Lettori fissi

mercoledì 29 ottobre 2025

POST SCRIPTUM
A PROPOSITO DELL'AUTOREFERENZIALITA' 
DELLE SINISTRE OCCIDENTALI (MARXISTE E NON)



Come promesso nel post precedente, dedicato al libro di Pino Arlacchi sulla Cina, pubblico questo post scriptum, nel quale cito un paio di esempi (se ne potrebbero citare a bizzeffe, ma lascio il compito al libro a due mani che io e Visalli stiamo per consegnare all’editore Meltemi) che aiutano a capire che il meritevole tentativo di Arlacchi di spiegare la Cina all’Occidente è, al pari di tutti gli sforzi di aggiornare la cassetta degli attrezzi del marxismo occidentale (1) impresa difficile, al limite dell’impossibile. Ciò è scontato nel caso degli intellettuali delle “sinistre” tradizionali, ormai integrati nella intellighenzia (mai termine fu più usurpato) liberal democratica, un ceto che non vuole semplicemente farselo spiegare, perché i suoi membri considerano la Cina (la giudichino o meno socialista) un nemico, e hanno legittimato l’oscena delibera del Parlamento Ue che ha equiparato comunismo e nazismo. 


Dopodiché quanto appena detto è meno scontato, ma purtroppo altrettanto vero, per la maggior parte dei militanti  delle sette più diffuse - troskisti, bordighisti, operaisti, neo operaisti, neo anarchici ecc. - della cosiddetta sinistra “radicale”. Costoro – se non sono del tutto idioti – possono “tifare” per la Cina finché si parla del suo conflitto – che definiscono “interimperialista”- con gli Stati Uniti, ma non possono ammettere che la Cina è socialista, perché ciò farebbe crollare come un castello di carte l’intero corpus dottrinale che hanno costruito nell’ultimo secolo, a partire dalla negazione del carattere socialista dell’Unione Sovietica (la cui degenerazione capitalista viene da alcuni fatta risalire addirittura alla svolta della NEP avvenuta negli anni Venti del Novecento). 


I due esempi che ho scelto sono disomogenei, sia per contenuto che per spessore teorico. Nel primo discuterò alcuni temi dell’ultimo libro (2) di Ilan Pappé, “La fine di Israele”, che non parla della Cina (citata en passant nelle ultime pagine) ma del progetto di costruire, a partire dal movimento mondiale di solidarietà con la Palestina, un fronte antimperialista, antirazzista e antieurocentrico in cui dovrebbero convergere le sinistre giovanili arabo-palestinesi, ebraiche e statunitensi, nonché i movimenti decoloniali del Sud globale. A mio avviso, come cercherò di dimostrare, il discorso di Pappé alterna intuizioni interessanti a incredibili ingenuità. 


Il secondo esempio si riferisce a un articolo (3) dell’economista “marxista” Ernesto Screpanti (è lui stesso ad autovirgolettarsi, riconoscendo onestamente che l’attributo si applica ormai a una miriade di correnti teoriche diverse, spesso incompatibili). Si tratta di un testo che non presenta novità degne di nota (nel senso che rispolvera i dogmi delle sinistre radicali di cui sopra), ma ha il pregio di proporre una gustosa (al limite del comico) ridefinizione della categoria di imperialismo, che gli permette di arrampicarsi sugli specchi per continuare a definire imperialista la Cina, mentre a chi scrive consente di esemplificare a quali livelli di denegazione arrivino i “marxisti” occidentali, pur di non fare i conti con un esperimento socioeconomico che li costringerebbe a riscrivere la teoria della transizione al socialismo. 



I. Pappé: una dura analisi critica del sionismo, che però ha il difetto di riporre eccessive speranze nella sinistra ebraica statunitense


La speranza di Pappé (nel suo testo le parole spero, speriamo, speranza ricorrono, sintomaticamente, decine di volte) è niente di meno che Israele finisca come Stato entro qualche decennio: il collasso, sostiene, è già in atto, come testimoniano l’acuirsi delle contraddizioni sociali e politiche interne, la perdita di consenso da parte dell’opinione pubblica mondiale, la crescente difficoltà di presentarsi come avamposto della democrazia nel Vicino Oriente, nonché di mantenere la supremazia militare nella regione. Posto che tutti questi fattori non bastano di per sé a legittimate la tesi del crollo (il mondo è pieno di Stati falliti tenuti in piedi dagli interessi dell’imperialismo occidentale), vediamo come Pappé giustifica la sua profezia.


Parto dai temi più scontati, nel senso che l’autore li aveva già ampiamente trattati in libri precedenti (4) mentre qui occupano relativamente meno spazio. Pappé ribadisce che il sionismo, fin dalle origini tardo ottocentesche e primo novecentesche, è sempre stato un progetto colonialista, sostenuto ed appoggiato dall’imperialismo britannico a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917, e dalle potenze coloniali occidentali che ambivano ad assumere il controllo dell’area, sottratta al dominio ottomano dopo la Prima guerra mondiale. Del resto, come dimostra ampiamente il libro di Caroline Elkins, Un’eredità di violenza (5), nel periodo del mandato britannico sulla Palestina, durato fino al 1948, Londra ha costantemente favorito gli interessi della componente ebraica a danno di quella araba, consentendo un costante flusso migratorio che ha sovvertito la composizione etnico religiosa originaria della regione, agevolando l’acquisizione di terre da parte degli immigrati ebrei attraverso l’esproprio dei contadini poveri arabi e reprimendo duramente i tentativi dei residenti originari di resistere a questa colonizzazione sostituiva.


Tornando al sionismo, Pappé afferma che uno dei suoi principali obiettivi “fu creare uno Stato europeo nel cuore del mondo arabo de-arabizzando un paese arabo”. Un’operazione di colonialismo sostituivo che, aggiunge Pappé, non ebbe mai la piena approvazione della maggioranza del popolo ebraico della diaspora, né tanto meno della sua intellighenzia, che preferiva la prospettiva di un processo di transnazionalizzaione dell’identità ebraica, alternativo alla sua ri-localizzazione in Palestina (tanto che, scrive Pappé, i membri del movimento sionista arrivarono a disprezzare e insultare questi correligionari). Parliamo, dunque, di un movimento politico che condivide l’ideologia colonialista e razzista dell'imperialismo occidentale. Ciò è dimostrato, fra le altre cose: dalla pulizia etnica avviata nel 1948 (l’anno dell’Indipendenza per gli israeliani e della Nakba – la catastrofe – per i palestinesi, 250. 000 dei quali divennero profughi già a quella data); dalle politiche adottate nei confronti del milione e mezzo di palestinesi dei Territori Occupati dopo la guerra del 1967, ai quali non è concesso alcun diritto civile; dall’atteggiamento razzista dei coloni ebrei di origine europea nei confronti degli ebrei di origine etiopica e nordafricana, giunti dopo di loro in Palestina (paradossalmente, scrive Pappé, costoro sono divenuti i più feroci persecutori degli arabi palestinesi per certificare la propria “ebraicità”); infine dall’atteggiamento arrogante e violento dei coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania, protagonisti di pogrom contro i vicini palestinesi, tollerati se non appoggiati dalle forze armate.


I coloni in questione, scrive Pappé, sono l’avanguardia violenta del Sionismo Religioso, di quello che chiama lo Stato di Giudea, fondato sulla fusione fra sionismo religioso e giudaismo ortodosso. Agli esponenti di queste correnti, che sono una componente essenziale del governo di estrema destra di Netanyahu, dobbiamo dichiarazioni pubbliche in cui si afferma che “il diritto del popolo ebraico alla Palestina è la volontà di Dio” e che “non esiste un popolo palestinese”. D’altro canto, nemmeno la componente laica, liberale e “progressista”, perlopiù di discendenza europea, che rappresenta lo Stato di Israele che si contrappone allo Stato di Giudea, è contraria alla colonizzazione e alla discriminazione razziale nei confronti dei palestinesi. 


Se a tutto ciò si aggiungono l’indefettibile appoggio degli Stati Uniti (da oltre mezzo secolo il Congresso è quasi universalmente pro Israele) e i “processi di pace” periodicamente promossi da Washington, che si sono regolarmente trasformati in strumenti per normalizzare l’occupazione, per tacere della benevola indifferenza che l’Europa (sinistre comprese) ha costantemente manifestato nei confronti dei crimini di guerra di Tel Aviv, non è difficile comprendere come e perché si sia giunti al genocidio perpetrato a Gaza. Rebus sic stantibus, dove trova Pappé i motivi per sperare in una prossima, se non imminente, decolonizzazione della Palestina? Quale potrebbe essere il modello di una entità statale decolonizzata? Ma soprattutto quali forze politiche e sociali potrebbero realizzare il miracolo?


* * *


Parto dal modello che Pappé ha in testa quando auspica (sogna?) la  nascita di una entità sovranazionale che riassorba e pacifichi la Palestina. Prima del crollo dell’Impero Ottomano c’era il Mashdeq, come veniva chiamata un’ampia regione che comprendeva praticamente tutto il Vicino Oriente  (Siria, Libano, Iraq, Palestina e Giordania). In questi luoghi convivevano pacificamente musulmani, cristiani di varie confessioni, ebrei e altre minoranze etnico-religiose. Questi rapporti di buon vicinato, amicizia e collaborazione erano frutto di una coesistenza laica fra gruppi che si identificavano per religione, cultura o etnia, i cui membri erano ligi all’Impero come cittadini ma non rinunciavano alle proprie identità. Anche gli ebrei e gli arabi palestinesi ebbero questo tipo di rapporto fino alla fine della Prima guerra mondiale. Il governo mandatario inglese, applicando i metodo divide et impera sperimentato in tutto l’Impero (6) ha alimentato le contrapposizioni fra i gruppi, infine ha lasciato alla élite sionista il compito di completare la colonizzazione della Palestina in nome dell’Occidente. È possibile ricreare le condizioni che esistevano sotto il dominio ottomano? Pappé ci crede, ma a mio avviso il suo è un pascaliano credo quia absurdum, ove si tenga conto, non solo dell’odio fra israeliani e palestinesi, ma anche di quello fra sunniti e sciiti, cristiani e musulmani libanesi, curdi e siriani ecc. ecc. Ciò posto, ci sarebbe da discutere sulla visione “imperiale” di Pappé che, nella misura in cui dà per scontata la “fine dello stato-nazione” (un mito della sinistra globale che resiste a ogni smentita fattuale) richiama, pur senza citarla, quella di Antonio Negri che ho criticato in più occasioni (7); non avendone qui lo spazio, preferisco passare ai soggetti politici che, secondo Pappé, dovrebbero metterla in atto.


Partiamo dai palestinesi. Costoro, scrive Pappé, sono i primi a non voler più sentire parlare della soluzione dei due Stati, che definisce “un cadavere in decomposizione”. Quanto ad Hamas, è un problema che Pappé ritiene superabile, a condizione che si smetta di considerarlo un “residuo” integralista religioso, e si riconosca che si tratta d’un fenomeno moderno che si è affermato grazie alla incapacità delle organizzazioni laiche e di sinistra di mantenere le loro promesse. Le giovani generazioni palestinesi (mi pare che Pappé si riferisca soprattutto all’intellighenzia della diaspora, ma su questo tornerò più avanti) sarebbero a suo avviso in grado di integrarlo in un progetto di costruzione di un unico Stato con pari diritti individuali per tutti, tessendo rapporti con gli altri movimenti decoloniali del mondo e superando i limiti delle vecchie organizzazioni di sinistra. In merito a quest’ultimo punto, evoca le forme decentrate di mobilitazione popolare sul tipo delle Primavere Arabe (anche se ammette che, in assenza di forme di organizzazione politica più strutturate, si rischia di non andare da nessuna parte). 


Discorso analogo per i giovani ebrei americani (la sottolineatura è cruciale, nella misura in cui Pappé insiste sul fatto che gli Stati Uniti ospitano la più grande popolazione ebraica dopo Israele): dopo il genocidio di Gaza costoro partecipano sempre più attivamente al movimento di solidarietà nei confronti della Palestina, ma soprattutto sono alla ricerca di nuovi modi di definire il giudaismo senza farlo dipendere dal sionismo e riscoprono tradizioni che li possono aiutare a compiere tale operazione (vedi quanto detto sopra sul conflitto fra sionismo ed ebraismo della diaspora). 


Mi avvio alla conclusione descrivendo il programma sul quale, secondo Pappé, queste componenti giovanili potrebbero convergere. In estrema sintesi si tratta di: 1) rivendicare il diritto al ritorno in Palestina dei sei milioni di palestinesi espulsi dal Paese (sebbene Israele sostenga che non ci sono spazi per accoglierli, la verità, scrive Pappé, è che esistono ampie zone disabitate) 2) i profughi dovrebbero tornare in una Palestina decolonizzata e non in un Israele riformato, cioè in uno Stato Unico con pari diritti per tutti, anche se ciò vorrebbe dire sconvolgere l'equilibrio demografico, e quindi desionizzare il Paese, che i sionisti vorrebbero trasformare in uno Stato etnico; 3) essendo inconcepibile che ciò avvenga “buttando a mare” gli ebrei, l’obiettivo è imitare il modello del Sudafrica post apartheid: riconoscimento dei crimini commessi da parte dei colonizzatori, perdono e rinuncia alla vendetta in cambio di giustizia da parte delle vittime. 


Inutile sottolineare il carattere utopistico di tale visione. Vediamo invece i soggetti ai quali Pappé vorrebbe affidare l’attuazione del programma. Dopo una severa critica delle sinistre tradizionali e del loro appiattimento sulle posizioni del centro liberale, Pappé scommette su una ridefinizione della politica che, partendo dalle esperienze di movimenti spontanei come Occupy Wall Street e Primavere Arabe, si impegni a costruire partiti di tipo nuovo in Occidente, e sfrutti le opportunità create dalla ridefinizione dei rapporti di forza internazionali a favore del Sud globale, Cina compresa, “malgrado i suoi problemi in fatto di rispetto dei diritti umani”. Detto che quest'ultima battuta conferma che anche gli esponenti più intelligenti della sinistra euroatlantica non riescono a sbarazzarsi completamente dei propri pregiudizi occidentalocentrici, il nodo cruciale è, a mio avviso, il fatto che Pappé situa di fatto il suo immaginario quartier generale rivoluzionario nei campus americani, affida cioè alla diaspora degli intellettuali palestinesi e all'intellighenzia giovanile ebraica il compito di contaminare l’opinione pubblica d’oltreoceano con i valori dell'ideologia postcoloniale e decoloniale. Una visione “culturalista” che, da un lato, ignora il fatto che l’ideologia in questione, come spiega Kevin Ochieng Okoth in Red Africa (8), viene spesso usata per disinnescare la carica antagonista dei movimenti rivoluzionari del Sud globale, dall’altro lato, dimentica che, se l’imperialismo americano appoggia senza se e senza ma Israele, non è tanto e solo per motivi di affinità ideologica o per compiacere le lobby ebraiche, ma anche e soprattutto perché Israele è una testa di ponte che gli consente di mantenere il controllo sulle immani risorse naturali e finanziarie concentrate in quella regione del mondo. 




II. Le acrobazie di Screpanti: ancorché “buono” l’imperialismo cinese resta tale


Una seria discussione sulle categorie di capitalismo e socialismo oggi mi sembra che dovrebbe tenere conto (almeno) dei seguenti precedenti: il dibattito fra Lenin, la“sinistra” bolscevica e Rosa Luxemburg sul concetto di capitalismo di stato; il contributo di Paul Baran e Paul Sweezy sui concetti di capitale monopolistico e di surplus (oltre che sulla distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo nella società capitalista e in quella socialista); le analisi di Fernand Braudel e Karl Polanyi che, sia pure con approcci differenti, smontano l’equazione mercato=capitalismo; il contributo di autori come Giovanni Arrighi, Samir Amin, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank sul concetto di sistema mondo e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo; il contributo degli afromarxisti (da Fanon a Cedric Robinson, passando per Walter Rodney, Eric Williams e molti altri) sul movimento socialista in Africa; il contributo dei marxisti latino americani (cito solo Mariategui e Alvaro Linera) sulle rivoluzioni latinoamericane. Sulla specificità della questione cinese mi pare poi impossibile non tenere conto di Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi (9) e della discussione interna al PCC  (tuttora in corso) analizzata da Cheng Enfu (10). Restando in ambito italiano, ricordo solo Rita di Leo (11), che ha messo in luce l’assenza di una teoria soddisfacente sulle società di transizione in cui il potere politico socialista convive con settori più o meno estesi di economia capitalista, le analisi di Vladimiro Giacché (12) sull’economia sovietica e di Alberto Gabriele sull’economia cinese e sulla convivenza di diversi modi di produzione nel sistema economico mondiale (13).


Per Gabriele i modi di produzione sono molti e possono convivere in rapporti di simbiosi e/o conflitto reciproco. Viceversa Ernesto Screpanti (nel cui articolo, per inciso, non ho trovato quasi traccia dei dibattiti teorici di cui sopra) sembra che, quando si parla di modi di produzione, non riesca a contare oltre il numero due: o un paese è socialista (con i suoi criteri non ne esiste a tutt’oggi nemmeno uno) o è capitalista (sempre con i suoi criteri tutti i paesi del mondo sono capitalisti). Da giovanissimo ho avuto occasione di militare brevemente in uno dei gruppuscoli bordighisti (alcuni dei quali esistono tuttora, sia pure in guisa catacombale) e di assistere perfino a una conferenza di Bordiga in persona. Certo allora non ero in grado di capire granché di quel che diceva, ma ricordo benissimo che sulla questione della chiara distinzione fra socialismo e capitalismo la pensava come Screpanti, quindi non è un caso se Bordiga e la Dunayevskaya sono le sole fonti “autorevoli” (“e con questo ho detto tutto” come recita Peppino De Filippo in “Totò Peppino e la malafemmina”) citate da Screpanti, il quale però, subito dopo averne evocato i nomi, aggiunge che non è il caso di “scomodarli”: per confondere i reprobi che osano parlare di socialismo cinese basta e avanza lui.


A parte le facezie: come è possibile assumere una posizione del genere (peraltro condivisa da molti militanti dei centri sociali e di certi residuali partitini “comunisti”) nel 2025? La risposta è semplice: basta restare ancorati alle definizioni contenute nell’Antiduhring e nella Critica al programma di Gotha, secondo cui già nella prima fase del comunismo (cioè nel socialismo, a partire da Lenin) vengono aboliti il lavoro salariato e il valore di scambio e ci si avvia “alla realizzazione del regno della libertà”. Detto che Marx ed Engels un secolo e mezzo fa (!) ritenevano che la rivoluzione fosse imminente e che la fase di transizione – la dittatura del proletariato – sarebbe stata breve, è chiaro che questo significa rimuovere completamente tutta la problematica teorica della transizione al socialismo. Su questo punto lo scontro fra Lenin e la “sinistra” bolscevica (ma anche con i critici delle sinistre europee, da Bordiga alla stessa Luxemburg) fu durissimo anche prima del varo della NEP (14). 


La posta in palio era decisiva, in quanto si trattava di prendere atto che la transizione sarebbe stata lunga e difficile, che l’eliminazione delle dinamiche di tipo capitalistico (ma non del mercato, vedi sopra il riferimento a Braudel e Polanyi) avrebbero richiesto non meno tempo, che sarebbero rimaste differenze di classe (e quindi lotta di classe, anche all’interno dello stesso partito). Su questo Screpanti svicola perché mi pare chiaro che, per lui, l’ultimo Lenin è indigesto, nella misura in cui pone una chiara distinzione fra capitalismo di stato in regime socialista e capitalismo di stato in regime capitalista (mentre per Screpanti il capitalismo, di stato o privato che sia, sempre e solo capitalismo resta). 


Ma Screpanti non si accontenta di contestare il carattere socialista del sistema cinese, vorrebbe anche dimostrare che gli straordinari risultati conseguiti sul piano socioeconomico (lotta alla povertà assoluta, miglioramento delle condizioni di vita e dei livelli di benessere di contadini e lavoratori urbani, servizi sociali) sono frutto di mistificazioni statistiche, per cui ingaggia una guerra di cifre contro i dati “ufficiali” forniti dal governo cinese e da una serie di economisti e agenzie internazionali. Detto che le cifre e il modo in cui vengono interpretate e usate da economisti che vogliono dimostrare tesi opposte sono un terreno scivoloso, apro un inciso sull’attendibilità delle fonti. Nel già citato libro di Cheng Enfu si spiega come il dibattito fra economisti cinesi (tanto per smentire la tesi dell’assenza di libertà di espressione) è pubblico e feroce fra una destra neoliberista, una sinistra neomaoista e un centro che difende la linea maggioritaria del PCC guidato da Xi Jinping. Quindi andrebbe verificato a quale di queste correnti appartengono gli autori cinesi citati da Screpanti (alcuni dei quali insegnano negli Usa, per cui mi permetto di considerarli sospetti). 


Dopodiché mi ha colpito vedere come Screpanti, dopo avere citato un autore che attribuisce il 40% del PIL alle imprese pubbliche, ne citi un altro che riduce la percentuale al 25% , sostenendo che l’ultima cifra è più “realistica” (in base a quale criterio: “scientifico” o ideologico?). Aggiungo che una serie di dati con i quali cerca di dimostrare che la Cina è tuttora indietro rispetto ai Paesi occidentali più avanzati gli si ritorcono conto perché, anche se le sue fonti fossero attendibili (il che resta da dimostrare), il fatto che la Cina, che fino agli anni Settanta era mostruosamente più arretrata dei Paesi in questione, li abbia quasi raggiunti dimostra che si è sviluppata ritmi enormemente superiori ai loro. 


Sulle questioni della riabilitazione del confucianesimo e dei criteri meritocratici di selezione dei vertici del PCC (nonché del confronto fra meritocrazia cinese e “democrazia” occidentale”), temi che inquietano Screpanti, rinvio a quanto scritto nel post precedente a proposito del libro di Arlacchi, e al libro di Daniel Bell (15). Passo invece a due chicche contenute nell’articolo del nostro.


Prima chicca, Screpanti scrive che trova agghiacciante la frase “uso del capitalismo”. Ne ha ovviamente tutto il diritto ma perché, mi chiedo, non si misura con un peso massimo come Giovanni Arrighi, che è stata la prima e più autorevole voce a usare questa espressione in campo marxista? Perché preferisce assimilare tutte le tesi che non gli aggradano all’utopia fantapolitica del romanziere ottocentesco americano Edward Bellamy, il quale descriveva una società immaginaria in cui tutta l’industria è statizzata e i lavoratori “sono organizzati in una struttura gerarchica denominata esercito industriale” . Questa visione sarebbe equivalente a quella di Arrighi e degli altri autori che definiscono socialista la Cina? No comment. Mi viene in mente uno spot pubblicitario in cui un adulto sfida un bimbo di tre anni in un gioco in cui quest’ultimo non può palesemente competere, mentre un commentatore invisibile chiede “ti piace vincere facile?” A Screpanti piace vincere facile per cui se la prende con Bellamy (che è pure morto da più di un secolo) piuttosto che con Arrighi (che è morto anche lui, ma evidentemente gli fa ancora paura).


Seconda chicca (la più gustosa). Screpanti ammette: che la Cina non ha mire espansioniste di tipo militare; che investe massicciamente nel Sud globale, specialmente in Africa e in America Latina, fornendo ai paesi in via di sviluppo aiuti sostanziosi al decollo industriale e ai processi di modernizzazione, costruendo strade, ferrovie, porti, aeroporti, scuole, ospedali, dighe e intere città nuove, che i suoi prestiti sono a lungo termine e hanno tassi di interesse assai più bassi di quelli occidentali. Poi scrive “mi sembra credibile l'opinione di chi sostiene che questo tipo di imperialismo (!!??) è gradito ai popoli che lo accolgono” (sic). Ma la Cina è comunque imperialista perché ”estrae plusvalore” e ricchezza da altri paesi. Fermi tutti: Screpanti ci ha appena spiegato che a definire l’imperialismo non sono gli “aiuti” subordinati all’adozione di precise politiche sociali ed economiche, finalizzati a instaurare un’economia del debito che impedisce ai paesi del Sud globale di svilupparsi autonomamente; non sono gli interventi militari per promuovere “rivoluzioni colorate”; non è la logica coloniale neocoloniale che fonda lo sviluppo delle metropoli sul sottosviluppo delle periferie, non è insomma il fenomeno analizzato da Lenin e poi approfondito da Baran, Sweezy e decine di altri autori marxisti. È invece, o perlomeno è anche, il fatto che la Cina, invece di impedire che i Paesi del Sud globale si sviluppino (e quindi diventino potenziali concorrenti!) ne promuove sì lo sviluppo, ma nel contempo cerca a sua volta di trarre vantaggio economico dai rapporti reciproci. 


No comment. Anzi no, un commentino finale ci vuole ma sarò sintetico. Screpanti non sarà un gigante del marxismo nostrano (del resto non è che ce ne siano molti), ma è rappresentativo del crampo mentale che affligge gran parte del marxismo occidentale, cioè l’assoluta incapacità di prendere atto che l’asse della lotta anticapitalista e antimperialista si è da tempo spostato dalle decrepite metropoli occidentali al Sud del mondo e che questa dislocazione ha determinato, sta determinando e determinerà sempre più un radicale aggiornamento della nostra cassetta degli attrezzi teorici.


Note


(1) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.


(2) I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi, Roma 2025.


(3) E. Screpanti, “Un capitalismo con caratteri cinesi”, https://transform-italia.it/un-capitalismo-con-caratteristiche-cinesi/?pdf=42007 


(4) Cfr. La pulizia etnica della Palestina (2008); La prigione più grande del mondo (2022); Brevissima storia del conflitto fra Israele e Palestina (2024).


(5) Cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Einaudi, Torino 2024.


(6) Ivi.


(7) Cfr M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001. Ho polemizzato con le tesi di questo testo ormai celeberrimo in Utopie letali (Jaka Book 2013), La variante populista (DeriveApprodi 2016) e Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi 2019).


(8) Cfr. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi 2024.


(9) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano2007.


(10) Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese, Marx 21, Bari 2024.


(11) R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011


(12) V. Giacché (a cura di), L’economia di Lenin, Il Saggiatore, Milano 2017.


(13) A. Gabriele, L’economia cinese contemporanea, Diarkos, Trieste 2024.


(14) Cfr. V. Giacché, op. cit.


(15) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.

domenica 26 ottobre 2025


ARLACCHI SPIEGA LA CINA ALL'OCCIDENTE
MA L'OCCIDENTE E' DISPOSTO AD ASCOLTARE?





Deputato, senatore e parlamentare europeo, il sociologo Pino Arlacchi è noto, oltre che per i suoi libri, per la lunga attività pubblica e istituzionale contro la criminalità organizzata (è stato vicesegretario generale del programma antidroga e anticrimine dell’ONU). Meno conosciuti sono i suoi rapporti con il mondo politico e accademico cinese. Arlacchi presiede, fra le altre cose, il Forum internazionale di criminologia e diritto penale che ha sede a Pechino, il che gli ha consentito, da un lato, di incontrare e discutere, oltre che con i colleghi cinesi, con esponenti dei vertici del Partito Comunista e dello Stato, dall’altro lato di acquisire un ampio repertorio di conoscenze sulla storia antica e recente del grande Paese asiatico, nonché sul suo sistema politico e istituzionale e sulla società cinese contemporanea. Questo vasto materiale è la fonte da cui scaturisce “La Cina spiegata all’Occidente”, cinquecento pagine fitte di analisi e informazioni appena uscite per i tipi di Fazi. 

Prima di riassumere quelli che considero i contributi più interessanti di quest’opera alla conoscenza della realtà cinese, premetto i miei dubbi in merito al fatto che essa possa scalfire il muro di pregiudizi, malafede e arroganza eurocentrica dietro il quale si trincera la larga maggioranza dei membri di un mondo politico, accademico e mediatico occidentale sempre più ripiegato su sé stesso. Spero almeno che riesca a suscitare la curiosità e i dubbi del lettore comune, ma soprattutto a far riflettere quegli ambienti di sinistra in cui circolano idiozie sulla Cina come Paese capitalista, imperialista, totalitario e aggressivo (paradossalmente, le destre neoliberali, mentre condividono con le sinistre gli ultimi tre stereotipi, confessano di temere la Cina in quanto esempio della superiorità del suo sistema socialista rispetto all’economia tardo capitalista, timore evidenziato dalle accuse di statalismo, concorrenza sleale, furto di know how, ecc. rivolte alle imprese cinesi). 

Nella Introduzione, Arlacchi spiega che le tre parti in cui si articola il libro trattano dei tre “segreti” del miracolo cinese – vale a dire delle ragioni che hanno reso possibile l’ascesa della Cina, in una manciata di decenni, da uno stato di arretratezza paragonabile a quello dell’Africa Subsahariana di allora (1949) a quello di prima potenza economica mondiale. I segreti in questione sono, nell'ordine: il non espansionismo di una civiltà sinocentrica ma al tempo stesso universalista e pacifica; un peculiare sistema politico fondato sulla meritocrazia; un sistema economico non capitalista ma con caratteri socialisti inediti (il cosiddetto socialismo di mercato o socialismo con caratteri cinesi). Nelle pagine seguenti mi atterrò a mia volta a questa tripartizione. In un post scriptum che pubblicherò fra qualche giorno, commenterò invece un esempio della incomprensione della sinistra occidentale nei confronti del fenomeno Cina. 






I


Chiunque abbia masticato qualche rudimento di storia mondiale di lungo periodo (rara avis alle nostre latitudini, non solo perché la storia è materia cenerentola nei curriculum educativi, ma anche e soprattutto perché, quel poco che se ne insegna, riguarda esclusivamente la storia occidentale), sa che fino alla metà del XIX secolo l’Asia in generale e la Cina in particolare erano più popolose, ricche e civili dell’Europa. Dall’anno 1 all’inizio dell’Ottocento, ricorda Arlacchi, Cina e India erano di gran lunga le due più grandi e prospere nazioni della terra, e fu solo alla metà di quel secolo che il centro di gravità dell’economia mondiale si  spostò in Occidente. Più avanti discuteremo le ragioni che provocarono il sorpasso, per il momento basti anticipare che Arlacchi nega che esso sia dipeso dalla superiorità tecnica occidentale. Tale superiorità riguardava semmai la tecnologia bellica, dal momento che la Cina aveva anticipato di secoli scoperte europee come quelle della carta, della stampa, della bussola, dell’orologio, del mulino ad acqua, per citare solo le più note. Il vero punto è capire perché tali scoperte indirizzarono in modo diverso i rispettivi percorsi evolutivi (basti ricordare che la polvere da sparo, da aggiungere all’elenco stilato poco sopra, venne usata per gli spettacoli di fuochi artificiali più che in campo militare).


Del resto, prima del fatidico Ottocento, grandi intellettuali europei come Voltaire, Quesnay e Adam Smith (su quest’ultimo torneremo più avanti) erano perfettamente consapevoli del fatto che il grado di civiltà cinese era più elevato di quello occidentale. L’aria cambia nel momento in cui occorre legittimare il progetto europeo di conquista coloniale nei confronti delle regioni asiatiche. A partire da Hegel - e per chi come il sottoscritto è marxista è doloroso ammettere che non si salva del tutto nemmeno Marx (1) - il Celeste Impero viene descritto come un tipico esempio di “dispotismo orientale”, una civiltà stagnante, retrograda e superstiziosa. La Cina diviene progressivamente oggetto di un mito razzista che accompagna l'aggressione occidentale nei suoi confronti: “Secoli di eurocentrismo, di razzismo e di colonialismo globale, scrive Arlacchi, hanno costruito un muro che impedisce agli occidentali di vedere gli aspetti più salienti della civiltà cinese” (2).


Questa montagna di pregiudizi emerge nell’opera di un grande sociologo come Max Weber, il quale, com’è noto, attribuisce il mancato sviluppo di un capitalismo cinese, malgrado ne esistessero i presupposti oggettivi, a una cultura priva dell’adeguata dose di dinamismo, giudizio che mette in relazione all’impatto divergente di protestantesimo e filosofie religiose orientali sulle dinamiche socioeconomiche (3). Perfino un genio della storia di lungo periodo quale Fernand Braudel si è in parte lasciato influenzare dalla visione eurocentrica, laddove imputa il mancato sviluppo capitalistico cinese all’invadenza dello stato imperiale nei confronti dell’economia privata (4). Analoghe argomentazioni sono state utilizzate dalla maggior parte degli storici occidentali chiamati a rispondere all’interrogativo sul perché i viaggi marittimi dell’ammiraglio Zheng He, che alla guida di un'immensa flotta anticipò di un secolo le esplorazioni portoghesi, non portarono alla costituzione di un impero coloniale cinese che si sarebbe esteso dal SudEst asiatico alle coste dell’Africa Orientale. Ciò avvenne, replica Arlacchi, semplicemente perché i cinesi non nutrivano alcun interesse in una simile impresa, e ciò per le ragioni che ci apprestiamo a spiegare.


Il motivo principale per cui i cinesi non avevano motivo di invadere, conquistare e sottomettere altri popoli, argomenta Arlacchi, era la natura essenzialmente pacifica della loro cultura. Per millenni la loro storia è stata caratterizzata dall’assenza pressoché totale, salvo limitate eccezioni, di guerre internazionali (assenza che sta anche alla radice della straordinaria prosperità economica di cui hanno goduto prima dell’aggressione occidentale – e giapponese – e della quale stanno oggi godendo su scala assai maggiore dopo avere riconquistato la propria sovranità). 


Per capire di cosa si parla è utile mettere a confronto alcuni caratteri distintivi delle nostre storie. La cultura greca antica, che consideriamo la nostra prima radice, concepiva gli stranieri – i barbari – come una razza inferiore naturalmente votata alla condizione di schiavi (Aristotele); vedeva nel conflitto (Eraclito) “il padre di tutte le cose” - un punto di vista condiviso da Marx, sulla scia di Hegel (5) . Passando all’ebraismo  celebrato – a torto o a ragione (6) – come la nostra seconda radice, è difficile ignorare gli agghiaccianti inviti all’annientamento totale dei nemici del “popolo eletto” contenuti nell’Antico Testamento (che lo Stato israeliano sta mettendo in pratica a Gaza). L’impero britannico è nato sull’onda delle guerre dell’oppio (che Arlacchi definisce “trionfo del narcotraffico inglese” sulla civiltà cinese). Infine l’imperialismo americano trova la propria giustificazione morale nell’idea di una missione civilizzatrice volta a  esportare democrazia libertà individuale e mercato capitalistico in tutto il mondo, lascito secolarizzato di un mix di protestantesimo e sionismo cristiano. 


Sul fronte opposto troviamo il concetto di Tanxia (letteralmente: tutti sotto lo stesso cielo), vale a dire l’idea di una società universale, pacifica e senza confini dove non ci sono gerarchie permanenti d razze, classi, culture etnie e giurisdizioni. Non ci sono centri e periferie. Né schiavi né barbari, né razze né esseri inferiori. né coloni né colonizzati (7). Manca cioè del tutto un’idea di missione civilizzatrice da compiere in nome di qualche dio (in Cina non si sono mai combattute guerre di religione). Al suo interno il Celeste Impero non era dominato da un unico gruppo etnico, gli Han, era un’entità ibrida, un miscuglio di nazionalità, al punto che il Paese è stato governato per secoli da Mongoli e Manchu i quali, dopo avere invaso il Paese, ne hanno adottato istituzioni, valori e tradizioni (niente a che vedere, annota Arlacchi, con il meltingpot statunitense, basato su una gerarchia che pone al vertice i Wasp). Quanto alle nazioni e ai popoli stranieri, malgrado l’innegabile senso di superiorità delle élite dell’Impero di Mezzo, questi non  sono mai stati visti come “oggetti” etnografici da sottomettere, bensì come corrispondenti e tributari. 


Zheng He non era in missione per costruire basi e avamposti imperiali, bensì per riscuotere tributi. E questi tributi, più che esazioni assimilabili a quelle imposte da Roma ai popoli sottomessi, erano richieste di riconoscimento simbolico dell’autorità imperiale e scambi reciproci di doni (in cui spesso, scrive Arlacchi, la Cina ci rimetteva). Infine, a proposito del “dispotismo orientale”, una delle caratteristiche peculiari del sistema politico cinese consisteva nel fatto che, se l’operato dell’imperatore non rispondeva più ai canoni morali supremi, il popolo aveva diritto di ribellarsi e deporlo a favore di un successore più degno. Il che ci porta al sistema di valori su cui si basava (e ancora si basa) la civiltà appena descritta.


* * *


Arlacchi non sostiene – né lo potrebbe sostenere chiunque sia sano di mente – che le differenze appena evidenziate nascono dal fatto che i cinesi sono più “buoni”. I filosofi che hanno gettato le fondamenta dell’atteggiamento pacifista che ispira la cultura politica cinese - come Confucio, Mencio, Mozi e i legalisti (8) - sono vissuti nello stesso arco di tempo di Socrate, Platone e Aristotele. Parliamo della cosiddetta “epoca degli stati combattenti”, conclusasi con la fondazione dell’Impero unificato (221 a.C.) e celebrata da diversi colossal cinematografici cinesi apprezzati dal pubblico occidentale (9). Per quanto ne sappiamo, gli orrori di quell’epoca non sono stati meno terribili di quelli del nostro medioevo o dei moderni conflitti interstatuali europei, per cui il pensiero confuciano va inteso anche e soprattutto come reazione agli orrori in questione. La violenza organizzata, l'uso letale della forza, scrive Arlacchi, è considerata un atto intrinsecamente immorale, non necessario e dannoso, sia nelle relazioni umane che nel governo degli affari pubblici, e poche pagine dopo aggiunge che il pensiero cinese non contempla il concetto di “guerra giusta”, nella misura in cui la guerra è considerata come sintomo di un fallimento di leadership, sia politica che etica, non – come teorizzato da Clausewitz – la continuazione della politica con altri mezzi. 


Un ritratto di Confucio

 

 

Per Confucio, il rapporto gerarchico fra governanti e governati è simile a quello fra padre e figlio e il riconoscimento dell’autorità sulla quale si fonda è frutto dell’educazione. Solo se quest’ultima fallisce è lecito ricorrere al sistema premi/punizioni, ed esclusivamente in ultima istanza alla forza militare. Inoltre l’autorità regge se e finché si fonda sull’autorevolezza , la quale si fonda a sua volta sul fatto che chi governa si prende cura del benessere e della sicurezza popolari. In questo senso, afferma Arlacchi, si potrebbe dire che il Celeste Impero ha anticipato di secoli quel concetto di welfare state che in Occidente è ultramoderno, ove si pensi che nel Seicento Locke e altri affidavano ancora al governo il solo compito di garantire la vita, la proprietà e la libertà individuali dei sudditi, mentre i concetti di cittadinanza politica e sociale si affermeranno solo fra Ottocento e Novecento (10). In base a questa visione, l’autorità dell’Imperatore non è ereditaria né irrevocabile: il “mandato del Cielo” che la legittima può venir meno se egli se ne dimostra indegno, e il popolo – che resta dunque il depositario ultimo della sovranità – può deporlo e sostituirlo.


L’aspetto più intrigante dell’analisi di Arlacchi, a mio avviso, è però quello che mette a fuoco il ruolo strategico degli shi (i letterati, o mandarini che dir si voglia) nella gestione del sistema politico imperiale. A partire dalla dinastia Song, questa élite di funzionari imperiali, selezionata attraverso rigorosi concorsi a diversi livelli, formalmente aperti a tutti, anche a persone di umile estrazione sociale, furono in grado di esercitare un’egemonia pressoché assoluta tanto nella sfera politica che in quella culturale, prevalendo sulle élite dei militari, del clero e dei mercanti. Si trattava di un formidabile meccanismo di mobilità sociale (anche se non sfuggiva ai condizionamenti del nepotismo e della corruzione). Una “democrazia meritocratica” (11) che, come stiamo per vedere, è tornata in auge - dopo il blackout provocato dal crollo dell’Impero e dalla colonizzazione da parte delle potenze occidentali e del Giappone - grazie ai meccanismi di selezione delle élite dirigenti comuniste salite al potere nel 1949. Per inciso, Arlacchi ricorda come Mao considerasse l’insurrezione dei Taiping antesignana della rivoluzione socialista, e i Taiping, un movimento proto comunista che coinvolse milioni di contadini poveri e adottò una religione sincretica che mescolava cristianesimo, buddismo e confucianesimo, era guidato da un giovane contadino inferocito dal fatto di essere stato respinto quattro volte agli esami di ammissione al ruolo di funzionario imperiale. 



II.


Arlacchi dedica tutta la seconda parte del libro all’analisi della storia, della cultura ideologica e organizzativa e del ruolo politico e sociale del Partito Comunista Cinese, che definisce “una istituzione chiave poco conosciuta e poco studiata, circondata da un alone di riservatezza e di segreti che occorre superare per comprendere il funzionamento dello Stato, della società civile e della politica in Cina” (12). Per penetrare questo alone di “mistero”, prende le mosse dalla crescente rivalutazione della tradizione confuciana, in corso soprattutto a partire dall’avvento di Xi Jinping alla direzione del Partito. La sua tesi è che non si tratta, come viene spesso argomentato, di un espediente propagandistico per alimentare l’orgoglio nazionalistico del popolo nei confronti della propria tradizione millenaria, bensì della presa d’atto della sostanziale continuità ideologica e istituzionale fra gli shi (vedi sopra) e l’attuale élite dirigente comunista: quest’ultima agirebbe come una sorta di “imperatore collettivo”, come una “reincarnazione” della classe dirigente del Celeste Impero, con la quale condivide i principi etici e meritocratici confuciani. 


I critici della degenerazione postdemocratica (13) delle istituzioni statunitensi citano spesso quale sintomo di tale fenomeno la logica delle “porte girevoli”, in base alla quale alti dirigenti del sistema economico vengono chiamati a ricoprire incarichi politici e viceversa. In Cina l’intreccio fra carriere politiche, istituzionali, amministrative e manageriali non è l’eccezione bensì la regola, ma in tal caso non si tratta di porte girevoli, bensì del fatto che in Cina non esistono divisione dei poteri né Stato di diritto. “Il PCC scrive Arlacchi, coincide quasi con lo Stato e rappresenta anche un segmento non indifferente della società civile. È nello stesso tempo Stato, Partito e società civile. L’élite della società civile cinese governa lo Stato tramite il PCC” (14). Non a caso, gli iscritti al Partito, scelti con metodi rigorosamente selettivi, sono quasi cento milioni, un cittadino su quindici (ma se si escludono i giovanissimi il rapporto è ancora più elevato) , un dato da far impallidire il togliattiano “partito di massa”. Di più, come vedremo più avanti, la sua composizione rispecchia sempre più fedelmente la stratificazione sociale del Paese, nella misura in cui tutte le classi vi trovano rappresentanza. 


Come gli antichi imperatori, argomenta Arlacchi, il PCC si pone l’obiettivo di egemonizzare la società cinese attraverso una élite di “intellettuali organici” a stretto contatto sia con il popolo che con lo Stato, i quali sono impegnati a dare vita a una ideologia, una morale, una cultura e un senso comune di tipo “nazional-popolare” (15). Quanto appena citato aiuta a capire che il modello che Arlacchi evoca per spiegarci cosa è il partito Comunista Cinese è meno “esotico” di quanto può essere sin qui sembrato: è niente di meno che il modello gramsciano del “moderno principe”(16), cioè un ceto di intellettuali organici che organizzano la “volontà collettiva” del popolo e la gestione dei beni comuni. E il concetto gramsciano di pratica egemonica implica che l’intellettuale organico deve essere capace di conquistare le coscienze non solo dei membri della classe di cui è espressione ma dell’intera società (ciò è fondamentale per capire come funziona il socialismo con caratteri cinesi, come vedremo nella terza parte). 



 

 

 

C’è infine un tema, quello dei meriti e dei demeriti di Mao in quanto leader incontrastato del Partito prima e del Paese poi, dall’avvio del processo rivoluzionario alla morte, rispetto al quale il giudizio di Arlacchi converge con quello dei suoi successori (la famosa formula 70-30: 70% di meriti 30% di errori). Detto che Arlacchi, sulla scia di Giovanni Arrighi (17) e della maggioranza degli economisti marxisti cinesi (18), ribadisce che nella fase maoista erano stati creati i presupposti indispensabili dello straordinario sviluppo successivo – in particolare alfabetizzazione di massa, radicale miglioramento della salute, parità di genere, lotta contro la droga (il consumo di oppio imposto con la violenza dal narcoimperialismo britannico non era stato completamente debellato al momento della vittoria della rivoluzione) – ciò che ho trovato più condivisibile nel suo approccio è la valorizzazione del contributo di Mao al superamento del dogma marxista secondo cui il principale soggetto rivoluzionario è la classe operaia, mentre ai contadini è riservato, nella migliore delle ipotesi, il ruolo di alleati (19). 


Se Mao si fosse adattato alle direttive della Terza Internazionale, che gli imponevano di scommettere sull’esigua minoranza operaia concentrata in alcune città, e di allearsi con il partito Kuomintang, in quanto espressione della borghesia nazionale, la rivoluzione cinese non sarebbe mai avvenuta. In quanto assertore della marxiana filosofia della prassi (e del principio leninista che impone di calibrare tattica e strategia sulla “analisi concreta della situazione concreta”), Mao ha invece puntato tutto sulla mobilitazione delle masse contadine, scelta che lo ha ripagato con la grande vittoria del 1949. Devo qui aprire una parentesi che esula dal tema trattato da Arlacchi. Da tempo vado sostenendo (20) che il soggetto rivoluzionario principale, a partire dalla svolta imperialista del primo Novecento e neoimperialista del secondo dopoguerra, sono i popoli (contadini e non solo) del Sud del mondo, stante il fatto che lo sfruttamento delle periferie ha permesso ai centri metropolitani di integrare le proprie classi lavoratrici. Del resto non si tratta di teoria: la storia certifica che le sole rivoluzioni socialiste (alcune riuscite altre fallite) si sono verificate in Asia, Africa e America Latina, mentre né in Europa né negli Stati Uniti né nei Paesi del Commonwealth britannico a maggioranza bianca è avvenuto niente del genere. Va aggiunto che l’eresia giustamente apprezzata da Arlacchi non è un’esclusiva di Mao ma appartiene a decine di pensatori afromarxisti (da Fanon a Samir Amin, passando per Rodney, Williams, James, Padmore, Robinson e molti altri) e latinoamericani (da Mariategui a Linera per citarne solo un paio). 


Certo Mao ha commesso gravissimi errori, che hanno provocato disastri come il fallimento del cosiddetto Grande Balzo in avanti (una sorta di replica, ancorché con caratteristiche diverse, della collettivizzazione forzata voluta da Stalin) e come la Rivoluzione Culturale che, oltre a causare la perdita di moltissime vite umane, ha rischiato di distruggere lo Stato-Partito e consegnare la Cina nelle mani dei propri nemici. Và però detto che il Partito ha dimostrato di disporre di anticorpi che gli hanno consentito di reagire, e andrebbe aggiunto che gli effetti negativi del Grande Balzo sono stati amplificati da una serie di catastrofi naturali, e che le motivazioni di Mao, più che ideologiche, erano frutto del timore di una imminente invasione americana, per cui le Comuni avrebbero dovuto svolgere il ruolo di basi di una resistenza diffusa. Certamente più grave fu la decisione di scatenare la Rivoluzione Culturale per evitare di essere messo in minoranza nella direzione del Partito. Tanto più grave in quanto ha contribuito ad alimentare nella sinistra internazionale il mito in base al quale la Cina, fallita la Rivoluzione Culturale e morto Mao, si sarebbe avviata verso la restaurazione del capitalismo (nella migliore delle ipotesi capitalismo di Stato, nella peggiore capitalismo tout court). Il maggior merito di Arlacchi è quello di avere aggiunto la propria voce al coro delle voci degli autori occidentali e cinesi (21) che tentano di smontare il mito in questione e di spiegare cos’è il socialismo con caratteri cinesi. 



III.


Prima di entrare nel merito degli argomenti con i quali Arlacchi difende la tesi del carattere socialista del sistema cinese, ritengo utile sintetizzare alcuni contributi precedenti al dibattito sul tema. Parto dall’analisi di Vladimiro Giacché (22) sul concetto “classico” di socialismo. Nell’Anti Duhring, ricorda Giacché, Engels afferma che il socialismo non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. Il socialismo sovietico non si è mai avvicinato al modello appena descritto, ma ciò non basta, scrive Giacché, per liquidarlo come un “fallimento”. Questa tesi è insostenibile ove si consideri che dopo la Rivoluzione, la Russia si è sviluppata a ritmi più elevati di quelli dei paesi capitalisti occidentali, che la pianificazione le ha consentito di superare senza problemi la Grande Crisi del 1929 che aveva messo in ginocchio America ed Europa, e che la capacità dell’Unione Sovietica di sfidare il modello occidentale si è prolungata fino agli anni Sessanta, malgrado le devastazioni provocate dall’aggressione nazista, mentre è solo a partire dai Settanta che iniziano a manifestarsi difficoltà cresciute fino a causare la crisi terminale del sistema (23) . 


Il modello “classico” di socialismo rispecchiava la convinzione di Marx ed Engels che una rivoluzione socialista mondiale fosse imminente, e che il successivo processo di transizione sarebbe stato relativamente breve. Anche Lenin, fino al 1919/20, pensava che al monopolio di stato sul commercio sarebbe presto subentrata la distribuzione organizzata secondo un piano ma, già nel 1921-23, la realtà lo indusse a criticare le tesi di coloro che ritenevano possibile passare al socialismo senza un periodo di transizione, dopodiché finì per ammettere che tale periodo sarebbe stato lungo e caratterizzato dal persistere di rapporti mercantili e monetari (una presa d’atto che si concretizzò con la svolta della NEP). Analoghe considerazioni, scrive Giacché, valgono per la Cina dove, dopo i tentativi (falliti) di costruire un sistema pianificato di produzione diretta di valori d’uso senza passare dalla forma merce e dal denaro, il PCC si convinse dell’impossibilità di liquidare completamente il processo di riproduzione del capitale in forma monetaria. Dopodiché le riforme avviate da Deng nel 1978, sono un passo ben più radicale della NEP verso la reintroduzione del mercato come fattore di regolazione di larghi settori dell’economia. Se dunque si assume la scomparsa della produzione mercantile quale unico parametro del carattere socialista di una società, né la Cina né l’Unione Sovietica possono essere considerate socialiste. Ma Giacché non è di tale parere e, fra poco, vedremo perché anche Arlacchi la pensa diversamente- 


Veniamo a Braudel e al suo monumentale Civiltà materiale, economia e capitalismo. Fra i secoli XV e XVIII, scrive il grande storico francese, il mondo era costituito da una immane massa di contadini che vivevano della terra, per cui il ritmo, la qualità e la dimensione dei raccolti reggevano tutta la loro vita. Questa realtà era esclusa dal circuito del mercato, e ciò che produceva era assorbito interamente dall’autoconsumo della famiglia o del villaggio. Nemmeno l’avvento dell’economia monetaria ha cambiato radicalmente la situazione: sotto la sua epidermide sottile “sussistono attività primitive, mescolate, poste a confronto fra loro, nei regolari incontri sui mercati, o nel forcing tumultuoso delle fiere. Nel cuore dell’Europa sopravvivono economie rudimentali, circondate dalla vita monetaria che non le sopprime, ma se le riserva quasi fossero colonie interne a portata di mano [sottolineatura mia]” (24). Queste sopravvivenze non sono fenomeni residuali: il loro peso culturale, antropologico è tanto potente quanto persistente nel tempo, è la matrice della vita quotidiana “che ci trascina senza che ne siamo coscienti”.  L’economia di mercato emerge progressivamente da questa base, nasce dagli scambi quotidiani dei mercati elementari, dai traffici fra contadini, artigiani e pochi mercanti che fungono da intermediari fra produttori e consumatori. Da questo livello originario e inferiore cresce un capitalismo mercantile fatto inizialmente di fiere, poi di commercio a lunga distanza, infine di borse e intreccio fra capitale e stato. Insomma: per Braudel il capitalismo e l’economia di mercato non sono la stessa cosa. Per molti secoli la borghesia è stata il ceto parassitario delle élite feudali, ha vissuto a loro spese, impadronendosi dei loro beni tramite l’usura, infiltrandosi e confondendosi nei loro ranghi. La sfera della circolazione e degli scambi universali, generata dal commercio a lunga distanza, è contro mercato che si sbarazza delle regole che governano il mercato tradizionale, vive di scambi ineguali, è il regno del monopolio, dell’imbroglio e del diritto del più forte. I grandi mercanti “sono amici del principe, sovvenzionano o sfruttano lo stato”. Lo stato moderno, scrive Braudel, “non ha costruito il capitalismo ma lo ha ereditato, talora agisce a suo favore, talora ne ostacola i propositi; a volte gli permette di espandersi liberamente, ma in altri casi distrugge le sue risorse. Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato quando è lo stato” (25). 

 


 

 

Passiamo a Kenneth Pomeranz (26). Quest’altro grande storico dell’economia mondiale, analizzando la “grande divergenza” fra l’economia cinese e quella europea, che sorpassa la prima fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, smentisce la tesi degli storici occidentali che attribuiscono la transizione da un mondo policentrico a un mondo dominato dall’Europa a fattori di crescita endogena, cioè a una superiorità economica intrinseca del Vecchio Continente sul resto del mondo. Tale tesi, argomenta Pomeranz, “internalizza” lo straordinario apporto ecologico che l’Europa ha ricevuto dal Nuovo Mondo. Le colonie americane hanno consentito ai Paesi europei di alleggerire la pressione sull’agricoltura garantendo un afflusso pressoché illimitato di materie prime e derrate; ma soprattutto la colonizzazione oltremare e il “commercio armato” ha regalato alle istituzioni finanziarie europee – forgiate da un sistema di stati impegnati in una competizione economica e militare basata sul debito pubblico –  i vantaggi che le hanno garantito l’egemonia. In poche parole, la differenza fra la via europea e la via asiatica si spiega in ultima istanza con la coercizione europea sulle altre aree del mondo. 

Concludo questo prologo con l’interpretazione eretica del pensiero dell’economista-filosofo scozzese Adam Smith, che dobbiamo a Giovanni Arrighi e al suo capolavoro, Adam Smith a Pechino. Secondo Arrighi, Adam Smith non fu l’apologeta del mercato autoregolantesi che basta lasciare operare liberamente perché generi spontaneamente la ricchezza delle nazioni, bensì colui che auspicò l’esistenza di uno Stato forte, in assenza del quale non possono darsi le condizioni di esistenza del mercato stesso. I suoi consigli al legislatore, scrive Arrighi, furono sempre di ordine sociopolitico piuttosto che economico, né si proponevano esclusivamente di agevolare l’interesse e il potere dei capitalisti: la sua idea di fondo era che, se si vuole perseguire l’interesse generale, occorre stimolare la competizione per tenere il più basso possibile il saggio di profitto. Detto altrimenti: i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo, una tesi, sostiene Arrighi, che ci consente di capire la logica di una “economia di mercato non capitalistica” come quella cinese. Un’economia, sosteneva Smith nel 1776, che aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica, un tipo di sviluppo basato sull’agricoltura e sul commercio interno che lo stesso Smith definiva “naturale”, mettendolo in contrapposizione con lo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero (e sulla potenza militare forgiatasi dai conflitti intereuropei, aggiunge Arrighi). I quattro autori appena citati ci consentono di ammettere l’esistenza di un’economia di mercato non capitalistica, ma se la Cina è un esempio di tale economia, possiamo anche definirla socialista? Vediamo con quali argomenti Arlacchi ritiene di poter rispondere positivamente.





* * *

Lo scoglio teorico contro cui sono naufragate quasi tutte le analisi del marxismo occidentale sugli esperimenti di transizione al socialismo messi in atto dopo la formulazione del modello canonico di Marx ed Engels (che ha ormai cento e cinquant’anni e li dimostra tutti) è lucidamente descritto da Rita de Leo (27): non esiste una credibile teoria marxista della transizione o, per essere più precisi, non esiste una teoria in grado di rendere conto delle dinamiche evolutive di una società in cui uno Stato socialista convive con un’economia che presenta consistenti elementi di capitalismo. Di fronte a questo tipo di realtà, la sinistra occidentale – in particolare le sinistre radicali, soprattutto se di matrice trozkista, bordighista o operaista – reagisce affermando che non si tratta di società “veramente” socialiste. Per i contesti in cui l’economia è in gran parte in mano pubblica, è stato coniato il concetto di “capitalismo di stato”, ignorando che Lenin lo aveva demolito già nel 1918 (28). Figuriamoci quindi se costoro possono accettare la definizione della Cina che ci propone Arlacchi: “una potenza in grado di addomesticare la bestia capitalista e farle tirare il carro di una società socialista”. 


In primo luogo, Arlacchi elenca con dovizia di dettagli (varrebbe la pena di leggere il libro anche solo per acquisire l’enorme mole di dati che contiene) che differenziano il sistema cinese da tutte le società capitaliste (anche le più restie a procedere alla privatizzazione totale dell’economia e a liquidare ogni residuo di welfare state). La proprietà della terra, delle acque e delle risorse strategiche è rimasta saldamente nelle mani dello Stato, anche dopo l’avvio del processo di riforma postmaoista. Le imprese di Stato, anche se non detengono più il controllo diretto della maggioranza della produzione (ma sono in grado di controllare, orientare e guidare anche quella in mani private) conservano la proprietà e la direzione dei settori strategici: sicurezza nazionale, energia, telecomunicazioni, trasporti, difesa e finanza (sul peso di quest'ultimo fattore torneremo fra poco); garantiscono la fornitura di beni pubblici, servizi essenziali; gestiscono le esternalità negative e controllano i monopoli naturali. 


Grazie a questo “capitalismo di stato”, come si ostinano a chiamarlo gli amici di cui sopra, la Cina ha risolto in tempi brevissimi il problema della povertà (ottocento milioni di persone sono uscite dalla povertà assoluta nell’arco di un paio di decenni); ha riassorbito in tempi record i trenta milioni di disoccupati generato dai contraccolpi delle crisi capitalistiche globali sull’economia cinese; ma soprattutto ha surclassato in ogni campo le economie occidentali (Arlacchi offre una quantità di dati in merito, certificati da agenzie internazionali non sospette di simpatie socialiste).


Sento già le obiezioni: tutto ciò dimostra solo che il capitalismo di stato funziona, non che non si tratta di capitalismo: basti pensare alle economie miste dei Paesi capitalisti del ventennio postbellico, regolate dallo Stato e in grado di garantire ai lavoratori salari decenti e servizi sociali. Già, ammette Arlacchi, però sappiano come è andata a finire: alla crescita hanno fatto seguito la caduta del saggio di profitto e le controriforme neoliberali che hanno falcidiato salari operai, redditi della classi medie e servizi sociali, per cui si è reso necessario sostenere i consumi attraverso l’indebitamento privato, finché deindustrializzazione e finanziarizzazione hanno fatto esplodere il sistema. Per capire perché la Cina, malgrado le profezie – puntualmente smentite – degli economisti occidentali, non è finita in questa tagliola, dobbiamo ripartire dal controllo pubblico sulla finanza. Il fatto è, scrive Arlacchi, che “la finanza cinese funziona come risorsa abbondante dell’economia materiale e non come domina dell’intero sistema”. Da un lato, lo Stato scoraggia o vieta i movimenti di capitale a breve e l'ingresso della finanza privata e dei capitali stranieri nei settori strategici; dall’altro lato, la grande maggioranza dei prestiti vanno alle imprese non finanziarie e vengono offerte condizioni di particolare favore alle piccole-medie imprese, che rappresentano una quota importante dell’intero sistema. 


Oltre al ruolo della finanza pubblica, Arlacchi sottolinea altri due fattori strategici. Il primo è il pluralismo delle forme di proprietà: il sistema non è polarizzato fra pubblico e privato, nella misura in cui esistono una miriade di forme ibride, come le cooperative, le imprese collettive di villaggio e/o di proprietà dei lavoratori, ma soprattutto imprese – anche gigantesche multinazionali che operano in settori tecnologicamente avanzati – che non possono essere definite né pubbliche né private, ibridi a partecipazione incrociata di cui Huawei è un esempio tipico. Il secondo elemento è la pianificazione flessibile che lo Stato-Partito cinese, ammaestrato dai disastri provocati dal centralismo sovietico, ha iniziato a mettere in atto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Il criterio di base che lo ispira è il pragmatismo: si sperimenta, si impara dagli errori, e ciò che funziona viene utilizzato come modello per ulteriori sperimentazioni. Per inciso, una delle cose che mi sono parse più interessanti del libro di Arlacchi è il modo in cui descrive la differenza fra i nostri progetti e quelli cinesi. I progetti occidentali, in particolare quelli europei (che Arlacchi ha avuto modo di osservare dall’interno durante il suo mandato a Bruxelles), sono spesso progetti fantasma  che, nella migliore delle ipotesi, si perdono nei meandri della burocrazia, nella peggiore sono contenitori vuoti che servono a dirottare fondi su obiettivi diversi da quelli dichiarati. Al contrario in Cina scrive Arlacchi, “un progetto ha un inizio, una fine, obiettivi quantificabili una struttura si governance dedicata e un piano di implementazione” (29). 


Che sistema è dunque quello cinese? Come si colloca nello scenario mondiale caratterizzato dal declino dell’egemonia occidentale? È il nuovo egemone destinato a subentrare agli Stati Uniti come stella polare di un sistema capitalistico rinnovato, o è un’alternativa globale al modo di produzione che domina il pianeta da cinque secoli? Arlacchi non ha dubbi: la transizione egemonica che stiamo vivendo è atipica, non si concluderà con l’ascesa di un nuovo polo imperiale, bensì con l’emergenza di un inedito sistema multipolare in cui nessuna nazione potrà più imporre le proprie logiche a tutte le altre. In questo senario, la Cina non sarà il nuovo dominus bensì un primum inter pares che deve la propria prosperità al fatto di essere un sistema originale fondato su una combinazione di Stato, mercato e società, un’entità che non è capitalistica né occidentale. Arlacchi la definisce un modello di “socialismo 2.0” che evolverà in una direzione che, in un futuro non troppo remoto, sarà in grado di prescindere dal capitalismo e forse addirittura dal mercato, grazie alla potenza delle nuove tecnologie che renderanno sempre più affidabile la programmazione. Così troverà attuazione l’auspicio di Karl Polanyi (30), il quale sperava in un futuro in cui il mercato tornerà ad essere un fattore non più separato dalla società. 


Mao parla al popolo dopo la vittoria



La Cina è in marcia verso il migliore dei mondi possibili? Ovviamente no. I cinesi sono i primi a riconoscere che il loro sistema dovrà affrontare sfide formidabili. Risolto il problema della povertà assoluta resta quello delle disuguaglianza relativa, che è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, escludendo parzialmente dai benefici dello sviluppo certe regioni e certi strati sociali. Sotto il governo di Xi Jinping è iniziato uno sforzo formidabile per ridurre le disuguaglianze e rendere partecipe della nuova prosperità la maggioranza del popolo, così come è in atto uno sforzo altrettanto formidabile per combattere una malattia cronica del sistema, vale a dire quella corruzione che nei primi decenni dell’era delle riforme è stata sostanzialmente tollerata, in quanto considerata funzionale all’accelerazione dei ritmi di accumulazione. Xi Jinping ha ribaltato tale punto di vista, che rischiava di erodere il consenso popolare nei confronti del sistema, e avviato una campagna di repressione durissima (da quando è al potere 5 milioni di membri del partito sono finiti sotto inchiesta). Ad agevolare questo duplice impegno contro disuguaglianze e corruzione, contribuiscono, da un lato, il fatto che in ogni impresa superiore a una certa dimensione – pubblica o privata che sia – sono state inserite cellule di Partito che hanno voce in capitolo nelle decisioni strategiche, dall’altro lato, il fatto che l’impegno di estendere l’egemonia ideologica e culturale nei confronti di tutto il popolo (vedi sopra) ha fatto sì che il 65% dei dirigenti di grandi imprese private siano membri del PCC e ne accettino le direttive, anche se e quando sarebbero considerate intollerabili dai corrispettivi occidentali. 


Resta un interrogativo cruciale: l’ascesa della Cina non è fatalmente destinata a far scattare la famigerata “Trappola di Tucidide”, inasprendo il conflitto con gli Stati Uniti fino a provocare una Terza guerra mondiale? Commentare il modo in cui Arlacchi risponde a tale interrogativo, mi consente di concludere esprimendo alcune critiche che non inficiano l'apprezzamento per il suo lavoro.


* * *


Discuterò qui di seguito i tre argomenti che considero prevalenti nel ragionamento con cui Arlacchi nega l’ineluttabilità della guerra fra Cina e Stati Uniti.


Uno. Il declino americano sta maturando in un contesto globale sfavorevole all’uso della forza militare: tutte le guerre americane dell’ultimo mezzo secolo hanno dimostrato che il loro costo esorbitante (in termini di immagine oltre che economico) non è commisurato ai risultati ottenuti. Si aggiunga che gli scenari commissionati dai governi Usa per simulare una guerra con la Cina, prevedono la sconfitta americana in più del 90% dei casi. Questo è il solo argomento che considero convincente. 


Due. Per fare la guerra bisogna essere in due, scrive Arlacchi, e la Cina non ha nessuna intenzione di farla. Giusto, ma questo non ha impedito agli Stati Uniti di aggredire Vietnam, Iraq, Serbia, Libia, Afganistan, ecc. che non le avevano dichiarato guerra, né avevano intenzione di farlo. 


Tre. Una Terza guerra mondiale è impossibile non solo perché si rischierebbe l'olocausto nucleare, ma anche perché, secondo Arlacchi, sarebbe da tempo in corso un processo di incivilimento, che i cinesi hanno iniziato prima di noi, e che consisterebbe nella graduale esclusione della forza fisica dai rapporti sociali e dalla politica, sia interna che internazionale, e rispetto al quale la guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza sarebbero due eccezioni. Non condivido questa visione irenica. La Terza guerra mondiale è già in atto, come giustamente affermato da Papa Francesco, anche se non assume la forma delle precedenti ma si attua attraverso una serie di guerre “locali” (che causano milioni di morti e con la loro ferocia smentiscono ogni illusione di “incivilimento”) e attraverso la cosiddetta guerra ibrida: dazi, cyberguerra, sanzioni economiche (spesso non meno letali delle guerre guerreggiate) ecc. 


Scartate le motivazioni due e tre, basta la motivazione uno a giustificare l'ottimismo? Non credo, perché non tiene conto della follia umana, e con questo termine non mi riferisco alla pazzia clinica di uno o più individui e gruppi di potere, bensì alla disperazione di un soggetto collettivo (nazione, popolo, sistema economico, classe sociale, ecc.) che ritenga che la sua stessa sopravvivenza sia a rischio. Per inciso: la tesi secondo cui sarebbe stata la follia di Hitler a scatenare la Seconda guerra mondiale è un’idiozia totale: erano in gioco enormi interessi economici e geopolitici che di fatto hanno “costretto” (in base ai canoni della razionalità imperialista) la Germania a fare la guerra.  


Vengo a un secondo punto di dissenso. Arlacchi dedica poche righe all’episodio di Piazza Tienanmen, attribuendone la causa alle tensioni sociali create dagli effetti delle riforme. Corretto, ma a insorgere non furono i contadini (che di quelle riforme avevano ampiamente beneficiato) né gli operai i quali (benché avessero pagato a caro prezzo “l’accumulazione primitiva” innescata dalle riforme) non avevano alcun interesse di schierarsi con gli strati piccolo-medio borghesi che rivendicavano una democrazia di tipo occidentale. Per inciso, come nel caso del “movimento degli ombrelli” di Hong Kong, sono documentate le interferenze occidentali che speravano di provocare una “rivoluzione colorata”. Non meno documentato è il fatto che il governo aveva ordinato all’esercito di non sparare, finché non si verificarono aggressioni e veri e propri linciaggi nei confronti di singoli soldati o piccoli gruppi isolati di militari. Infine, i numeri della strage sono stati ampiamente esagerati, come avvenne ai tempi del cosiddetto massacro di Lhasa, in merito al quale Arlacchi ricorda che si parlò di un numero di morti superiore di tre volte agli abitanti della capitale tibetana (31).


Terzo e ultimo punto. Arlacchi formula, fra i vari scenari sul futuro della Cina, l’idea che il sistema possa prima o poi evolvere verso forme di democrazia rappresentativa simili, se non identiche, alle nostre, per cui critica le tesi della scuola di Daniel Bell (32) e altri autori, i quali ritengono che la democrazia meritocratica cinese – che anche Arlacchi, come abbiamo visto, apprezza - sia una alternativa preferibile alla moribonda democrazia occidentale. Per cui gli chiedo: non pensa che il suo punto di vista rischi così di apparire eurocentrico (la storia evolve hegelianamente verso un fine immanente che coincide con la piena attuazione dei valori della civiltà occidentale), punto di vista che lui stesso, sulla scia di Braudel e Arrighi, mette in discussione? 


Note


(1) E’ noto che Marx diede una valutazione “oggettivamente” positiva della colonizzazione britannica dell’India, in quanto pensava che avrebbe scosso quel grande Paese dal suo millenario “torpore” (cfr. in merito India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). C’è voluto molto tempo prima che anche in campo marxista si riconoscesse che quella conquista, a parte le immani sofferenze umane che ha provocato, è stata la causa del sottosviluppo indiano e non della sua modernizzazione.


(2) P. Arlacchi, La Cina spiegata all’Occidente, Fazi, Roma 2025, p. 39.


(3) Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.


(4) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll. Einaudi, Torino 1982, 1993, 2006.


(5) Marx confessava di avere sempre avuto un debole per Eraclito, che preferiva a tutti gli altri filosofi greci ad eccezione di Aristotele.


(6) Per una critica serrata delle presunte radici ebraiche della cultura europea Cfr. C. Preve, Opere Vol II, Inschibboleth, Roma 2022.


(7) La Cina, cit. p. 48.


(8) Sulla storia del confucianesimo, delle sue varie correnti e dei suoi rapporti con altre fedi religiose, cfr. M. Scarpari, Ik confucianesimo, Einaudi, Torino 2010.


(9) Vedi “la battaglia dei tre regni” film di John Woo del 2008.


(10) Cfr. La Cina, cit., p. 156.


(11 ) Sul concetto di democrazia meritocratica, cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.


(12) La Cina, cit. p. 41.


(13) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2013.


(14) La Cina, cit., p. 42.


(15) Ivi, p. 150.


(16) Ivi, p. 43.


(17) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.


(18) Vedi, in particolare, Cheng Enfu, Dialettica dell'economia cinese, Marx 21, Bari 2024.


(19) Il disprezzo di Marx nei confronti del carattere “ontologicamente” conservatore e reazionario della classe contadina è esplicitato nel Manifesto del partito comunista. Sul progressivo abbandono di questo punto di vista, soprattutto grazie ai marxisti del Sud del mondo, vedi quanto ho scritto nei miei ultimi libri (cfr. in particolare Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023).


(20) Vedi nota precedente


(21) Cfr. fra gli altri: F. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; G. Gabellini, Krisis, Mimesis, Milano-Udine 2021; R. Herrera, Z. Long, La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019, D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteri cinesi, Edizioni l’Antidiplomatico 2021; Zhang Boyng, Il socialismo con caratteri cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019; oltre ai già citati Cheng Enfu e al mio Guerra e rivoluzione.


(22) Cfr. V. Giacché (a cura di), L’economia della rivoluzione, raccolta di testi di Lenin, Il Saggiatore, Milano 2017.


(23) Vedi, dello stesso autore “La rivoluzione economica sovietica” in AAVV, Elogio del comunismo del Novecento, Atti del Forum della Rete dei Comunisti 4-5-6 Ottobre 2024.


(24) F. Braudel, op. cit. vol. I, p. 413.


(25) Ivi, p. 65.


(26) K. Pomeranz, La grande divergenza, Il Mulino, Bologna 2012.


(27) R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(28) “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (…) Noi sappiamo  quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiano il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista perché noi ci siano avviati su questo cammino. Si h dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”, da un discorso del 1918 citato in V. Giacché, op. cit. Nello stesso contesto, Lenin affermava che il capitalismo di stato sovietico non aveva nulla a che fare con quello capitalistico perché in Russia il potere politico era nelle mani del partito della classe operaia.


(29) La Cina…, cit., p. 303.


(30) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(31) Arlacchi dedica quasi trenta pagine del suo libro a smontare il mito del “genocidio” che i cinesi avrebbero commesso in Tibet: vedi “Intermezzo”, pp. 247-274.


(32) Cfr. D. Bell, op. cit. 

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