Lettori fissi

venerdì 7 marzo 2025

ANCORA SUL MARXISMO NERO
ANGELA DAVIS







Stimolato dal lavoro di traduzione del libro di K. Ochieng Okoth, RedAfrica (1), negli ultimi mesi ho accompagnato i lettori in una esplorazione del pensiero radicale nero discutendo i lavori di otto autori: Bouamama, Du Bois, Cabral, Rodney, Williams, James, Padmore, Césaire. Quest’ultimo lo avevo già incontrato, avendolo letto in parallelo agli scritti di Franz Fanon; di Bouamama avevo avuto occasione di ascoltare una videoconferenza nel corso di un recente convegno organizzato dalla Rete dei Comunisti; Cabral lo avevo letto diversi anni fa, ma a quel tempo ne avevo sottovalutato l'importanza, tutti gli altri sono stati invece straordinarie novità, e ringrazio Okoth per avermele fatte conoscere. 


Da marxista occidentale – ancorché eretico - ho cercato di entrare “in punta di piedi” in questo ambito ideale di cui ignoro molte cose, adottando lo stesso atteggiamento di rispettoso ascolto che che in passato ho assunto avvicinandomi al pensiero rivoluzionario asiatico e latinoamericano (nell’ultimo caso aiutato da alcuni viaggi in Sud America). Il confronto con gli autori rivoluzionari del Sud del Mondo implica affrontare una sfida fondamentale che consiste nel cercare di capire come sia avvenuto l’incontro fra una teoria come il marxismo – che accampa pretese universaliste ed eredita una serie di principi e valori  razionalisti/progressisti/illuministi che lo connotano  in senso eurocentrico - e tradizioni storiche, culturali, civili e religiose non meno antiche ma profondamente diverse dalle nostre. 


Laddove questo incontro si è rivelato possibile e fecondo (per esempio in Cina, nel Vietnam, a Cuba) ha forgiato armi formidabili per la lotta antimperialista e anticapitalista, e ha contribuito a innovare una teoria irrigidita da schematismi e dogmatismi che l’hanno resa incapace di interpretare e contrastare l’offensiva neoliberista nei centri metropolitani. Il caso africano è più complesso, sia perché una serie di esperienze che avrebbero potuto imboccare nuove vie di fuga dalla “normalità” del dominio occidentale sono state stroncate sul nascere (2), sia perché i contributi teorici più ricchi e interessanti (spesso frutto del pensiero nero diasporico, antillano e nordamericano) sono stati rimossi e neutralizzati dall’accademismo postcoloniale: vedi in proposito il già citato libro di Okoth (3). Ad onta di queste sconfitte, il marxismo nero ha accumulato un prezioso potenziale creativo e innovativo che aspetta solo di essere ri-attualizzato e valorizzato. 


Il tema di quest’ultima puntata - dedicata a una grande marxista afroamericana, Angela Davis - è apparentemente eccentrico rispetto a quelli trattati negli articoli precedenti. Apparentemente perché, se questi ultimi esploravano il rapporto fra conflitti di classe e conflitti di razza, convergendo nella critica della lettura “essenzialista” del razzismo, e mettendo a fuoco le radici “strutturali”, di classe, di tale ideologia, Donne razza e classe (4) è un invito ad abbandonare la lettura “essenzialista” del sessismo, cioè di un modo di analizzare il conflitto di genere a partire da un soggetto-donna presuntamente omogeneo. A questo approccio, tipico dell’ideologia tardo femminista, la Davis oppone un approccio marxista che parte dal rapporto strutturale fra capitalismo americano e oppressione delle donne di colore. 


una foto recente della Davis




Contro gli stereotipi sulle schiave nere


Generalmente, le femministe bianche tendono a dare per scontato che le donne nere condividano la loro stessa esperienza di oppressione di genere all’interno degli spazi domestici. Le cose non stanno così, replica la Davis. Le donne nere, scrive infatti, hanno sempre lavorato al di fuori delle loro abitazioni domestiche, e se oggi il lavoro sans phrase occupa nelle loro vite uno spazio enorme, ciò non rappresenta una novità rispetto ai tempi della schiavitù, allorché il lavoro coatto ne divorava quasi tutto il tempo. Chiunque voglia affrontare seriamente il tema della condizione delle donne nere sottoposte al regime della schiavitù, argomenta, deve prendere le mosse dal loro ruolo in quanto lavoratrici. Qui la Davis segue dunque la linea tracciata da autori come Eric Williams (5): allo stesso modo in cui costoro esaminano la condizione dello schiavo in quanto forza lavoro, prima di considerarne l’identità razziale, Davis esamina la condizione della schiava nera in quanto forza lavoro, prima di considerarne l’identità sessuale: in quanto entità lavorative che generavano profitto, scrive, esse potevano essere prive di genere. 


Nel secolo XIX sette schiavi su otto erano braccianti, maschi o femmine che fossero (e gli industriali schiavisti si servivano di uomini donne e bambini, quando i proprietari terrieri glieli offrivano) . In questo senso si potrebbe dire che esisteva una parità sessuale negativa, nella misura in cui entrambi i sessi vivevano le stesse condizioni di oppressione e sfruttamento da parte del padrone bianco. Certo, se erano fertili, le donne avevano una funzione produttiva in più: partorivano nuovi schiavi, bambini che potevano essere venduti e separati dalle madri “come si fa con i vitelli della vacca” ma, a parte questo, la schiavitù in quanto specifica forma economica del capitalismo ignorava i ruoli che governavano i rapporti di genere incorporati nell’ideologia della famiglia bianca ottocentesca (gli uomini al lavoro le donne in casa). 


Di più: la supremazia maschile nell’ambito delle comunità degli schiavi era scoraggiata perché il sistema non ammetteva “rotture nella catena di comando” che scendeva dall’alto in basso: padroni (uomini e donne), sorveglianti e schiavi, questi ultimi senza distinzioni di genere per non alimentare perniciose ambizioni di comando nel maschio nero. I nuclei familiari venivano spesso distrutti con la forza, aggiunge la Davis, anche se uomini e donne tentavano disperatamente di difendere proprie vite familiari dentro i risicati margini di autonomia di cui potevano disporre e, nell’ambito di queste precarie vite famigliari, vigevano relazioni egualitarie: per esempio, il lavoro domestico era equamente distribuito (anche in questo caso si può parlare di parità sessuale negativa, nel senso che tale lavoro rappresentava un peso comune che si aggiungeva a quello sfiancante dei campi). 


Parità anche nei ruoli e nelle forme di resistenza. Come tutti gli intellettuali neri radicali di cui mi sono occupato in post precedenti (6), anche Angela Davis sottolinea come, tanto nelle Antille quanto nelle Americhe continentali del  Nord e del Sud, le donne tentassero spesso di unirsi alle comunità degli schiavi fuggiaschi (maroons) anche se venivano più facilmente catturate, soprattutto quando cercavano di portarsi dietro i piccoli. E nelle piantagioni non era raro che assassinassero i padroni con il veleno e compissero sabotaggi come i loro compagni maschi. Era quando questi “delitti” venivano puniti che entrava in gioco la differenza sessuale. A parte i casi di infrazioni particolarmente gravi, che prevedevano la pena di morte sia per gli uomini che per le donne, lo stupro era una delle punizioni più frequenti per le donne, un atto, commenta Angela Davis, che fungeva, più che da soddisfazione degli appetiti sessuali dei maschi bianchi, da arma di dominio e repressione, da un lato fiaccando la volontà di resistenza delle donne, dall’altro demoralizzando gli uomini.



Una battaglia fra ex schiavi e soldati bianchi a San Domingo




Sulle donne bianche: razzismo e differenze di classe.


L’abolizione della schiavitù riduce la differenza fra donne di colore e donne bianche delle classi medie? Solo in minima parte, risponde Angela Davis: mentre a un quarto di secolo dall’emancipazione un gran numero di nere continuava a lavorare nei campi (7), e le poche che erano riuscite a diventare operaie svolgevano le mansioni più sporche e meno pagate, la condizione delle “sorelle” bianche subisce una trasformazione profonda: molte delle mansioni femminili che precedentemente erano svolte nell’ambito familiare (come lavoro a domicilio e/o lavoro riproduttivo complesso: fabbricazione di oggetti, tessitura, orticoltura, ecc.) vengono industrializzate, per cui le donne si ritrovano confinate nei ruoli riproduttivi più “bassi” e associati al lavoro di cura, divengono cioè “massaie” che non lavorano più fuori casa, una mutazione che, argomenta la Davis, produce “una nozione più rigorosa dell’inferiorità femminile”. 


Diverso il discorso per le donne bianche delle classi medio-alte: queste ultime, ancorché particolarmente attive nella campagna contro la schiavitù,  non erano quasi mai obbligate a lavorare per un salario, in quanto mogli di dottori, avvocati, giudici, commercianti e industriali. È in questo strato sociale che prende corpo il movimento suffragista che, osserva Angela Davis, produce documenti “proto-femministi” che propongono un’analisi della condizione femminile che trascura quella di tutte coloro che non appartengono alla classe delle autrici. 


Gli abolizionisti avevano contestato la schiavitù in quanto pratica ignobile e immorale, senza metterla in relazione con la sua funzione economica, vale a dire con il ruolo che aveva svolto nell’accumulazione primitiva (8), per cui le loro critiche non si estendevano al sistema capitalista; allo stesso modo, scrive la Davis, molte sostenitrici dei diritti delle donne consideravano il suprematismo maschile come una pecca di una società per il resto accettabile. E se le donne operaie avevano ogni diritto di paragonare la propria condizione a quella degli schiavi, aggiunge, le bianche di classe media che confrontavano la propria servitù domestica a quella dei Neri, implicitamente affermavano così che la schiavitù non era tutto sommato peggio del matrimonio. 


Quando iniziarono – più o meno nello stesso periodo - le lotte per il diritto di voto alle donne e ai Neri poteva sembrare che l’emancipazione avesse reso gli ex schiavi uguali alle donne bianche, ma questa idea rimuoveva quale terribile precarietà fosse associata alla “libertà” che il popolo nero aveva ottenuto: dal dissolversi del sogno dei “quaranta acri di terra e un mulo”,  al moltiplicarsi delle manifestazioni di odio razziale tanto al Sud che al Nord (dopo l’istituzione della leva militare al Nord vi furono rivolte nelle grandi città che causarono il massacro di centinaia di Neri, mentre al Sud il numero dei linciaggi crebbe esponenzialmente nei primi decenni successivi all’'emancipazione), all’uso sistematico del lavoro coatto dei carcerati neri (in continuo aumento anche per reati irrisori: una tendenza che perdura ai giorni nostri) per rimpiazzare il lavoro degli schiavi.  


Fin qui le analisi storiche e i ragionamenti critici della Davis non mi sono sembrati particolarmente sorprendenti, benché tutt’altro che scontati, devo invece confessare di essere rimasto scosso laddove l’autrice rivela che, tanto il movimento abolizionista, quanto quel movimento suffragista che le femministe di oggi rivendicano orgogliosamente fra le proprie radici storiche e ideologiche, erano intrisi del più bieco razzismo. Nella seconda metà dell’Ottocento, ricorda la Davis, fra le suffragiste e i loro simpatizzanti maschi era opinione comune che chiunque – intellettuali, politici, cenacoli culturali, ecc. - promuovesse il suffragio femminile fosse utile alla causa anche se manifestava opinioni apertamente razziste. Del resto gli abolizionisti avevano sempre sostenuto che le donne bianche, colte e nate negli Stati Uniti, avevano più diritto di votare dei Neri e degli immigrati (uomini e donne), in quanti questi ultimi – “barbari”, incolti e spesso analfabeti – non erano in grado di nutrire opinioni politiche razionali e motivate (9). Angela Davis cita in merito l’autorevole opinione di tale Elizabeth Cady Stanton che dichiarò in più occasioni che si sarebbe dovuto impedire qualsiasi progresso per i Neri se questo non avesse procurato immediati benefici per le donne bianche. 


In particolare, scrive ancora la Davis, per le femministe bianche le “sorelle” nere erano sacrificabili quando si trattava di fare la corte alle donne bianche del Sud per riceverne sostegno politico per i propri obiettivi: così la campagna per il voto alle donne sfruttava l’argomento che il voto delle donne bianche colte del Sud avrebbe neutralizzato gli effetti “sovversivi” della concessione del diritto di voto ai Neri. Si capisce perciò perché, non solo le donne nere, ma anche le lavoratrici bianche non fossero particolarmente affascinate dalla lotta per ottenere un diritto di voto che le avrebbe rese uguali ai loro uomini sfruttati e sofferenti. Del resto il conflitto di classe fra donne aveva altre validissime ragioni: per esempio, le bianche che lavoravano come domestiche erano immigrate europee che, come le ex schiave, erano costrette ad accettare qualsiasi lavoro, e le loro padrone della classe media bianca – femministe incluse -hanno sempre manifestato (anche oggi e non solo negli Stati Uniti: vedi più avanti l’Appendice) una forte riluttanza ad appoggiarne le lotte e a riconoscerne i diritti. Peggio: in caso di sciopero, le bianche dell’upper class incitavano le operaie a praticare il crumiraggio, in quanto ritenevano che, in questo modo, avrebbero rafforzato la propria posizione contrattale in quanto donne (10). Infine, sempre in materia di classismo femminista, la Davis ricorda la posizione di alcune esponenti del movimento in merito al tema della contraccezione: il controllo della nascite, rivendicato come un mezzo delle classi medie per agevolare la propria carriera lavorativa, era al tempo stesso indicato come uno strumento per ridurre la proliferazione della classi inferiori, cioè come un diritto nel primo caso e un dovere nel secondo, anche per impedire che il popolo americano corresse il rischio di essere sostituito da Neri e stranieri migranti grazie ai loro alti tassi di natalità (vi ricorda qualcosa?)


Per concludere questo piccolo museo degli orrori, resta da citare l’atteggiamento di alcune intellettuali del movimento femminista americano nei confronti del fenomeno del continuo aumento del numero di Neri mutilati, uccisi e/o condannati a morte per false accuse di stupro: queste anime candide non esitavano a rilanciare lo stereotipo secondo cui i Neri sono più propensi alla violenza sessuale, per cui, fingendo di perorare la causa di tutte le donne, si ergevano a paladine delle donne bianche minacciate dalla libidine nera (la Davis cita in merito il caso agghiacciante di una distinta madama che, di fronte al caso del massacro di un tredicenne accusato di molestie su una bianca, se la cava dicendo che sicuramente deve avere avuto le sue colpe). 



Appendice. Femminismo señorial; Butler sulla notte di Colonia; Davis sul salario al lavoro domestico.


I.

Poco sopra citavo la critica di Angela Davis alle proto-femministe americane di classe media che si sono ben guardate dal sostenere la lotta delle lavoratrici domestiche (nere e bianche immigrate) per il riconoscimento dei propri diritti. Si tratta di un’osservazione che non ha perso di attualità nel mondo occidentale contemporaneo, mentre assume sfumature razziste e classiste ancora più evidenti in certi Paesi Latinoamericani. Per esempio, mentre mi trovavo in Ecuador per una ricerca sulla Revolucion Ciudadana di Rafael Correa mi sono imbattuto in un articolo di M. Cabezas Fernández (11) che definisce femminismo señorial l’atteggiamento di alcune deputate boliviane sulla lotta delle lavoratrici domestiche di etnia india. Riporto qui di seguito integralmente quanto scrivevo in merito in Utopie letali (12): 


M. Cabezas Fernández racconta la lotta delle lavoratrici domestiche boliviane: indie affidate in tenera età a famiglie della borghesia bianca di città, costrette a lavorare sedici ore al giorno senza retribuzione (ricevono solo vitto e alloggio), finché vengono rispedite alle famiglie di origine nelle stesse condizioni in cui avevano lasciato la foresta amazzonica. Queste donne si sono organizzate in sindacato per chiedere un salario minimo garantito e il riconoscimento dello status di lavoratrici. La lentezza con cui hanno ottenuto giustizia è dipesa dall’opposizione incontrata da parte di alcune parlamentari femministe di sinistra perché: le ragazze non erano trattate come serve bensì come “figlie” e del resto molte famiglie non sarebbero state in grado di pagarle. La Fernández contrappone a questo atteggiamento un femminismo critico che non consideri le donne una categoria omogenea e riconosca che la “sorellanza” non è un presupposto naturale, bensì il risultato di una costruzione politica che tenga conto delle differenze di classe e di identità culturale.


II.

Il noto episodio della notte del 31 dicembre 2015, durante la quale una folla di immigrati musulmani ha invaso il centro di Colonia e molestato alcune cittadine tedesche che festeggiavano il capodanno, ha innescato un duro scontro fra femministe tedesche e la filosofa americana Judith Butler il cui commento sull’evento in questione è stato accusato di relativismo culturale e indulgenza nei confronti del maschilismo islamico. Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (13) ho difeso le ragioni della Butler con la seguente argomentazione:


Judith Butler



Le critiche che Butler rivolge all’universalismo femminista riguardano il mancato riconoscimento: 1) del fatto che le donne non sono l’unico segmento di popolazione esposto a condizioni di precarietà e di privazione dei diritti; 2) del fatto che la popolazione sussumibile sotto la denominazione minoranze di genere e sessuali (come gli/le appartenenti alle comunità LGBTQ) è differenziata al proprio interno in termini di classe, razza, religione, appartenenze comunitarie, linguistiche e culturali. Da questa duplice presa d’atto, la Butler fa derivare la seguente conseguenza: il movimento femminista deve diffidare delle forme di riconoscimento pubblico, soprattutto se e quando tali riconoscimenti servono a deviare l’attenzione dal disconoscimento dei diritti di altri soggetti. In breve: se Butler parla della necessità, in casi come quello della notte di Colonia, di portare avanti un discorso antisessista che sia al tempo stesso antirazzista, non lo fa per negare la gravità dell’episodio, bensì perché si propone di indagare le vie attraverso le quali “la precarietà potrebbe operare come luogo di alleanza fra gruppi di persone che, al di là di essa, hanno poco in comune, o tra i quali c’è talvolta persino diffidenza o antagonismo”.


III.

A metà degli anni Settanta, trovandomi a Padova per completare il mio percorso di studi in Scienze Politiche, ho avuto occasione di discutere con un gruppo di amiche femministe guidato da Mariarosa Dalla Costa, le quali teorizzavano la necessità di lottare per ottenere un salario per il lavoro domestico. Leggendo a decenni di distanza il libro di Angela Davis, ho potuto constatare che le ragioni con cui critica questa linea politica coincidono in larga misura con quelle da me allora avanzate. Le sintetizzo qui di seguito 


1) La rigenerazione della forza lavoro, scrive la Davis, non è parte integrante del processo di produzione sociale ma un suo prerequisito. Qui è sollevato un punto teorico complesso che chiama in causa la progressiva sussunzione di tutti gli aspetti della vita sociale – compresa la rigenerazione della forza lavoro - sotto il processo di valorizzazione del capitale - vedi in merito le tesi di Nancy Fraser (14). Si tratta di una questione che non ho qui modo di approfondire, perché richiederebbe una discussione assai ampia. Mi limito ad osservare che il punto di vista della Davis si riferisce al processo di produzione sociale in generale, mentre quello della Fraser si riferisce specificamente al processo di produzione capitalistico nella sua fase avanzata di terziarizzazione del lavoro. Quindi il dilemma diventa: la colonizzazione capitalistica di tutti i mondi vitali e la conseguente monetizzazione di ogni attività umana è un dato di fatto da accettare (Fraser) o è giusto opporvisi (Davis)? 


2) Nella misura in cui opta per il rifiuto della sussunzione capitalistica dei mondi vitali, Angela Davis considera la rivendicazione del salario al lavoro domestico una forma di adattamento alla logica interna al capitalismo, e quindi la giudica una mossa politica controproducente nella prospettiva di una opposizione antagonista al sistema (si tratta dunque di una critica analoga a quella rivolta agli abolizionisti e alle femministe – vedi sopra – laddove questi assumono atteggiamenti che, mentre rifiutano sul piano morale determinate ingiustizie, lasciano intendere che, una volta che esse siano state eliminate, il sistema può essere accettato così com’è). 


3) Quante sarebbero, si chiede Angela Davis, le donne davvero disposte a occuparsi per sempre di faccende domestiche pur di ottenere un salario? Le donne di servizio sono quelle che conoscono sulla loro pelle che cosa significhi avere un salario in cambio del lavoro domestico, una consapevolezza che evidentemente manca alle donne della classe media che avanzano questa rivendicazione.


4) Invece del salario al lavoro domestico, sostiene infine la Davis, sarebbe meglio rivendicare la sua industrializzazione, creando una serie di servizi pubblici accessibili ale classi lavoratrici. 



Note


(1) K. Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi, Milano 2024. 


(2) L’elenco dei leader di governi e movimenti di liberazione rovesciati o fatti assassinare dagli agenti dell’imperialismo occidentale è interminabile (Lumumba, Cabral, Nkrumah ecc.). Lo stesso dicasi dei leader dei movimenti neri radicali nelle Americhe (Malcolm X, Carmichael, Rodney, ecc.).


(3) Vedi in particolare i capitoli dedicati alla critica dell’Afro pessimismo 2.0 e dei teorici del postcoloniale in K. O. Okoth, op. cit.


(4) A Davis, Donne razza e classe, Alegre, Roma 2018.


(5) Cfr. E. Williams, Capitalism and Slavery, University of North Carolina Press 1944 – 1994.


(6) Oltre a quello su E. Williams, vedi i post su Amilcar Cabral, William Du Bois, George Padmore, Walter Rodney, Cedric Robinson e C. L. R. James.


(7) Sullo svanire del sogno di un lavoro decente (quaranta acri di terra e un mulo) subito dopo l’emancipazione, vedi i racconti di W. Du Bois sulla condizione di donne e uomini ridotti a lavorare come braccianti in condizioni non molto migliori di quelle degli schiavi di un tempo (Les âmes du peuple noir, Editions Rue d’Ulm, Paris 2004). 


(8) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV, “La cosiddetta accumulazione originaria”.


(9) Con gli stessi argomenti, le attuali élite borghesi dei Paesi occidentali (senza distinzione fra destra e sinistra) si scagliano contro gli elettori “incolti”che “votano male”.


(10) Anche in questo caso troviamo una corrispondenza con l’atteggiamento attuale di certe élite femministe piccolo-medio borghesi che antepongono i propri interessi di carriera a qualsiasi motivazione politico-ideologica.


(11) M. C. Fernandez, “19 años de lucha por la ley 11 en el parlamento”, Iconos, n. 44, settembre 2012.


(12) C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.


(13) C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.


(14) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism; Verso, New York 2013; vedi anche Capitalism (con R. Jaeggi), Polity Press, Cambridge 2018.

sabato 1 marzo 2025

PANAFRICANISMO, MARXISMO, COMUNISMO
II. CEDRIC ROBINSON



Cedric Robinson (1940 – 2016), americano, nato in una famiglia emigrata in California per sfuggire al terrore razziale dell’Alabama, è stato professore di Black Studies all’Università della California fino alla morte. A lui dobbiamo il più importante contributo della seconda metà del Novecento al dibattito afro marxista iniziato nell’interguerra (vedi il precedente post su “Panafricanismo, Marxismo, comunismo”). Black marxism (1), la sua opera più importante, è un lavoro monumentale di cui cercherò di ricostruire le linee fondamentali. Senza seguire l’ordine espositivo del libro, che del resto ha una struttura rapsodica, affronterò, nell’ordine, i seguenti temi: 1) critica dell'impostazione logicistica (hegeliana) del cosiddetto marxismo storico e dialettico; 2) le radici storiche del capitalismo e il ruolo del razzismo nel rapporto di sfruttamento capitalistico; 3) meriti e limiti dell’analisi marxiana (e dei movimenti politici ad essa ispirati); 4) valorizzazione del radicalismo afroamericano come via autonoma al superamento del capitalismo. 





I. Critica dell’impostazione logicistica (hegeliana) del materialismo storico


Robinson fonda la sua critica metodologica al cosiddetto materialismo storico e dialettico su un presupposto che chi scrive non può che condividere (2): occorre prendere congedo dal concetto di necessità storica ispirato dalla logica hegeliana e dalla teoria evoluzionista, in base al quale ogni modo di produzione è il prodotto delle contraddizioni interne di quello che lo ha preceduto. I capitalisti di una certa epoca, replica Robinson, non discendono da quelli dell’epoca precedente per una sorta di  legge immanente alla storia; al contrario: ogni mutazione socioeconomica rompe la continuità storica – potremmo dire con Walter Benjamin (3) che è un “balzo di tigre” . 


Illustrando tale visione con un esempio, Robinson scrive che la classe mercantile europea che, in base alla storiografia “ortodossa”, avrebbe funzionato da nucleo di aggregazione della futura classe borghese, era alle origini uno strato sociale composto da individui “sradicati” rispetto all’ordine sociale dal quale sono emersi come un fenomeno estrinseco: nomadi fuggiti dai feudi, vagabondi energici e temprati dai rischi di una vita imprevedibile, pronti a cogliere ogni occasione per arricchirsi. Analogo discorso vale per la classe operaia che, argomenta Robinson, non fu mai quella omogenea entità sociale e storica che una certa storiografia vorrebbe farci credere, offrendone un’immagine “universalistica”che rappresenta la conseguenza logica (“la classe in sé”) dei rapporti di produzione della società capitalistica. All’inizio, il movimento socialista (il che vale per tutto l’Ottocento, compresa la Comune di Parigi) era guidato da artigiani e piccoli commercianti portatori di valori e idee tradizionali. Per inciso, questa tesi trova conferma nel fatto che le prime forme di lotta e resistenza, come quella dei Luddisti inglesi (4), non erano tanto contro le macchine quanto contro l’organizzazione industriale della produzione, cioè contro la trasformazione del piccolo produttore indipendente in operaio salariato.


Il sogno di questi strati sociali proto proletari (che trovava riscontro nei progetti dei vari Owen, Proudhon e altri socialisti utopisti) era una società di piccoli proprietari e salariati ben pagati – sogno che sopravvive tuttora in certe nostre piccole imprese e nell’immaginario postbellico della middle class americana (5). Si potrebbe dire che il socialismo esordì come espressione di una parte della società borghese e che continua a portare le stigmate di questa origine, mentre tanto la classe operaia moderna quanto il capitalismo fondato sull'estorsione di plusvalore relativo, tipico della grande industria meccanizzata furono, almeno per quasi tutto l’Ottocento, il parto dell’anticipazione visionaria del Marx dei Grundrisse (6) piuttosto che della realtà socioeconomica in cui lui ed Engels vivevano. 


Per Robinson, lo scarto fra modelli astratti partoriti dalla teoria e processi storici reali, ha fatto sì che la concezione del capitalismo come forza progressiva in grado di migliorare la padronanza degli uomini sulle basi materiali della loro esistenza, non abbia mai consentito di comprendere del tutto le dinamiche del capitalismo moderno. Questo perché il capitalismo, in quanto sistema “oggettivo”, non ha mai raggiunto la coerenza strutturale e organizzativa descritta dalla teoria. Parlando ad esempio  della teoria dei “sistemi mondo” di Wallerstein (7), Robinson scrive che essa non riesce a catturare “il caos del capitalismo”. 


Cedric Robinson



Una delle conseguenze della tendenza ad appiattire la realtà sui modelli teorici, sostiene ancora Robinson, consiste nel fatto che, dal momento che è soprattutto la realtà delle società metropolitane, Europa e Stati Uniti, ad avvicinarsi maggiormente al modello, ne deriva la presunzione che i processi storici e sociali determinanti siano europei, per cui i marxisti hanno spesso (anche se non sempre, va sottolineato) sostenuto che le lotte del Terzo Mondo sono secondarie rispetto agli interessi del proletariato metropolitano. È questa presunzione che, come si è visto nella prima puntata di “Panafricanismo, Marxismo, Comunismo”, ha fatto sì che molti marxisti neri si siano allontanati dal movimento comunista ufficiale. Dando le dimissioni dal PCF (8) Aimé Césaire dichiarò a tale proposito “Ciò che pretendo è che il marxismo e il comunismo servano i popoli neri e non il contrario. Una dottrina ha valore solo se viene concepita da noi e per noi”.



II: Le radici storiche del capitalismo e il ruolo del razzismo


A Robinson viene spesso attribuita la responsabilità di avere coniato la categoria di capitalismo razziale. In realtà ciò non è esatto, il termine fu usato prima di lui, tanto da militanti sudafricani del movimento contro l’apartheid, quanto da alcuni autori afromarxisti dell’interguerra. Tuttavia è stato Robinson ad attribuirgli un senso più ampio e articolato, sia dimostrando che la dimensione razziale ha svolto un ruolo costitutivo del modo di produzione capitalistico fin dalle origini, sia dimostrando che tale dimensione, tanto a livello materiale che a livello simbolico, va indagata in primo luogo come una questione di classe, depurandola cioè da tentazioni “essenzialiste” - vedi la critica di Kevin Ochieng Okoth (9) al cosiddetto  Afropessimismo 2.0 -, di coloro che la associano esclusivamente alla “linea del colore”.


Polemizzando con quest’ultima posizione, Robinson scrive che la razza come dispositivo di controllo e di dominio non è emersa seguendo la linea del colore: la preistoria della inferiorizzazione razziale moderna va infatti cercata nella riduzione in schiavitù di popoli slavi e orientali nel medioevo europeo, e successivamente degli irlandesi. Secondo lui è stata la schiavitù medioevale a servire da modello alla schiavitù coloniale atlantica. Si tende a identificare il razzismo con la inferiorizzazione dei popoli di colore, ma la verità è che esso è sempre stato un potente strumento per creare gerarchie all’interno della stessa razza bianca. E non si tratta solo del mito della superiorità ariana che ha toccato il parossismo con il regime nazista: è stato anche lo sciovinismo anglosassone ad alimentare forme di razzismo finalizzate a stratificare la classe lavoratrice britannica, mettendo inglesi contro irlandesi (10). Non vanno infatti dimenticate le conseguenze della colonizzazione dell’Irlanda, dalla possibilità di sottopagare gli immigrati irlandesi a quella di imporgli condizioni di vita e di lavoro disumane in quanto “razza inferiore”. Del resto anche l’economia del Nord America e delle Indie Occidentali si avvalse inizialmente del lavoro coatto di servi bianchi, soprattutto ma non solo irlandesi (servitù debitoria, donne “di dubbia reputazione”, vagabondi, galeotti ecc.). (11). 


Guerra civile in Irlanda



Solo allorché non fu più possibile soddisfare la richiesta di forza lavoro dei piantatori in questo modo si passò alla tratta degli schiavi africani. Anche ragionando su questo passaggio Robinson parte da lontano. Prende addirittura le mosse dal crollo dell’Impero romano che provocò lo svanire della memoria dei rapporti con le lontane province dell’Africa e del Medio Oriente, dopodiché l’espansione islamica impedì del tutto a un’Europa sprofondata nei secoli bui dell’Alto Medioevo ogni accesso alla civiltà e alla cultura di quelle regioni. Ne nacque un etnocentrismo fondato sull’ignoranza e legittimato dalla Chiesa al punto che, per mille anni, l’immaginario occidentale fu plasmato esclusivamente dalla teosofia, dalla demonologia e dal  mito (hic sunt leones, il regno di Prete Gianni ecc.) e il rapporto con l’altro assunse i tratti dell'islamofobia e del terrore dei Mori. Questo antagonismo tocca l’acme con le Crociate, e solo il rifiorire del commercio mediterraneo lo diluirà progressivamente, consentendo la reintroduzione dei testi dell’antichità classica attraverso i regni moreschi della Spagna meridionale. 


La conversione del negro da nemico di guerra in forza lavoro da schiavizzare è associata a questa espansione dei commerci e al loro prolungarsi al di fuori delle acque mediterranee. La tratta atlantica è infatti l’esito dell’intreccio di rapporti fra la potenza finanziaria di Genova e il Portogallo, beneficiario dei prestiti genovesi al pari dell’alleata Gran Bretagna. Grazie a questi finanziamenti, i portoghesi esplorano le coste africane su cui era già approdata la spedizione dell’ammiraglio cinese Zheng He (le cui velleità di esploratore vennero stroncate dalla politica imperiale che impose alla Cina una svolta isolazionista) (12). Trovando la via verso Oriente sbarrata, gli spagnoli cercano un passaggio alternativo attraverso l’Atlantico, sbarcando nelle Indie Occidentali. Nel XVI secolo l’inizio della tratta (che rimase a lungo in mani portoghesi, prima di passare in quelle inglesi e francesi) fu conseguenza “naturale” di queste esplorazioni, mentre la straordinaria ricchezza generata dal “commercio triangolare” e dall’economia coloniale antillana che sfrutta il lavoro di milioni di neri – qui l’analisi di Robinson ricalca quelle di Williams e James - innesca quella “accumulazione primitiva” che favorì la nascita del moderno modo di produzione capitalistico. 


Il commercio triangolare



Prima di chiudere il paragrafo, resta da accennare al fatto che Robinson rovescia il punto di vista di quegli  storici del capitalismo che attribuiscono a quest’ultimo il ruolo di “genitore” dello stato-nazione. Robinson è al contrario convinto che tanto il capitalismo quanto il nazionalismo siano creazioni dello stato moderno. Lo stato assoluto, argomenta, emerge nel secolo XV come causa ed effetto al tempo stesso del lungo ciclo di guerre che sconvolse l’Europa,  esso fu l’artefice di un’economia di guerra, di un commercio internazionale armato e di una burocrazia statale preposta all'amministrazione dei conflitti. Le emergenti classi mercantili e bancarie prendono possesso e parassitano questo organismo: obbligazioni, monopoli (vedi le regole mercantiliste di gestione dell’economie coloniali) e agenti dello stato che occupano e controllano i nodi nevralgici della sua crescita. Credo sia interessante notare che, nel capitolo del Capitale sull’accumulazione primitiva, Marx conferma tale tesi ragionando sulla funzione del debito pubblico quale potente fattore di accumulazione di ricchezza. Quanto alla costruzione della nazione – che non intendo affrontare in questo contesto – essa avanzò parallelamente al processo appena descritto 



III. Il confronto con Marx e il movimento comunista

 

Tutti gli esponenti del radicalismo rivoluzionario nero si sono professati marxisti, ma non hanno lesinato critiche ad alcune tesi sostenute da Marx ed Engels. E molti di essi sono stati militanti del movimento comunista per poi prenderne le distanze. Sappiamo, da quanto ho ricordato in questo e nel precedente articolo dedicato al tema, che la rottura è avvenuta perché i comunisti “ufficiali” avevano una posizione eurocentrica, nel senso che sottovalutavano il ruolo delle lotte contro il colonialismo, considerandole secondarie o comunque subordinate agli obiettivi del proletariato (per lo più bianco) metropolitano. Ma quali erano i rimproveri rivolti ai padri fondatori del movimento?


Credo si possa dire che le prime ragioni di dissenso si trovano nel Manifesto del 1848. Qui Marx ed Engels insistevano sul ruolo progressivo, “rivoluzionario” della borghesia europea, sul fatto che essa avrebbe plasmato l’intero pianeta a propria immagine e somiglianza e trasformato tutte le società del mondo in strutture bipolari basate su due sole classi: padroni e proletari, generando così le condizioni storiche (gli operai come “affossatori” del capitalismo) della transizione al socialismo. Uno degli aspetti più positivi di tale polarizzazione, sostenevano, sarebbe stata l’eliminazione delle masse contadine, che definivano come “residui” delle società pre capitaliste, e alle quali attribuivano posizioni conservatrici, se non reazionarie, sul modello della Vandea che si era sollevata contro la Rivoluzione del 1789. 





Della prima previsione – apprezzata sia dalle élite borghesi degli ultimi decenni che, dopo il crollo sovietico del 1989, hanno ritenuto di scorgervi un’anticipazione profetica del mondo globalizzato sotto le leggi del libero mercato, sia dai teorici post operaisti alla Negri (13) – ha fatto giustizia la realtà storica: da un lato, il mondo non si è affatto omologato ma appare sempre più differenziato, e socialmente stratificato, articolato com’è in centri, periferie e semiperiferie dai connotati sempre più vari (e irriducibili alla polarizzazione di classe prevista dal Manifesto); dall’altro lato, il cuore della rivoluzione mondiale è emigrato dalle metropoli alle periferie, laddove le larghe masse contadine sono state le protagoniste principali delle sole rivoluzioni socialiste vittoriose che si siano verificate nell’ultimo secolo.


Robinson – al pari di altri afro marxisti – riconosce tuttavia a Marx di avere, soprattutto nell’ultima parte della propria vita, modificato radicalmente certe sue posizioni: polemizzando con il recensore russo dell’edizione del Capitale, ad esempio, negò di avere mai voluto descrivere le leggi di sviluppo universali che determinerebbero il destino di tutti i popoli del mondo, ma ribadì di avere semplicemente analizzato le origini e le dinamiche di sviluppo del capitalismo inglese nell’Ottocento. Quanto alla questione del ruolo storico della classe contadina, nella famosa lettera a Vera Zasulich, ammise che la comunità contadina di base (obscina) avrebbe potuto – sia pure a determinate condizioni (14) - fungere da agente catalizzatore di una rivoluzione russa in grado di realizzare il socialismo senza passare dalla fase capitalistica. 


Ancora: messo di fronte al fatto che i lavoratori inglesi avevano iniziato a godere i benefici di una “aristocrazia operaia” a spese dell’oppressione coloniale del popolo irlandese e del supersfruttamento dei migranti irlandesi in Gran Bretagna, Marx comprese che la liberazione nazionale dell’Irlanda era precondizione necessaria di una rivoluzione proletaria in Inghilterra. Anche se, nota Robinson, non estese tale giudizio all’India, restando del parere che la colonizzazione inglese avrebbe liberato quel Paese dalla sua “arretratezza” (15) e anche se, a parte la questione irlandese, non arrivò mai ad avere una visione unitaria e coerente della questione nazionale (ed Engels, ricorda sempre Robinson, assunse addirittura posizioni slavofobe – con qualche accenno di sciovinismo germanico (16) – a proposito dei movimenti irredentisti dei Balcani). Di fatto bisognò attendere Lenin per mettere correttamente a fuoco la dialettica fra internazionalismo e autodeterminazione nazionale (e la sua posizione in merito suonò “eretica” - vedi le critiche della Luxemburg – a fronte di un movimento comunista schierato contro ogni forma di nazionalismo). 


Ritratto di uno schiavo fuggiasco



Infine il merito maggiore di Marx, sempre secondo Robinson, è stato il riconoscimento, nel contesto dell’analisi del capitolo del Capitale dedicato all’accumulazione primitiva, del peso economico determinante della schiavitù: senza schiavitù, scrive Robinson parafrasando Marx, non c’è cotone e senza cotone non c’è industria moderna. La schiavitù ha dato alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio mondiale, il commercio mondiale è la condizione necessaria per l’industria meccanizzata su larga scala, la schiavitù è perciò una categoria economica della massima importanza. Tuttavia per Marx l’accumulazione primitiva e i suoi orrori erano ancora una “fase” – il “peccato originale” del capitalismo lo definisce con metafora biblica (17) –, la sanguinosa aurora del modo di produzione capitalistico. Robinson ha invece introiettato la lezione del marxismo coloniale e postcoloniale che ha compreso – vedi il concetto di “accumulazione per espropriazione” di David Harvey – che si tratta di una dinamica permanente, indispensabile alla sua riproduzione allargata e quindi alla sua stessa sopravvivenza. 


Infine per Marx l’unica prospettiva di emancipazione per gli schiavi neri era la loro trasformazione in salariati “liberi”, in proletari mobilitabili nella lotta contro il capitale. Siamo sempre, cioè, nell’ottica del superamento di aspetti “residuali”, pre capitalistici, legati appunto all'accumulazione primitiva come “fase” transitoria, destinata ad essere riassorbita nella forma compiuta, “ideale” di un modo di produzione capitalistico pur sempre investito di un ruolo storico “progressivo”. Tale punto di vista, commenta Robinson, ignora che i lavoratori africani “portavano con sé il loro passato” e che questo passato non era un peso residuale di cui liberarsi, bensì, aggiunge citando Cabral, il germe culturale da cui scaturiva la loro resistenza, tanto è vero che la prima preoccupazione di ogni dominio imperiale è precisamente quella di liquidare la cultura dei popoli dominati, estirpando questo germe culturale rimosso. È attorno a questo nodo che l'afromarxismo , da un lato, si è visto costretto a prendere distanza da un marxismo occidentale che non aveva risposte per le loro richieste e loro speranze, dall’altro lato a cercare un modo per estrarre dal marxismo un nucleo compatibile con l’esigenza di preservare le proprie radici culturali. 



IV: Una via africana al socialismo?


Il lavoro di Robinson, ma questo vale anche per quasi tutti gli altri esponenti del radicalismo nero che ho analizzato in una serie di articoli recenti, solleva un interrogativo cruciale: come è stato possibile che il riemergere di elementi ideologici pre capitalisti abbia agito da catalizzatore in processi rivoluzionari svoltisi in epoca capitalistica, determinando successi che, secondo i canoni della “oggettività” storica, sarebbero apparsi impossibili? 


L’interrogativo vale, ovviamente, al di là del contesto africano (basti citare le grandi rivoluzioni contadine in Asia e America Latina). Vale per la Cina e per la Russia (per quest’ultima si può obiettare che nel 17 esisteva già, almeno nei grandi centri, un consistente nucleo di  classe operaia moderna, ma c’è chi ha giustamente osservato (18) che si trattava di un proletariato di recente inurbazione il quale, con i soviet,  ha adottato modelli organizzativi mutuati dalle istituzioni di democrazia tradizionale di villaggio). Vale per il Messico, per Cuba e più in generale per tutta l’America Latina: dalle bande dei peones del 1915 ai neo zapatisti di Marcos, passando per i campesindios boliviani ed ecuadoriani e il loro recupero dei valori ancestrali del buen vivir (19).


Robinson risponde in parte al quesito laddove solleva il seguente punto: le prime lotte di classe, sia quelle svoltesi durante l’accumulazione primitiva nelle metropoli, come quella dei luddisti inglesi, sia quelle del Sud del Mondo in epoca coloniale e postcoloniale, sono state tutte forme di resistenza alla trasformazione in proletariato. Secondo la prospettiva progressista/evoluzionista di un certo marxismo si tratta di lotte di retroguardia, nel senso che la trasformazione in proletariato è la via regia che consente di avanzare verso il socialismo. Il guaio è che il moderno proletariato metropolitano si è rivelato poco propenso a imboccare la via della rivoluzione, accontentandosi di usufruire delle briciole dei sovraprofitti elargite dall'imperialismo occidentale a spese dei popoli periferici. Viceversa sono state solo alcune lotte di resistenza alla riduzione allo status di proletariato che hanno consentito di fare il balzo diretto al socialismo. E allora?


Torniamo al dibattito interno all’afro marxismo. Un tratto comune è la valorizzazione della questione nazionale. Il ventaglio degli approcci è tuttavia ampio. Negli Stati Uniti abbiamo avuto la posizione di Marcus Garvey, che ha tentato di edificare le strutture di una nazione africana in esilio da ritrasportare in blocco sul continente  di origine, mentre movimenti più recenti (vedi Malcolm X e Stokely Carmichael) hanno pensato alla costruzione di una nazione separata sul suolo americano. In Africa Amilcar Cabral ha rappresentato il movimento di liberazione nazionale come un fenomeno in ragione del quale una totalità socioeconomica si oppone alla negazione del suo percorso storico (20).Su altri ha avuto una forte influenza la Rivoluzione di Haiti, dalla quale James ha tratto la convinzione della necessità di rompere con l’evoluzionismo storicista, sostenendo che  quell’evento aveva dimostrato che cultura e ideologia borghesi sono irrilevanti ai fini dello sviluppo di una coscienza rivoluzionaria fra i Neri e gli altri popoli del Terzo Mondo.


Quanto a Robinson, enfatizza le forme di resistenza degli schiavi che hanno gettato le basi di una cultura panafricana della diaspora: i maroons che lavoravano la terra in modi ispirati all’agricoltura africana, gli schiavi che conservavano concetti di famiglia e parentela che sfuggivano alla comprensione e al controllo dei padroni; le pratiche di sabotaggio nelle piantagioni (rottura degli attrezzi, incendio delle colture, lavoro rallentato, furti e fughe), la creazione di comunità autosufficienti di fuggiaschi, lo sviluppo di nuove religioni e linguaggi come base di un sincretismo inter africano. 


Mentre conservano il marxismo come strumento di analisi critica del capitalismo e dell'imperialismo, questi intellettuali neri delusi dal comunismo occidentale hanno sempre più considerato il panafricanismo rivoluzionario come il loro orizzonte politico primario. Questo panafricanismo - fatta eccezione per Cabral, il quale considera la costruzione di un partito rivoluzionario come uno strumento indispensabile per la lotta di liberazione – è spesso associato a una visione politica libertaria e spontaneista. Robinson, per esempio, afferma che è la rivoluzione a causare la formazione di una coscienza rivoluzionaria, e non il contrario, così come critica “il mito occidentale della leadership politica” esaltando la logica di alcune società africane acefale, e le loro forme di vita strutturate a partire da principi non identitari, anti gerarchici e anti individualistici. 




Note conclusive 


Il merito fondamentale di Black Marxism è a mio avviso quello di avere elaborato una serie di riflessioni critiche su alcuni limiti della teoria marxista che trascendono il punto di vista specificamente “africano". Elenco qui di seguito quelle che ritengo più importanti e significative:


1. L’approccio progressista/evoluzionista che contraddistingue uno dei “regimi narrativi” (21) che sostanziano il corpus teorico marxiano ha perso qualsiasi senso a quasi due secoli dalla pubblicazione del Manifesto. Le smentite sul presunto ruolo “progressivo” del modo di produzione capitalistico, sulla sua capacità di omologare il mondo alle stesse forme sociali (polarizzazione di classe, ecc.), per tacere del giudizio a priori sul ruolo conservatore e reazionario delle larghe masse contadine, liquidate come “residui” precapitalistici, sono ormai tali e tante da non meritare ulteriori commenti. Ciò che resta da discutere e approfondire è piuttosto una questione di metodo assai opportunamente sollevata da Robinson:  mi riferisco alla tendenza ad appiattire la realtà sui modelli astratti della teoria. Questo vizio, più che a Marx, per tacere di Lenin, assai attento, come dimostrano i suoi scritti storici sulle lotte di classe in Francia, all’esigenza di fare sempre analisi concreta della situazione concreta, è imputabile alla maggior parte dei marxisti “ortodossi” i quali, come giustamente nota Robinson, hanno sottovalutato il peso delle lotte delle periferie del mondo in base al principio che il cuore della rivoluzione batte necessariamente laddove le forze produttive hanno raggiunto il più elevato livello di sviluppo. Il che ci porta al punto successivo.


2. Dal punto di vista di Marx (qui la critica riguarda anche il maestro) le lotte di resistenza di determinati strati popolari (contadini, artigiani, piccoli commercianti, ecc.) alla proletarizzazione, alla trasformazione in operai salariati, sono sempre cause perse se non intralci al pieno sviluppo dei rapporti sociali di tipo capitalistico. Il nodo è cruciale, dal momento che è proprio questo tipo di resistenza (ideologica e culturale oltre che economica) che ha innescato certe lotte anticoloniali e antimperialiste che si sono evolute in rivoluzioni socialiste. Ciò è evidente nel caso delle rivoluzioni del Terzo Mondo, ma vale anche ove si consideri la forma che certe lotte di classe hanno assunto nei Paesi a capitalismo avanzato (vedi il peso del retaggio culturale e contadino degli immigrati meridionali nel ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta in Italia). Per parafrasare Walter Benjamin: la rivoluzione, più che da locomotiva, agisce da freno a mano della storia o, per dirla altrimenti utilizzando le riflessioni di Robinson e James, il riemergere di elementi ideologici pre capitalistici può funzionare da catalizzatore di rivolgimenti rivoluzionari apparentemente imprevedibili, se non “oggettivamente” impossibili.



3. A Robinson va infine dato atto di avere valorizzato sia alcuni spunti presenti nei capitoli del Capitale dedicati all’accumulazione primitiva e alla critica delle tesi di Wakefield sull'economia coloniale, sia certi ripensamenti contenuti negli scritti dell’ultimo Marx (22) , vedi il carteggio con Vera Zasulic e la replica al recensore russo del Capitale: dal riconoscimento del peso determinante della schiavitù per il decollo dello sviluppo europeo, all’affermazione di non avere mai voluto tracciare leggi di sviluppo universali valide per tutti i popoli, al riconoscimento del potenziale rivoluzionarie di certe forme di comunitarismo contadino. Rispetto al primo punto (il ruolo economico della schiavitù) il contributo originale di Robinson all'intuizione marxiana è l'approfondimento del concetto di capitalismo razziale, concetto che egli ha analizzato, da un lato prendendo le distanze da un punto di vista essenzialista (approcciandolo cioè come una questione di classe e non di pelle), dall’altro lato rintracciandone -  attraverso un'ampia ricerca storiografica - la preistoria nel medioevo europeo.


4. Concludo dicendo che, per discutere adeguatamente le questioni relative alla forma-nazione e alla forma-partito, occorrerebbe  scrivere una seconda parte ancora più lunga e complessa dell’articolo che avete appena finito di leggere, per cui, rinviando questi due temi a successivi approfondimenti, mi limito ad osservare, in merito alla questione del partito che, ad eccezione di Cabral – a mio avviso  il più grande marxista nero del secolo XX –, la quasi totalità degli esponenti del pensiero radicale Nero, compreso Cedric Robinson, associano la valorizzazione delle forme comunitarie tradizionali dei popoli africani alla critica delle forme organizzative dei movimenti comunisti occidentali, senza però riuscire – almeno a me è parso così – a definire alternative concrete. 


Note


(1) C. Robison, Black marxism, Alegre, Roma 2023.


(2) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, Vol. I (“Le macerie dell’Impero”), cap. I. “La cassetta degli attrezzi”, Meltemi, Milano 2023.


(3) Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.


(4) sul ruolo svolto dal movimento Luddista nel processo di formazione della classe operaia inglese cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Penguin Books, London 1991.


(5) Dobbiamo quella che si può considerare una vera e propria epopea della middle class americana del secondo dopoguerra allo scrittore americano di science fiction Phillip K Dick. I protagonisti dei romanzi di questo autore – piccoli imprenditori, artigiani, piccoli commercianti – vengono presentati come i veri eroi dell’American Way of Life (creatività, intraprendenza pionieristica, autonomia individuale, ricerca di un moderato benessere e non di ricchezze smisurate, ecc.) i cui valori finiscono schiacciati dai monopoli e dallo stato. Sono i portatori di un’etica democratico-piccolo borghese “classica” che odiano sia i potenti di casa propria che i regimi comunisti, dipinti come articolazioni di una stessa entità oppressiva (in un romanzo Dick arriva a dipingere Nixon come un agente sovietico!). Questo conservatorismo di classe media sopravvive ancora oggi nella Deep America, dove svolge un ruolo non marginale nelle competizioni elettorali. 


(6) Vedi, in particolare il celeberrimo “Frammento sulle macchine “ in Grundrisse: Foundations of the Critique of Political Economy, Penguin Classics, 2025. Si tratta di un testo che mantiene una carica visionaria ancora oggi, nel pieno della rivoluzione digitale, al punto da alimentare i deliri di Antonio Negri, André Gorz e altri guru dell’ideologia post operaista.


(7) Cfr. I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi mondo, Asterios, Trieste 2013.


(8) Si tratta della famosa lettera al segretario del PCF Maurice Thorez che Césaire rese pubblica nel 1956.


(9) Cfr. K.Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi, Milano 2024.


(10) Sui crimini commessi dall'imperialismo inglese in Irlanda e sull’oppressione e lo sfruttamento dei quali il popolo irlandese fu oggetto cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell'Impero britannico, Einaudi, Torino 2024.


(11) Questa massa di “schiavi bianchi” rappresentava ancora circa il 10% della popolazione americana al momento della Rivoluzione.


(12) L’enorme flotta (più di trecento navi e 28.000 soldati) sotto il comando di Zheng He esplorò le coste dell'Africa Orientale del Mar Rosso e del Giappone nei primi tre decenni del secolo XV. La dinastia Ming, temendo che i costi di queste imprese potessero danneggiare l’economia cinese e quindi la prosperità del popolo, vietò ulteriori viaggi. Si tratta di uno di quegli eventi che, fossero andati altrimenti, avrebbero potuto cambiare la storia del mondo, per esempio stoppando l’espansione portoghese sulle coste africane e più in generale l’espansione coloniale europea ad Oriente (a quei tempi le nazioni occidentali non disponevano di una superiorità tecnica e militare sulla Cina).


(13) Cfr A. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli Milano 2001.


(14) Cfr. “Carteggio Zasulic – Marx”, in K. Marx, Il Capitale, Libro. I, Utet, Torino 1974, Appendice, pp. 1037 e segg.


(15) Cfr. K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.


(16) A rivolgere questa accusa a Engels è, fra gli altri, Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995).


(17) Sul frequente ricorso di Marx a metafore bibliche cfr. E. Dussel, Metafore teologiche di Marx, Shibboleth; Roma 2018.


(18) Cfr P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.


(19) Sul concetto e di Buen Vivir delle etnie andine, e sul significato politico che ha assunto per le rivoluzioni bolivariane cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013.


(20) Questo concetto trova riscontro nell’analisi di A. G. Linera sulla resistenza delle popolazioni originarie della dorsale andina al processo di integrazione nell’economia capitalista. Linera sostiene che questa lotta di intere comunità nazionali che difendono i propri valori etici, stili di vita, forme economiche, tradizioni e linguaggi dev’essere considerata parte integrante della lotta di classe contro l’imperialismo: cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015.


(21) Sul concetto di regimi narrativi in Marx cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984. Preve ne identifica tre: grande-narrativo, deterministico-naturalistico (che si applicherebbe al caso in questione), ontologico-sociale. I primi due, argomenta, sono espressione dell’influenza di altri paradigmi scientifici e filosofici  (evoluzionismo, positivismo, determinismo economicistico, ecc.) sul pensiero marxiano, laddove il terzo – che Preve identifica attraverso la lezione della Ontologia dell’essere sociale di Lukacs – ne costituisce il nerbo più solido e attuale.


(22) Cfr E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009.

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