Lettori fissi

mercoledì 24 marzo 2021



IL CONCETTO DI NAZIONE. OVVERO, UNA PATATA BOLLENTE PER IL MARXISMO 



Spulciando il catalogo online de El Viejo Topo  https://www.elviejotopo.com/  editore storico della sinistra iberica (al quale devo due edizioni di altrettanti miei saggi e la conoscenza di importanti materiali teorici in lingua spagnola), mi sono imbattuto in un titolo che ha catturato la mia attenzione: La base material de la nación. El concepto de nación en Marx y Engels, di Carlos Barros (dal profilo biografico dell’autore ho appurato che si tratta di uno storico medievista, fra i fondatori del partito comunista galiziano e membro del comitato centrale del PCE). 

A intrigarmi, ancor più dell’argomento scottante (la questione nazionale è sempre stata fonte di problemi irrisolti e di conflitti teorici e ideologici in campo marxista), è stato il sottotitolo, il quale, come mi è stato confermato da un breve video di presentazione del libro registrato dall’autore, allude all’esistenza di un discorso sistematico e coerente, se non di una vera e propria teoria, dei due fondatori del materialismo storico sull’argomento in questione. La cosa mi è parsa sorprendente, non essendo a conoscenza di scritti di Marx ed Engels dedicati alla questione nazionale di peso e dimensioni paragonabili a quelli di altri mostri sacri del pensiero socialcomunista, Lenin su tutti (1). 

Tuttavia, dopo avere acquistato e letto l’e.book di Barros, ho avuto conferma che il mio difetto di informazione non è frutto di disattenzione o ignoranza: effettivamente Marx ed Engels non hanno scritto nulla di sistematico sul concetto di nazione. Eppure Barros, a compimento di un minuzioso  lavoro di ricerca su una massiccia mole di materiali, non solo navigando fra le pagine delle opere più conosciute, ma anche fra quelle di numerosi testi minori e di occasione (soprattutto articoli di giornale e lettere) in cui due autori affrontano il tema, è convinto di essere riuscito, non solo a dimostrare che in Marx ed Engels esiste una vera e propria teoria della nazione, ma anche che essi ci forniscono un metodo di analisi che resta tuttora valido, benché l’attuale contesto storico, sociale, economico e geopolitico appaia assai lontano da quello del secolo XIX. 

In che misura la sua convinzione è giustificata? Come cercherò di dimostrare nelle pagine seguenti, resto del parere che l’immagine che emerge dal mosaico pazientemente ricostruito da Barros è difficilmente descrivibile come una coerente costruzione teorica, e nutro seri dubbi anche sul fatto che possa offrirci un insegnamento metodologico in grado di sciogliere i nodi complessi e aggrovigliati che ci consegna l’attuale scenario geopolitico. Al tempo stesso, cercherò di mettere in luce come dallo scrupoloso lavoro di ricerca di Barros emergano una serie di riflessioni che aiutano a fare piazza pulita dei luoghi comuni che infestano, sia il marxismo volgare e meccanicista, sia le narrazioni ideologiche di quei movimenti di sinistra che liquidano la realtà nazionale come un fenomeno meramente sovrastrutturale, negandogli consistenza ontologica.

Prendo le mosse da quest’ultimo aspetto. Marx, scrive Barros, era consapevole che la società concreta è nazionale. Il punto è cruciale, in quanto consente di liquidare le astrazioni (frutto di idealismo puro) che analizzano la concreta realtà capitalista di questo o quel Paese a partire da modelli idealtipici “universali”, applicabili indifferentemente a qualsiasi contesto nazionale, ignorando quindi il concreto percorso storico sociale e culturale attraverso il quale una determinata borghesia arriva a costituirsi come classe. Nel suo sforzo di “costruire un concetto materialista di nazione”, Barros contrappone a questo approccio, che si fonda esclusivamente sul concetto astratto di modo di produzione, quei passaggi in cui Marx parla di “condizioni nazionali di produzione”, facendo riferimento a tre fattori interconnessi – condizioni economiche, naturali e storiche (società, politica e cultura) – sia in relazione alla produzione nazionale che alla comunità nazionale.  In questo modo, l’attenzione si concentra in primo luogo sulla base materiale e storica della nazione, per cui il nazionale si presenta come un tipo di totalità concreta, in cui gli elementi soggettivi e oggettivi si intrecciano in modo specifico per ogni singolo caso.

Borghesia e nazione nascono assieme, argomenta Barros, citando sia Engels, laddove scrive che in nessun paese si dà dominio della borghesia in assenza di indipendenza nazionale, sia Marx, allorché pone alle radici del processo nazionale la volontà politica della borghesia commerciale, la quale, fin dalla fase mercantilista, è cosciente del fatto che i suoi interessi si fondano sulla potenza della nazione. Ma ciò implica il riconoscimento che anche il proletariato può costituirsi come classe solo se e nella misura in cui riesce ad elevarsi a classe nazionale (come si dice nel Manifesto, aggiungo io, benché la lettura ortodossa abbia costantemente rimosso questo aspetto, limitandosi a estrarre da questo testo fondativo lo slogan “il proletariato non ha nazione”).  

Sono quindi del tutto d’accordo con Barros, laddove richiama l’attenzione sul fatto che i marxisti hanno quasi sempre sottostimato l’elemento nazionale come fattore di coesione del corpo sociale, riducendolo a un fenomeno meramente sovrastrutturale, “illusorio”, al prodotto esclusivo della dominazione borghese. La nazione, replica Barros, non è qualcosa che cade dal cielo delle idee, una sovrastruttura ideologica, ma incarna un intreccio di vincoli  (interessi comuni, relazioni di mutua dipendenza, volontà generale, ecc.) che uniscono tutti gli individui di una data comunità. Dopodiché conclude che le radici di questo nesso social-nazionale affondano nelle relazioni economiche, per cui quest’ultimo è, in ultima istanza, un fatto economico. 

Anche quest’ultima affermazione mi vede concorde, ma solo a condizione che si chiarisca il senso della formula “in ultima istanza”. Nella sua opera matura (2), Lukacs pone ad esempio l’accento sull’aggettivo “ultima”, nel senso che, dal suo punto di vista, la determinazione dei complessi sovrastrutturali (politica, cultura, diritto, ideologie, ecc.) sì fa sempre più indiretta e meno cogente a mano a mano che progredisce lo sviluppo dell‘essere sociale. Non sono del tutto sicuro che lo stesso si possa dire di Barros, anche se è possibile che la mia limitata conoscenza dello spagnolo mi abbia impedito di cogliere tutte le sfumature del suo discorso. Ma prima di approfondire questo aspetto, vorrei motivare i miei dubbi in merito all’esistenza di una teoria marxiana della nazionalità e, soprattutto, sulla presunta attualità del metodo su cui essa si fonderebbe. 

Carlos Barros


A un certo punto, Barros osserva che, negli scritti da lui presi in considerazione (che non elenco perché sono decine e decine), Marx ed Engels usano nella stessa pagina termini come nazione, paese, popolo e patria come fossero sinonimi, “per evitare ripetizioni”, scrive. Aggiunge poi che in altri contesti la voce popolo/popolare è usata col senso (distinto da nazione e nazionale) di soggetto sociale o congiunto di classi dominanti; che nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti; che sia Marx che Engels condividono l’idea che le nazioni moderne si formano riunendo nazionalità diverse di origine precapitalista, generalmente medioevale; infine che normalmente Stato (potere pubblico, governo, amministrazione) si distingue da nazione intesa come società civile. 

Premesso che tanta variabilità semantica dei termini citati, mi pare che mal si concili  con la cassetta degli attrezzi di un dispositivo teorico coerente, provo a procedere per gradi. In  primo luogo, occorrerebbe verificare se l’intercambiabilità fra le parole nazione, paese, popolo e patria sia esclusivamente ascrivibile a un artificio stilistico (evitare ripetizioni nella stessa pagina) e non piuttosto a una carenza di definizione delle reciproche differenze concettuali (per inciso, aggiungo che dubbi analoghi nascono laddove Barros scrive che nei testi che prende in esame “nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti”). Barros se la cava suggerendo di usare come denominatore comune di tutte le varianti in questione la parola nazione perché si presta meno delle altre a confusioni terminologiche, ma è chiaro che in questo modo si sovrappone ai testi originali. Manipolazione motivata o arbitraria? Sospendo il giudizio perché occorrerebbe verificare caso per caso. Ma veniamo agli altri punti.  

La distinzione fra popolo e nazione è importante in quanto concorre a tracciare il confine che separa la visione marxista dell’elemento nazionale – secondo cui la nazione, scrive Barros,  è “un fatto storico in continua mutazione, non una costante inalterabile lungo i secoli” - da quella conservatrice e reazionaria che rinvia alle sue presunte radici metafisiche e metastoriche. Altrettanto importante ritengo la distinzione fra Stato e nazione intesa come società civile, soprattutto laddove Barros precisa che lo Stato – che per le correnti anarcocomuniste del marxismo è una “comunità illusoria” – è sì un elemento sovrastrutturale (anche se io preferisco parlare di costruzione politica, il che non è esattamente la stessa cosa) ma fondato sulla base reale di vincoli familiari, di lingua, divisione del lavoro e interessi di classe differenti in ogni conglomerato umano (e qui il riferimento è chiaramente all’Engels di Origini della famiglia, della proprietà privata e dello stato).  

Restando sul piano terminologico, va infine segnalata la contraddizione fra l’asserzione dell’assoluta storicità del processo nazionale e l’uso del concetto di nazione nei confronti di comunità storiche preborghesi (nazioni antiche, asiatiche, feudali ecc.) da parte di Marx ed Engels. Barros difende tale uso criticando le tesi di Samir Amin, secondo il quale la nazione moderna è un fatto squisitamente borghese, né avrebbe senso parlare di nazioni nell’Europa feudale. Qui mi schiero decisamente dalla parte di Samir Amin, perché ritengo che la visione di Marx, ma ancor più quella di Engels, contenga residui d’una logica hegeliana che induce a proiettare sulle forme sociali precapitalistiche i germi embrionali delle forme moderne, le quali appaiono così come il risultato di “leggi” immanenti al processo storico. Personalmente, ritengo che questi residui vadano superati adottando il punto di vista dell’ultimo Lukacs, il quale afferma che l’analisi scientifica della storia può identificare i nessi causali dei processi solo post festum, ricostruendone le determinazioni materiali (socio-economiche) senza trascurare i fattori contingenti, casuali e specifici di ogni singola realtà spazio temporale. 

Con questo siamo alle ragioni per cui, oltre a dubitare della possibilità di estrarre una teoria della nazione dagli scritti sparsi in cui Marx ed Engels si occupano del tema, dubito anche che questi ci consegnino un metodo per analizzarne le sfide attuali. A meno che il metodo in questione si riduca alla necessità di interrogarsi, ogniqualvolta ci si trovi di fronte a una concreta “questione nazionale”, su quale soluzione risponda meglio agli interessi delle classi subalterne coinvolte. Ma, se la risposta è questa, è evidente come le soluzioni appariranno le più diverse e contingenti in relazione ai concreti contesti economici, socioculturali, politici e geopolitici, ecc. Del resto, questo è proprio quanto emerge dalle posizioni assunte da Marx ed Engels in un contesto ottocentesco caratterizzato, fra i vari fenomeni, 1) dai processi di formazione di nuove entità nazionali per aggregazione di entità minori (Italia e Germania), 2) dai movimenti irredentisti di popoli europei colonizzati da altre nazioni europee (Irlanda, Polonia) o incorporati in imperi multietnici come l’austroungarico; 3) dalla resistenza di grandi nazioni asiatiche (India e Cina) alle aggressioni coloniali occidentali.

In questa cornice, come ricorda Barros, Marx ed Engels si interrogarono di volta in volta su chi appoggiare per dare vita a un nuovo Stato (anche assorbendo altre nazionalità), e risposero che occorreva sostenere i movimenti nazionali che più favorivano lo sviluppo delle forze produttive, accelerando la formazione della classe operaia e quindi le condizioni di una rivoluzione proletaria. In base a questo criterio sostennero in particolare l’irredentismo polacco e quello irlandese (3). Analizzando l’occupazione coloniale dell’India, Marx alimentò poi l’illusione – smentita dalla realtà storica – che essa avrebbe riscattato l’India dalla sua “arretratezza” (4) favorendone lo sviluppo industriale, civile e sociale. Infine Engels fu duramente contrario agli irredentismi slavi, sia perché li riteneva portatori di un’ideologia panslavista che li rendeva manovrabili dalla Russia zarista, rafforzandone il ruolo di gendarme d’Europa, sia perché avrebbero portato alla frammentazione dei Balcani in staterelli troppo piccoli per consentire un adeguato sviluppo delle forze produttive (vedi sopra), senza dimenticare la sua inclinazione verso sentimenti slavofobi non esenti da una sfumatura razzista (5). 

Posizioni eterogenee come si vede, ma soprattutto posizioni che non mi pare dicano molto oggi, dopo un secolo e mezzo di trasformazioni radicali sul piano economico, socioculturale e geopolitico. Ci divide dallo scenario che ispirò le riflessioni di Marx ed Engels il lungo ciclo di lotte di liberazione dei popoli coloniali e post coloniali dal giogo occidentale, lotte che hanno avuto il pieno sostegno dei Paesi socialisti sulla base di una riformulazione teorica dei rapporti fra lotta di classe e lotta fra nazioni (riformulazione che ha implicato il riconoscimento in linea di principio del diritto all’autodeterminazione dei popoli). Ci divide il fallimento delle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe avvenuta nei paesi industrialmente avanzati, laddove le sole rivoluzioni socialiste sono avvenute in paesi periferici e semiperiferici, ad opera di classi operaie in formazione alleate con le masse contadine. Ci divide la sconfitta del proletariato occidentale generata dalla rivoluzione liberale e dal processo di globalizzazione successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Ci divide l’attuale crisi dello stesso processo di globalizzazione e il prepotente ritorno di uno stato nazione dato per morto e sepolto, mentre riprendono i conflitti interimperialistici e la guerra fredda fra occidente capitalistico e Cina socialista. 

Se già ai tempi di Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un “separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!) mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere conto - in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non quello dello sviluppo delle forze produttive.   

Note

(1) Cfr. V. I. Lenin, L’Europa arretrata e l’Asia avanzata. Sul diritto delle nazioni all’autodecisione; vedi anche L’imperialismo come fase suprema del capitalismo; vedi infine Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in Opere scelte (2 voll.), Edizioni in lingue estere, Mosca 1947/48.  

(2) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, (4 voll.) PGRECO; Milano 2012.

(3) Barros ricorda che Marx cambiò radicalmente posizione sulla questione irlandese, scrivendo di avere a lungo pensato che l’Irlanda si sarebbe potuta liberare solo dopo il trionfo della classe operaia inglese, ma di avere finito per convincersi che, al contrario, la classe operaia inglese si sarebbe liberata solo dopo la liberazione dell’Irlanda. Questa autocritica è cruciale sia perché segna la fine della fiducia “ingenua” di Marx sulla vocazione “naturalmente” rivoluzionaria del proletariato, sia perché coincide con la sua presa di consapevolezza del ruolo soporifero del colonialismo nei confronti della coscienza operaia. In merito Barros ricorda che Marx a chi gli chiedeva cosa pensassero gli operai inglesi della politica coloniale rispondeva “lo stesso che pensano della politica in generale, cioè quello che pensano i borghesi”, e che questo avveniva in quanto “partecipano allegramente al festino del monopolio inglese sul mercato mondiale e coloniale”. 

(4) In merito ai pregiudizi eurocentrici che Marx ed Engels manifestavano nei confronti delle civiltà asiatiche vedi quanto ho scritto in un  altro post di questo blog  https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html dedicato all’antologia di scritti dei due fondatori del materialismo storico India, Cina, Russia (il Saggiatore, Milano 1960).

(5) A esprimere giudizi particolarmente duri su certe gaffe razziste di Engels è Hosea Jaffe in Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007.

(6) Cfr. M. Monereo, H. Illueca, Por un nuevo proyecto de Pais, El Viejo Topo, Barcellona 2018; vedi anche M. Monereo, Oligarquía o Democracia. España, nuestro futuro, El Viejo Topo, Barcellona 2020.      

     

    


    

venerdì 19 marzo 2021

GLOSSE ALL’ “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI LUKACS (II) 



La pubblicazione delle mie Glosse alla "Ontologia" di Gyorgy Lukacs prosegue con questa seconda puntata che raggruppa la seconda e la terza sezione tematica. 

 2. Critica del materialismo meccanicista 

La critica delle interpretazioni meccaniciste e deterministe del pensiero di Marx è un filo rosso che attraversa tutta l’Ontologia, per cui lo ritroveremo in tutte le sezioni in cui sono articolate queste Glosse. In questa seconda sezione, tuttavia, intendo concentrare l’attenzione soprattutto su due aspetti: 1) il modo in cui, nel pensiero di Lukacs, il principio della determinazione (in ultima istanza!) della coscienza da parte del fattore economico si associa all’affermazione della (relativa!) libertà del fattore soggettivo ; 2) la critica della feticizzazione oggettivistica della tecnica. 

Parto da un passaggio particolarmente illuminante per quanto riguarda il primo punto: il metodo dialettico, scrive Lukacs, riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico <<per legge>> dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante (vol. II, pp. 290/91). Il passaggio è denso e ricco di aspetti degni di rilievo. In primo luogo, l’affermazione secondo cui economico ed extraeconomico si convertono di continuo l’uno nell’altro, fa eco alla concezione dell’essere sociale come complesso di complessi descritta nella prima sezione: nessuna dimensione dell’essere sociale è separata dalle altre da un confine rigido, per cui il gioco dialettico delle interazioni reciproche è continuo, e soprattutto non è mai unidirezionale, nel senso che nessuna dimensione condiziona le altre senza venirne a sua volta condizionata. Dopodiché questo complesso gioco di interazioni reciproche non giustifica la visione di un processo storico privo di determinazioni causali, di “leggi” (anche se sappiamo, vedi quanto esposto nella prima sezione, che queste leggi non hanno nulla a che vedere con quelle che governano i processi naturali, dal momento che i loro nessi causali sono ricostruibili solo post festum). Infine ci viene detto che alle “rigide leggi dell’economia” (che sono tali solo nel contesto dell’economico inteso come pura astrazione) spetta la funzione di momento soverchiante. 

Il modo in cui l’economico svolge tale funzione richiede tuttavia approfondimento. In effetti, Marx non sostiene che l’economia determina la coscienza, sostiene piuttosto che “non è la coscienza degli uomini che determina l’essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, dove il mondo delle forme di coscienza e dei loro contenuti, commenta Lukacs subito dopo la citazione, non è visto come prodotto direttamente dalla struttura economica, ma dalla totalità dell’essere sociale (vol. II, p. 288). In altre parole, la funzione soverchiante dell’economico si esercita in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell’essere sociale (totalità di cui fanno parte sia l’economico che l’extraeconomico). 

 Lukacs chiarisce ulteriormente il senso di quest’ultima affermazione laddove ragiona sulle potenzialità emancipative del processo di sviluppo economico in quanto presupposto della liberazione dell’umanità dal regno della necessità: Il processo in quanto tale, però, dal punto di vista ontologico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità (vol. IV, p. 511). 

La relativa libertà che la filosofia della prassi concede all’agire soggettivo consiste dunque in una relazione che si configura come la facoltà di decidere in un campo di alternative predefinite. Questa formulazione non offre spazio né a una sottovalutazione della libertà del fattore soggettivo né a una sottovalutazione della forza vincolante del fattore oggettivo, come ben chiarisce il seguente passaggio: La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre  <<solo>> la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai (vol. I, p. 325). Da un lato, le virgolette che racchiudono – quasi ironicamente – quel solo stanno a significare che è più che giustificato definire “soverchiante” il potere di condizionamento dell’economico, nella misura in cui limita il campo delle alternative possibili; dall’altro lato, Lukacs evidenzia come la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, appaia smisurata ove paragonata alla rigida legalità dei processi naturali. Attenzione però: questa libertà di decisione, tanto limitata in termini di alternative concrete, quanto pregna di sviluppi inediti, non può essere imputata a un soggetto trascendentale, perché vale sempre il detto marxiano non sanno di far ciò ma lo fanno, o per dirlo con le parole di Lukacs, L’agire sociale, l’agire economico degli uomini dà via libera a forze, tendenze, oggettività, strutture, ecc. che certo nascono esclusivamente ad opera della prassi umana, ma il cui carattere resta in tutto o in gran parte incomprensibile per chi le ha prodotte (vol. II, p. 298). 

Delle implicazioni di quest’ultima affermazione ci occuperemo soprattutto nella sezione “Ideologia e lotta di classe”. Veniamo ora alla critica della feticizzazione della tecnica. Lukacs attribuisce questa tendenza, fra gli altri, a Bukharin, che accusa di avere indicato nella tecnica l’elemento fondamentale dell’economia (cfr. vol. III, p. 341), tuttavia ribadisce a più riprese che non è lui l’unico autore in capo marxista a commettere questo errore: è accaduto e accade spesso anche all’interno del marxismo, scrive, che i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fra uomini, ma sono invece feticizzati, <<reificati>> - ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma (vol. II, p. 316). Questa concezione, che già si era diffusa durante le prime due rivoluzioni industriali – e alla cui diffusione lo stesso Marx ha involontariamente contribuito con le sue ammirate descrizioni della potenza produttiva del macchinismo della grande industria (1) – ha ricevuto ulteriore impulso con la rivoluzione digitale che, come vedremo nelle “Glosse” a questa sezione, ha generato una vera e propria esplosione di entusiasmo tecnofilo in certi ambienti delle sinistre radicali. 

La conseguenza più grave di queste deviazioni ideologiche è la perdita di consapevolezza della complessità dei molteplici fattori che convergono nel concetto di forze produttive. Lukacs estende questa riflessione anche nelle pagine in cui ragiona sulla sopravvalutazione del ruolo della tecnologia militare nella storia: Da un punto di vista generale in tutti questi casi abbiamo che – entro determinati confini prescritti dall’intera struttura economico-sociale – la difesa dell’esistenza, le tendenze espansive prodotte dall’economia, ecc. fanno diventare realtà talune possibilità che nel processo riproduttivo normale sarebbero rimaste possibilità. E proprio qui sarebbe molto pericoloso lasciarsi andare al feticismo della tecnica. Esattamente come nell’economia stessa la tecnica è una parte importante, ma sempre derivata, dello sviluppo delle forze produttive, e anzitutto degli uomini (il lavoro) e delle relazioni interumane (divisione del lavoro, stratificazione di classe, ecc.), così anche le categorie militari specifiche, come tattica e strategie, non derivano dalla tecnica ma da rivolgimenti che intervengono nelle fondamentali relazioni economico-sociali tra gli uomini (vol. III, pp. 238/39). 

A prescindere dal contesto del discorso (il rapporto fra storia e economico-sociale e storia militare), il punto è chiarissimo: le forze produttive – e a maggior ragione l’economia in generale - non sono mai riducibili alla tecnica, nella misura in cui rispecchiano l’intera complessità delle relazioni interne all’essere sociale. L’economia e la tecnica sono bensì, nello sviluppo del lavoro, in uno stato di coesistenza indissociabile, hanno continue interrelazioni fra loro, ma questo fatto non ne sopprime la eterogeneità, che si manifesta (…) nella dialettica contraddittoria fra fine e mezzo (vol.III, p. 43) - contraddizione che abbiamo già evidenziato in quel passaggio, citato nella prima sezione, in cui Lukacs punta il dito contro il feticismo associato all’inversione gerarchica nella relazione fine-mezzo. 




Glosse alla seconda sezione 

La descrizione che Lukacs fa delle interazioni fra economico ed extraeconomico o - se si preferisce seguire la classica contrapposizione – fra struttura e sovrastruttura, fa piazza pulita di tutte le letture “crolliste” della fine del modo di produzione capitalista. Tipica, in questo senso, la tesi secondo cui la caduta tendenziale del saggio del profitto destinerebbe necessariamente il capitalismo all’estinzione (tesi che, per inciso, ignora l’esistenza di controtendenze alla caduta tendenziale evidenziate da Marx). 

Ma il punto di vista di Lukacs consente di liquidare anche tutte quelle visioni “oggettivistiche” che, a ogni crisi, rilanciano la diagnosi secondo cui il capitalismo starebbe vivendo la sua “fase terminale”, un approccio che Giorgio Ruffolo ha criticato con l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati” (2). La verità è che, come aveva ben compreso Lenin, le premesse di un superamento del capitalismo si danno solo quando le classi dirigenti non appaiono più in grado di conservare/difendere lo status quo, vale a dire quando la crisi trascende la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e culturale (crisi di egemonia in senso gramsciano), quando, cioè, coinvolge la totalità dell’essere sociale (non a caso, come abbiamo appena visto, Lukacs chiarisce che l’economico può svolgere il ruolo di fattore determinante nei confronti degli altri complessi sociali esclusivamente attraverso la mediazione della totalità sistemica che abbraccia sia la struttura che la sovrastruttura). 




Altrettanto efficace appare il punto di vista di Lukacs in quanto arma critica nei confronti delle torsioni soggettiviste del discorso marxiano, la più significativa delle quali è quell’ideologia operaista e post operaista che ha svolto un ruolo significativo, se non egemonico, nei confronti dei movimenti dell’ultimo mezzo secolo, a partire dalle teorizzazioni ospitate dalla storica rivista Quaderni rossi (3). La peculiarità di questa scuola teorica, consiste nell’aver sviluppato un punto di vista in cui il soggettivismo che convive con l’esaltazione oggettivista del fattore economico – un paradosso che si spiega con il fatto che quest’ultimo viene sostanzialmente identificato con le tecniche produttive. Infatti è alla particolare organizzazione del lavoro fondato sulle tecnologie produttive fordiste, che si attribuisce il merito di avere favorito la nascita di uno strato di classe – l’operaio massa incatenato alla catena di montaggio – capace di sviluppare spontaneamente una coscienza antagonistica nei confronti del capitale. 

In altre parole, l’inestricabile intreccio fra economico ed extraeconomico che Lukacs proietta nell’essere sociale in quanto totalità, per il paradigma operaista si realizza all’interno stesso del processo produttivo, la coscienza rivoluzionaria appare quindi come una scaturigine spontanea, immanente alla stessa produzione capitalistica. Di qui la tesi di Tronti (4) secondo cui la nuova classe operaia non ha più bisogno del partito come strumento di una coscienza rivoluzionaria che le viene inoculata dall’esterno (cioè dal campo totale delle relazioni politiche e sociali, secondo la visione di Lenin (5) ), dal momento che ora è lei stessa il partito, in quanto esprime direttamente e spontaneamente tale coscienza. Viene così a mancare del tutto la consapevolezza del fatto che, per quanto duramente conflittuali, certi comportamenti di classe rappresentano una prassi che resta – per usare le parole di Lukacs – in tutto o in gran parte incomprensibile ai loro stessi protagonisti. Consapevolezza che Tronti riacquisterà in un secondo tempo, autocriticando le sue tesi originarie e riaffermando il principio della “autonomia del politico” (6), riconoscendo cioè che l’interdipendenza fra economico ed extraeconomico non mette in questione i reciproci margini di libertà dei due ambiti. 




Accennavo poco sopra alla riduzione dell’economico alle tecniche produttive. Questa tendenza dell’operaismo (condivisa da altri intellettuali marxisti) è sopravvissuta alla transizione dalla produzione fordista alla produzione postfordista, e si ulteriormente rafforzata con l’avvento delle tecnologie digitali. Un ruolo fondamentale ha svolto in tal senso una certa lettura del celebre “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse, laddove lo stesso Marx, come ricordavo in precedenza, si è abbandonato alla fascinazione della potenza produttiva del general intellect, cioè della potenza produttiva incorporata nel sistema delle macchine della grande industria capitalistica. 

In quelle pagine (7) Marx ipotizzava che, raggiunto un determinato livello di sviluppo tecnologico, tale da determinare un formidabile salto qualitativo della produttività del lavoro sociale, la legge del valore-lavoro non sarebbe stata più in grado di regolare l’economia, né tanto meno l’insieme dei rapporti sociali. I tecnoentusiasti di sinistra (nei quali Lukacs avrebbe probabilmente riconosciuto dei nipotini di Bukharin – vedi sopra) hanno elevato a dogma questa profezia marxiana, intravedendo le condizioni del suo inveramento nelle narrazioni dei guru della New Economy negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila. 

Costoro – una variopinta comunità di hacker dell’hardware e del software, ricercatori dei dipartimenti universitari di informatica, fondatori di startup, giornalisti specializzati, futurologi, ecc. – annunciavano l’avvento di un imminente futuro in cui 1) le startup, grazie alla rapidità di innovazione e alla libertà dai rigidi vincoli imposti dai grandi investimenti in capitale fisso e forza lavoro, avrebbero sbaragliato la concorrenza dei vecchi monopoli high tech; 2) i lavoratori della conoscenza, abituati alla cooperazione spontanea e alla condivisione di informazioni e conoscenze, si sarebbero emancipati dal comando capitalistico sviluppando nuove forme di produzione di beni comuni svincolate dal mercato (8); 3) tutti questi soggetti non avrebbero solo dato vita a una nuova forma di democrazia economica, ma si sarebbero progressivamente liberati anche dal controllo politico dello Stato, inventando nuove forme di aggregazione sociale di tipo orizzontale (9). 

 A sinistra, questa utopia anarco capitalista è stata tradotta in progetto “benecomunista” dai movimenti libertari eredi del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, i quali hanno rimpiazzato l’operaio massa con i lavoratori creativi nel ruolo di portatori di una coscienza politica spontaneamente anticapitalista. In entrambi i casi, l’agente di questo miracolo della transustanziazione è un soggetto immanente a un fattore economico che, da un lato viene appiattito sulla tecnica, dall’altro viene accreditato della capacità di fungere da incubatore di una coscienza politica spontaneamente antagonista e tendenzialmente egemonica (10) . Gli sviluppi successivi alla crisi dei titoli tecnologici dei primi anni del Duemila sono noti: formidabile concentrazione monopolistica della New Economy, con conseguente subordinazione/marginalizzazione dei progetti “alternativi”; cooptazione degli strati superiori dei knowledge workers nel sistema di comando, controllo e sfruttamento degli strati inferiori della forza lavoro (e contestuale proletarizzazione degli strati inferiori); integrazione fra industrie high tech e colossi della finanza in un complesso capace di accelerare mostruosamente la “guerra di classe dall’alto” (11) contro le classi subalterne. Così quella “dialettica contraddittoria fra fine e mezzo” nella quale Lukacs inquadra il rapporto fra economia e tecnica si è presa la sua rivincita sui sogni neo proudhoniani di una certa sinistra. 

Note 

(1) Cfr. il “Frammento sulle macchine”, che si trova nella parte conclusiva dei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970). 

(2). G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008. 

(3) La ristampa integrale dei “Quaderni rossi” curata dalle Edizioni Sapere nel 1970 è oggi introvabile, ma in Rete se ne possono scaricare ampi stralci in versione pdf. 

(4) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. 

(5) Cfr. Che fare, vedi anche Stato e rivoluzione, in V. I. Lenin, Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca 1947. 

(6) Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009. 

(7) vedi nota (1) 

(8) La formulazione più organica e coerente di questa profezia si trova in Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007. 

(9) Delle narrazioni sulla presunta vocazione democratica e libertaria della Rete mi sono occupato in varie occasioni. Vedi, in particolare il mio Cybersoviet, Cortina, Milano 2008. 

(10) Ho analizzato criticamente queste posizioni in diversi lavori. Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011, e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(11) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012. 




3. Se…allora. Storia e necessità 

Abbiamo già evidenziato l’atteggiamento critico di Lukacs nei confronti dei tentativi di depurare Marx degli “orpelli” filosofici, salvando solo le parti “scientifiche” del suo pensiero (1) (ridotte sostanzialmente alla critica dell’economia politica). Contro questa concezione, Lukacs ribadisce a più riprese che Marx riconosce una sola scienza, quella della storia, che investe sia la natura che il mondo degli uomini (vol. II, pp. 264/65), e, in un altro passaggio, particolarmente significativo, rafforza questa affermazione scrivendo che la questione fondamentale della teoria marxiana è la storia come principio fondamentale di ogni essere. In termini generali e precisi esso venne enunciato da Marx già molto presto (nell’Ideologia tedesca), ma di fatto è il principio che dall’inizio alla fine domina le sue argomentazioni sull’essere (vol. I, pp. 234/35). Parimenti abbiamo già evidenziato il principio che deriva dall’imprevedibilità del processo storico – principio che distingue la forma delle sue “leggi” da quelle delle scienze naturali - riassumibile nell’assunto per cui la sola conoscenza veramente scientifica, dal punto di vista marxiano, è post festum

La domanda è: ciò significa che non è possibile attribuire al processo storico alcun tipo di legalità? Dai due seguenti passaggi vedremo che non è questo ciò che Lukacs vuol dire con le affermazioni sopra citate. Per Marx, scrive Lukacs, le leggi economiche oggettive hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di <<se...allora>>. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto, tuttavia, non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete <<se...allora>> (vol. IV, p. 344). Il carattere post festum di queste ultime, insomma, non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, Questi ultimi, tuttavia, si esplicitano nell’essere processuale, non <<come grandi bronzee leggi eterne>>, che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, <<atemporale>>, ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce (vol. I, p. 308). 

L’ultimo passaggio è di chiarezza cristallina, e consente di afferrare pienamente il senso di tutto quanto siamo venuti fin qui affermando nel seguire passo passo i ragionamenti di Lukacs: la scientificità del discorso marxiano è ascrivibile esclusivamente alla sua capacità di afferrare i nessi storici che innervano lo sviluppo della totalità dell’essere sociale (e non solo delle sue componenti economiche!) e di descrivere le catene causali che essi mettono in moto, senza elevarle a “leggi bronzee eterne”, ma anche senza ridurle a meri idealtipi, a puri modelli conoscitivi (2). Come ora vedremo, assumere tale punto di vista implica il superamento di qualsiasi attribuzione di finalità immanenti al processo storico. 

Naturalmente a Lukacs non sfugge come la cultura marxista non sia esente dalla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Il fatto che lo sviluppo della storia europea sembra presentare una successione di tappe apparentemente ordinate verso il “progresso” (3) (come vedremo, per Lukacs il senso di questo termine non è privo di elementi problematici) suggerisce la possibilità che esso sia direzionato da un qualche fattore teleologico, ma Lukacs scrive che occorre tenersi ben lontani da simili rappresentazioni e aggiunge che ciò va sottolineato proprio perché simili tendenze aleggiano anche negli atteggiamenti di taluni marxisti, secondo cui, per esempio, il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo, porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico) (vol. III, p. 300). Contro questa tendenza va ribadito fermamente che non esistono processi teleologici: la posizione teleologica (cioè l’agire finalizzato. Ndr) è bensì in grado, ponendo praticamente il fine e i mezzi (ricordiamo che per Lukacs il modello cui si rifanno tutte le posizioni teleologiche è il lavoro – vedi sezione I), di modificare largamente i processi causali messi in movimento, ma non di trasformare il carattere causale di questo movimento. Esistono, appunto, solo processi causali, quelli teleologici semplicemente non esistono (vol. I, p. 201). Le concezioni della storia che attribuiscono priorità all’azione intenzionale del soggetto, da un lato, ignorano il fatto che le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto (vol. IV, p. 347), dall’altro approdano inevitabilmente a un qualche tipo di irrazionalismo trascendente, se non di vero e proprio profetismo religioso (ritroveremo questo tema nelle prossime sezioni), nella misura in cui da un soggetto isolato, basato su se stesso, non è possibile far derivare un comportamento consapevolmente attivo, pratico, verso la realtà, senza un aiuto trascendente (vol. I, p. 179). 

In conclusione, la concezione teleologica della storia (al pari di quella della natura) implica che il suo procedere sia indirizzato/guidato da un attore consapevole, e il suo successo nasce dal fatto che svolge una funzione consolatoria, ci protegge cioè dall’orrore dell’insensatezza: quel che fa nascere queste concezioni del mondo non solo nei filistei facitori di teodicee del secolo XVII, ma anche in pensatori lucidi e profondi come Aristotele e Hegel, è un bisogno umano elementare e primordiale: il bisogno che l’esistenza, il corso del mondo, giù giù fino ai fatti della vita individuale – e questi in primo luogo – abbiano un senso (vol. III, p,.20). 

Può il concetto di progresso sopravvivere a questa negazione dell’esistenza di qualsiasi fattore teleologico immanente al processo storico? La risposta di Lukacs a tale dilemma (come vedremo nell’ultima sezione) non è scevra da una certa ambiguità - un’ambiguità che si rispecchia nella seguente affermazione Noi parliamo di progresso in senso oggettivo-ontologico e non in senso valutativo (vol. III, p. 154). È verosimile che per progresso in senso oggettivo-ontologico qui si intenda l’evoluzione dell’essere sociale, la quale, al pari dell’evoluzione biologica, non dovrebbe implicare alcun giudizio di valore. In realtà, e lo vedremo laddove Lukacs ragiona sulla prospettiva della transizione dal capitalismo al socialismo, questa distinzione non è facile da mantenere, nella misura in cui il giudizio di valore fa capolino nel momento stesso in cui viene evocato il termine di progresso.

Ciò detto, è innegabile che Lukacs, in varie parti dell’Ontologia, svolga una rigorosa critica dell’ideologia progressista. Il processo della storia, scrive nei “Prolegomeni”, è causale, non teleologico, è multistrato, mai unilaterale, semplicemente rettilineo, è sempre una tendenza evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei complessi ogni volta attivi. Gli indirizzi che in tal modo si presentano nelle trasformazioni non devono perciò mai essere subito giudicati come progresso o come regresso (vol. I, p. 35). E ancora più chiaro appare il seguente passaggio: La irreversibilità dei processi (…) non ha nulla a che vedere né con le ideologie del tipo <<irresistibilità del progresso>> (qui il dito è implicitamente puntato sia nei confronti del progressismo liberal borghese sia nei confronti del progressismo del marxismo volgare), né con quelle che, per occultare le necessarie conseguenze del processo, parlano di <<fine della storia>>, di storia come ciclo, ecc. con un ritorno, più o meno apertamente confesso, al passato (vol. I, p. 107) (qui il bersaglio sono invece le filosofie dell’ "eterno ritorno dell'eguale", tuttavia, come vedremo nelle Glosse a questa e alla quinta sezione, anche certi aspetti dell’utopia marxiana potrebbero finire sotto tiro, anche se questa non è l’intenzione di Lukacs). 

Particolarmente significativa appare la critica di Lukacs nei confronti delle “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”, le quali, scrive, sono teoricamente impotenti di fronte alla coazione economico-sociale con cui forme nuove e – anche quanto al grado – più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle invecchiate (vol. IV, p. 650) . La trappola in cui cadono le concezioni in questione, nella misura in cui fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche in qualche misura sufficiente, dell’emancipazione umana, nasce ancora una volta dall’appiattimento dell’essere sociale sulla dimensione economica (e di quest’ultima sulla tecnica): lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma – e qui emerge plasticamente il problema dell’estraniazione – lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana (vol. IV, p. 562). 

Nelle parti conclusive dell’opera che stiamo discutendo, in cui esamina, fra gli altri, i concetti di alienazione, reificazione ed estraniazione, la preoccupazione di Lukacs non è molto lontana, come vedremo da quella degli autori della Scuola di Francoforte (4), i quali, in quegli anni (ricordiamo che Lukacs scrive queste pagine negli anni 60/70) concentrano l’attenzione sulle mutazioni antropologiche indotte dal consumismo e dall’industria culturale e sulla loro proprietà di abbassare il livello di coscienza politica delle masse e neutralizzare il conflitto sociale. Così, contro gli illusionisti del (ma rivolto anche agli illusi dal) progresso, Lukacs ricorda che lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana (vol. IV, p. 649). I “progressi” economico sociali disgregano certamente vecchie forme di reificazione ma, al tempo stesso ne formano di nuove, ammodernate, ben funzionanti (vol. IV, p. 670). 

Horkheimer e Adorno



Glosse alla terza sezione 

Rivendicando la concezione storico-filosofica delle leggi di sviluppo dell’essere sociale, Lukacs si pone agli antipodi di tutti quegli intellettuali marxisti – perlopiù appartenenti alla corporazione accademica degli economisti – che hanno progressivamente abbandonato il punto di vista marxiano della critica dell’economia politica per sposare quello dell’economia politica intesa come “scienza” tout court (non di rado elevata alla dignità di scienza pura e dura, in opposizione alle scienze sociali). Conseguenze di tale scelta sono: da un lato, la pretesa di competere con gli economisti borghesi sul terreno della definizione delle leggi di funzionamento dell’economia - rappresentate come indipendenti/autonome dalle altre determinazioni dell’essere sociale (diritto, politica, cultura, ecc.) -; dall’altro lato, il crescente condizionamento delle scelte politiche di partiti e sindacati di sinistra da parte dei vincoli “oggettivi” associati a presunte leggi economiche. 

Allargando la prospettiva dalle leggi economiche alle leggi di sviluppo dell’essere sociale in quanto totalità, la forma delle quali, come si è visto, viene sintetizzata da Lukacs con la formula <<se...allora>>, vale a dire con il concetto di “campo di possibilità”, è interessante notare come sia lo stesso Marx a contestare le interpretazioni che gli attribuiscono l’intenzione di formulare le “bronzee leggi eterne” della storia umana, allorché replica alla recensione critica che l’economista Zukowski aveva dedicato all’edizione russa del Capitale con le seguenti parole: “Zukowski sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria teorico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto”. Subito dopo, per chiarire il senso di quest’ultima affermazione, ricorre all’esempio dei piccoli contadini liberi dell’antica Roma: costoro, dopo essere stati espropriati dei loro pezzetti di terra, non divennero salariati ma “plebaglia fannullona”, mentre, nel contempo, veniva sviluppandosi il modo di produzione bastato sulla schiavitù, non quello capitalistico, benché, in teoria, non sarebbero mancate le condizioni affinché ciò potesse avvenire; quindi conclude:” eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambiti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto diversi” (5). 

Veniamo alla critica del progressismo. Ho già sottolineato come Lukacs non sia esente da una certa ambiguità sul tema - ambiguità che approfondiremo nella sezione dedicata ai temi dell’utopia socialista, ma che nei brani analizzati in questa sezione resta sullo sfondo, soverchiata dalla radicale condanna nei confronti di tutti i cedimenti nei confronti delle concezioni teleologiche del processo storico. In particolare, ritengo significativi i passaggi in cui viene messa in luce l’inspirazione mistico/trascendente che aleggia in tali visioni, anche quando associata a ideologie rivoluzionarie. Non è un caso se il marxismo è stato spesso accusato di “profetismo” (6), anche se non va dimenticato il fatto che la tendenza ad assumere una certa coloritura “salvifica” non manca mai nelle narrazioni dei progetti politici di emancipazione, né va trascurata la funzione positiva che essa può svolgere in quanto mito fondativo (torneremo sul tema nella prossima sezione dedicata al ruolo dell’ideologia). 

Un altro argomento cui Lukacs ricorre spesso nella sua denuncia del carattere illusorio dei miti progressisti, prende le mosse dagli inevitabili effetti controintuitivi associati all’agire orientato allo scopo. Il punto appare complesso e problematico. La sua critica al volontarismo soggettivistico (deviazione che Lukacs attribuisce in particolare all’ideologia stalinista, e che si alimenta della convinzione che il proprio agire sia giustificato dalla necessità storica) rischia infatti di alimentare un errore di segno opposto. Si è detto che la visione lukacsiana dell’essere sociale come “complesso di complessi” presenta una certa analogia con la teoria sistemica di Luhmann (7), il quale descrive il sistema sociale come un insieme complesso di sottosistemi. Ebbene: uno dei rischi della teoria della complessità è che, a partire dalla tesi secondo cui gli esiti delle interazioni reciproche fra sistemi, e fra sistemi ed ambiente, sono per definizione imprevedibili, si arriva a sostenere che qualsiasi progetto politico di trasformazione/manipolazione dei meccanismi sistemici – tanto più quanto più radicale e ambizioso – è a priori votato allo scacco (a causa appunto degli effetti controintuitivi che inevitabilmente innesca). 

 Ho la sensazione che Lukacs non tematizzi a sufficienza questo rischio (o forse lo risolve in un modo che mi è sfuggito). Personalmente ritengo che la dialettica fra progetto politico (che rappresenta la quint’essenza del porre teleologico) e ambiente socioeconomico, vada gestita nel modo più pragmatico possibile, accantonando i principi dogmatici e ricorrendo piuttosto alla ricerca di soluzioni attraverso la sperimentazione per tentativi ed errori. Per esempio, sono convinto che l’esperimento socialista cinese abbia avuto più fortuna di quello sovietico – fra i vari motivi – anche e soprattutto per aver adottato una concezione più flessibile e pragmatica della pianificazione (8). 

Meno interessanti, in quanto più scontate, mi paiono le considerazioni che Lukacs dedica alle critiche conservatrici al concetto di progresso (nei brani che ho selezionato per questa sezione emergono evidenti allusioni a Nietzsche e ai suoi emuli, come segnala il riferimento alle concezioni cicliche dei processi temporali che negano l’irreversibilità). Tuttavia vale la pena di sottolineare il fatto che, nei passaggi in questione, Lukacs associa queste visioni conservatrici al concetto di “fine della storia”. Il punto non è tanto che in questo modo anticipa l’annuncio di Fukuyama (9) che sarebbe arrivato decenni dopo, quanto il fatto che questo immaginario è innegabilmente presente anche in quelle tendenze “profetiche” del marxismo cui facevo riferimento poco sopra. Tornerò sul tema ragionando sui passaggi dedicati all’utopia socialista nell’ultima sezione. Qui mi limito ad abbozzare l’idea che questa paradossale convergenza fra visioni ideologicamente opposte, abbia più di una qualche relazione con l’eredità hegeliana che tali tendenze condividono con un autore come Fukuyama. 

Vengo ora a un nodo teorico che mi sta particolarmente a cuore, e che ho avuto modo di affrontare assieme all’amico Onofrio Romano in un nostro libretto a quattro mani (10): mi riferisco alla sopravvalutazione del ruolo progressivo dello sviluppo delle forze produttive che accomuna la stragrande maggioranza degli autori del campo marxista. Lukacs – lo si è visto poco sopra – ascrive questo errore di prospettiva alle “concezioni volgar meccaniciste del progresso” e ne denuncia l’incapacità di riconoscere gli effetti della coazione economico-sociale in ragione della quale “forme nuove e più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle vecchie”. E altrove ammonisce che, se è vero che lo sviluppo delle forze produttive è anche sviluppo delle capacità umane, è altrettanto vero ”che lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana” (11). 

Qui il contributo lukacsiano è cruciale. Come ho già ricordato, gli anni in cui Lukacs scrive queste pagine sono gli stessi in cui la Scuola di Francoforte ragiona sul paradosso per cui l’espansione della produttività del lavoro, associata all’innovazione tecnologica, e il conseguente aumento esponenziale della ricchezza materiale e dei consumi di massa, non generano più elevati livelli di coscienza sociale e politica, ma un generale impoverimento culturale e una crescente omologazione ai valori della società capitalista occidentale (in primis americana). Allo sviluppo della capacità umana non corrisponde per l’appunto quello della personalità umana. 

Eppure questa lezione resterà inascoltata dalla generazione del 68 e dai suoi eredi, protagonisti dei successivi movimenti sociali, i quali continueranno ad esaltare l’avanzamento sempre più rapido (fino al parossismo della rivoluzione digitale) del progresso tecnologico come un fattore di illimitata estensione delle libertà individuali, ignorando sistematicamente le “forme nuove e più perfette di reificazione subentranti a quelle vecchie”. La feticizzazione del general intellect tipica della narrazione dei teorici post operaisti (12) ha contribuito a diffondere l’idea che le nuove tecnologie incorporino l’insieme delle relazioni sociali assieme alla possibilità di dispiegarne il potenziale emancipativo. Viceversa il principio di coazione economico sociale ad esse associato viene sistematicamente ignorato, o ridotto a un residuo giuridico (la proprietà privata) agevolmente liquidabile (13). 

Il dogma secondo cui il superamento del capitalismo diviene possibile nel momento in cui lo sviluppo delle forze produttive genera una contraddizione insanabile con i rapporti di produzione, si converte così in una infernale trappola ideologica, impedendo di riconoscere la necessità di “costruire politicamente” quel livello di sviluppo della personalità umana indispensabile a trasformare il mondo. 



Note 

(1) Capofila di questa velleità di “scientificizzare” il pensiero di Marx è indubbiamente Louis Althusser (cfr. Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967. 

(2) Sulla categoria gnoseologica di idealtipo cfr. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Torino 1999. 

(3) E’ sintomatico che l’idea stessa di progresso venga associata alla storia europea. In questo senso, Lukacs non è esente dal peccato di eurocentrismo che Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007) rimprovera a Marx ed Engels (critica che il sottoscritto ha  rilanciato in un post apparso su questo blog https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html ). 

(4) Cfr. in particolare M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010. 

(5) La citazione si riferisce a una lettera di Marx alla redazione di un giornale russo datata 1877, consultabile in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia (a cura di B. Maffi), Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 235-36. 

(6) Sul carattere profetico delle utopie politiche cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982. Ad accusare esplicitamente Marx di gnosticismo è invece E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990. 

(7) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979; vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983. 

(8) Delle caratteristiche del socialismo in stile cinese mi sono occupato in Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 

(9) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2002. 

(10) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019. 

(11) A svolgere un’interessante riflessione sul ritardo dello sviluppo della personalità umana rispetto ai tempi dello sviluppo economico (e sull’impatto che tale ritardo ha avuto sulle difficoltà dei socialismi latinoamericani) è A. G. Linera in Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020. 

(12) Della feticizzazione operaista del concetto di general intellect mi sono occupato in diversi lavori. Cfr. in particolare, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(13) Una critica radicale dell’idea secondo cui la rivoluzione digitale creerebbe di per sé le condizioni per una transizione diretta al comunismo si trova in P. Dardot, C. Laval, la nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

domenica 14 marzo 2021



GLOSSE ALLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI G. LUKACS (I) 


Nota introduttiva 

L’ultima opera del più grande filosofo marxista del 900 (Gyorgy Lukacs, 1885 – 1971) è di gran lunga la meno conosciuta. Alla Ontologia dell’essere sociale Lukacs iniziò a lavorare nel 1960, subito dopo avere concluso  la sua Estetica, ma non fu pubblicata che diversi anni dopo la morte (in due volumi usciti, rispettivamente, nel 1984 e nel 1986). L’edizione italiana (uscita assai più tardi, nel 2012, per i tipi di PGRECO) si articola in quattro volumi, il primo dei quali contiene i Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale che in realtà fu scritto per ultimo, per sintetizzare e chiarire i concetti dell’opera principale (sia perché Lukacs non era soddisfatto della struttura espositiva che le aveva dato, sia per replicare alle critiche e alle osservazioni che gli erano state fatte da alcuni allievi). Questo ritardo non è tuttavia il solo né l’unico motivo per cui il pensiero dell’ultimo Lukacs continua ad essere meno conosciuto di quello dei suoi lavori “classici”, come Storia e coscienza di classe (1) o La Distruzione della ragione (2). A questa “rimozione” contribuirono infatti tanto la sua collocazione in un’epoca storica caratterizzata da una profonda crisi del marxismo, quanto le critiche sfavorevoli che un gruppo degli allievi di Lukacs – fra cui Agnes Heller, oggi nume tutelare del pensiero liberale – fecero circolare sulla Ontologia prima che l’opera venisse pubblicata (3). Senza dimenticare il non trascurabile impegno richiesto dalla lettura di un testo complesso e lungo quasi 2000 pagine.  

Nella sua Introduzione, Nicolas Tertulian richiama l’attenzione su alcuni dei temi principali affrontati dall’autore. In particolare, si concentra sulla critica tanto di quelle interpretazioni del pensiero marxiano che attribuiscono alla storia la natura di un processo teleologico governato da una ferrea necessità immanente, per cui ogni fase di sviluppo rappresenterebbe una tappa verso un esito predeterminato, quanto di quelle che lo associano a una sorta di determinismo univoco dei fattori economici. Questa visione determinista/meccanicista, che trova la sua massima espressione nell’ideologia staliniana, per Lukacs affonda le radici nel pensiero dello stesso Engels, sensibile al fascino del “logicismo” hegeliano. Contro questa visione, Lukacs rivendica, da un lato, la necessità di riconoscere il peso dei fattori casuali, dall’altro, riformula il dispositivo della necessità storica in base alla formula se…allora, con la quale intende significare che, al cambiare di certe premesse che si possono dare in modo imprevisto e casuale, il corso dei fenomeni storici può mutare, per cui la razionalità del loro esito non può essere definita a priori – in base a presunte “leggi” – ma solo post festum.

Questo punto di vista gli consente di rappresentare la società come un “complesso di complessi”, dove ogni complesso (il diritto, la politica, la religione, l’arte, ecc.) mantiene una sua relativa autonomia, pur non potendo sottrarsi mai del tutto alla sovradeterminazione da parte della potenza “soverchiante” del complesso economico. I margini di libertà dell’agire umano vengono così ridefiniti in base al detto marxiano (citato molte volte nel testo dell’opera) secondo cui gli esseri umani “non sanno di far ciò ma lo fanno”. Detto altrimenti: i processi sociali vengono messi in atto dagli atti teleologici degli individui, ma la loro risultante finale ha un carattere causale privo di connotazioni finalistiche, il risultato delle azioni non è cioè mai coestensivo alle intenzioni. 

Sorvolando su altri temi evidenziati dalla Introduzione di Tertulian – come le critiche al neopositivismo e all’esistenzialismo, o le pagine dedicate al superamento dell’estraniazione e al comunismo come realizzazione di una humanitas autentica – provo a spiegare perché ho deciso di imbarcarmi in questo impegnativo commentario alla Ontologia dell’essere sociale. In effetti, la lettura di quest’opera mi ha ridato fiducia nella possibilità di restituire al marxismo la sua carica rivoluzionaria, a condizione che lo si liberi, sia dalle varianti dogmatiche che ne hanno imbrigliato l’energia, sia dalle nebbie di molte interpretazioni “innovative”. Dal testo che segue non dovete aspettarvi dissertazioni accademiche né raffinatezze filologiche (del resto non ne sarei all’altezza), bensì lo sforzo di “estrarre” da alcuni dei passaggi che mi hanno più intrigato durante la lettura dei quattro volumi dell’opera, una serie di riflessioni relative alle grandi sfide di fronte alle quali ci pone la realtà contemporanea. Il testo è strutturato in cinque sezioni: 1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale; 2. Critica del materialismo meccanicista; 3) Se…allora (storia e necessità); 4) Ideologia e lotta di classe; 5) Libertà, utopia, socialismo. La prima è la più breve, la seconda e la terza sono accorpate in un unico capitolo, la quarta è la quinta sono le più lunghe, in quanto più gravide di implicazioni politiche. Quindi a questa prima puntata, ne seguiranno altre tre in tutto.

PS. Reitero un’avvertenza già fatta in post precedenti: non essendo riuscito a impadronirmi pienamente delle funzioni di formattazione di questa piattaforma, molte traslitterazioni di nomi stranieri ( a partire da quello di Gyorgy Lukacs) risulteranno scorrete. Me ne scuso con i lettori.   


1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale 

I tentativi di depurare il pensiero di Marx dai suoi fondamenti filosofico – antropologici, per estrarne il presunto  contenuto “scientifico” (sulla scientificità del marxismo avremo modo di ragionare più avanti) - contenuto che viene in questo modo ridotto alla descrizione delle modalità di funzionamento del modo di produzione capitalistico e dei meccanismi causali delle crisi economiche – sono del tutto incompatibili con l’approccio di Lukacs all’opera del maestro. Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukacs, può essere compreso solo se si capisce che, per lui, il lavoro è “la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni si presentano in nuce”. E il lavoro di cui parla qui Lukacs non si identifica con la forma storicamente determinata che esso assume nella società capitalistica: è piuttosto il lavoro utile, il lavoro come formatore di valori d’uso che, scrive Marx citato da Lukacs, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini  (vol. II, p. 265). 

Per Marx, sostiene dunque Lukacs, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche della teleologia (cioè dell’agire finalistico) in generale, ma l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale  (vol. III, p. 23). Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. È in questo senso, argomenta Lukacs, che si può affermare che, per Marx, il lavoro risulta il modello di ogni prassi sociale (vol. III, p. 19). Ed è in base a questo assunto che la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” assume il suo significato più corretto e rigoroso. 

La critica di Marx al materialismo feuerbachiano consiste precisamente nell’essersi limitato alla mera intuizione, evitando di scendere sul terreno della prassi. La critica di Marx all’idealismo è invece una critica ontologica, in quanto parte dal principio che l’essere sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente e insopprimibilmente sulla prassi (vol. I, p. 36). Lukacs torna su questa visione concreto-ontica delle entità sociali ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, a proposito dei quali scrive che in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, per aggiungere subito dopo ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’<<economismo>> (vol. II, p. 264). 

L’ultima affermazione (della quale è impossibile sopravalutare l’importanza, e sulla quale dovremo ritornare a più riprese nelle sezioni successive), trova riscontro in un passaggio in cui Lukacs sottolinea che considerando così isolatamente il lavoro si compie un’astrazione, infatti la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente (vol. III, p. 14). Tutte le categorie appena evocate appaiono dunque avvinte in un intreccio inestricabile, per cui nessuna di esse può essere realmente compresa ove la si consideri isolata dalle altre. Al tempo stesso, non vanno dimenticati, da un lato, la loro scaturigine originaria dal lavoro, dall’altro lato, che il fatto che il lavoro continui a essere il momento soverchiante non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (vol. III, p. 58). 

Quest’ultimo passaggio consente di chiarire meglio e approfondire quanto richiamato in precedenza in relazione al concetto del lavoro come unico momento che attribuisce concretezza ontologica al porre teleologico. Lo stesso dicasi di quest’altra citazione:  Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni  nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili e (a partire da questo momento, la coscienza) non può più essere ontologicamente un epifenomeno. Ed è questa constatazione che separa il materialismo dialettico da quello meccanicistico (Vol. III, p. 35).

Dando per acquisite le argomentazioni che ho appena sinteticamente evocato, Lukacs procede a descrivere le relazioni dialettiche fra il lavoro da un lato, e il suo fine e il suo mezzo dall’altro: In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità (vol. III, p. 29). In questo accenno all’inversione gerarchica fra fini e mezzi sono contenuti in nuce tutti i discorsi sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura” (per inciso Lukacs non ama quest’ultimo concetto che, a suo avviso, ha valore meramente metaforico). L’ipertrofica valorizzazione del mezzo è conseguenza del fatto che la ricerca sulla natura, indispensabile per lavorare, è prima di tutto concentrata intorno alla preparazione dei mezzi, sono questi il principale veicolo della garanzia sociale che i risultati dei processi lavorativi rimangano fissati, che vi sia continuità nell’esperienza lavorativa e specialmente che si abbia un suo ulteriore sviluppo (Ivi).  

Di grande interesse mi pare inoltre: 1) il fatto che Lukacs non rappresenta questi sviluppi come esclusivi delle fasi più avanzate dell’evoluzione dell’essere sociale, ma li considera già presenti delle sue fasi primitive; 2) il fatto che ogni ulteriore avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne neutralizza mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura. Vediamo:  L’uomo che lavora deve pianificare in anticipo ciascuno dei suoi movimenti e controllare di continuo criticamente, consapevolmente la realizzazione del suo piano, se nel suo lavoro vuole ottenere quel che è in concreto l’ottimo possibile. Questo dominio della coscienza l’uomo sul proprio corpo, che si estende anche a una parte della sfera della coscienza, alle abitudini, agli istinti, agli affetti, è una richiesta elementare dello stesso lavoro più primitivo, non può quindi non marcare a fondo le rappresentazioni che l’uomo si fa su se stesso (vol. III, p. 104). Ma se occorre ammettere che la posizione teleologica di causalità nel processo lavorativo produce questi radicali effetti trasformatori, va anche ricordato che per quanto rilevanti siano questi ultimi, la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente (vol. III, p. 103). Infine, la posizione dei fini - mediata dal progredire della coscienza e del linguaggio, che operano come fattori di separazione e distacco dell’uomo dal suo ambiente, di una presa di distanza che si manifesta con chiarezza nel fronteggiarsi di soggetto e oggetto (vol. III, p. 38) – impone continue scelte fra alternative che, tuttavia, non sono prodotte dal soggetto che decide, ma dall’essere sociale in cui vive e opera (vol. III, p. 48). 

Gyorgy Lukacs


Glosse 

1) Ribadire la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura, cioè del lavoro creatore dei valori d’uso, in quanto fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale è una scelta che comporta conseguenze impegnative sotto diversi aspetti filosofici, politici e ideologici. In primo luogo, significa riconoscere implicitamente la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta (e presumibilmente a tutte quelle che la seguiranno) nella misura in cui è l’unica che occulta tale fondamento concreto-ontico del lavoro per ridurlo, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro a fonte del valore di scambio, cioè a valore-lavoro incorporato nelle merci da realizzare tramite scambio sul mercato (4).

Rimuovere questa premessa filosofica è stata una mossa comune a tutte quelle interpretazioni del pensiero marxiano – da Althusser a Negri, per citarne solo un paio – che hanno teso a svalorizzarne gli elementi “metafisici” (generalmente associati alle opere giovanili e contrapposti al pensiero “maturo” del Capitale e dei Grundrisse) e ad esaltare la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica. La riduzione del contributo di Marx alla modellizzazione concettuale del modo di produzione capitalistico ha avuto, fra le altre conseguenze, quella di fondare ogni speranza emancipativa del lavoro – inteso esclusivamente come forza-lavoro integrata nel processo di valorizzazione del capitale – sulle contraddizioni immanenti al modo di produzione. Di qui la valutazione del ruolo progressivo della riduzione di tutte le relazioni sociali a relazioni di mercato, in quanto presupposto necessario del rovesciamento dei rapporti di forza fra lavoro e capitale (in sostanza, l’idea è che solo quando tutto sarà interno al rapporto di capitale sarà possibile rovesciare quest’ultimo). 

L’elenco delle conseguenze di tale postura teorica è lungo. Mi limito ad elencare quelle che ritengo particolarmente perniciose. L’invenzione di categorie spurie come quella di “lavoro immateriale” (5) (riferita, in particolare, all’attività dei lavoratori dell’economia digitale, con la paradossale rimozione, da un lato, del lavoro materiale dei milioni di lavoratori dell’industria della componentistica hardware e di quelli delle industrie estrattive delle materie prime indispensabili per tali attività, dall’altro, del lavoro corporeo degli stessi lavoratori presunti immateriali). Le varie declinazioni ideologiche del cosiddetto “rifiuto del lavoro” (6) che, dall’originario significato di rivolta operaia contro il lavoro alienato e ripetitivo, sono venute estendendosi fino ad affermare la possibilità (garantita dall’enorme sviluppo delle forze produttive) di trascendere la necessità stessa del ricambio organico uomo-natura. Corollari di questa negazione del principio enucleato da Lukacs e richiamato in precedenza (per quanto radicali siano le trasformazioni indotte dal distanziamento progressivo fra soggetto e oggetto, “la barriera naturale può solo arretrare ma mai sparire completamente”) – sono tanto la mitologizzazione dell’illimitata potenza trasformativa delle conoscenze scientifiche e tecnologiche (fino al trascendimento delle stesse caratteristiche della specie verso forme di vita “transumane”), quanto la condivisione, da parte di alcuni intellettuali appartenenti alle sinistre “radicali”, degli slogan dei boss dell’industria high tech, i quali propongono di risolvere i problemi occupazionali generati dalla “fine del lavoro” (7) attraverso l’erogazione di un reddito universale non  condizionato dallo svolgimento di attività lavorative – punto di vista che confonde emancipazione del lavoro ed emancipazione dal lavoro, per cui quest’ultima si presenta come apologia del consumo (8), ignorando sia il ruolo del lavoro come autorealizzazione e costruzione identitaria individuali e collettive, sia la necessità di liberare il valore d’uso dalle distorsioni causate dalla sua riduzione a valore di scambio. 

2) Gli spunti critici relativi all’economismo e al materialismo meccanicistico, contenuti nelle citazioni precedenti, verranno trattati, rispettivamente nelle sezioni 2) e 3). Quanto a quelli relativi alle autorappresentazioni che gli esseri umani sviluppano parallelamente al crescere della complessità dell’essere sociale, verranno trattati nelle sezioni 4) e 5). Restando in tema di complessità, osservo inoltre che la rappresentazione dell’essere sociale come “complesso di complessi” (vedi sopra “Nota introduttiva”) ognuno dei quali dotato di reciproca autonomia, ma al tempo stesso vincolato dalle relazioni di interdipendenza reciproca con tutti gli altri, presenta significative analogie con la rappresentazione del sociale come sistema complesso articolato in sottosistemi, proposta da un autore come Niklas Luhmann (9), con la differenza che, in Lukacs, i complessi non si dispongono secondo un piano orizzontale privo di relazioni gerarchiche ma appaiono sovradeterminati (ancorché in modo indiretto e non meccanico) dal complesso economico. 

3) Anche i passaggi sull’inversione del rapporto gerarchico fra fini e mezzi del processo lavorativo – che, come si è visto, secondo Lukacs, è una tendenza presente fin dalle fasi più primitive dello sviluppo sociale, ma assume importanza crescente in quelle più recenti e progredite – verranno ripresi e approfonditi nelle ultime due sezioni. Qui mi limito ad affermare che il modo in cui Lukacs affronta il tema mi pare presenti una certa analogia con il concetto di alienazione tecnologica sviluppato dai membri della Scuola di Francoforte e altri autori a lui contemporanei. L’approccio di Lukacs, tuttavia, non è mai “catastrofista” - alla Gunther Anders (10) per intenderci -, nel senso che la sua critica nei confronti del feticismo della tecnica non approda mai alla negazione assoluta del potenziale emancipativo di quest’ultima. Al tempo stesso, non rinuncia mai a evidenziare la relazione fra sviluppo tecnologico e rapporti di forza fra le classi sociali, né scade mai nelle forme di esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive tipico sia del materialismo meccanicista, sia dell’ideologia “accelerazionista” di alcune correnti contemporanee di sinistra radicale (11).  


Note  

(1) G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997.

(2) G. Lukacs, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.

(3) Ricavo questa e altre informazioni riportate in questa Nota introduttiva dalla Introduzione di N. Tertulian a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012.

(4) Sul capitalismo come forma sociale sui generis, diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta, cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(5) Vedi, in particolare, A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 

(6) Lo slogan del rifiuto del lavoro è uno dei leitmotiv dell’ideologia operaista e post operaista dagli anni Settanta ai giorni nostri. 

(7) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori, Milano 2002. In anni recenti anni il tema non è più di moda, anche perché la realtà ha dimostrato che tale tendenza è letteralmente inesistente a livello globale – il lavoro salariato è cresciuto a livelli esponenziali su scala mondiale nei primi decenni del Duemila – e meno significativo del previsto anche nei Paesi occidentali più sviluppati, dove si assiste piuttosto alla proliferazione dei lavori precari, saltuari e sottopagati, e dove anche il fenomeno della cosiddetta deindustrializzazione è contestato (vedi in proposito le critiche di David Harvey in The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020).   

(8) Evidenti elementi di apologia del consumo (intesa come rivendicazione di elevati livelli di consumo a prescindere dall’utilità e/o dalla nocività dei beni e servizi consumati, nonché dalla loro rispondenza a effettivi bisogni individuali e collettivi) sono riscontrabili sia nell’ideologia dei movimenti di ispirazione operaista e postoperaista, sia nelle filosofie “desideranti” di autori come Gilles Deleuze e Felix Guattari (cfr. in merito le critiche di P. Dardot e C. Laval ne La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013), sia infine nelle “teorie dei bisogni” in auge negli anni Settanta/Ottanta (vedi  A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1977).

(9) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979;  vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore,  Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983. 

(10) Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1956. 

(11) Cfr. A. Williams, R. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.       


    


NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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