Lettori fissi

mercoledì 8 marzo 2023

La matematica ethnic fluid

di Piero Pagliani



Girando su Internet alla ricerca di articoli di matematica di mio interesse, mi sono imbattuto in uno intitolato “Mathematx vivente: verso una visione per il futuro”, di Rochelle Gutiérrez [1].

L'autrice si occupa d'insegnamento della matematica agli studenti universitari, presso l'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign e non è una specialista di matematica ma ha un bachelor’s degree in “Human Biology” a Stanford e un PhD in “Social Science” all'Università di Chicago.

Poco male. Nemmeno io ho una laurea in Matematica. Ne ho studiata a iosa, prima per laurearmi, mille anni fa, in Filosofia su un tema ostico e all'epoca ai suoi esordi (una dimostrazione algebrica dell'indipendenza dell'assioma di scelta e dell'ipotesi del continuo) e successivamente nei due anni che ho passato a Fisica (gli amici fisici sanno che mazzo di matematica ci si fa nel biennio). A parte ciò, personalmente sono molto cauto nell'interpretare le “scienze dure” attraverso un'ottica ideologico-politica.

In termini generali ragiono secondo la linea tracciata da Hegel: sebbene ogni scoperta scientifica, ogni progresso, abbia un marchio storico (e quindi sociale e politico) tuttavia è possibile distinguere questo involucro dal contenuto “assoluto”, il “contenuto veritativo”, di tale scoperta [2]. 

Hegel parla di “spirito assoluto”, di “idea-in-sé-e-per-sé”, in un certo senso “liberata” dal tempo e dall'ideologia ad esso contemporanea. E quindi, o si pensa che questo filosofo tedesco fosse un pazzo scatenato, o l'idea-in-sé-e-per-sé non è altro che il “precipitato veritativo intra-permanente” (è un termine provvisorio mio, non hegeliano), delle attività umane in “sospensione” nella Storia e quindi nel transeunte (mentre il superamento del “precipitato veritativo” avviene per critiche interne, mosse dalle condizioni storiche e intrecciate ad esse, secondo quanto spiega Thomas Kuhn in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” - intendo questo con “intra-permanente”).

La dottoressa Gutiérrez invece non la pensa così. Sostiene che il marchio storico, e in specifico il marchio etnico e di genere, sia indissolubilmente connesso col contenuto della matematica e quindi (“quindi”!) col suo modo di insegnarla. La tesi, nemmeno troppo implicita, è che la Matematica usuale è irrimediabilmente segno del suprematismo bianco e maschile. Non il modo di insegnarla (cosa che si potrebbe anche discutere), ma il suo stesso contenuto.


La dottoressa Gutiérrez dice di sé di essere “Chicanx”: 


«Uso il termine Chicanx (in quanto opposto a Chicano, Chicana/o, o Chican@) come segno di solidarietà con le persone che si identificano come lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali, asessuali e doppio-spirito (LGBTQIA2S)» [3]. 


In modo analogo introduce il termine “Mathematx”: 


«Io faccio appello per una re-immaginazione radicale delle matematica, una versione che abbracci i corpi, le emozioni e l'armonia».


Nonostante questi inizi “perplimenti” ho proseguito nella lettura superando anche l'insopportabile stile accademico di esposizione costellato da veri e propri fuochi d'artificio citazionistici [4]. La Gutiérrez pur ribadendo qua e là che non pensa che tutta la matematica occidentale sia da buttar via mentre tutta quella etnica sia rose e fiori, finisce proprio per cercare di dimostrare che la matematica occidentale in sé e per sé è maschilista e suprematista così come il suo insegnamento. Per superare questi difetti essa dovrebbe farsi iniettare dosi massicce di matematica etnica. Perché questa è una delle nozioni oggi più discusse nelle accademie statunitensi: “Etnomatematica” [5].

In realtà la Gutiérrez non fornisce nemmeno un esempio di tale matematica, ma si limita a dire che questa contaminazione, questa «ecologia delle conoscenze» armonizzerà «i modi in cui cerchiamo di connettere, i problemi che cerchiamo di risolvere, i modi in cui invitiamo la gioia nelle nostre vite». 

Questi precetti morali, si rincorrono ripetutamente nello scritto, anche nei titoli dei capitoli («Seeking/Performing Patterns for Problem Solving and Joy», assieme all'inevitabile slogan (ormai un puro termine, che mi è diventato odioso, spogliato di ogni contenuto concettuale) di “sostenibilità” («sustainability in mathematics education», «mathematics is in the service of sustainability»).

C'è stato però un attimo che mi ha fatto sperare:


«Per i matematici, l'estetica può servire da precursore dell'intuizione nel senso che essi non si basano su un senso della logica e della deduzione ma su un senso generale di come le cose si connettono assieme (Burton 1999), spesso illuminando un'unità di significati e di valori. In questo senso, l'intuizione e lo stupore possono condurre alla gioia e alla scoperta (Sinclair and Watson 2001). In altri termini, cerchiamo ciò che è sorprendente e meraviglioso, e tuttavia gli eventi devono rientrare in uno schema più ampio; le parti devono combaciare con il tutto (Gadanidis e Borba 2008)».


Lasciando perdere il fatto che per capire che “le parti devono combaciare con il tutto” non occorre citare nessuno, come non occorre citare Copernico quando si dice che la Terra gira attorno al Sole, a parte ciò, che l'estetica, nel senso proprio di αἴσθησις, sia alla base della scoperta matematica non routinaria, lo sa chiunque abbia dimostrato qualcosa di nuovo (più importante o meno importante non importa, ma nuovo). In uno scritto che ho fatto circolare solo privatamente in cui descrivevo i miei rapporti con la grande scuola matematica polacca (nata per altro a Leopoli, tanto per ricordare i travagli geopolitici di quei luoghi), ad un certo punto scrivevo:

“La produzione matematica è una creazione artistica, non riesce da vigili ma da rimbambiti, quando i freni inibitori della razionalità si rilassano e la mente è libera di esplorare strade e terreni che la razionalità eviterebbe. Poi, quando si ritorna in sé, la razionalità deve controllare ogni particolare di quello che ci siamo sognati in quello stato di semiveglia, ma fa un lavoro ex post. Ex ante interviene ogni tanto, non guida le danze: il disegno complessivo non è affar suo. Oggi, rivedendo alcuni miei risultati di qualche anno fa non riesco assolutamente a capire come mi siano venuti in mente. Siccome non mi drogavo né mi ubriacavo, di sicuro li avrò trovati mentre ero tra il sonno e la veglia”.

Ma la nostra dottoressa - che evidentemente non ha mai avuto in testa un problema matematico da risolvere mentre transitava nello stato ipnagogico, ma procede per sentito dire - stiracchia e strapazza questo punto fino a teorizzare la pratica della scoperta matematica come gioia reciproca, come scambio di diversità etniche e biologiche: 


«La versione corrente di ciò che conta come “bello” in matematica tende a non riflettere la diversità del nostro mondo». 


E questa visione si riflette sulle proposte di revisione della didattica: 


«Per me, “essere piacevole” include non solo il modo giocoso in cui molti matematici “puri” inventano nuovi campi … ma anche come le altre persone fanno matematica per/con noi».


In base alla mia esperienza, tutto questo rimanda a un paradigma della pedagogia progressista liberal di stampo anglosassone introdotto molti anni fa, basato sul cosiddetto “autoapprendimento” e sulla cosiddetta “autocorrezione”.

Mi ci imbattei quando mi occupavo di Sistemi Esperti (un ramo dell'Intelligenza Artificiale). Basilare per questi sistemi è l'elicitazione della conoscenza, “knowledge elicitation”, cioè l'estrazione della conoscenza dall'esperto, o più spesso da un team di esperti, del determinato campo in oggetto (ad esempio un settore della medicina). E' quindi basilare capire come si forma la conoscenza, da cui il mio interesse di allora per il rapporto insegnamento-apprendimento.

Dopo l'elicitazione della conoscenza si passa al problema della sua “rappresentazione” e infine a quello delle regole per il suo utilizzo (i cosiddetti “motori inferenziali”). Ma mentre questi passi si basano su un set di tecniche formali abbastanza chiare (anche se in costante miglioramento) l'elicitazione della conoscenza deve fare i conti con un problema di base: in generale il vero esperto non sa “raccontare” la propria conoscenza. Per fare un esempio, se lo scacchista neofita sa descrivere passo passo la logica con cui ha fatto una certa mossa, sulla base dei principi basilari degli scacchi, man mano che si sale di livello questo diventa meno possibile, le regole si “disperdono” nell'ambiente del problema da risolvere, un fenomeno che in alcuni contesti, ad esempio il Knowledge Management, si chiama “tacit knowledge”: 


«Piuttosto che essere osservatori esterni che prendono decisioni o eseguono azioni consce, gli specialisti (masters) tendono ad essere un tutt'uno con l'ambiente quando dispiegano le loro abilità nel loro dominio, una completa inabitazione in termini polanyiani» [6].


Se ciò contesta l'idea dell'attività scientifica come impersonale e impermeabile all'emotività o alle scelte personali dello scienziato (come per altro testimoniato dalle vicende di William Lawvere e di Alexander Grothendieck che ho ricordato nel mio scritto inedito sopra citato [7]), tuttavia la sua estremizzazione ideologica ha portato ai guasti di una pedagogia dove l'educatore non deve in linea di principio né insegnare né correggere, ma fungere da demiurgo in attesa che l'allievo “reinventi” da solo lo scibile, attraverso i suoi tempi e le sue preferenze, o le sue gioie come vorrebbe la Gutiérrez. Cosa ovviamente insensata, visto che la conoscenza umana è frutto della stratificazione di millenni. E insensata perché si tratta un principiante come un esperto, creando così delle difficoltà ai danni principalmente dei più deboli, dei meno attrezzati dalla propria classe.

Non sto esagerando: nei convegni a cui partecipavo per il mio lavoro, diversi anni fa, rinomati speaker statunitensi sostenevano né più né meno quelle teorie pedagogiche.

E Rochelle Gutiérrez, sostiene oggi cose analoghe (e correlate) non in un pourparler da salotto radical chic durante un giro di spinelli (certi suoi passaggi stralunati mi hanno fatto veramente pensare al “fumo”), ma in una memoria di ben 25 pagine di un convegno della Hoosier Association of Mathematics Teacher Educators, il 39° meeting annuale del North American Chapter of the International Group for the Psychology of Mathematics Education. Siamo nel 2017. La cancel cultur aveva già preso piede da un pezzo e sebbene non ci si trovi di fronte a una proposta di “cancel mathematics”, sicuramente possiamo parlare di “woke mathematics”, ovvero, come proposto e rivendicato, di “Mathematx”, una “x” che, possiamo dire, sta quindi per “ethnic fluid” in analogia della “x” che sta per “gender fluid” in “Chicanx”. 


A mio avviso qui però siamo anche di fronte a movimenti pseudoculturali usati in modo spregiudicato come trampolini di lancio per carriere accademiche. Non c'è nulla di equo, né di comunitario, né di sostenibile in questo. Ci sono le lotte di potere tradizionali, solamente condotte in modo meno serio. Se una volta i baroni costruivano la loro posizione in base alla conoscenza, alla cultura, all'intelligenza e ai maneggi, oggi vediamo improvvisazioni, pseudocultura, furbizia e maneggi evoluti in PR, in ammiccamenti a chi è più vociferante e più influente in certi ambienti, dove l'influenza non ha nessun rapporto con una visione seria, autorevole e responsabile di un dominio di conoscenza.

Purtroppo questo degrado ha un brand: “Sinistra”. Si può sostenere quanto si vuole che è un brand indebito, ma è un regalo alla destra portato su un piatto d'argento, come molte altre cose. 

E purtroppo non è nemmeno così tanto indebito, se un docente universitario statunitense ha dovuto scrivere «sono un professore liberal, ma i miei studenti liberal mi terrorizzano». Così è riportato in un'inchiesta intitolata “Coccolare [o viziare] la Mente Americana: Come Buone Intenzioni e Cattive Idee Stanno Preparando una Generazione per il Fallimento” [8].

Un lungo “trend” che mischia politicamente corretto e approccio epistemologico post-strutturalista e de-costruttivista post-moderno, come ho accennato in una nota di un altro scritto [9].


E' una deriva che alcune menti attente di sinistra hanno tentato di arginare, come Noam Chomsky [10]. O come Alan Sokal e Jean Bricmont che in “Imposture intellettuali”, prendendo atto che l'articolo beffa di Sokal intitolato “Trasgredire i confini: verso una trasformazione ermeneutica della gravità quantistica”, sottoposto alla rivista “Social text”, una delle principali riviste di studi culturali postmoderni pubblicata dalla Duke University, fosse stato accettato con giudizi ammirati invece di essere rispedito al mittente accompagnato da sarcastiche risate, si scatenarono contro le cialtronaggini pseudo-scientifiche dei grandi nomi del “de” e del “post” (de-costruzionismo, post-modernità, ecc...) [11].

In mezzo al miscuglio di “intenzionali stupidaggini” di cui era infarcito l'articolo beffa, si poteva leggere il commento di Sokal a questa citazione del famoso saggio di Luce Irigaray “II soggetto della scienza è sessuato?”:


«la scienze matematiche si interessano, nella teoria degli insiemi, agli spazi chiusi e aperti. […] Si applicano abbastanza poco alla questione del semiaperto, degli insiemi vaghi [ensembles flous], di tutto quello che analizza il problema dei bordi [...]».


Invece di spiegare che quelle tre righe inanellavano una serie di inesattezze, confusioni e scemenze [12] nella sua beffa Alan Sokal commentava compiacente:


«Nel 1982, quando apparve per la prima volta il saggio di Irigaray questa costituiva una critica incisiva: la topologia differenziale aveva tradizionalmente privilegiato lo studio di quelle che sono note tecnicamente come “varietà senza bordo”. Tuttavia, nella decade trascorsa, sotto l'impulso della critica femminista, alcuni matematici hanno indirizzato nuovamente la propria attenzione alla teoria delle “varietà con bordo”». 


Siccome era proprio in quel periodo che Helena Rasiowa mi introduceva alla teoria dei rough sets, una  sorta di quegli “ensembles flous” così tanto sollecitati da Luce Irigaray, mi viene da ridere a pensare che questa grande matematica polacca era, senza saperlo, una sacerdotessa del femminismo post-strutturalista nelle scienze e io, suo fedele allievo, un adepto di questa teologia (e quindi, ovviamente senza saperlo, cultore dell'essere  borderline).

Dato che le cose non cambiarono in meglio, un analogo tentativo fu operato anni più tardi da Peter Boghossian e James Lindsay con la loro beffa “Il pene concettuale come costrutto sociale” che fu pubblicata su “Cogent Social Sciences”, con peer review entusiaste del tipo: “E’ un articolo meraviglioso, incredibilmente innovatore, ricco di analisi ed estremamente ben scritto e organizzato” [13]. 

Innovatore di sicuro, visto che si “dimostrava” che il pene è causa del riscaldamento globale:


«il cambiamento climatico è un esempio genuino di società iper-patriarcale che metaforicamente si diffonde nell'ecosistema globale»


e che il sedersi dell'uomo a gambe aperte 


«è chiaramente un'occupazione dominante dello spazio fisico, come se volesse stuprare lo spazio vuoto intorno a lui, che è meglio compresa attraverso l'isomorfismo del machismo braggadocio con l'ipermascolinità tossica».


Tesi che gli editori della rivista devono aver ritenuto pari alla sfolgorante affermazione con cui il saggio iniziava: 


«Le prove scientifiche e meta-scientifiche androcentriche che il pene è l’organo riproduttivo maschile sono considerate schiaccianti e decisamente libere da contestazioni».


Nelle intenzioni di Sokal, la sua provocazione avrebbe dovuto servire a «proteggere la sinistra da una moda passeggera». Purtroppo non c'è riuscito. Non si trattava di una moda, ma di una costruzione politica con scopi che si sono via via precisati e chiariti: si attaccava il dominio del maschio bianco per nascondere o giustificare gli attacchi sanguinosi del dominio imperiale. Si distorceva e corrompeva la visione del mondo di sinistra per rivolgerla contro i suoi propri scopi originari. Non è un passaggio misterioso: la critica “artistica” alla società di massa e alla catena di montaggio disumanizzante ha prodotto la celebrazione dell'individuo, ma dimenticandosi del preciso monito di Marx: «Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale» (Ideologia Tedesca, cap. IV). Grazie a questa “dimenticanza” l'imperialismo occidentale ha potuto lasciar perdere l'obsoleto “fardello dell'uomo bianco” e sbandierare al suo posto, attingendo a man bassa dall'ideologia di sinistra, il “fardello della democrazia, dei diritti civili e dei diritti umani” (cosa che ovviamente non impediva nella pratica di massacrare bambini o di scatenare fondamentalisti omofobi e intolleranti contro governi laici e tolleranti).

Non si trattava, quindi di una moda, e nemmeno di un fenomeno “passeggero”, bensì generazionale, perché generazioni intere, quelle cresciuta nella e con la crisi sistemica, e che nei suoi meandri si sono  accomodate, sono totalmente immerse in queste idee.

Prendiamo ad esempio Elly Schlein. Quel che accade nel PD m'importa poco, ma se devo dare un giudizio è innanzitutto questo: temo che la nuova segretaria metterà il suggello a  questa immersione del suo partito nella sottocultura imperiale liberal anglosassone. Se subirà scissioni saranno paradossali, cioè dovute a “vecchi” esponenti della traiettoria PCI-DS-PD, cioè persone con una reminiscenza storica, che invece la Schlein non possiede per questioni anagrafiche. La nuova segretaria del PD concretizzerà le sue buone intenzioni, che molto teoricamente potrei anche condividere, con cattive idee e ci farà rimpiangere persino i pessimi liquidatori del comunismo italiano. 

Non perché è cattiva, ma perché è così che l'hanno disegnata. 

Come tutti noi d'altronde. Ma c'è sempre la possibilità di ridisegnarsi, occorre sforzo, ricordo, immaginazione, apertura sul mondo, sulla storia e sulle persone.

Ma se per caso, per qualche miracolo, la nuova segretaria del PD cercherà di ridisegnarsi da sola, deve sapere che perderà seduta stante la leadership e i favori dei media.


Alan Sokal scrisse:


«L'accettazione da parte di Social Text del mio articolo esemplifica l'arroganza intellettuale di una teoria – la teoria letteraria postmoderna – portata alle sue estreme conseguenze». 


Confrontate la terminologia e il modo di concatenare le parole (“formare concetti” è troppo) della nostra Rochelle Gutiérrez nel 2017, con quelli, qui sotto, utilizzati nel 1996, venti anni prima, da Alan Sokal nella sua beffa per solleticare gli editori della rivista:


«le scienze postmoderne sembrano convergere verso un nuovo paradigma epistemologico, che può ricevere la denominazione di prospettiva ecologica, nel senso ampio di “riconoscere l'interdipendenza fondamentale di tutti i fenomeni e l'immersione degli individui e delle società nella struttura ciclica della natura” [qui Sokal citava il saggio di Fritjof Capra “The role of physics in the current change of paradigms”]».


E' impressionante: sono identici. Quindi nonostante due cocenti critiche che hanno avuto una larga risonanza internazionale, nonostante la richiesta ampia e di importanti nomi perché si riconsiderassero “the Humanities”, le cose sono addirittura peggiorate e gli studi umanistici negli Usa spesso si rivelano essere vere e proprie frodi intellettuali e accademiche che licenziano quelli che ormai iniziano ad essere definiti “credentialed ignoramuses”. Che non sarebbe così drammatico se non li ritrovassimo tra la classe dirigente. Invece è tragico perché significa la riproduzione della mentalità del dominio globale e della fluidificazione della società, dello scontro a tutti i costi invece del dialogo e del disinnesco dei conflitti. In altri termini - quei termini topologici così vezzeggiati dai maîtres à penser post-moderni - significa la riproduzione del serrarsi al proprio interno o del conquistare con la chiusura ciò che è al confine, il contrario esatto della teorizzazione della bellezza dei border, dove ogni “agorà” (ogni intorno) di un punto sta in parte dentro e in parte fuori, è situato in una zona di scambio e di incrocio che come tale deve essere preservata.

E' un problema politico e di civiltà.

 

Note


[1] “Living mathematx: Towards a vision for the future”. La traduzione delle citazioni è mia.

https://www.researchgate.net/publication/325514665_Living_mathematx_Towards_a_vision_for_the_future


[2] Se è vero, ad esempio, che gli studi di fisica nucleare sono stati molto indirizzati dagli scopi militari, tuttavia l'aspetto veritativo di questi studi (che esiste, altrimenti le bombe atomiche non funzionerebbero) deve essere tenuto distinto dal loro campo applicativo.

Sotto questo aspetto, l'interpretazione delle figure dello “Spirito Assoluto” hegeliano è quella proposta da Costanzo Preve in vari scritti, come «forme permanenti e trans-storiche dell’attività umana eterna di riproduzione ed interpretazione individuali e collettive del mondo».


[3] Facebook offre la scelta tra 56 generi diversi oltre ai due tradizionali:

https://www.washingtonpost.com/news/arts-and-entertainment/wp/2014/02/13/facebook-will-now-allow-users-to-identify-as-trans-bi-androgynous-or-any-other-gender-they-want/


[4] Ad esempio: «we see the limits of Western mathematics/science practices as a means for intervention (Berkes et al. 2000; Brayboy and Maughan 2009; Cajete 1999; Deloria 1979; González 2001; Heinrich, et al. 1998; LaDuke 1994; Little Bear 2000; 2009; Tallbear 2013; Watson-Verran and Turnbull 1995)».


[5] In sé l'etnomatematica (una nozione introdotta dal matematico brasiliano Ubiratan D'Ambrosio nel 1977 e che non ha un'interpretazione condivisa) descrive cose interessanti (ad esempio sistemi di numerazione diversi, come quello modulo 4 per alcuni riti divinatori, o procedure di memorizzazione di complessi “algoritmi” geometrici, come tra le contadine del Tamil Nadu) e pone questioni importanti relative ai rapporti tra modi locali e modi standard di fare e insegnare matematica, similmente, se vogliamo, a ciò che fanno gli studi etnomusicali. Anche i suoi risvolti nell'educazione matematica sono da prendere in considerazione, come in alcuni casi una sorta di approccio “bilinguistico” che fa convivere la matematica standard assieme a quella tradizionale locale. 

Alcuni anni fa fui invitato a Calcutta come speaker a un convegno (aperto da Gopalkrishna Gandhi, nipote del Mahatma) sui rapporti tra la logica formale occidentale e la logica classica indiana, la Navya-Nyāya. Per tutto il tempo dovetti bisticciare, bonariamente, con un docente di Cambridge che riteneva “stravagante” la Navya-Nyāya, mentre io, invece, la ritenevo affascinante e stimolante. Tanto che l'anno seguente, al Dipartimento di Scienze Cognitive della Jadavpur University di Calcutta, lanciai il cuore oltre l'ostacolo e con molta faccia tosta spiegai come io, da bravo e impenitente occidentale, con un miscuglio, questo sì stravagante, di Aristotele, Duns Scoto, Bertrand Russell e Teoria della Dimostrazione, interpretavo una figura deduttiva centrale della logica indiana. Cosa che fece aprire un vivace dibattito tra gli studiosi indiani lì presenti, che io stetti solo ad ascoltare perché ci capivo poco. A dire: non bisogna avere paura e meno che meno disprezzo per l' “altro”. Cercare di capirlo, specie se espone istanze lontane da quelle a cui siamo abituati, anche spiazzanti, porta sempre ad un arricchimento.

Per quanto riguarda questa problematica e la questione di genere, una delle ricercatrici a cui sono più legato, è una matematica transgender lesbica indiana. Io la ritengo geniale e i suoi lavori sono spesso sottoposti a me per il referaggio per due motivi: 1) sono lunghi e difficili, 2) fanno a volte riferimento alla cultura lesbica (può sembrare strano ma è così). Insomma, ci vuole anche una dose di affetto per affrontarli, dose che pare io abbia. 

In conclusione, se non si hanno le fette di salame sugli occhi non ci sono questioni né “gender” né “etniche”. Il problema è creato artificialmente da un gioco di specchi e delle parti tra una reazione progressista e una reazione torbidamente conservatrice.

Per riprendere ora l'analogia degli studi etnomusicali, la musica “colta” e quella “popolare” non sono mai stati compartimenti stagni. Ricordo che il grande musicista boemo Antonín Dvořák ne era così consapevole che invitato ad assumere la direzione del Conservatorio Nazionale di New York, lasciò allibiti i cultori wasp della musica classica asserendo che come quella europea si era basata sui temi popolari, una musica classica genuinamente americana non poteva far altro che basarsi su quella popolare afroamericana (si veda ad esempio il magnifico saggio di Alex Ross “Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo”, Bompiani 2011).

Ovviamente in matematica le cose sono più complicate, perché gli input stessi dell'attività matematica sono complessi. Si pensi, ad esempio, a quelli di Fibonacci, legati alla sua attività di mercante, alla definizione dei numeri reali tramite i “tagli” fatta da Dedekind e dovuta ad esigenze di insegnamento, e a quelli di natura “estetica” che portarono Ricci-Curbastro e Levi-Civita al calcolo tensoriale.

Il problema è che a fianco ad approcci seri, ponderati e moderati -e  difficili -, emergono, e sono vociferanti, le loro torsioni ideologiche semplicistiche ed estremiste, di cui la Gutiérrez nel saggio qui in oggetto mi sembra una campionessa.


[6] A. Axelsson, “Knowledge elicitation as abstraction of purposive behaviour”. Upsala Universitet, 2019. In un caso, relativo alla progettazione di un sistema esperto medico, per risolvere questo problema ho applicato una tecnica di “scavo” nel database delle decisioni dei medici coinvolti nel progetto, chiamata “knowledge discovery in database” o “data mining”, basata proprio su quegli “insiemi sfumati” così ferventemente tirati in ballo da Luce Irigaray.


[7] L'apolide Alexander Grothendieck, forse il maggior matematico del Novecento, smise di fare matematica per convinzioni etiche e politiche, e il grande matematico statunitense William Lawvere collegava la potente teoria dei “funtori aggiunti”, a cui aveva contribuito in modo decisivo, alla dialettica di Hegel e di Marx.


[8] Greg Lukianoff e Jonathan Haidt: “The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure”: 

https://www.amazon.com/Coddling-American-Mind-Intentions-Generation/dp/0735224897


[9] https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html


[10] https://paradoxpolitics.com/2021/02/noam-chomsky-cancel-culture-harpers-letter


[11] Alan Sokal, Jean Bricmont, “Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza?”. Garzanti, 1999. Prima edizione, Francia 1997. 


[12] 1) Di insiemi aperti e chiusi si occupa la topologia, non la teoria degli insiemi. 2) Gli intervalli semiaperti sono utilizzatissimi. 3) Il bordo, cioè la frontiera, fa parte dei concetti di base della topologia: è la chiusura di un insieme meno il suo interno, cioè meno il più grande insieme aperto contenuto nell'insieme. 4) Infine gli “ensembles flous”, cioè i “fuzzy sets”, furono introdotti dal matematico statunitense Lotfi Zadeh  nel 1965, cioè oltre vent'anni prima dell'articolo della Irigaray e la letteratura che li riguarda è sterminata. Come si vede, questa nota studiosa non sapeva ciò di cui stava parlando, andava per assonanze.


[13] https://www.skeptic.com/downloads/conceptual-penis/23311886.2017.1330439.pdf

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