Lettori fissi
venerdì 5 febbraio 2021
domenica 31 gennaio 2021
DAL GRUPPO GRAMSCI ALL'AUTONOMIA OPERAIA: UN PERCORSO TUTT'ALTRO CHE LINEARE (I)
di Piero Pagliani
Introducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista "Rosso" sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell'Autonomia non sia nata dal filone "classico" dell'operaismo che si è dipanato da "Quaderni Rossi" a "Contropiano", bensì da un'altra componente "eretica" delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell'area marxista leninista "ortodossa", la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta - dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale - due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo "continuista" del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un'adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono - non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato - al tragico epilogo della storia dell'Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti)
Giustamente la prefazione di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita alla raccolta del quindicinale “Rosso”, sottolinea il paradosso che la «più celebre rivista dell’Autonomia [operaia]» non era il frutto della tradizione operaista italiana che faceva capo a “Quaderni rossi” o a “Contropiano”, ma nasceva da una particolarissima esperienza politica, quella del Gruppo Gramsci, a cui avevano dato vita “transfughi” dal marxismo-leninismo dogmatico italiano e del Movimento Studentesco milanese. In realtà il paradosso si risolve se si considera che il Gruppo Gramsci originario non si travasò nella sua interezza nell'Autonomia. In particolare, questo passaggio non fu compiuto da alcuni dei suoi esponenti di spicco, tra i quali vanno citati Romano Madera, Giovanni Arrighi e Carlo Formenti (Arrighi si allontanò fra fine 73 inizio 74, Madera e Formenti non molto tempo dopo) Per capire la distanza tra l'operaismo, o meglio il tardo operaismo, che muoveva l'Autonomia e animava “Rosso” e l'elaborazione teorica e politica dei militanti appena citati, occorre immergersi, scontando brevità e schematismi, nel crogiolo da cui uscirono quelle esperienze.
Seguendo Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo. Mimesis, 2014), possiamo in prima istanza classificare il Sessantotto studentesco nella categoria di “bohème” ovvero di “critica artistica al capitalismo”. A dispetto del nome, la critica artistica ha sempre avuto delle motivazioni materiali. Nel nostro caso il fermento studentesco e giovanile era esploso sul crinale tra il “ventennio d'oro” di sviluppo capitalistico occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta e l'inizio della crisi del sistema egemonico statunitense che aveva favorito quel ventennio di sviluppo materiale, che in Italia aveva preso il nome di “boom economico” e che si era imposto con la vittoria alleata nella Seconda Guerra Mondiale. Crisi tuttora in corso. Insomma, si ereditavano promesse e possibilità mentre si sperimentavano le prime chiusure e le prime difficoltà. In relazione agli studenti, il Movimento Studentesco della Statale di Milano classificava questa congiuntura col concetto di “proletarizzazione dei ceti medi”.
Questa crisi, maturata alla fine degli anni Sessanta, si conclamò col Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del Ferragosto del 1971, dopo il quale nel giro di meno di un decennio il sistema fordista-keynesiano sviluppatosi per e nella ricostruzione postbellica dei singoli Stati e del mercato mondiale dovette cedere, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, alla triade liberalizzazione-globalizzazione-finanziarizzazione. Su questo crinale tra sviluppo e crisi la bohème sessantottina cercò di saldarsi a un movimento operaio in grande fermento, forte sui luoghi di lavoro perché sospinto dallo sviluppo precedente e forte politicamente perché organizzato materialmente e ideologicamente dalla straordinaria esperienza comunista e socialista. Ma la fusione tra le istanze studentesche e quelle operaie avvenne solo molto parzialmente nella realtà, mentre occupò il proscenio soprattutto nelle teorie rivoluzionarie di alcune tendenze della sinistra extraparlamentare. Tra esse, in Italia, l’operaismo a mio avviso costituì l’unica possibile lettura moderna dell’ortodossia marxista. Era, in altre parole, la forma più alta che la classicità marxista riuscì ad esprimere in quel periodo di profonda transizione. Una lettura quindi al contempo moderna e ortodossa. Moderna perché registrava, a volte efficacemente, le trasformazioni della società e della “composizione di classe” dovute al passaggio storico sopra accennato e perché alcuni suoi esponenti intuirono con precisione l’incedere della finanziarizzazione nel processo di accumulazione[1]. Ortodossa perché inseriva i risultati di quelle analisi in schemi esclusivamente legati alla contrapposizione capitale-lavoro. Ma al di là del fatto che il pensiero di Marx non si presta in realtà a un’ortodossia, un solo ingrediente non è sufficiente a spiegare la crisi e le sue dinamiche. Nemmeno un ingrediente centrale come la natura di classe del rapporto sociale capitalistico e del modo di produzione costruito su di esso.
Se è vero, e io ne sono convinto, che la crisi sistemica affonda effettivamente le sue radici nella natura di classe del rapporto sociale e del modo di produzione capitalistici, tuttavia, lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l'importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli. E' qui che possiamo individuare la distanza tra l'analisi della crisi in Arrighi, basata su una complessa elaborazione di tutti gli ingredienti appena elencati, e la visione operaista, incentrata sul rapporto capitale-lavoro e sul tentativo di identificare il soggetto rivoluzionario nei meandri delle radicali trasformazioni delle società capitalistiche. Come accennato, il pensiero operaista si era reso conto con un anticipo sorprendente sul resto dei teorici di sinistra che il capitalismo occidentale stava scivolando sempre più profondamente nella finanziarizzazione. Lo aveva fatto spesso con lucidità, ma aveva riportato questo fenomeno all'assunto costitutivo dell'operaismo stesso: la finanziarizzazione era la risposta del capitale alla crescente pressione della classe operaia e richiedeva l’individuazione delle nuove modalità di composizione e di autorganizzazione della classe che avrebbe fatto superare la crisi con la rottura anticapitalistica.
Il soggetto rivoluzionario in questa ricerca sarebbe stato identificato prima nell'operaio massa, poi nell'operaio sociale, infine nelle moltitudini desideranti. Una trasformazione coerente con la lettura delle trasformazioni del capitalismo: inizialmente quello delle concentrazioni multinazionali e dell’organizzazione gerarchica fordista, poi quello diffuso del “piccolo è bello”, delle delocalizzazioni e dell’organizzazione “a rete”, più in là quello della New Economy, vista come segnale di una nuova “società della conoscenza” permessa dall’internettizzazione globale e non come enorme bolla borsistica, quello della globalizzazione, vista come realizzazione delle “profezie” di Marx e non come un altro nome per “egemonia degli Stati Uniti”, come dichiarato senza peli sulla lingua da Henry Kissinger[2] e quello della finanziarizzazione, interpretata come “capitalismo immateriale”, ovvero come una nuova fase del capitalismo e non come sbocco obbligato della sovraccumulazione. Se paragoniamo queste analisi con quelle di Giovanni Arrighi che affondano nella Storia, nel tentativo di capire ciò che persiste e ciò che muta nel suo divenire, nel connettere elementi di natura diversa (geografia, organizzazioni d'impresa, organizzazioni statali, organizzazioni sociali, tecnologie, risorse, modalità di pensiero, eccetera) possiamo dire che l’analisi operaista è stata una raffinata analisi del concetto di capitale non delle società capitalistiche realmente esistenti. Un’analisi in cui spesso una bohème accademica radicale rappresentava il mondo e se stessa. Similmente, la riflessione di Romano Madera sulla possibilità stessa dell'esserci di un soggetto rivoluzionario depositario della capacità di negare la negazione, di ribaltare il ribaltamento della reificazione (si veda il suo Identità e feticismo, Moizzi, 1977) si svolgeva su un piano molto differente dall'adattamento sociologico del soggetto alle successive condizioni e trasformazioni del capitalismo. L'affascinante moderna ortodossia marxista dell'Operaismo ha ostacolato la comprensione delle nuove modalità di composizione di classe e delle loro conseguenze politiche in un'epoca, quella odierna, dove in basso si è dissolto, almeno in Occidente, il Quarto Stato e non si è ancora ricostituito un nuovo Terzo Stato laddove, in alto, il progredire tecnologico del capitalismo sta andando di pari passo al suo regredire a forme di neo-signoria. Difficoltà che non permette di comprendere oggi, ad esempio, la “variante populista” (Formenti).
Nel “Rosso” post Gruppo Gramsci finirono per sovrapporsi due dimensioni politiche, analitiche ed esistenziali molto differenti una dall'altra: la controcultura tipica della bohème (in cui emergevano i rapporti di genere e interpersonali in senso ampio) e gli schemi marxisti più ortodossi. Un esito interessante, in sé, e non sorprendente: in fin dei conti era la post-modernità che agiva sulla classicità rivoluzionaria. L'esito veramente sorprendente si è visto solo molto più in là, dopo la Belle Époque reaganiana-clintoniana quando la correttezza politica ha decisamente preso il posto della correttezza sociale nascondendo/giustificando la lotta di classe dall'alto e la ripresa delle aggressioni imperialistiche. Un esito non previsto né da chi seguì “Rosso” dopo il 1973, né da noi che ce ne allontanammo. Tuttavia un esito che da qualcuno era stato previsto: Pier Paolo Pasolini. Più precisamente non era una profezia, ma la consapevolezza di un metodo che Pasolini, mentre intorno a “Rosso” ci si aggregava e ci si divideva, vedeva già all'opera: «Il ciclo è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria» [3].
[1] Mi riferisco specialmente al “gruppo sulla moneta” raccolto attorno alla rivista “Primo Maggio” il cui lavoro in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Bologna con Moneta e crisi: Marx corrispondente della “New York Daily Tribune”, 1856-57. “Primo Maggio”, n. 1, settembre 1973, pp. 1-15. Ampliato in S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Crisi e organizzazione operaia. Feltrinelli, Milano, 1974. Ancora di interesse sono i “Saggi sulla moneta” nel Quaderno di Primo Maggio N. 2.
[2] Si veda Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Impero, era stato scritto quasi contemporaneamente a Il lungo XX secolo e mentre quest'ultimo metteva in guardia, in piena ubriacatura da globalizzazione e new economy, dalla prossime sequenze di crisi economiche e di guerre, il primo descriveva un mondo ormai appiattito e privo di stati-nazione, una condizione concettualmente teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari col termine “spazio liscio” in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 1997).
[3] Pier Paolo Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In Scritti corsari, Garzanti, 1975, pag. 13.
[1] Mi riferisco specialmente al “gruppo sulla moneta” raccolto attorno alla rivista “Primo Maggio” il cui lavoro in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Bologna con Moneta e crisi: Marx corrispondente della “New York Daily Tribune”, 1856-57. “Primo Maggio”, n. 1, settembre 1973, pp. 1-15. Ampliato in S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Crisi e organizzazione operaia. Feltrinelli, Milano, 1974. Ancora di interesse sono i “Saggi sulla moneta” nel Quaderno di Primo Maggio N. 2.
[2] Si veda Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Impero, era stato scritto quasi contemporaneamente a Il lungo XX secolo e mentre quest'ultimo metteva in guardia, in piena ubriacatura da globalizzazione e new economy, dalla prossime sequenze di crisi economiche e di guerre, il primo descriveva un mondo ormai appiattito e privo di stati-nazione, una condizione concettualmente teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari col termine “spazio liscio” in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 1997).
[3] Pier Paolo Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In Scritti corsari, Garzanti, 1975, pag. 13.
sabato 30 gennaio 2021
QUALCHE RIFLESSIONE SULLA CRISI DI GOVERNO
In attesa di elementi che mi consentano di ragionare più a fondo su una crisi di governo che ha radici assai più lontane e profonde di quelle che ci restituisce il chiacchiericcio mediatico delle ultime settimane, anticipo qui di seguito le impressioni a caldo che ho pubblicato sul mio profilo Facebook
La parabola dell'ineffabile Renzi giunge a compimento con l'incarico "esplorativo" a Fico, da lui caldeggiato, che segue di pochi giorni il suo viaggio in Arabia Saudita, nel corso del quale il nostro ha manifestato in tutto il suo splendore lo spirito reazionario, forcaiolo e antipopolare che ispira lui e la sua banda di sgherri. Come ha fatto, mi chiedo, questo figuro, che dopo essere assurto a liquidatore delle residue (ancorché pallidissime) tracce di sinistra nel PD, dopo avere incassato il corale NO del popolo italiano al tentativo di dare il colpo di grazia alla Costituzione del 48 (già martoriata dalla riforma del titolo V, dall'inserimento dell'81, ecc.), è precipitato a livelli di consenso che in caso di elezioni lo spazzerebbero via dal Parlamento, come ha fatto, ripeto, a pilotare la crisi in modo che se ne possa venire fuori solo: a) con un accordo che ne accolga tutte le istanze programmatiche (sì al MES, basta con l'assistenzialismo, via ai licenziamenti, "riapertura" del Paese a prescindere da quante decine di migliaia di morti costerà, visto che la famosa "salvezza" dei vaccini è di là da venire - anche perché quelli anglo-americani arrivano a sgoccioli e a quelli russi e cinesi è vietato anche solo accennare), b) con un governo istituzionale o "tecnico" che farà ancora peggio.
Bé, rispondere non è poi così difficile per chi abbia osservato con attenzione: 1) la tambureggiante campagna di stampa che negli ultimi tempi ne ha appoggiato il ruolo di liquidatore nei confronti d'un governo confusionario e pasticcione, ma soprattutto indigesto alle élite borghesi per le sue pur modeste, residuali velleità "populiste" e "stataliste", 2) la crescente insofferenza del PD, costretto a convivere con un alleato sovradimensionato in termini di numeri parlamentari ma non liquidabile attraverso il ricorso alle urne (in quanto ciò sarebbe non meno pericoloso per lo stesso PD) per cui si è preferito usare Renzi come guastatore (forse sottovalutandone la verve avventurista); 3) la progressiva liquefazione di un M5S ormai ridotto a un manipolo di peones senza visione né principi, disposti a giocarsi anche la mamma pur di tenere il proprio posteriore incollato agli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. Al solerte Mastella è spettato solo il ruolo notarile (il personaggio non è in grado di giocarne altri) di prendere atto del piano ed eseguirlo in automatico.
Ciò detto, restano gli imprevisti di una situazione talmente caotica che non è da escludere la sia pur remota possibilità che si debba andare alle elezioni; resta la sofferenza di un Paese in ginocchio che paga il prezzo dello smantellamento del sistema sanitario operato da TUTTI i governi precedenti, senza distinzioni ideologiche, della de industrializzazione, dei tagli a salari, pensioni e welfare, della precarizzazione del lavoro; un Paese in cui la rabbia diffusa non può trovare espressione sia perché fatta di bisogni e interessi diversi, a seconda degli strati sociali e generazionali di appartenenza, e di forze politiche e sindacali che abbiano forza, capacità e voglia sufficienti per organizzarla. Restano, infine, i dubbi su certi serpeggianti segnali che lampeggiano sulle pagine dei grandi media e che ho segnalato nei giorni scorsi: gli stessi opinionisti ed esperti che per anni hanno attaccato a testa basta sovranisti e populisti per le loro reticenze ad adeguarsi alle direttive della Ue, improvvisamente cominciano a manifestare perplessità nei confronti di un'Europa che sembra prendere distanza dal dominus atlantico (firma di accordi con la CIna e con la Russia senza attendere il beneplacito Usa, tentativi di mettere in discussione l'egemonia del dollaro, ecc.).
Viene da pensare che, data per conclusa l'ondata populista con la liquidazione di Trump, e preso atto che l'Amministrazione Biden si appresta ad alzare il livello di scontro con Cina e Russia (linea poco gradita alla Germania che guida la Ue), una fazione dei poteri forti nostrani voglia scommettere su un ruolo dell'Italia che la veda agire da cavallo di Troia filoamericano per rafforzare dall'interno la pressione esterna che gli Stati Uniti eserciteranno sull'Europa per costringerla ad allinearsi sugli obiettivi della nuova guerra fredda. Se le cose stanno così, primo compito di una ipotetica sinistra da ricostruire sarebbe rilanciare con forza la parola d'ordine di rompere il quadro di alleanze che ha impedito a questo Paese di compiere qualsiasi reale passo avanti sulla via del progresso sociale e politico dalla fine dell'ultima guerra. mondiale
martedì 26 gennaio 2021
I DANNATI DEL CLIC
Lavoro digitale e nuove forme di sfruttamento
Il ruolo delle tecnologie digitali nella progettazione di nuove forme di sfruttamento delle classi lavoratrici, è al centro di un incontro organizzato dalla CGIL per martedì 2 febbraio https://www.centroriformastato.it/non-solo-rider-le-antiche-nuove-forme-di-sfruttamento-di-chi-lavora-per-e-con-le-piattaforme-digitali-5/. Negli ultimi anni, il tema è stato affrontato da diverse ricerche: dal libro di Riccardo Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (Einaudi 2018) al più recente Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo (Feltrinelli 2020), di Antonio Casilli, il quale parteciperà all’incontro di cui sopra. Quel “tutti” che accomuna i due sottotitoli (“ci rende tutti più poveri”, “perché lavoriamo tutti”), sembra suggerire che gli autori credano di riconoscere, in queste nuove forme di sfruttamento, un tratto generalizzabile, universale dell’attuale fase di sviluppo capitalistico. Nel testo che segue mi propongo di problematizzare questa tesi. Ma prima è opportuno sintetizzare il contributo dei due libri alla comprensione di una serie di fenomeni che stanno mettendo in discussione alcuni concetti di base della sociologia del lavoro, dalla relazione fra tecnologia e occupazione all’idea stessa di lavoro.
Sulla questione della disoccupazione tecnologica Staglianò (cfr. la recensione che Alessandro Visalli gli ha dedicato http://tempofertile.blogspot.com/2018/10/riccardo-stagliano-lavoretti.html?q=gig+economy) resta nel solco della tradizione marxista: l’odierna tecnologia “ruba” il lavoro, come ha fatto fin dalla prima rivoluzione industriale, e lo fa non tanto e non solo per ragioni “oggettive” – cioè come effetto collaterale di un inevitabile quanto irreversibile “progresso” tecnico-scientifico – ma anche e soprattutto perché è lo strumento principale grazie al quale il capitale contiene il costo del lavoro quando questo accumula rapporti di forza tali da sfidare il profitto. La tecnologia serve cioè a creare un “esercito di riserva”. Uber è citato come esempio paradigmatico di tale logica: il colosso che ha “liberalizzato” il servizio dei taxi, distruggendo un settore caratterizzato da un elevato tasso di regolazione del lavoro (paragonabile a quello di certe corporazioni medievali) ha creato un mercato della forza lavoro in cui, a fronte di un milione e mezzo di autisti nominalmente autonomi, troviamo solo 12.000 dipendenti diretti.
La posizione di Casilli è più eretica, nel senso che questo autore contesta la retorica della “fine del lavoro” generata dal processo di sostituzione tecnologica, in base alla quale basterebbe rimpiazzare alcune mansioni perché scompaiono interi mestieri. Per valutare realisticamente l’impatto delle intelligenze artificiali, scrive, occorrerebbe prendere seriamente in considerazione gli indicatori economici e statistici (giusto, ma visto che ciò non viene fatto nemmeno nel suo lavoro, permane il rischio che certe valutazioni siano basate sul partito preso, più che sull’analisi empirica; per esempio: dopo essersi chiesto quante siano nel mondo “le piccole api onerose della IA”, Casilli risponde: “non si sa, sicuramente milioni”. Quanti? Uno, dieci, cento, di più?). Ma il suo argomento forte è il seguente: “anche gli impieghi a più alto rischio di automazione contengono spesso una quantità di mansioni che non possono essere automatizzate”. L’automazione totale è e resterà un mito perché, per il capitale (e qui il suo punto di vista converge con quello di Staglianò), l’automazione è innanzi tutto uno strumento per disciplinare il lavoro, ed è per questo motivo che quella piena e definitiva viene costantemente rinviata a un futuro imprecisato.
Sia Staglianò che Casilli concentrano poi l’attenzione sulla massa di lavoro sottopagato, altamente usurante, che viene compiuto “dietro le quinte” di un processo produttivo che utenti e consumatori immaginano interamente automatizzato. La verità è invece che gran parte del lavoro non viene effettuato da software e Bot dotati di mirabolanti quote di “intelligenza artificiale”, bensì da normali intelligenze umane. Né le intelligenze artificiali coinvolte nel processo hanno alcunché da spartire con le mitiche intelligenze artificiali “forti”, di cui personaggi come Kurzweil predicano l’imminente avvento: si tratta piuttosto di intelligenze artificiali “deboli”, composte da applicazioni che aiutano a gestire l’informazione, ottimizzare contenuti, prendere decisioni e che non sarebbero in grado di funzionare senza il supporto del lavoro umano.
Veniamo ora alla descrizione di questo cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”, e agli argomenti con cui si sostiene che la controparte di questa nuova incarnazione del rapporto di capitale non è un insieme eterogeneo di figure sociali bensì una inedita e ben precisa tipologia di forza lavoro, accomunata da molte caratteristiche se non del tutto omogenea, che Casilli definisce digital labor. Il punto da cui partire è il fatto che le piattaforme non operano come le industrie che sostituiscono e distruggono, non comprano cioè forza lavoro né mezzi di produzione, bensì erogano un servizio, di cui formalmente non dispongono, agendo come se potessero disporne, per cui accettano prenotazioni di determinati prodotti e servizi che poi “mettono all’asta” su Internet. Attraverso la messa in contatto e la generalizzazione del modello dell’asta viene “estratto” (tornerò più avanti su questo termine) tutto il valore che in precedenza veniva catturato dallo strato intermedio di quei saperi esperti e di quelle pratiche organizzate che hanno guidato la differenziazione progressiva della modernità a partire dal milleseicento ad oggi (questa la definizione di Staglianò). Ma vediamo come si articola questo modello.
Uno. Piattaforme on demand. L’abbinamento fra clienti e lavoratori si opera attraverso la app ma le prestazioni sono dal vivo. Il caso di scuola è Uber: questa azienda è un network digitale in cui si incontrano passeggeri e conducenti nei confronti dei quali Uber agisce da intermediario. Tuttavia la percentuale che trattiene sulle prestazioni degli autisti come compenso per tale funzione non è il core business, il quale si annida piuttosto nel meccanismo reputazionale fondato sui punteggi che conducenti e passeggeri si attribuiscono reciprocamente. L’algoritmo di Uber opera come strumento per incentivare gli uni e gli altri a svolgere quel lavoro di produzione d’informazione che è la vera base del business (per inciso, Casilli riprende qui il discorso contro il mito dell’automazione: le “macchine senza conducente”, di cui si favoleggia per un prossimo futuro, saranno in realtà veicoli in cui toccherà al passeggero svolgere il ruolo del “vero” conducente, nella misura in cui dovrà risolvere tutti i problemi che il veicolo non sarà in grado di gestire autonomamente).
Due. Microlavoro, ovvero human based computation. Si tratta di pratiche che consistono nel delegare agli esseri umani operazioni che le macchine non sono in grado di eseguire da sole . Il caso di scuola qui è la piattaforma Mechanical Turk di Amazon che “appalta” queste operazioni a una miriade di persone sparse in tutto il mondo (riferendosi a queste moltitudini – ovviamente non solo a quelle gestite da Amazon - Casilli sostiene che si tratterebbe di almeno quaranta, ma forse addirittura centinaia di milioni di lavoratori, giustificando questa approssimazione – che fa il paio con quel “sicuramente milioni” di cui sopra – con la difficoltà di reperire dati attendibili). Amazon sfuma il suo ruolo di intermediario presentandosi come un “ecosistema” dove clienti e lavoratori entrano in contatto in maniera per così dire spontanea. Casilli sottolinea inoltre che le interfacce delle app sono ludiche, per evitare che gli utenti abbiano l’impressione di svolgere missioni impegnative o faticose, e aggiunge che simili meccanismi ludici assumono sovente forma agonistica per stimolare la produttività.
Tre. Lavoro sociale in rete. Il caso di scuola è in questo caso Facebook. Si potrebbe dire che questo modello rappresenta una evoluzione avanzata del marxiano “lavoro del consumatore”: la partecipazione degli utenti dei social come Facebook (costruzione di comunità, creazione, produzione e condivisione di contenuti, generazione massiva di big data traducibili in profilazioni di mercato, comunicazione pubblicitaria, ecc.) consiste in una serie di mansioni assimilate al tempo libero, alla creatività e alla socialità. Ma la logica del capitalismo delle piattaforme digitali, argomenta Casilli, fa sì che il contributo del consumatore-utente non sia più solo complementare rispetto al lavoro formale, ma si trasformi nella pietra angolare di un intero edificio produttivo. A chi obietta che se si svolgono attività in ci si diverte non le si possono definire lavoro (1), Casilli replica che gli utenti dei social si trovano sullo stesso piano degli “operai del clic” (quelli delle piattaforme on demand e del microlavoro) nella misura in cui, al pari di loro, contribuiscono alla costruzione dei sistemi intelligenti, sono cioè integrati in un processo nel quale non sono le macchine a fare il lavoro degli esseri umani, bensì sono gli esseri umani che vengono indotti a svolgere il “digital labor” per conto della macchine, accompagnandole, imitandole, addestrandole.
È sufficiente il fatto di svolgere un’attività spezzettata e "datificata” che serve ad addestrare i sistemi automatici, per inquadrare in una categoria unitaria un coacervo di esperienze in cui si mescolano lavoro atipico, lavoro indipendente, lavoro a cottimo microremunerato, hobby professionalizzati, passatempi monetizzati, un continuum, scrive Casilli, fatto di attività non remunerate, attività sottopagate e attività remunerate in modo flessibile? L’operazione a me pare azzardata, nella misura in cui è fondata su un’astrazione logica che difficilmente può essere identificata con il concetto marxiano di “astrazione concreta”. Ma se Casilli se la può permettere è perché il suo approccio si colloca esplicitamente nella cornice della cosiddetta italian theory (fuor di lessico accademico: delle teorie post operaiste). Il che significa che tutti i “buchi” e le contraddizioni del suo discorso possono essere sanati ricorrendo al concetto di tendenza.
Prima di discutere l’infondatezza di tale concetto, ritengo tuttavia doveroso riconoscere che Casilli, pur ispirandosi al paradigma post operaista, ne critica alcuni aspetti indifendibili. A partire dall’idiozia del cosiddetto “lavoro immateriale”, che ci è stata propinata in tutte le salse negli ultimi decenni: il digital labor, scrive Casilli, non è più immateriale del lavoro di un avvocato o di un operaio, nel senso che questi lavoratori si confrontano con questioni concrete e con mansioni che richiedono la partecipazione del corpo, dei sensi, delle dita (qui il digitale va inteso nel senso letterale delle dita che manovrano il mouse). Del resto, aggiunge, senza riferirsi alla dimensione materiale che si cela dietro un’economia che si spaccia per “immateriale”, diventa impossibile cogliere la dimensione dello sfruttamento (2) ad essa strettamente associata (giustamente Casilli estende la critica alle profezie postoperaiste che, mistificando la categoria marxiana del general intellect, si sono associate “da sinistra” alle profezie degli imbonitori tecnoentusiasti della “fine del lavoro”).
Ma torniamo al concetto di tendenza, che ha avuto la sua prima formulazione nelle teorie del primo operaismo (quello dei “Quaderni Rossi” per intenderci) il quale accusava i marxisti dogmatici di essere ancorati a una visione anacronistica del processo produttivo (e di conseguenza alla valorizzazione politica di una composizione di classe basata sull’operaio professionale). La transizione al modo di produzione fordista configurava una composizione di classe inedita, in cui il potenziale antagonista transitava dall’operaio professionale all’operaio massa, cioè agli addetti alle mansioni ripetitive e dequalificate della catena di montaggio. Esauritosi il ciclo fordista il paradigma si è perpetuato proponendo una lunga serie di poli oppositivi: economia postfordista/operaio sociale (poi moltitudine); economia della conoscenza/knowledge workers, ecc. Questi slittamenti progressivi seguono appunto il filo rosso della tendenza, intesa come la forma “più avanzata” che la contraddizione fra capitale e lavoro viene via via assumendo. La tendenza è concepita come un processo monodirezionale e irreversibile, mosso da una necessità immanente che è quasi esclusivamente identificata con l’evoluzione delle tecnologie produttive, non solo macchine ma anche modelli organizzativi - evoluzione che è a sua volta il prodotto della lotta fra forza lavoro e capitale.
Questo schema non prevede eccezioni né contro tendenze, così come ne restano escluse o quasi le variabili politiche, culturali e sociali in senso più ampio (antropologiche). L’idea di fondo è che la tendenza agisca come un fattore soverchiante che sovradetermina tutti gli altri. Ecco perché Casilli può giocare con i numeri attribuendo importanza relativa al fatto se i suoi operai del clic rappresentino una quota più o meno ampia della forza lavoro totale: è sufficiente, per esempio, estendere la filiera agli operai della Foxconn (oggetto di un selvaggio sfruttamento neofordista) per considerali parte integrante del modello. In poche parole: il conflitto fra capitalismo delle piattaforme (considerato la punta più avanzata dello sviluppo capitalistico anche se i dati ci dicono che il peso economico reale di questa industria è assai più limitato di quanto non lasci intendere il suo prestigio virtuale) e digital labor (anche se la percentuale di questi lavoratori sul totale della forza lavoro è relativamente bassa) diventa la tendenza principale in grado di sovradeterminare l’insieme degli altri conflitti economici, politici e sociali (3).
In questo modo Casilli – al pari di tutti quelli che adottano un punto di vista analogo – non è più in grado di relativizzare il suo contributo, inquadrandolo in un contesto analitico più ampio. Non avendo intenzione di allargare troppo il discorso, mi limito a fare qui di seguito alcuni esempi di ciò che intendo: 1) tende a sposare la tesi di Manuel Castells, secondo cui la logica dei flussi sarebbe inevitabilmente destinata a prevalere sulla logica dei luoghi, e questo proprio nel momento storico che vede una crisi radicale della globalizzazione e un prepotente ritorno del conflitto interimperialistico fra grandi Stati; 2) il fatto che la maggioranza degli operai del clic siano disperati che sgobbano per pochi centesimi a operazione in Asia e Africa, lo induce ad ammettere che la geografia globale è oggi persino più ineguale che nella seconda metà del Novecento ma, al tempo stesso, la necessità di descrivere un mondo omologato sotto un unico paradigma (4), fa sì che neghi l’evidenza della natura neocoloniale del rapporto fra Nord e Sud del mondo (ampiamente dimostrata da autori come Samir Amin); 3) gli sfugge il fatto che quello che chiama capitalismo delle piattaforme non è altro che un epifenomeno del più ampio processo di finanziarizzazione dell’economia, cui queste tecnologie certamente contribuiscono, ma rispetto al quale rappresentano un effetto collaterale; 4) incontra serie difficoltà a conciliare il fatto che i lavoratori del clic faticano a concepirsi come lavoratori con la loro collocazione in una posizione “oggettivamente” avanzata nel contesto delle contraddizioni sistemiche (5).
Mi tocca infine fare – come anticipato in precedenza – un breve inciso sul concetto di “estrazione” di valore. Le analisi di Marx ed Engels sul processo di accumulazione primitiva; la teoria leninista dell’imperialismo; quelle di Baran e Sweezy sul capitale monopolistico; quelle della “banda dei quattro” (Wallerstein, Arrighi, Samir Amin e Gunder Frank) sullo sviluppo del sottosviluppo, per tacere del concetto di accumulazione per espropriazione di David Harvey, sono tutti contributi che dimostrano come l’estrazione di valore sia un elemento consustanziale alla storia del capitalismo, alla cui comprensione il fenomeno del cosiddetto capitalismo delle piattaforme aggiunge relativamente poco, se non per il fatto che rappresenta una delle tattiche dilatorie - quelle che Wolfgang Streeck riunisce sotto lo slogan “guadagnare tempo” - (6) del capitalismo finanziarizzato per far fronte alla caduta del saggio di profitto.
Concludo con un breve accenno alla pars costruens dei libri di Staglianò e Casilli. Staglianò, che come sopra ricordato resta ancorato allo scenario della disoccupazione tecnologica, ripropone il rimedio del reddito di base, rispetto al quale mi limito qui a riproporre le perplessità che Alessandro Visalli avanza nella recensione citata in apertura: <<E’ vero che il capitalismo (…) non riesce a garantire un adeguato reddito da lavoro a tutti, e quindi dissemina scarti e “inutili”. Ma il solo reddito garantito, in particolare quando soggetto a pensati condizionalità, rischia di portare con sé una ineliminabile dimensione disciplinare>>. Viceversa Casilli ha il merito di mettere in luce l’oggettiva difficoltà di costruire una cornice politico-sindacale unitaria in cui far confluire gli interessi di questi soggetti, oltre a dimostrare l’insensatezza di alcune delle soluzioni proposte. In particolare, critica l’idea secondo cui, dal momento che siamo di fronte a un tipo di potere che si basa su una sottomissione convenzionale, quest’ultima si ridurrebbe a una sorta di “superstizione” destinata a svanire nel momento in cui si cessa di credervi. Non so se si riferisca qui a certe idiozie post operaiste, ma è certo che la critica vi si adatta alla perfezione: avete presente la tesi secondo cui i knowledge workers, dato che sono ormai in grado di gestire autonomamente un processo produttivo compiutamente socializzato, basta “si sveglino” dall’illusione della necessità del comando capitalistico per rendere possibile la transizione diretta al comunismo? In realtà, scrive Casilli, la produzione di informazione non si basa su incentivi alla “sottomissione volontaria” bensì sull’induzione di “una scelta volontaria obbligatoria”: si adottano comportamenti che producono informazioni come se questa fosse una nostra scelta.
Su altre utopie, come ripensare il rapporto fra utente lavoratore e infrastrutture di raccolta e trattamento dati inquadrandolo nella logica dei beni comuni, sviluppare nuove modalità di condivisione delle risorse, dare vita a un cooperativismo delle piattaforme in grado di <<usare la piattaformizzazione contro se stessa>>(!?) Casilli non si pronuncia con altrettanta chiarezza critica. Personalmente resto dell’idea che non esistano alternative a un faticoso sforzo di sindacalizzazione di questi soggetti che, dato il loro alto livello di stratificazione e dispersione, dovrebbe assumere – come ho argomentato nel post precedente, dedicato alla nascita della sezione italiana della Tech Workers Coalition, la forma di una sorta di sindacalismo sociale capace di aggregare trasversalmente figure diverse.
NOTE
(1) La stessa obiezione che mi fu rivolta dopo la pubblicazione di Felici e sfruttati (Egea 2011), libro in cui definivo lavoro gratuito l’attività degli utenti dei social.
(2) Un altro aspetto che consente di parlare di sfruttamento in relazione a questo tipo di attività è l’esistenza di pratiche che già anni fa (cfr. nota precedente) definivo “taylorismo digitale”, riferendomi all’uso delle informazioni raccolte attraverso i vari tipi di piattaforme per ottimizzare non solo il tempo di lavoro ma anche il tempo di vita degli utenti. Casilli approfondisce il concetto scrivendo che, mentre gli operai del taylorismo classico subivano la macchina come mezzo di produzione, gli operai del clic costituiscono essi stessi gli ingranaggi della macchina che mira a sostituirli (ingranaggi che possono a loro volta sfruttare le condizioni generate da decenni di esternalizzazione e parcellizzazione del lavoro).
(3) Non si tratta di negare che le pratiche di sfruttamento sperimentate in questo settore possano essere “esportate” in altri settori di maggior peso strategico. Ma ciò non implica che il capitalismo delle piattaforme rappresenti ormai il capitalismo tout court.
(4) In un post precedente ho parlato di “terrapiattismo”, a proposito della tendenza a cancellare le differenze radicali fra sistemi. Casilli, per esempio, sembra dare per scontato che la Cina non faccia eccezione rispetto alla “tendenza” globale (in merito cita il funzionamento delle grandi piattaforme digitali “made in China”), per cui gli sfugge come il conflitto fra Stati Uniti e Cina incarni il persistere di quella dialettica fra potere dei flussi e potere dei luoghi che lui ritiene ormai risolto a favore del primo. Ma le cose, come dimostra la liquidazione del boss del commercio online Jack Ma, il quale usava la sua impresa come cavallo di Troia delle logiche di finanziarizzazione, sono assai più complicate.
(5) Mi pare di poter aggiungere che nel libro di Casilli manca un’analisi convincente della stratificazione interna di questa forza lavoro: quali strati – e in base a quali criteri – possono essere definiti come proletari digitali e quali come alleati del capitale?
(6) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.
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mercoledì 20 gennaio 2021
DALLA IBM ALLA GIG ECONOMY
Tutti i modi per dividere i lavoratori
Nei primi anni Settanta, dopo un’esperienza di lotta sindacale nella multinazionale americana di cui ero dipendente (la 3M Minnesota), mi fu offerta la possibilità di divenire funzionario dei metalmeccanici, con l’incarico di seguire i settori a prevalente composizione tecnico impiegatizia. Per un giovane (23 anni), era una incredibile opportunità, sia di fare nuove esperienze, sia di valutare il potenziale conflittuale degli strati medio alti della classe lavoratrice che, in quegli anni (sull’onda delle lotte studentesche e operaie del 68/69), sembrava in crescita. Quindi, dopo qualche esitazione dettata da scrupoli ideologici (militavo nel Gruppo Gramsci, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare duramente critiche nei confronti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio) decisi di accettare. I compagni di organizzazione condivisero la mia scelta, anche perché la proposta veniva dalla FIM di Milano che, a quei tempi, rappresentava – malgrado l’affiliazione confederale alla CISL - la punta più avanzata del movimento sindacale “ufficiale”, tanto sul piano rivendicativo (aumenti uguali per tutti) quanto sul piano organizzativo (appoggio all’organizzazione operaia di base fondata sui delegati di reparto - Quam mutatus ab illo !).
Seguirono tre anni di preziose esperienze di lotta (sia pure soggette ai limiti di uno di strato di classe restio, per mentalità e cultura, a condividere le velleità antagoniste dell’operaio comune) che mi consentirono di allungare lo sguardo verso quell’imminente futuro di ristrutturazioni tecnico-organizzative che – assieme ai processi di finanziarizzazione e delocalizzazione produttiva – avrebbero consentito al capitale di sbaragliare il nemico di classe. In particolare, fu in tal senso decisiva la possibilità di studiare i modelli di organizzazione del lavoro, di gestione del personale e di politiche commerciali di un colosso come la IBM, allora dominatore incontrastato del mercato mondiale dell’informatica. Non appena fui in grado (grazie a una serie di documenti interni messi a disposizione da alcuni dipendenti) di analizzare le politiche aziendali del Moloch, rimasi affascinato e terrorizzato al tempo stesso dalla maligna genialità di certe strategie. L’IBM anticipava infatti di trent’anni politiche che oggi, dopo l’esplosione di Internet e della New Economy, appaiono scontate.
Mi limito qui a elencare le più significative: l’impresa contava allora più 300.000 dipendenti in decine di filiali sparse per il mondo e interconnesse attraverso un’efficiente rete interna; molte di queste filiali erano “doppioni” che sfruttavano solo una parte della loro capacità produttiva, ma che erano pronte a riempire gli eventuali “buchi” causati dal fatto che una qualche filiale gemella fosse bloccata da scioperi, guerre, rivoluzioni o catastrofi naturali. Tutte le nostre rivendicazioni (mutuate sul modello di quelle della forza lavoro fordista) ottenevano l’appoggio - moderato – dei soli strati inferiori (perforatrici, segretarie, magazzinieri, addetti all’assistenza clienti, ecc.) della forza lavoro, mentre venivano snobbate dalla “pancia” (maggioritaria) degli strati medio alti (manager esclusi), fatta di analisti dei sistemi, programmatori, ingegneri, venditori, amministrativi, addetti alla comunicazione e al marketing, ecc. Una massa letteralmente “nebulizzata” in una serie di posizioni (salariali e di carriera) altamente individualizzate, che rispecchiavano un “punteggio” fondato su un’ampia gamma di parametri (adesione agli obiettivi aziendali, spirito cooperativo, flessibilità, rispetto delle gerarchie, ecc.). Questa sofisticata architettura nascondeva il bastone del comando sotto una panoplia di carote in cui i fattori di “riconoscimento” prevalevano sugli incentivi materiali. In questo modo ogni dipendente poteva illudersi di occupare una posizione singolare nell’organigramma aziendale e di svolgere, in relativa autonomia, un ruolo importante, oltre che creativo e appagante, per la comunità (anche se suscitò un certo clamore un documento redatto dal sindacato interno in cui si mostrava come dietro questa “individualizzazione” si celasse la realtà di un inquadramento rigido e predeterminato, e il sistematico intento di mettere in competizione i lavoratori, sia come singoli, sia come gruppi professionali).
Ma quello che più mi impressionò fu la politica commerciale. La IBM non vendeva computer, vendeva un modello organizzativo. Non solo perché i proventi derivanti dalla consulenza ai clienti (a partire dalla manutenzione e implementazione del software) rappresentavano una quota significativa dei profitti, ma anche e soprattutto perché le imprese che acquistavano i prodotti IBM finivano per adottarne le strategie, i valori, la “filosofia”, tanto sul piano degli organigrammi interni, quanto su quello delle politiche commerciali. In questo modo, la IBM contribuì notevolmente a creare quell’ambiente produttivo, sociale e culturale che, nei decenni successivi, avrebbe favorito i processi di delocalizzazione, terziarizzazione del lavoro, “smaterializzazione” del prodotto, ecc. Modelli che le ondate successive della rivoluzione digitale, a partire dall’esplosione del Web, avrebbero perfezionato e generalizzato (ridimensionando il ruolo dei giganti dell’hardware come IBM a favore di quelli del software, come Microsoft, del design industriale, come Apple, dei motori di ricerca, come Google, dell’e.commerce come Amazon e dei social, come Facebook).
Fino alla fine dei Settanta (e ben oltre), la consapevolezza dell’impatto che le nuove tecnologie avrebbero avuto sull’organizzazione del lavoro, sulla composizione di classe e sui livelli di combattività della classe lavoratrice rimase tuttavia piuttosto scarsa. Tanto che un mio libretto (Fine del valore d’uso) uscito da Feltrinelli nel 1980, nel quale prevedevo un radicale ridimensionamento del peso delle tute blu a fronte della crescita esponenziale del lavoro terziario nelle grandi imprese dei centri metropolitani, mentre la produzione materiale si sarebbe spostata verso le aree periferiche a basso costo del lavoro (processo reso possibile dalle tecnologie informatiche che consentono appunto di decentrare le mansioni esecutive concentrando le funzioni di controllo, progettazione e comando), fu accolto con scherno (e adesso ci vengono a raccontare che la classe operaia sta per sparire, scrisse un recensore di cui non ricordo il nome sulle pagine del Manifesto).
Del resto, l’interesse delle sinistre, a fronte del riflusso delle lotte operaie culminato con la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, si era ormai allontanato dal mondo della produzione, spostandosi sui ceti medi emergenti (da parte dei socialdemocratici), oppure (da parte delle sinistre radicali) sul cosiddetto “operaio sociale” – un mix di strati giovanili, marginali e periferici che scaricavano rabbia e frustrazione in scontri violenti con le forze dell’ordine e coltivavano velleitari progetti insurrezionali – mentre veniva progressivamente affermandosi il mito del lavoro autonomo, visto non come un ripiego di fronte all’espulsione di forza lavoro causata dalla ristrutturazione tecnologica, bensì come “libera scelta”, rifiuto dell’alienazione e della subordinazione gerarchica legate al lavoro dipendente nelle grandi fabbriche (mito che, non molto dopo, sarebbe tornato utile alle élite neoliberali per alimentare l’ideologia dell’imprenditore di se stesso).
Con la rivoluzione digitale e gli anni Novanta abbiamo assistito a un potente ritorno di attenzione sul rapporto fra innovazione tecnologica e lotta di classe. Purtroppo nella gran parte dei casi questa attenzione è coincisa con l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie. Prima vennero i miti della cultura hacker che, mentre creava la cassetta degli attrezzi che sarebbe servita ai vari Bill Gates, Steve Jobs, Sergej Brin, Jeff Bezos, Zuckerberg e soci per costruire in tempi brevissimi i loro imperi monopolistici, alimentava i sogni sull’imminente avvento di una società democratica, “orizzontale”, fondata su una rete di libere comunità autogestite, cosmopolite, emancipate dai vincoli del potere politico e delle sue regole (ma senza mettere in discussione le basi del sistema capitalista: l’iniziativa privata e il libero mercato restavano dogmi indiscussi, per cui questa ideologia è stata giustamente definita come una sorta di anarco-capitalismo). A seguire è subentrata la versione post operaista del sogno hacker: i lavoratori della conoscenza (le classi creative in altre versioni) vennero battezzati come la nuova avanguardia rivoluzionaria, pronta a raccogliere il testimone delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. Queste teorie, incapaci di analisi critica nei confronti del contenuto di classe della tecnica in generale e delle tecnologie digitali in particolare (il rapido progresso tecnologico vi veniva descritto come un fattore sostanzialmente “neutro”, senza mettere in conto i condizionamenti economici, sociali e culturali che ne sovradeterminano percorsi e sviluppi, dogmaticamente assimilato al marxiano sviluppo delle forze produttive quale presupposto necessario – ma non sufficiente, se avessero assimilato il pensiero del maestro – del balzo evolutivo verso un superiore livello di civiltà), hanno partorito un’utopia che attribuisce ai knowledge workers non solo le competenze, ma anche la consapevolezza di possederle e la volontà di sfruttarle per sottrarre al comando capitalistico il controllo sulla produzione e sulla riproduzione sociali, controllo destinato a passare nelle mani delle loro comunità autonome senza dover transitare da perigliosi assalti al potere politico (destinato a dissolversi assieme a quello della classe capitalista: Stato e mercato aboliti in un colpo solo!).
Alla fine del primo decennio del Duemila tutte queste utopie erano state spazzate via da due crisi (prima quella dei titoli tecnologici poi quella generale) che hanno accelerato esponenzialmente il processo di concentrazione monopolistica dei settori high tech, spegnendo, nel contempo, le aspettative in merito al presunto potenziale emancipativo e democratizzante della Rete. In un libro del 2011 (Felici e sfruttati, Egea) ho cercato di descrivere le molteplici modalità di attacco ai rapporti di forza delle classi lavoratrici rese possibili dalla pervasiva colonizzazione dell’ambiente digitale nei confronti della totalità delle relazioni sociali, politiche ed economiche. La vera novità rispetto alla filosofia IBM sopra descritta, consiste infatti nel fatto che non si tratta più di modellare solo o principalmente organizzazioni aziendali e relazioni industriali, bensì di ridisegnare ritmi e stili di vita, identità individuali e collettive, bisogni, desideri e aspirazioni, rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro, ecc. Fra le altre cose, tentavo di mettere in luce: la messa al lavoro degli utenti-consumatori, mobilitati per generare la valanga dei big data (materia prima dei modelli di business delle Internet Company) in cambio dell’illusione di poter accedere a illimitate e gratuite occasioni di riconoscimento e autogratificazione (di qui il titolo felici e sfruttati); la separazione fra uno strato privilegiato di tecnici e la massa della forza lavoro, con i primi deputati (come gli ingegneri tempi e metodi d’antan) a organizzare il tempo di vita e di lavoro (sempre meno reciprocamente distinguibili) dei secondi per esaltarne la produttività (una sorta di taylorismo digitale); una individualizzazione ancora più spinta dei lavoratori attraverso la creazione di complesse catene del valore che scendono fino agli schiavi della gig economy (autisti Uber, runner delle società di Delivery, addetti ai call center ecc.). Il tutto senza che non esista più, apparentemente, alcuna possibilità di attivare relazioni indipendenti e dirette fra le disiecta membra di questo corpo di classe, ormai riconoscibile come tale solo dai centri di comando che ne coordinano dall’alto e da fuori le interazioni.
Eppure qualcosa – sia pure faticosamente – sembra si stia muovendo per tentare una ricomposizione degli interessi di classe. In un’intervista a “Città Futura” https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/tech-workers-coalition-%e2%80%93-sezione-italiana un portavoce dell’appena nata sezione italiana della Tech Workers Coalition (un movimento sindacale internazionale dei lavoratori del settore tecnologico nato cinque anni fa) dichiara: <<Twc agisce per unificare le rivendicazioni di lavoratrici e lavoratori di settori molto differenti, si cerca di tendere quel filo rosso che unisce due sistemi: il primo è quello che oso chiamare “filiera tecnologica”, composta sia da quelli che partecipano direttamente alla produzione di tecnologia, come programmatrici, ingeneri, sistemiste, analisti, grafici (…) sia da chi vi partecipa indirettamente, come magazzinieri, personale di cucina, personale di servizio, minatori del silicio, ecc. Il secondo si riferisce invece a tutti quelli che utilizzano ciò che viene generato dal settore ICT, ai lavoratori che si trovano alla fine della catena di produzione, coloro che sono passati da usare uno strumento tecnologico per produrre, o addirittura emanciparsi, e che ora ne sono succubi, come rider, operatrici di call center e tutte le altre figure della gig economy>>.
Mi sembra una buona notizia, perché a prescindere dal successo (che spero significativo) di questa difficile impresa, credo si tratti di un segnale che va nella giusta direzione. A mano a mano che le vecchie strutture sindacali dimostrano la loro scarsa capacità (per tacere della volontà) di adattarsi alle mutazioni della composizione della forza lavoro per meglio promuoverne gli interessi, occorre infatti inventare qualcosa di radicalmente nuovo (o forse di antico, visto che certe nuove esperienze associative somigliano a quelle dei primordi del movimento operaio, quando le aggregazioni per settore produttivo erano ancora di là da venire e le organizzazioni cooperative e mutualistiche tentavano di aggregare i frammenti dispersi di un proletariato in formazione). Tempo fa si era parlato di “sindacato sociale”. Personalmente credo piuttosto che la logica debba essere quella di costruire, per dirla con Gramsci, una sorta di blocco sociale. Con la differenza che con questo concetto Gramsci alludeva alla costruzione di alleanze di classe sotto l’egemonia del proletariato e del suo partito, mentre oggi, in assenza di un partito e in presenza di una classe profondamente frammentata, credo che costruire il blocco sociale voglia dire – assai prima che ragionare di alleanze fra classi, che mi pare compito di una fase ben più avanzata dell’attuale – in primo luogo ri-costruire l’unità di classe. Progetti come quello della Twc possono rappresentare un primo passo in tale direzione. Senza dimenticare che occorrerà poi saldare spezzoni assai più ampi, dai dipendenti pubblici ai settori industriali meno direttamente coinvolti dall’high tech, all’enorme massa dei servizi “arretrati” (turismo, intrattenimento, ristorazione, servizi di cura alle persone, ecc.). Il tutto tentando nel contempo di rompere le barriere generazionali, etniche, di genere, ecc. che il neoliberalismo sta sfruttando con grande maestria. Ma qui il discorso travalica l’ambito sindacale e rinvia al compito di ricostruire un partito di massa dei lavoratori.
sabato 16 gennaio 2021
QUEI PREPARATIVI PER METTERE FUORI LEGGE I COMUNISTI
In una risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019 leggiamo i seguenti passaggi: si "sottolinea che la Seconda guerra mondiale è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti"; si "ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell'umanità, e si rammenta l'orrendo crimine dell'Olocausto perpetrato dal regime nazista"; si "condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari"; si esprime "inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali" ricordando che "alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti" (l’aspetto paradossale di tale divieto consiste nel fatto che fa apparire la Russia di Putin, dove il partito comunista è legale in barba alla tenacia con cui si è tentato di estirparne la memoria, assai più democratica dei dirimpettai occidentali).
Ad eccezione di alcune blande proteste delle sinistre cosiddette radicali, questa infamia ha potuto passare, se non inosservata, senza che ne fossero messe in luce tanto le palesi falsità storiche, quanto le potenziali, e gravissime, conseguenze politiche. Affermare che la guerra è iniziata a causa del patto Molotov-Ribbentrop significa sorvolare sulle pesanti responsabilità delle “democrazie” europee (Inghilterra e Francia su tutte) che hanno dato via libera a Hitler per le annessioni di Austria e Cecoslovacchia e hanno lasciato che i nazifascisti aiutassero Franco a schiacciare la Repubblica spagnola, lasciandogli credere che avrebbe avuto mano libera per ulteriori avventure militari (e il timore che il primo bersaglio di tali avventure sarebbe stata l’Urss – come è effettivamente avvenuto non molto dopo – ha avuto non poco peso nel determinare la decisione russa di firmare il patto del 39). Equiparare l’Olocausto con i pur gravi crimini del regime stalinista è fuorviante, tanto sul piano delle dimensioni quantitative, quanto sul piano ideologico (in Urss non vi sono stati genocidi motivati da odio razziale). Nel documento non si fa ovviamente parola del contributo sovietico alla sconfitta del nazismo (senza il sacrificio di 39 milioni di russi le potenze occidentali non avrebbero sconfitto le armate naziste). Quanto alla generica definizione di totalitarismo, questa etichetta viene ossessivamente utilizzata per accomunare regimi e governi dalle caratteristiche profondamente diverse fra loro, come Cina, Vietnam, Cuba e Venezuela (quest’ultimo legittimato da libere elezioni!), allo scopo di creare una mobilitazione ideologica permanente delle opinioni pubbliche occidentali nel contesto della nuova guerra fredda contro la Cina.
Fin qui le fake news, per usare un termine di moda. Ben più grave l’accenno contenuto nell’ultima frase: citando il fatto che alcuni Paesi europei “hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti” è chiaro che si vuole preparare il terreno alla messa fuori legge dei partiti comunisti in Occidente.
L’accostamento fra destre estreme e comunismo è il leitmotiv che prelude a tale operazione (a chi ha la mia età, riaffiorano inevitabilmente alla memoria le campagne contro “gli opposti estremismi” degli anni Sessanta e Settanta). È chiaro che, dopo la sconfitta di Donald Trump, e dopo la parodistica “insurrezione” dei suoi fan seguita a tale sconfitta (senza sottovalutare la gravità degli eventi, è ridicolo immaginare che quella patetica versione occidentale di “assalto al palazzo d’Inverno” avrebbe potuto rovesciare il poderoso apparato federale degli Stati Uniti), si sono create le condizioni ideali per rilanciare la campagna sugli opposti estremismi di cui sopra. Si punta il dito contro Trump per distogliere l’attenzione dalla luna degli oltre sessanta milioni di americani incazzati che lo hanno votato in assenza di una reale alternativa all’establishment che incarna gli interessi delle élite tecno finanziarie (anche per il fatto che Sanders e Ocasio Cortez non hanno avuto il coraggio di rompere i ponti con il Partito Democratico).
L’accostamento fra destre estreme e comunismo è il leitmotiv che prelude a tale operazione (a chi ha la mia età, riaffiorano inevitabilmente alla memoria le campagne contro “gli opposti estremismi” degli anni Sessanta e Settanta). È chiaro che, dopo la sconfitta di Donald Trump, e dopo la parodistica “insurrezione” dei suoi fan seguita a tale sconfitta (senza sottovalutare la gravità degli eventi, è ridicolo immaginare che quella patetica versione occidentale di “assalto al palazzo d’Inverno” avrebbe potuto rovesciare il poderoso apparato federale degli Stati Uniti), si sono create le condizioni ideali per rilanciare la campagna sugli opposti estremismi di cui sopra. Si punta il dito contro Trump per distogliere l’attenzione dalla luna degli oltre sessanta milioni di americani incazzati che lo hanno votato in assenza di una reale alternativa all’establishment che incarna gli interessi delle élite tecno finanziarie (anche per il fatto che Sanders e Ocasio Cortez non hanno avuto il coraggio di rompere i ponti con il Partito Democratico).
Così, adesso che anche in Europa i vecchi partiti di centro sinistra tirano il fiato, a mano a mano che avanza il processo di normalizzazione dei movimenti populisti, maturano le condizioni per lanciare una guerra preventiva contro possibili recrudescenze social comuniste che potrebbero attecchire nel vuoto che la crisi del populismo apre a sinistra (quello che si è spalancato a destra è già occupato dalla riscossa neoliberale).
In un post precedente – intitolato “Quando a dichiarare lo stato di emergenza sono i giganti del Web” – citavo alcune mie precedenti analisi in merito alla stretta alleanza fra élite politiche e finanziarie e multinazionali informatiche – alleanza su cui si è fondato il progetto imperiale americano negli ultimi decenni. In questo senso, scrivevo, il diktat di Zuckerberg e soci che ha silenziato Trump va preso per ciò che è, vale adire un atto politico con il quale Silicon Valley sancisce il proprio sostegno al regime change che porta al potere un’amministrazione assai più sensibile di quella trumpiana agli interessi della lobby high tech. Scrivevo anche che gli europei non possono accettare un potere privato che serve gli interessi di una potenza concorrente (ancorché alleata), per cui è presumibile che nel prossimo futuro tenteranno di affermare il proprio controllo giuridico-politico sui nuovi media.
Ma anche in questo caso, si punterà il dito contro populismi e sovranismi di destra ma il vero bersaglio sarà il “pericolo rosso”, per combattere il quale si costruirà una censura politicamente legittimata e non più affidata ai pretoriani privati dell’economia di Rete (usando le armi delle campagne contro il linguaggio “politicamente scorretto” e “l’incitamento all’odio” – si sa che per questi signori il termine allude all’odio di classe). È forse per dimostrare che questa politicizzazione della censura non è necessaria, perché gli sceriffi privati sono capaci di svolgere da soli il ruolo di estirpare dalla Rete ogni velleità “sovversiva” che Facebook ha deciso di mettere la mordacchia al Partito Comunista di Rizzo, “colpevole” di avere osato paragonare la folla che ha dato l’assalto a Capitol Hill alle squadracce neonaziste protagoniste della “rivoluzione colorata” in Ucraina (e alle quali i media occidentali hanno generosamente regalato la patente di combattenti per la democrazia).
Non so se le sinistre “radicali” sapranno valutare i rischi che questa svolta neomaccartista – che rischia a intensificarsi a mano a mano che la guerra fredda si farà più feroce – potrebbe avere anche per loro. Purtroppo non credo ci si possa contare: ormai hanno quasi tutte espunto la parola comunismo dal loro lessico (bene comunismo fa più figo), si sono convertite all’uso della neolingua politicamente corretta (evitiamo di parlare di lotta di classe per carità), e si uniscono ossequiosamente al coro delle condanne dei regimi "totalitari", per cui presumo siano convinte di non correre alcun rischio. E forse – sia detto a loro vergogna – hanno ragione.
giovedì 14 gennaio 2021
QUANDO A DICHIARARE LO STATO DI EMERGENZA SONO I GIGANTI DEL WEB
Nel primo decennio del Duemila mi ero concentrato sull’analisi dell’impatto della rivoluzione digitale su economia, politica e cultura, pubblicando, nell’ordine, Incantati dalla Rete (Cortina, 2000), in cui analizzavo il retroterra culturale (un mix di ideologie libertarie e New Age) dei manager della Net Economy; Mercanti di futuro (Einaudi 2002), dedicato al ruolo delle nuove tecnologie nel processo di finanziarizzazione dell’economia globale; Cybersoviet (Cortina 2008), una critica delle profezie sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia di Rete, e Felici e sfruttati (Egea 2011) in cui indagavo i dispositivi di integrazione di consumatori, lavoratori autonomi e classi “creative” nel processo di valorizzazione delle Internet Company. Questa quadrilogia può essere descritta, in sintesi, come un’opera di decostruzione delle illusioni che le sinistre postmoderne hanno a lungo coltivato - e tuttora coltivano (ma io stesso le avevo in parte condivise fino alla fine dei Novanta) – sulla presunta capacità delle nuove tecnologie di agire da fattore di democratizzazione dei sistemi produttivi e sociali.
Negli ultimi dieci anni mi sono occupato solo saltuariamente, e mai in modo sistematico, di questi argomenti , preferendo dedicare la mia attenzione alle forme inedite che la lotta di classe veniva assumendo con l’aggravarsi della crisi sistemica e alle strategie messe in campo dalle élite dominanti per conservare la propria egemonia. Ovviamente non mi sfugge il fatto che le relazioni sociali mediate dalla Rete svolgono un ruolo importante anche in questo tipo di fenomeni, tuttavia non ho più ritenuto necessario dimostrare – visto che ciò mi sembrava evidente per chiunque non avesse fette di salame sugli occhi - che il mondo di Internet avesse ormai subito un processo irreversibile di normalizzazione e integrazione nei dispositivi di dominio del capitalistici: i sogni delle comunità hacker, open source, e di tutti coloro che avevano scambiato la Rete per una Nuova Frontiera senza leggi né padroni, avevano lasciato il posto a un mostruoso conglomerato di potere fatto da un pugno di società monopolistiche (Amazon, Apple, Facebook e Google su tutte). Ora il clamoroso caso del “silenziamento” dei profili Facebook e Twitter del Presidente degli Stati Uniti mi induce a riprendere il filo dei ragionamenti di qualche anno fa.
Il potere dei social network, per tacere di quello delle società che gestiscono i cloud che ospitano la quasi totalità delle nostre informazioni - come Google, Amazon ed Apple -, è ormai divenuto tale da sovrastare quello delle più alte cariche istituzionali della nazione più potente del mondo (e quindi anche di tutte le altre)? Ciò non è confermato dal fatto che queste società pagano tasse irrisorie rispetto ai loro profitti, riuscendo a costringere gli Stati a fare a gara per offrirgli condizioni di miglior favore? Nei libri sopra citati avevo spesso evocato le visioni profetiche degli scrittori cyberpunk come William Gibson, Bruce Sterling e Neal Stephenson, i cui romanzi, già negli anni Ottanta, descrivevano un mondo dominato dalle multinazionali informatiche, arroccate in una rete di città-stato interconnesse attraverso i canali di un multiverso virtuale abitato dalle élite, un mondo senza stati né frontiere in cui le immense masse dei perdenti e degli esclusi venivano confinate nello Sprawl, i territori fisici desertificati che circondano le cattedrali dei super ricchi. Siamo dunque arrivati a questo punto?
Prima di rispondere, è il caso di ricordare che sulle nuove sinistre libertarie queste fantasie esercitano un fascino irresistibile. Anche se, nei loro sogni, le profezie cyberpunk si riflettono come in uno specchio capovolto: a dominare non sono le multinazionali ma le comunità autonome dei lavoratori della conoscenza, che avrebbero ormai acquisito la competenza e il know how per controllare e dirigere tutto, e che si preparano a pilotare l’umanità verso un futuro di ricchezza, libertà e felicità. Tuttavia, anche nella loro versione spariscono Stati, nazioni e frontiere, mentre i liberi cittadini della Rete si stringono in un grande abbraccio cosmopolita (una versione laica delle visioni del filosofo e teologo gesuita Teilhard de Chardin). Per inciso, gli esponenti di queste sinistre sono gli stessi che, di fronte all’atto di forza delle Internet Company contro Trump, applaudono entusiaste per la censura nei confronti del mostro fascista, senza interrogarsi sulle implicazioni del fatto che questa censura non sia stata frutto di una decisione pubblica, politica bensì del diktat arbitrario di un pugno di magnati privati. Insomma: le immagini capovolte finiscono per coincidere nella visione di chi è convinto che sia meglio che a tacitare l’uomo nero provveda papà Facebook o chi per lui, piuttosto che il Moloch del potere politico. Come Marx ben sapeva, mercato e anarchia vanno a braccetto (non a caso per i signori di Silicon Valley c’è chi ha coniato la definizione di anarcocapitalisti).
Ma torniamo alla domanda. Nei miei ultimi lavori ho scritto in varie occasioni che il conflitto, a mano a mano che gli effetti della crisi affondano i denti nelle carni del corpo sociale, non assume solo la forma popolo versus élite, ma anche quella flussi (di merci, denaro, informazioni) contro territori. E ho sostenuto che la resistenza dei territori (dello Sprawl volendo riprendere l’immagine della narrativa cyberpunk) è destinata a farsi sempre più forte. Così le periferie (i gilet gialli francesi, le mareas spagnole, i proletari americani che votano Trump in odio alle sinistre politically correct da cui si sentono traditi e quelli inglesi che votano Brexit per le stesse ragioni) cingono d’assedio le metropoli gentrificate. E a questi conflitti interni alle singole nazioni di sommano quelli fra nazioni periferiche e nazioni centrali: Sud ed Est Europa versus imperi centrali, America Latina contro Stati Uniti, nazioni africane che gravitano sempre più nell’orbita dell’emergente potenza cinese percepita come alternativa agli imperialismi occidentali.
L’espulsione di Trump dalla Rete significa che questa ipotesi è sbagliata? Vuol dire che il potere delle élite tecnologiche, alleate con le élite finanziarie, continuerà a prevalere sulle velleità di resistenza della politica e dei territori, che la globalizzazione continuerà ad avanzare inarrestabile, sospinta dai cinque monopoli (tecnologico, finanziario, mediatico, militare e culturale) sui quali, sostiene Samir Amin, si fonda il dominio del centro sulle periferie? La mia risposta è no, per due ragioni fondamentali.
1) L’atto di forza di re Zuckerberg e degli altri monarchi della Rete è un atto politico, perché questi monarchi privati, che apparentemente non rispondono a nessun’altra regola di quelle che loro stessi si danno, sono tutti, guarda caso, americani. Il loro potere è cresciuto all’ombra del potere imperiale statunitense, che ne ha accompagnato la crescita con gli enormi investimenti pubblici che ne hanno reso possibili i successi, tutelandone i diritti di proprietà, proteggendoli contro i tentativi degli altri Stati di imporre limiti in materia di privacy e fisco alla loro libera attività, ecc. La convergenza di interessi fra potere politico dello Stato americano e potere delle Internet Company è sempre stata fortissima, perché il primo ha sempre considerato il secondo come un’arma strategica per mantenere il suo vantaggio competitivo nei confronti degli altri Stati capitalisti. E, guarda caso, quando si è trattato di passare informazioni sensibili sulla concorrenza internazionale (ma anche sugli stessi cittadini americani dopo l’11 settembre) alle varie agenzie dello Stato Usa, i cyber monarchi si sono dimostrati assai meno reticenti di quando le richieste arrivavano dall’altra sponda dell’Atlantico.
Il conflitto che è esploso con il caso Trump nasce dal fatto che costui è stato il primo presidente che ha tentato di sottrarsi agli accordi de facto (strettissimi con le amministrazioni democratiche, ma che neanche i presidenti repubblicani avevano mai messo in discussione) fra politica e Rete. Quella dei boss di Internet non è stata un’iniziativa privata, bensì un’operazione politica per rimuovere un ostacolo all’insediamento di un’amministrazione che si annuncia assai più sensibile alle ragioni dell’alleanza fra i palazzi della politica e Silicon Valley. Dopodiché è probabile che si proceda comunque a ridurre i margini di autonomia dei tecnocrati privati, formalizzandone i rapporti con la politica e inquadrandoli in una cornice giuridica ad hoc. Il che ci conduce alla seconda ragione.
2) Non è certo un caso se in Europa è stata la voce della Merkel a deplorare con particolare energia l’arbitrarietà delle decisioni di Facebook, ove si consideri che da tempo la Ue a trazione tedesca discute sulla necessità di normalizzare il “Far West” della Rete, inquadrandolo in una cornice di regole dettate dalla politica. Il potere dei territorio torna a far valere le proprie ragioni nel momento in cui i conflitti interimperialistici si fanno più duri, sospinti dal vento della crisi, per cui anche gli “alleati” saranno sempre meno disposti a concedere agli Stati Uniti il vantaggio di poter usare come cavalli di Troia le proprie reti private d’impresa.
La questione non si pone neanche nel caso della Cina, la quale, da un lato, ha sempre “schermato” il proprio spazio virtuale dalla penetrazione delle tecnologie occidentali, dall’altro lato, a mano a mano che i suoi progressi nel campo del digitale glielo consentivano, ha a sua volta “contro invaso” i mercati occidentali con i propri prodotti e servizi di Rete (da qui la guerra commerciale Usa contro Huawei e Tic Toc). Ma a certificare la priorità che lo Stato/partito cinese attribuisce alla logica territoriale rispetto alle logiche di flusso, o se si preferisce alla politica rispetto alla tecnofinanza, è soprattutto la recente decisione di stroncare il tentativo di Jack Ma, il magnate del gruppo Alibaba (versione cinese di Amazon), di alimentare il processo di finanziarizzazione dell’economia attraverso il suo impero commerciale online.
Per concludere: è probabile che la mossa dei social contro Trump non segni il tramonto della politica “locale”, esautorata dai giganti della globalizzazione tecnofinanziaria, ma che rappresenti piuttosto il picco della parabola ascendente del potere privato sui flussi di informazione digitale, a partire dal quale inizierà una curva discendente caratterizzata dal progressivo aumento del controllo politico sulla Rete. Mi pare già di sentire le reazioni scandalizzate dei libertari di sinistra: accettare questa tendenza vorrebbe dire mettere la mordacchia allo spazio di libertà che i nuovi media hanno dischiuso ai movimenti sociali, strappando il monopolio dell’informazione ai media mainstream. Sul fatto che la regolamentazione giuridico-politica comporterà una limitazione di quello spazio, e che tale limitazione riguarderà i movimenti antisistema di sinistra assai più dei Trump di turno non vi sono dubbi. Ma non vi sono dubbi, almeno a mio avviso, nemmeno sul fatto che l’idea che si possa difendere quello spazio restando nell’ombra dei padroni delle piattaforme private è assolutamente delirante: sarebbe come preferire la condizione di servi della gleba a quella di cittadini, perché contro la censura politica si possono fare battaglie politiche, contro la censura privata non esiste difesa alcuna.
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