Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:
1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.
2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.). Tessere fondamentali di tale processo sono stati l’autonomizzazione della Banca d’Italia dal sistema politico (con conseguente aggravamento del debito pubblico, provocato dalla necessità di ricorrere alla finanza privata); i reiterati tentativi di snaturare la Costituzione del 48 (riforma dell’articolo V, inserimento del vincolo di pareggio di bilancio, ecc.) giudicato “criptosocialista” dalle élite finanziarie internazionali; la progressiva dismissione degli interventi pubblici diretti in economia (i soli in grado di reggere la competizione sul mercato globale). In poche parole: la borghesia italiana si è dimostrata disposta ad accettare il ridimensionato del proprio ruolo nel concerto delle nazioni industriali pur di rafforzare il controllo interno sulle classi subalterne.
3) Il venir meno di una rappresentanza politica e sindacale degli interessi delle classi lavoratrici e dei settori impoveriti delle classi medie, dovuto alla svolta neoliberista delle tradizionali forze socialdemocratiche e al progressivo abbandono dell’impegno sui temi sociali da parte di sinistre radicali sempre più votate alla gestione di tematiche relative all’allargamento dei diritti civili e individuali.
4) Il trasferimento delle aspettative e del consenso elettorale degli strati popolari dalla sinistra a formazioni populiste di destra come la Lega o “di sinistra” come l’M5S, benché in questo caso si possa parlare di sinistra solo in ragione della presenza di una quota significativa di ex militanti delusi delle sinistre nelle file del Movimento, certo non per i suoi programmi politici, fumosi, moderati e inadatti a fronteggiare le sfide descritte nei punti precedenti.
In questo contesto, alla fuga di quadri ed elettori di sinistra verso l’M5S si è progressivamente affiancata una diaspora, meno numerosa e vistosa anche perché in larga misura sommersa, fatta di una galassia di piccole formazioni (associazioni, gruppi e micro organizzazioni) che condividevano l’idea della necessità di lottare per lo sganciamento del Paese dalla Ue e per la riconquista della sovranità nazionale (non come fine, bensì come mezzo per creare le premesse indispensabili alla riattivazione della lotta di classe e alla partecipazione popolare e democratica alle decisioni politiche) così come condividevano (anche se in minor misura) l’esigenza di rilanciare principi, valori e programmi politici di chiara matrice socialista. In questo senso l’opposizione all’Europa ordoliberale a guida franco-tedesca era considerata condizione indispensabile per la rinascita di un movimento popolare e socialista. A dare credibilità a tale progetto contribuiva il proliferare di esperienze populiste di sinistra in diversi Paesi del mondo, dall’America Latina (rivoluzioni bolivariane), agli Stati Uniti (la nascita di un’ala socialista dei Democratici guidata da Sanders), al rilancio del Labour guidato da Corbyn, alle esperienze di Podemos e France Insoumise nel Vecchio Continente. Questo fermento è parso trovare un momento di coagulo con il lancio del Manifesto per il patriottismo costituzionale, elaborato da un gruppo di compagni provenienti da diverse esperienze (Rinascita, Senso Comune, Network dei Socialisti, Programma 101 e altri) che si erano aggregati attorno al deputato di Leu Stefano Fassina. Rientrato nei ranghi Fassina ed esauritasi di fatto la sua iniziativa, una parte di coloro che avevano partecipato a quella esperienza hanno continuato a perseguire il progetto dando vita all’associazione Nuova Direzione, formalmente costituitasi nel corso di un’assemblea nazionale tenutasi nel gennaio 2020.
Le Tesi approvate in quell’occasione, frutto di un intenso lavoro di discussione ed elaborazione collettiva, hanno rappresentato un contributo teorico-politico largamente apprezzato anche al di fuori dei membri e dei simpatizzanti di ND. In particolare, al loro interno troviamo:
1) un’analisi dettagliata dei dispositivi istituzionali, economici e ideologici attraverso i quali l’Unione Europea è riuscita a costruire un contesto che consegna ai Paesi del blocco centrale la possibilità di sfruttare la forza lavoro qualificata e a basso costo dei Paesi del Sud e dell’Est europei, favorendo il rafforzamento del modello neomercantilista tedesco e facendo sì che queste regioni vengano declassate a mercati di sbocco e deprivate di autonome capacità e risorse competitive;
2) una profonda analisi critica del regime e dell’ideologia liberal liberista, che ne ricostruisce radici storiche e percorsi evolutivi, mettendo in luce come le sinistre tradizionali e i cosiddetti nuovi movimenti (ecologisti, femministe, pacifisti, ecc.) abbiano progressivamente assunto principi, valori e obiettivi politici tipicamente liberali;
3) un primo abbozzo di analisi delle profonde trasformazioni che la composizione di classe ha subito nel corso degli ultimi decenni: individualizzazione; frazionamento secondo linee generazionali, etniche e di genere; perdita di capacità organizzativa e contrattuale delle classi lavoratrici, ecc.
4) un’analisi del fenomeno populista come forma spuria della lotta di classe in questa fase di arretramento generale dei rapporti di forza delle classi subalterne, analisi che ne mette in luce i limiti e le contraddizioni riconoscendo tuttavia la necessità di fare i conti con queste modalità di espressione della rabbia popolare, di “attraversarle” per creare le condizioni dell’aggregazione di nuove strutture politiche e sindacali e di un nuovo blocco sociale antagonista; 5) l’identificazione di alcuni obiettivi prioritari da agitare, quali la lotta per la piena occupazione, la drastica opposizione all’autonomia regionale intesa come leva per ottenere un ulteriore aumento delle sperequazioni fra Nord e Sud del Paese, la nazionalizzazione integrale dei servizi di base (scuola, sanità, trasporti), il rafforzamento del welfare, l’abolizione delle riforme che hanno sconciato la Costituzione del 48, una drastica riconfigurazione delle alleanze internazionali, con attenzione prioritaria alle relazioni con i Paesi mediterranei e i Brics.
Tradurre in azione politica queste linee generali si è rivelato impossibile sia a causa della crisi pandemica scoppiata poco dopo l’assemblea, sia per il dispendio di tempo ed energie causato dallo scontro interno con un gruppo di compagni che hanno scelto di convergere con il progetto politico del senatore Paragone (su questo tornerò più avanti). La pandemia non è stata solo un ostacolo “meccanico” (impossibilità di riunirsi e discutere se non via piattaforme virtuali, impossibilità di indire – o di partecipare a- eventi come riunioni, convegni, seminari, manifestazioni pubbliche, ecc.) allo sviluppo dell’attività politica del gruppo. La verità è che, sommandosi agli strascichi irrisolti della grande crisi del 2008, la pandemia ha provocato un accelerazione esponenziale di tutte le contraddizioni economiche, sociali e politiche del sistema globale, riconfigurando scenari politici, rapporti di forza fra classi, Stati e nazioni, protagonisti, ecc. Per cui non mi pare esagerato affermare che le analisi contenute nelle Tesi e che ho sintetizzato poco sopra non richiedono solo aggiornamenti e approfondimenti ma, almeno sotto certi aspetti, un cambiamento di prospettiva. Non avendo modo di argomentare nei dettagli quanto appena sostenuto (anche perché ciò può essere fatto solo attraverso un nuovo sforzo di elaborazione collettiva) anticipo quelli che ritengo essere i nodi problematici fondamentali su cui ragionare.
a) Evoluzione dello scenario internazionale.
Tanto la vittoria di quattro anni fa quanto la recente sconfitta di Trump sono un sintomo evidente della crisi di egemonia degli Stati Uniti. Il termine è da intendersi in senso gramsciano: crisi di egemonia non significa negare che gli Stati Uniti restino di gran lunga la prima potenza mondiale sul piano politico-militare, e anche – sia pure di stretta misura nei confronti della Cina – sul piano economico, benché in senso finanziario assai più che industriale; significa prendere atto della impossibilità, di mantenere il controllo assoluto sul resto del mondo (come dimostra l’incapacità di mantenere ordine nel “cortile di casa” latinoamericano, dove non sono riusciti a indurre un regime change in Venezuela e dove la piccola Bolivia ha rimesso al potere il governo socialista pochi mesi dopo un golpe militare).
Com’è noto, crisi di egemonia significa che il potere può essere conservato solo attraverso il puro dominio, ma nemmeno questa è impresa semplice, dopo l’esaurimento della spinta propulsiva del processo di globalizzazione. Infatti quest’ultimo, trainato dal processo di finanziarizzazione e dalla diffusione pervasiva delle nuove tecnologie digitali, era il frutto, assai più che di presunte “leggi” economiche, della volontà americana di dominio imperiale sul mondo unificato dal crollo dell’Urss, ma ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, nella misura in cui ha generato le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti, ma anche una serie di potenze regionali emergenti). I contraccolpi economico-sociali interni di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti; in particolare, l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media ha generato una rabbia diffusa delle regioni più colpite (quelle interne del Paese) che hanno votato in massa per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che le aveva tradite, privilegiando gli interessi delle classi medie emergenti e di Wall Street (la sinistra populista e neo socialista di Sanders non ha potuto contrastare l’ascesa di Trump anche perché è rimasta intrappolata nel Partito Democratico).
Il progetto di Trump condensato nello slogan America First (disimpegno da vari teatri di guerra, rientro dei capitali investiti in Asia e altrove dalle multinazionali per rilanciare l’occupazione interna, freno all’immigrazione per ridurre la concorrenza nei confronti dei working poor autoctoni, ecc.) non è tuttavia riuscito a mantenere se non in minima parte le sue promesse elettorali, perché frenato dalla capacità di veto e interdizione del deep power degli apparati statali. Anche il suo tentativo di blandire Putin, per impedirne la convergenza con la Cina, è stato frustrato dalla lobby trasversale neocons che lo ha messo sotto accusa per il presunto appoggio elettorale russo. Ma il colpo di grazia è venuto soprattutto dalla crisi pandemica e dalla folle linea negazionista dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Non meno pesanti gli effetti della nuova, virulenta ondata di conflitti razziali che ha visto Trump difendere le violenze dei poliziotti parafascisti. La somma di queste difficoltà oggettive ed errori soggettivi ha fatto sì che il blocco sociale populista che lo aveva premiato quattro anni si sfaldasse: una parte – soprattutto le classi lavoratrici – è rientrata nell’ovile democratico, lasciandosi convincere, con più validi argomenti della volta precedente, dalla sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta la base socialmente più eterogenea e ideologizzata a destra che ha mostrato la sua faccia truce e folcloristica ad un tempo nell’assalto a Capitol Hill.
Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (la scelta della squadra di governo è una vetrina politically correct di donne e appartenenti alle minoranze etniche e sessuali ma non prevede alcun esponente delle sinistre) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari, del resto mai seriamente scalfito da Trump, e high tech (che hanno manifestato il loro giubilo silenziando i profili del presidente uscente) sugli altri settori del capitale nazionale; verrà riannodato il filo rosso delle politiche economiche democratiche da Clinton a Obama e appoggiato senza riserve da Wall Street, ma soprattutto verrà perseguito con ben altra determinazione di Trump lo sforzo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) è già partita in grande stile e verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. In sintesi: rottura del blocco sociale populista, normalizzazione del quadro istituzionale (con integrazione della sinistra nel fronte per la difesa della democrazia, che l’assalto a Capitol Hill consente di presentare come realmente a rischio), mobilitazione nazionalista contro il “pericolo giallo”.
Questo disegno non è tuttavia perseguibile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio di tutti i loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue, con la quale Trump aveva aperto diversi fronti di conflitto. Il problema è che l’Europa ha subito effetti non meno devastanti a causa del coronavirus, effetti aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni tagli alla spesa e ai servizi pubblici: crollo verticale dell’occupazione e della produzione, decine di migliaia di vittime, servizi sanitari al collasso. Per fronteggiare l’emergenza è stato necessario compiere una brusca inversione di rotta rispetto al passato: allentare significativamente i vincoli di bilancio, erogare enormi quantità di denaro pubblico per impedire che decine di milioni di persone sprofondino in povertà assoluta, rivalutare il ruolo dello Stato come garante in ultima istanza della sicurezza e del benessere popolari. Ovviamente questa evoluzione è stata modulata in modo diverso da parte dei vari Stati membri ma qui ho solo lo spazio di valutare il caso italiano (del quale mi occuperò più avanti).
In generale è tuttavia possibile evidenziare alcuni tratti comuni che presentano significative analogie con lo scenario americano: anche in Europa il blocco sociale populista si è tendenzialmente sfaldato fra quegli strati (lavoratori garantiti, pensionati, dipendenti pubblici) che più beneficiano dell’assistenza pubblica e quelli (precari, disoccupati, finti autonomi, impiegati nella gig economy, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.) che più soffrono per il lockdown e la perdita di reddito. Di conseguenza, anche in Europa i movimenti populisti e sovranisti di destra e di sinistra hanno subito un netto ridimensionamento: quelli di destra sono in parte rifluiti nel blocco liberale dominante (anche se e quando restano all’opposizione, vedi il caso della Lega di Salvini) o sono stati marginalizzati, mantenendo presa quasi esclusivamente sugli strati più colpiti e socialmente disgregati. Quanto ai populisti di sinistra, la loro parabola discendente – certificata dal calo dei consensi elettorali – era già iniziata prima della pandemia, a mano a mano che hanno scelto (come Podemos e France Insoumise) di allearsi con i tradizionali partiti di centro sinistra per “difendere la democrazia” dalla minaccia dei populismi di destra (sbrigativamente assimilati a un rigurgito di fascismo storico). Avendo perso, dopo le rappresentanze politiche tradizionali, anche questi nuovi “contenitori dell’ira” (per usare la definizione di Alessandro Visalli), e trovandosi ingabbiata dalla quasi impossibilità di esprimersi pubblicamente a causa dello stato di emergenza sanitario, la rabbia degli strati più marginalizzati si manifesta con scoppi episodici e ideologicamente caricaturali (complottisti, no Vax, ecc.) non troppo dissimili dalla variopinta umanità che ha dato l’assalto a Capitol Hill a Washington (e in cui si mescolano residui sia dei populismi di destra che di quelli di sinistra).
Il consolidamento sui generis dei tradizionali equilibri istituzionali (sui generis in quanto imposto a colpi di eccezioni alle regole “normali”) non risolve tuttavia le profonde contraddizioni scatenate dalla crisi pandemica: l’Europa – soprattutto dopo avere perso la “costola” inglese che le garantiva decisivi margini di manovra sul piano finanziario – non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e del suo ruolo geopolitici, di rientrare sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, soprattutto perché questi ultimi ne richiedono la partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese che comporterebbe pesantissime conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti. Sintomo evidente di queste contraddizioni interimperialistiche fra le due sponde dell’Atlantico, l’accordo con la Cina raggiunto in barba alla contrarietà americana, la scarsa propensione ad accettare il veto Usa sull’adozione del 5G targato Huawei, le velleità europea di ridimensionare la leadership del dollaro sui mercati finanziari globali, la crescente resistenza della Germania ad appoggiare crociate antirusse (è stata costretta obtorto collo a sostenere la rivoluzione colorata ucraina, ma ora non sembra disposta a sacrificare l’accordo sul gasdotto sull’altare della difesa dei diritti civili).
A questa ultra schematica rappresentazione dello scenario geopolitico mondiale (per approfondimenti vedi Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro, di imminente uscita presso Meltemi, con saggi di Formenti, Fagan, Galli, Visalli, Romano, Monereo, Somma, Zhok, Sciortino, Pagliani) manca ovviamente una sezione sulla Cina, che richiederebbe un’analisi ampia e approfondita sulla natura del sistema socioeconomico cinese (socialismo?, capitalismo di stato?, socialismo con mercato e lotta di classe?, ecc.), sulla cultura millenaria di quel Paese e sul modo peculiare con cui si è intrecciata con la cultura marxista, sulla natura e sulle prospettive dello scontro geopolitico con l’Occidente. Per tutti questi problemi rinvio a quanto ho scritto nei miei ultimi due libri e in una serie di articoli recenti. Qui mi limito ad affermare che qualsiasi sia il giudizio sulla natura del sistema cinese, è letteralmente demenziale descrivere il conflitto cino-americano come uno scontro simmetrico fra opposti imperialismi: 1) perché l’aggressore è senza ombra di dubbio l’America; 2) perché il tipo di investimenti occidentali nei Paesi in via di sviluppo (prevalentemente finanziari, finalizzati a perpetuare la dipendenza attraverso il meccanismo dei debiti sovrani, vincolato all’adozione di politiche filo occidentali e antisocialiste) è completamente diverso da quello degli investimenti cinesi (prevalentemente strutturali, con finanziamenti a condizioni favorevoli e non vincolati all’orientamento politico dei Paesi beneficiari, finalizzato allo sviluppo dei Paesi interessati, ecc.); 3) perché l’ascesa della Cina, soprattutto dal momento in cui la crescita ha abbandonato il modello mercantilista per scommettere sullo sviluppo del mercato interno è innegabilmente uno dei fattori (come riconosciuto anche da autori non sospetti di simpatie ideologiche per Pechino come David Harvey) in grado di accelerare e approfondire la crisi capitalistica globale.
b) evoluzione dello scenario italiano (I)
Per comprendere le radici del disastro attuale occorre risalire indietro nel tempo. Il boom degli anni Sessanta fu quasi interamente ascrivibile a un modello di economia mista in cui la grande industria di Stato svolgeva un ruolo strategico con colossi come l’IRI e l’ENI assieme ad alcune imprese private atipiche, come l’Olivetti. Quel modello fu attaccato dall’interno e dall’esterno. Dall’esterno perché minacciava il dominio americano in alcuni settori sensibili (petrolio e informatica), al punto che esistono fondate ragioni per ritenere che le morti di Enrico Mattei e Adriano Olivetti siano state in realtà assassinii programmati dai servizi d’oltreoceano (quando Olivetti morì la sua impresa deteneva know how più avanzati di quelli delle concorrenti americane e si apprestava a cederli a russi e cinesi). Dall’interno perché il contributo di quelle imprese alla nascita di una via italiana al compromesso fordista fra capitale e lavoro (di cui il dialogo fra DC e PCI – conflittuale ma non antagonistico -rappresentò la proiezione politica) aveva contribuito al rafforzamento del potere contrattuale delle classi lavoratrici, per cui andava smantellato.
Il grande processo di ristrutturazione degli anni Settanta, innescato dalla crisi petrolifera, e la successiva controffensiva neoliberista degli anni Ottanta non furono tuttavia sufficienti a chiudere la partita, a dare il colpo di grazia furono piuttosto le scelte ispirate dai vari Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi che portarono all’autonomizzazione della Banca d’Italia dal potere politico, e in una fase successiva, all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso nell’area euro (tutti passaggi avvenuti con la benedizione delle sinistre socialdemocratiche – e di un partito post comunista già in libera uscita con il compromesso storico e poi definitivamente affrancato dalla caduta dell’Urss – nonché dei sindacati confederali). Allo smantellamento dell’industria di Stato non ha tuttavia fatto seguito l’ascesa di grandi imprese private in grado di competere sul mercato internazionale, anche perché la borghesia italiana ha scelto di accettare un ruolo subalterno a livello europeo (e a maggior ragione a livello globale) pur di rafforzare il proprio dominio sulle classi lavoratrici. Quella scelta ha inferto ferite mortali a un sistema paese già penalizzato dalla cronica debolezza delle strutture statali (con la riforma dell’articolo V e il decentramento regionale quella debolezza diverrà vero e proprio sfascio, come certificato dall’attuale incapacità di gestire l’emergenza pandemica). Gli esiti sono noti: nanismo delle imprese (che si cercherà di far passare per un fattore positivo con le narrazioni sui distretti e con la retorica del “piccolo è bello”), terziarizzazione del lavoro (con prevalenza dei settori del turismo, del ristoro e dell’intrattenimento rispetto al terziario avanzato e innovativo), aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; sfascio dei servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti), degrado ambientale e territoriale, disoccupazione e sottooccupazione cronica (con la proliferazione di lavori precari, temporanei, finto autonomi, sottopagati, ecc.).
Questi processi in atto da quattro decenni hanno determinato radicali trasformazioni nella composizione di classe e nelle forme della rappresentanza politica. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo avuto l’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Per quanto riguarda le seconde, Tangentopoli ha sancito la morte dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione ma che soprattutto si erano scavati la fossa favorendo l’indebolimento delle loro basi sociali, dopodiché Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali fondati sulla mobilitazione di una massa composita di persone più sensibili alla comunicazione mediatica che ai programmi politici.
I movimenti spontanei di rivolta hanno a loro volta subito gli effetti di questo marasma sociale, culturale e politico, dando vita a esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa, al “cittadinismo” dei vari girotondi, indignati ecc. con base nella piccola e media borghesia urbana e privi di qualsiasi velleità antisistema (via ai corrotti, potere agli onesti), ad esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi, assai meno strutturati e dotati di consapevolezza politica rispetto a fenomeni di insorgenza popolare come il 15M spagnolo o i gilet gialli francesi. Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S e qui siamo all’attualità che tocca da vicino le ragioni della nostra nascita e le scelte di fronte alle quali ci troviamo.
c) evoluzione dello scenario italiano (II)
Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni Novanta e il partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Fra il governo Monti – che ha definitivamente chiuso l’era berlusconiana – e l’incarico che Mattarella ha affidato a Draghi mentre scrivo queste pagine, due momenti in cui l’alta finanza internazionale ha assunto in prima persona (posto che Draghi riesca nell’impresa) il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo qualsiasi finzione di democrazia, abbiamo assistito all’ascesa, culminata con le elezioni del 2018 e la nascita del primo governo Conti, e alla fulminea caduta, coincisa con la fine del secondo governo Conti, di un movimento populista bicefalo.
Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (con cui spera tuttalpiù di contrattare vincoli meno stringenti), anche perché la sua base sociale è legata a triplo filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche. Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito, letteralmente, a “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”, ma che, pur nella sua breve vita, ha attraversato una tumultuosa serie di mutazioni.
Alla fase pionieristica dei Meetup (una rete di collettivi locali egemonizzati, dal punto di vista socioculturale, da esponenti delle nuove professioni emergenti – soprattutto nel settore delle nuove tecnologie – e dalla diaspora dei delusi delle sinistre tradizionali), caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale (orizzontalismo, uno vale uno, ecc.), e dal rifiuto intransigente del professionismo politico, si è passati alla fase governista: incoraggiato dai successi ottenuti da alcuni clamorosi successi nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, il movimento ha tentato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo era venuto aggregando un consenso sociale assai più ampio e trasversale rispetto alle origini (le analisi dei flussi elettorali ne hanno evidenziato il forte seguito fra gli strati operai e impiegatizi, fra le nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, e fra le classi medie “riflessive”, con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo). Dal punto di vista programmatico l’M5S è parso un’incarnazione quasi da manuale delle tesi del massimo teorico del populismo, Ernesto Laclau: un aggregatore di domande assai diverse provenienti da settori sociali eterogenei nei confronti di un sistema incapace di dare risposte.
Quella che Laclau definisce una “catena equivalenziale”, alla quale è sempre mancata, tuttavia, la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare il tutto, infatti l’unico vero collante è stato la critica alla “casta” politica e l’unico vero “programma” quello di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate da meccanismi di democrazia di base. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema capitalistico, nessuna indicazione concreta su fini e mezzi in materia di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico palesemente incapace di gestirlo. Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD – forza dotata di ben altra esperienza e capacità di manovra e con idee chiarissime sugli interessi da difendere – lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Ma la crisi pandemica non gli ha neanche permesso di condurre a termine il processo di integrazione nelle élite del Paese: incalzato dai poteri forti, decisi a usare la crisi come occasione di affossamento di qualsiasi capacità di resistenza – ancorché debole e moderata – ai propri obiettivi, si è letteralmente dissolto, finendo vittima dell’imboscata tesagli da Renzi che ne ha decretato il definitivo sputtanamento (con il tragicomico spettacolo di una successione di compromessi e ritirate finalizzate al solo scopo di evitare le elezioni e il “licenziamento” della gran parte dei suoi parlamentari, contorsioni che non hanno impedito la catastrofe finale).
Sulle prospettive di ND
Mi sono dilungato sulle peripezie dell’M5S perché, prima di spiegare come e perché gli scenari sopra descritti impongono a mio parere una ridefinizione dei nostri compiti rispetto a quelli indicati nell’assemblea fondativa, vorrei analizzare le cause della rottura che abbiamo vissuto con i compagni che hanno scelto di andare con Paragone. Il fatto è che, fin dall’inizio, anche se non ce lo siamo mai chiarito del tutto, la ragione di fondo per costituirci in gruppo politico, e non semplicemente in associazione politico culturale, non era tanto e solo la speranza della possibilità di aggregare le varie componenti della sinistra “sovranista” (impresa a dir poco ardua e che, in ogni caso, non garantirebbe il raggiungimento di una “massa critica” sufficiente a consentire un radicamento sui territori e una effettiva capacità di intervento politico) ma era l’aspettativa che la prevedibile crisi dell’M5S si potesse tradurre in una “liberazione” dello spazio politico che il Movimento aveva occupato sottraendolo a una sinistra integrata nelle élite liberali.
In assenza di questa eventualità, e date le nostre ridottissime dimensioni organizzative ogni velleità di svolgere una “vera” attività politica appariva illusoria. Alcuni compagni, non condividendo questa realistica presa d’atto dei nostri limiti strutturali, hanno creduto di riconoscere nel costituendo partito di Paragone, una prima opportunità di andare a occupare lo spazio politico liberato dalla crisi dell’M5S. Quando la maggioranza si è opposta a quella lettura, chi voleva comunque “andare a vedere” quella operazione si è appellato allo Statuto che contempla la possibilità di doppia appartenenza fatta salva la compatibilità con i principi e i valori di ND. Ma il punto era esattamente questo: quella di Paragone è apparsa da subito e inequivocabilmente una micro scissione da destra rispetto all’M5S: antisocialista, filo occidentale e coerentemente “sovranista” nel senso del primo Salvini, quindi incompatibile con i paletti fissati dalle Tesi fondative. Lo sviluppo del progetto Paragone non ha solo confermato tale giudizio, ha anche confermato che si è trattato di una esperienza marginale non in grado di ottenere un consenso significativo, se non di massa.
Da alcune recenti discussioni che sono avvenute al nostro interno a proposito della necessità di rafforzare e implementare la nostra struttura organizzativa e la nostra capacità di intervento ho la sensazione che il problema si stia ripresentando in forma abbastanza simile. Ora io non ho nessuna obiezione se i compagni avvertono l’esigenza, che comprendo benissimo, di svolgere attività politica attiva, ma quello che mi chiedo e vi chiedo è: ND è realmente in grado di impegnarsi in questo senso, ma soprattutto perché e con quali prospettive potrebbe/dovrebbe farlo in un contesto come quello che ho fin qui tentato di delineare? Per rispondere positivamente occorrerebbe essere convinti 1) che l’ipotesi di poterci inserire (se non egemonizzare/occupare obiettivo che credo nessuno possa seriamente prendere in considerazione) nello spazio eventualmente “liberato” dalla crisi dell’M5S sia ancora praticabile; 2) che sia parimenti ancora realistica e praticabile l’idea di “attraversare” – non il momento populista in astratto – bensì “questo” populismo così come si è concretamente evoluto nel nostro Paese per “estrarne” un potenziale antisistemico.
Ebbene la mia risposta a entrambe le domande è no, come cercherò di spiegare qui di seguito, per poi passare a valutare altri argomenti che suggeriscono a mio parere la necessità di ridefinire il nostro compito. I motivi del primo no mi paiono ovvi. Gli spazi politici non sono fogli di carta bianchi che si possano riempire immediatamente dopo avere cancellato quanto vi era scritto sopra. Se l’M5S ha potuto occupare in tempi relativamente rapidi il vuoto lasciato dalle sinistre è stato solo perché quel vuoto non si è aperto di colpo, ma era l’esito di un decennale processo di degrado di una cultura politica che è ugualmente riuscita a sopravvivere a lungo solo grazie all’inerzia e alla viscosità di fedeltà costruite su secoli di storia e di memorie trasmesse attraverso decine di generazioni. La memoria e la fedeltà sedimentate dall’M5S sono roba di qualche mese, se non di giorni (è l’altra faccia del populismo: quel che si ottiene rapidamente sparisce altrettanto rapidamente). Quello spazio è stato riempito “per disperazione”, per mancanza di alternative e ora che i disperati che ci hanno creduto (o che forse ci hanno solo voluto credere) avranno la sensazione che There is no alternative resterà vuoto a tempo indeterminato (vedi la catastrofe del dopo Tsipras in Grecia).
Ergo: l’idea di poter navigare nei rottami dellM5S per pescare un numero sufficiente di naufraghi da arruolare nel nostro progetto mi pare illusoria. Le ragioni del secondo no sono più complesse. Negli ultimi anni ho sostenuto che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa epoca di disarticolazione delle classi subalterne. Ho anche sostenuto che una forza socialcomunista dovrebbe essere parte attiva dei movimenti populisti con caratteristiche progressive (o di sinistra, volendo usare questa connotazione ormai sempre meno caratterizzante) per agire come catalizzatore di un processo di aggregazione di un blocco sociale egemonizzato dalle classi subalterne. Ma se ho ragione nell’affermare (vedi gli scenari che ho tratteggiato in precedenza ) che quei movimenti populisti hanno subito un rapido processo di normalizzazione e si sono disgregati in base ai confini che separano diversi strati di classe, allora il compito prioritario non è più la costruzione di un blocco sociale inteso come alleanza fra classi lavoratrici e classi medie, bensì (come ho scritto nel mio ultimo libro) la ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista.
Il primo obiettivo può essere perseguito – sotto precise condizioni che in Italia a mio parere non si danno – attraverso abili strategie di comunicazione, elaborate da un piccolo nucleo dotato di competenze culturali e teoriche in grado di influenzare o addirittura di dare vita a nuove correnti di opinione pubblica (è il modello cui si ispirava l’esperienza di Senso Comune e che trova oggi formulazione più sofisticata nella rivista “La Fionda”, ispirato dalle teorie di Laclau, dalla rivoluzione “cittadinista” di Correa in Ecuador e da Podemos). Il secondo richiede la volontà/possibilità di compiere un capillare lavoro di penetrazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, sui territori, ecc. e mi pare evidente che noi non siamo attrezzati per questo. Questo vuol dire che intendo oppormi alle esigenze dei compagni che desiderano rimboccarsi le maniche per svolgere intervento politico attivo? Ovviamente no. Trovo per esempio giusta l’idea dei compagni che propongono di fare un seminario sui temi dello smart working e della gig economy (temi dirimenti per qualsiasi progetto di rifondare un sindacato di classe), ma il punto è: abbiamo la struttura e le forze per tradurre in azione concreta queste analisi? Non ha più senso che chi sente l’esigenza di intervenire su questi problemi lo faccia assieme alle organizzazioni sindacali di base esistenti?
Penso invece che, per composizione socioprofessionale e competenze teorico-culturali, il gruppo dirigente di ND farebbe cosa più utile impegnandosi ad approfondire gli interrogativi di fondo sollevati dai mutamenti di scenario che ho tentato di descrivere nella prima parte: ha ancora senso assumere come obiettivo prioritario, se non unico, l’uscita immediata dalla Ue, nel contesto di acutizzazione dei conflitti fra Usa e Ue e del ritorno della guerra fredda fra Occidente e Oriente? Quale ruolo per l’Italia in campo internazionale (Europa mediterranea, ripresa della battaglia contro la Nato, per la pace e per la collocazione nel campo dei Paesi non allineati)? E ancora: quali prospettive di evoluzione della crisi economica e istituzionale per il dopo pandemia? Di cosa parliamo quando accenniamo a un socialismo del secolo XXI (a partire dalla questione cruciale della definizione della natura socialista o meno della Cina)? Mi si potrà obiettare che è più urgente dare risposta qui e oggi alle sofferenze dei milioni di persone che stanno subendo il peso della pandemia. Non c’è dubbio, ma posto che le due cose non sono in alternativa, resto del parere che in questo momento ND svolgerebbe un ruolo più utile in quanto associazione politico culturale (penso a esempi come Marx 21 e Città Futura) piuttosto che come uno dei tanti micro gruppi che nutrono la velleità di agire come nucleo fondativo di un nuovo movimento, se non addirittura di un nuovo partito. Anche perché, per dirla con Gramsci, mi pare che la fase attuale sia tale per cui servono strumenti per affrontare una lunga e paziente guerra di posizione piuttosto che per una guerra di movimento.