepolta e può essere rimpiazzata solo da forme politiche del tutto nuove.
Qual è il ruolo delle classi subalterne in tale contesto? Nei paesi occidentali è oggi azzerato, nella misura in cui decenni di ristrutturazione capitalistica, di smantellamento delle loro organizzazioni sindacali e politiche, di destrutturazione identitaria, le hanno rese letteralmente invisibili. La rabbia e la frustrazione che accumulano si esprimono attraverso comportamenti elettorali schizofrenici e/o attraverso l’adesione a movimenti populisti di destra (soprattutto) e di sinistra (meno) in cui restano costantemente sotto l’egemonia del ribellismo borghese di cui sopra, in cui fungono cioè da massa di manovra di quelli che Gramsci definirebbe tentativi di rivoluzione passiva. Il fatto che siano invisibili, tuttavia, non vuol dire che non esistano più. Il compito prioritario di un populismo di sinistra dovrebbe essere precisamente quello di renderle nuovamente visibili, creando gli strumenti culturali e organizzativi perché possano a ridare voce ai loro interessi di parte, invece di venire mobilitati per inesistenti “interessi generali”.
La svolta del 2016 aveva alimentato anche in me l’illusione che Podemos potesse svolgere tale ruolo. Mi sbagliavo. E non perché il programma di Podemos è quello di una socialdemocrazia radicale (al contrario trovo che questo sia l’unico aspetto positivo, visto che quegli obiettivi sono i soli praticabili dato l’attuale rapporto di forze), ma perché il suo discorso politico continua a mischiare la retorica “cittadinista” con l’eredità libertaria e orizzontalista dei movimenti post sessantottini (femminismo, diritti civili e individuali, ecc.), un discorso che appare tagliato su misura per la media borghesia colta e creativa mentre suona estraneo, se non ostile, alle orecchie degli invisibili. Per tacere della scelta di ritrovarsi incastrati in un governo che ribadisce in ogni occasione la propria fedeltà europeista e atlantica, il che non è problema di poco conto, visto che l’Occidente è impegnato in una nuova guerra fredda contro Russia, Cina e tutti i Paesi socialisti (compresi i governi bolivariani che hanno inspirato la nascita di Podemos).
Postilla su redistribuzione e riconoscimento
Oltre a Laclau, un altro nume tutelare della cultura di Podemos è la filosofa femminista americana Nancy Fraser. A questa autrice va riconosciuto il merito di aver offerto un originale contributo alla critica marxista dell’economia capitalistica, e di avere preso le distanze dalle correnti mainstream del femminismo che si sono alleate al liberalismo. Questa alleanza, che ha generato quel neoliberismo “progressista” che è in larga misura responsabile del rigetto delle classi subalterne nei confronti delle sinistre, le quali ne hanno fatto il proprio marchio distintivo, è il prodotto della transizione dal femminismo della prima ondata – che aveva esteso la critica del capitalismo dalla sfera produttiva a quella riproduttiva – al femminismo della seconda ondata, che si è lasciato trascinare nell’orbita delle politiche identitarie, e ciò proprio nel momento in cui il neoliberismo dichiarava guerra all’uguaglianza sociale; di qui un esito tragicamente ironico. <<Invece di approdare a un paradigma più ampio e ricco, che abbracciasse sia la ridistribuzione che il riconoscimento, le femministe abbandonarono un paradigma monco per un altro, dall’economicismo al culturalismo>> (16).
La questione cui voglio accennare in questa postilla, senza avere la pretesa di sviscerarne le complesse implicazioni, si riferisce a quel “paradigma più ricco, capace di abbracciare sia la ridistribuzione che il riconoscimento” cui allude la Fraser. Ciò che intende emerge dai suoi confronti con autori come Axel Honneth e Rahel Jaeggi (17), dai quali si evince che Fraser, pur criticando le posizioni ideologiche del femminismo “emancipazionista”, rifiuta di ammettere che il capitalismo contemporaneo non ha più alcun legame con la cultura patriarcale e che, al contrario, è nel suo interesse sbarazzarsi quanto prima di questo residuo del passato, promuovendo il più rapidamente possibile l’integrazione delle donne nel sistema, sia femminilizzando il lavoro, sia elevando il maggior numero possibile di donne a ruoli direttivi in economia, in politica e nella società. Ecco perché sostiene la necessità di “bilanciare” il peso fra istanze di riconoscimento e istanze di ridistribuzione. Il guaio è che questo messaggio non suona alle orecchie delle sinistre radicali come un invito a recuperare attenzione per quelle lotte sociali che da anni hanno espunto dalla propria lista di priorità, suona invece come un invito a premere ancor più l’acceleratore sul fronte delle lotte per il riconoscimento dei diritti individuali e dei gruppi portatori delle più disparate identità culturali, sessuali, ecc. Mi pare che Podemos non faccia in questo senso eccezione (basti pensare alla grottesca esibizione di politically correctness che ha dettato il cambiamento del nome del partito in Unidas Podemos). Non mi sembra quindi tanto paradossale il fatto che il partito, malgrado la sua professione di fede femminista, raccolga scarsi consensi fra le donne che appartengono ai ceti inferiori e meno scolarizzati. Credo si spieghi con qualcosa di simile alla diffidenza che induce le donne dei movimenti indigenisti boliviani a definire señorial il femminismo delle “sorelle” bianche che appartengono alla media borghesia creola.
Note
(1) Cfr. T. Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020.
(2) Vedi, in particolare, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.
(3) Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967.
(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dall’essere sociale, Pgreco, Milano 2012 (4 voll.).
(5) Cfr. opp. citt.
(6) Laclau e Mouffe erano notoriamente legati da uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione, oltre che coautori di varie opere. Ma gli scritti recenti della Mouffe (cfr. For a Left Populism, Verso, London-New York 2018) introducono significative novità rispetto al pensiero di Laclau.
(7) Cfr. I. Errejon, C. Mouffe, Construir Pueblo, Icaria, Barcellona 2016.
(8) Sulla Revolucion Ciudadana di Correa cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaca Book, Milano 2014.
(9) Cfr. A. G. Linera, La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros, Buenos Aires 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.
10) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011 e Utopie letali, Jaca Book, Milano 2013.
(11) Cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013.
(12) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
(13) P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2017.
(14) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2019.
(15) W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
(16) Cfr. N. Fraser, Fortunes of feminism, p. 4 dell’edizione elettronica (traduzione mia).
(17) Cfr. N. Fraser. A. Honneth, Ridistribuzione o riconoscimento? Meltemi, Milano 2007; vedi anche N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.
NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...