LA RIVINCITA DEI SOCIALISTI IN BOLIVIA
Prospettive e dilemmi politici dopo il ritorno al potere del MAS
Il recente ritorno al potere del MAS dopo il golpe del 2019, orchestrato dalle destre e appoggiato dai militari e dagli Stati Uniti, è un evento che suscita interrogativi politici di vasta portata per due ragioni: in primo luogo, perché la Bolivia è uno dei rari casi in cui una forza politica che non solo si dice socialista, ma dichiara esplicitamente di voler avviare un processo di transizione al socialismo, è riuscita da andare al potere per via legale; ma soprattutto perché è un esempio ancora più raro di un esperimento del genere che, dopo essere stato interrotto con la forza (come capitò con il Cile di Allende), riesce a riprendere il cammino dopo solo un anno, e a farlo anche questa volta pacificamente, vincendo le elezioni e non attraverso la resistenza armata.
Va detto che già nel corso del cosiddetto giro a la izquierda, come fu battezzato il processo che, che dagli anni Novanta al primo decennio del Duemila, ha insediato governi socialisti, o comunque post neoliberisti, alla guida della maggioranza dei Paesi latinoamericani, si era riattivato il classicissimo dibattito otto/novecentesco (1) in merito alla possibilità di arrivare al socialismo per via pacifica, attraverso un processo riformista radicale, piuttosto che per via rivoluzionaria. La fase di riflusso che quasi tutte quelle esperienze hanno subito nell’ultimo decennio, con una serie di sconfitte elettorali di cui quella in Ecuador di pochi giorni fa è solo l’ultima, sembrava avere dato ragione a coloro che liquidavano come illusorie le speranze suscitate dalla svolta progressista, addebitandone il fallimento al mancato superamento del quadro istituzionale pre rivoluzionario, all’assenza di una radicale messa in discussione dei rapporti di proprietà, e al persistere del controllo delle vecchie oligarchie su risorse economiche (banche e imprese), politiche (burocrazia), culturali (università e media), militari (polizie ed eserciti), fattori che hanno permesso alle forze reazionarie di riconquistare alla prima occasione il potere politico, con l’appoggio dell’imperialismo Usa, deciso a mantenere il controllo sul “cortile di casa”. In che misura la rivincita del MAS boliviano rimette in discussione questa diagnosi?
Ho avuto modo di farmi un’idea della complessità del dibattito appena evocato in occasione dei miei ultimi due viaggi in America Latina, il primo nell’estate del 2013 in Ecuador, il secondo qualche anno dopo a Cuba. In Ecuador, come scrivevo in un libro del 2014 (2), mi era parso, benché Correa avesse appena trionfalmente ottenuto la riconferma a presidente, di poter indicare il punto debole della Revolución Ciudadana nella scarsa incisività del suo impegno nel contrastare gli interessi del grande capitale nazionale e internazionale, nella mancata riforma agraria, ma soprattutto nella scelta di privilegiare l’appoggio delle classi medie urbane rispetto a quello dei movimenti indigenisti. Elementi in base ai quali ritenevo che difficilmente – come hanno confermato gli eventi successivi – il regime avrebbe saputo/potuto fronteggiare una controffensiva delle destre. A Cuba ho invece cercato di capire – sia pure a grandi linee - gli obiettivi delle riforme economiche successive alla morte di Castro, caratterizzate da una moderata apertura alla privatizzazione di alcune attività e dallo sguardo rivolto al “socialismo di mercato” cinese (anche se l’assedio del bloqueo, le limitate dimensioni del mercato interno e il venir meno del sostegno venezuelano, a causa della grave crisi di quel Paese, rendono ardua, per non dire impossibile, l’applicazione del modello asiatico).
Quella della Bolivia, pur non avendo accesso a conoscenze dirette, mi era sembrata, basandomi soprattutto sugli scritti dell’ex vice presidente Alvaro G. Linera (3), una situazione diversa e ricca di potenzialità. Secondo Linera, le radici socioeconomiche della rivoluzione affondano in un processo di ristrutturazione neoliberista che, accantonate le strategie di modernizzazione che puntavano alla sostituzione delle tradizionali forme produttive urbane e agricole, si è fondato su un nuovo ordine imprenditoriale che agisce da anello di congiunzione fra il flusso finanziario globale e le reti locali dell’economia informale (lavoro a domicilio e comunità familiari). Un modello di accumulazione ibrido, che unifica in forma gerarchizzata strutture produttive tradizionali tramite complessi meccanismi di subordinazione delle reti produttive domestiche, comunitarie, artigiane, contadine e microimprenditoriali. In questo contesto, la classe operaia cresce di numero ma è frammentata e precarizzata, mentre le comunità contadine, pur parzialmente inglobate nelle relazioni di mercato, non subiscono processi di stratificazione sociale radicali ed irreversibili, conservando relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. Linera identifica in questa forma-comunità che resiste attivamente ai processi di subordinazione, l’equivalente di una vera e propria classe antagonista. In effetti, questi soggetti tradizionali hanno dato vita a organismi di democrazia diretta e partecipativa in grado di unificare e mobilitare altri strati sociali. Sono stati questi cabildos a sfidare il potere delle oligarchie neoliberali, occupando il territorio e sottraendolo al controllo di prefetti, sindaci e polizia.
Alvaro G. Linera |
Queste strutture orizzontali hanno vinto anche grazie all’apporto del MAS (Movimento al Socialismo) guidato da Morales, un partito politico sui generis nato come aggregatore di diverse associazioni, partiti e movimenti. Il MAS è riuscito a saldare due blocchi sociali diversi: da un lato, le associazioni e i movimenti indigeni e urbani, affiancati e sostenuti dai partiti e dai sindacati della sinistra tradizionale; dall’altro, ceti medi, gruppi imprenditoriali, partiti democratici. Lo ha fatto elaborando un programma politico capace di mediare fra interessi diversi: nazionalizzazione di alcune imprese strategiche avendo cura di non intaccare gli interessi della piccola-media imprenditoria; promessa di procedere a un cambio di matrice produttiva ispirato ai principi della cultura indigena del buen vivir (4) senza rinunciare, tuttavia, alle politiche estrattiviste (indispensabili per finanziare la spesa sociale); trasformazione in senso plurinazionale e plurilinguistico dello stato. In ragione di questa visione “pattista” del potere (che i critici accusano di corporativismo), si sono attivate procedure di contrattazione permanente fra i vari gruppi sociali del blocco. Linera parla, a tale proposito, del tentativo di garantire rappresentanza a una moltitudine in cui nessuno parla a titolo individuale, ma in nome di identità collettive locali alle quali deve rendere conto (5).
A chi avrebbe voluto che la rivoluzione imboccasse un cammino più marcatamente anticapitalista, Linera replica, da un lato, che l’obiettivo immediato non poteva essere altro che la costruzione d’una sorta di capitalismo postneoliberale, fondato sulla triangolazione fra piccola e media imprenditoria privata, attività produttive tradizionali e comunitarie e politiche pubbliche orientate al trasferimento di tecnologie e risorse a favore di quest’ultime; dall’altro lato, ribadisce l’intenzione di marciare verso il socialismo. Anche Luis Arce, ministro dell’economia durante la presidenza Morales, e oggi subentrato allo stesso Morales dopo la vittoria alle elezioni del 2020, ribadiva, nel 2012, che non si era mai pensato a una transizione immediata al socialismo bensì a risolvere i problemi sociali più urgenti e a consolidare la base economica con una adeguata ridistribuzione degli eccedenti. A elaborare il modello su cui si è fondata la politica economica del regime era stato lo stesso Arce nel 1999, assieme a un gruppo di ex militanti del Partito Socialista Uno (PS-1). In poco più di un decennio, periodo nel quale lo stato ha agito da primo fattore di crescita e sviluppo, il PIL è aumentato da 9000 a 40.000 milioni di dollari, il PIL pro capite è triplicato, la povertà estrema è calata dal 38% al 15% e i salari reali sono fortemente cresciuti.
Veniamo ora alla diagnosi sui motivi della crisi dell’ondata progressista in America Latina che Linera aveva formulato tre anni prima del golpe. Dopodiché discuteremo alcuni passaggi di un’intervista che lo stesso Linera ha rilasciato a “Jacobin” (6) dopo la vittoria di Luis Arce alle elezioni presidenziali che hanno riportato il MAS al potere. Nel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires, inserito nell’antologia di scritti tradotti in italiano citata in nota (3), Linera analizza le ragioni del riflusso - allora già in atto – del giro a la izquierda, addebitandolo, oltre che alla crisi economica, a una serie di errori soggettivi quali: 1) la sottovalutazione della difficoltà di trasformare dall’interno la struttura dello Stato; 2) la sopravvalutazione delle possibilità di integrazione dei ceti medi nel blocco progressista; 3) l’incapacità di gestire le contraddizioni generate dalla convivenza fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa.
Sullo stato. In scritti precedenti, Linera era parso ipotizzare che il processo di trasformazione delle strutture del potere avviato dalla rivoluzione fosse in qualche modo irreversibile. Viceversa, nell’intervento appena citato ammette che cambiare la macchina statale dall’interno si è rivelato un obiettivo utopistico: le destre non hanno ripreso l’iniziativa solo grazie al controllo sui media, sull’università, sulle case editrici e su una serie di reti sociali, ma anche e soprattutto perché non si è riusciti a “rieducare” i quadri dell’apparato burocratico (magistrati, militari, accademici, amministrativi ecc.). A ciò si è aggiunto il fallimento della “riforma morale” contro la corruzione, e l’idea che “governare per tutti” significasse fare concessioni alle destre, dimenticando che corteggiare la destra non produce vantaggi perché questa lo interpreta come un segnale di debolezza.
Sui ceti medi. La ridistribuzione della ricchezza che i regimi postneoliberisti hanno messo in atto attraverso le loro politiche economiche (vedi sopra) ha generato un ampliamento delle classi medie. Per esempio, il 20% dei boliviani è passato in dieci anni a essere classe media. Tuttavia, lamenta Linera, all’aumento della capacità di consumo e della giustizia sociale non si è accompagnata la politicizzazione della società. Il che non vale solo per le classi medie tradizionali, ma anche per quelle create dal nuovo regime (cita in merito gli scioperi indetti dagli insegnanti, pur fra i maggiori beneficiari degli aumenti salariali voluti dal governo). Per evitare la spinta alla frammentazione corporativa del blocco sociale rivoluzionario, mantenendo su di esso l’egemonia indigena, operaia e contadina sul blocco, si sarebbero dovute “rieducare” le altre classi al riconoscimento degli interessi collettivi.
Sulla democrazia. Linera ammette che il problema di dare continuità al processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è un compito arduo. Il caso dei socialismi latinoamericani, giunti al potere attraverso elezioni, è una eccezione nella storia delle rivoluzioni sociali, che appena si è verificata, si è trovata di fronte alla sfida di garantire il ricambio delle leadership senza mettere in discussione la democrazia rappresentativa. Il fatto che in alcuni Paesi siano state introdotte costituzioni che promuovono e riconoscono nuove forme di democrazia diretta e partecipativa, complica ulteriormente la questione, nella misura in cui genera una sorta di dualismo istituzionale. Non è un caso se alcuni leader hanno promosso riforme che consentissero loro di ripresentare più volte la propria candidatura al seggio presidenziale: più che da ambizioni “bonapartiste”, ciò è dipeso dal fatto che il ricambio delle leadership richiede tempi lunghi che le scadenze della democrazia rappresentativa non concedono. Ne consegue che la rivoluzione è costantemente esposta al rischio di sconfitte elettorali che possono annullare in pochi mesi anni e anni di sforzi per cambiare l’economia, la società e la politica di un Paese (più avanti vedremo come la maggiore capacità di resilienza del processo rivoluzionario boliviano sia dovuta alla etnicizzazione dello scontro di classe, per cui gli organismi di autogestione delle comunità andine tradizionali hanno potuto svolgere un ruolo strategico nella tenuta del blocco sociale rivoluzionario).
Facciamo un passo indietro. Si è detto poco sopra delle critiche delle sinistre radicali alla rivoluzione boliviana (e più in generale agli analoghi processi di altri Paesi del subcontinente): quello che si è instaurato non è socialismo ma una variante di “capitalismo di stato”, sul tipo di quelli esistenti nell’ex blocco sovietico, in Cina e a Cuba; inoltre si sono traditi i valori e i principi del buen vivir andino in nome della tradizionale ideologia “industrialista” e “sviluppista” delle sinistre latinoamericane. A queste accuse Linera replica proponendo una visione della transizione al socialismo come processo di lungo periodo. Il mercato e l’economia capitalistica non possono essere aboliti per decreto, e del resto neanche nazionalizzazioni più estese e radicali avrebbero potuto realizzare tale obiettivo, per cui il compito più urgente consisteva nel restituire alla società il controllo politico sui processi di distribuzione del reddito, sui flussi commerciali e finanziari, oltre ad assicurare tutti l’accesso a sanità, educazione superiore, assistenza sociale. Come si è visto sopra, questi obiettivi sono stati in larga misura realizzati. Si è inoltre restituita alla Bolivia la sua dignità di nazione sovrana, emancipandola dal dominio nordamericano, e si è ottenuto il riconoscimento della natura plurinazionale e plurilinguistica della repubblica, facendo giustizia di secoli di oppressione coloniale sulla maggioranza indigena. Dopodiché Linera ammette che per un lungo periodo, di durata imprevedibile, esisteranno ancora conflitti e contraddizioni “in seno al popolo”.
Ma la replica più significa è, a mio avviso, quella che contesta l’ideologia “antistatalista” delle sinistre radicali. Se non si prende il potere, argomenta Linera, ci si autocondanna all’irrilevanza politica, perché la lotta per l’emancipazione passa necessariamente attraverso la lotta per il potere dello Stato. L’idea che il mondo si possa cambiare facendo secessione dal sistema politico, operando dal basso, negli interstizi della vita quotidiana, “toglie alle classi subalterne i successi ottenuti nelle strutture istituzionali dello stato e rimuove la storia delle lotte che lo hanno attraversato”. Ma soprattutto non coglie la vera essenza dello stato, lo scambia per una “cosa”, per uno “strumento” mistificandone la reale natura di processo, di relazione sociale. In una conferenza dedicata al pensiero di Poulantzas Linera afferma che lo stato “è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e si stabilizzano”; è “il processo di formazione di egemonie e blocchi di classe”. Il che significa che non è un Moloch da abbattere perché incorpora tutte le forme di oppressione, autoritarismo, ecc., bensì un campo di forze su cui è fondamentale che le classi subalterne si misurino con i propri avversari per assumerne il controllo” (7).
Veniamo all’intervista a “Jacobin”. È chiaro che un’intervista non ha lo stesso peso dei testi citati in precedenza, e tuttavia ne emergono diversi significativi slittamenti del punto di vista dell’autore (alcuni dei quali mi lasciano perplesso) che fra poco cercherò di analizzare. Prima però un paio di considerazioni. Quando l’intervistatore gli chiede perché non vi sia stata una resistenza attiva al golpe (visto che ci sono state grandi manifestazioni di massa, è chiaro che qui ci si riferisce a un qualche tipo di resistenza militare), Linera risponde che Morales ha detto che non voleva mandare a morte i suoi compagni (in effetti, il confronto fra una popolazione pressoché disarmata, o male armata, e l’esercito avrebbe provocato un bagno di sangue), per cui ha preferito rassegnare le dimissioni. Dopodiché ammette che il governo era impreparato all’eventualità che le forze armate si schierassero attivamente dalla parte dei golpisti, aggiungendo che, visto che nessuna nazione può fare a meno di un esercito, in futuro occorrerà valorizzarne lo status e la funzione istituzionale, coltivarne lo spirito di corpo e cambiarne la composizione di classe (8). Infine esalta la capacità di mobilitazione di contadini, poveri urbani e classe operaia che si sono organizzati per mantenere il controllo del territorio, così come avevano fatto all’inizio del processo rivoluzionario, e garantire così che le elezioni del 2020 si potessero effettuare, in barba alle pressioni interne e internazionali che hanno fatto di tutto per impedirne lo svolgimento.
scontri fra manifestanti e polizia |
Fin qui nessuna particolare osservazione. Le perplessità iniziano laddove Linera traccia l’identikit del nemico. In precedenza abbiamo riportato le sue riflessioni autocritiche in merito: 1) alla mancata integrazione politico-culturale delle classi medie nel blocco sociale rivoluzionario; 2) all’errore di avere, in alcune circostanze, concesso troppo agli interessi dei loro strati superiori. Va inoltre ricordato come nel concetto di classi medie non si riferisse solo a quelle tradizionali, ma anche a quelle create dalla politica redistributiva del governo (citando casi in cui queste ultime hanno adottato comportamenti corporativi in contrasto con il bene comune). Ebbene, nell’intervista sembra invece puntare il dito esclusivamente contro le classi medie tradizionali e la loro ideologia reazionaria e razzista (nel caso della Bolivia, come si è detto, odio di classe e odio razziale sono strettamente associati, per cui la sola idea di vedere degli indios che occupano ruoli di potere appare ad alcuni inconcepibile). Tace invece sul “tradimento” da parte di quegli strati sociali emergenti – e dei loro movimenti politici (9) – di cui in precedenza (vedi sopra) denunciava le tendenze corporative. Di più: auto smentendosi, parla della necessità di mediare fra i loro interessi e quelli delle classi subalterne.
Ora, non conoscendo abbastanza la situazione socioeconomica boliviana, non mi permetto di criticare una svolta che presumibilmente riflette esigenze tattiche, soprattutto dopo la dura esperienza del colpo di stato. Ma il punto è che Linera sembra estendere la sua analisi oltre i confini boliviani, per cui descrive lo scenario globale come una fase di controffensiva liberista guidata dalle forze più retrive e ultraconservatrici, e quel che è peggio sostiene che le oligarchie non avrebbero soluzioni da offrire alla crisi economica e politica. Posto che, come diceva Lenin, non esiste alcuna crisi che la borghesia non sia in grado di risolvere, in assenza di forze in grado di rovesciarne il dominio, questa diagnosi mi pare pericolosamente cieca di fronte al fatto che il dopo Trump ci regala una controffensiva ben più pericolosa, guidata dai settori più progressivi e liberal del capitalismo globale. Una controffensiva che, impugnando i diritti umani e esibendo un linguaggio “politicamente corretto” è riuscita a integrare i movimenti sociali “di sinistra” (espressione delle classi medie emergenti di cui sopra) in un fronte “antifascista”. E una controffensiva che, nella misura in cui riuscirà a imporre una svolta neokeynesiana alla politica economica e a fare qualche concessione sul piano del welfare e della riduzione delle disuguaglianze, distoglierà l’attenzione popolare dalla guerra di aggressione che sta preparando contro Cina, Russia e tutti i Paesi che non si piegano agli interessi occidentali. Capisco che Linera ritenga prioritaria l’esigenza di costruire un ampio fronte sociale, politico e ideologico per impedire che si ripetano situazioni come quelle che il suo Paese ha vissuto nel 2019 (e immagino che durante l’esilio sia stato sottoposto alle pressioni di quelle sinistre radicali che aveva criticato mentre era al potere), ma questo non giustifica il fatto di elevare tale esigenza tattica a chiave di lettura della situazione mondiale della lotta di classe (questo è quanto hanno fatto, fra gli altri, i compagni di Podemos, con gli esiti disastrosi che ho analizzato altrove (10)).
L’altro punto dolente – che non è tattico, ma teorico-strategico – riguarda la concezione dello stato. Abbiamo visto come Linera critichi l’ideologia antistatalista di alcuni movimenti. Questa critica nell’intervista viene ribadita, adducendo la necessità di nazionalizzare certi settori sia per poter disporre delle risorse per costruire scuole, ospedali, ecc. e per aumentare i salari, sia perché se lo stato controlla almeno il 30% del PIL è meno esposto ai ricatti delle grandi imprese private nazionali ed estere. Ribadisce poi che nella fase di transizione i capitali privati possono contribuire a trainare lo sviluppo, e inoltre sottolinea che le nazionalizzazioni non risolvono il problema della socializzazione e democratizzazione dei mezzi di produzione. Del resto, aggiungo io, anche in Cina, dove il PCC è andato al potere con una rivoluzione, la classe capitalistica è stata espropriata del potere politico ma non di quello economico (anche se lo stato/partito mantiene il controllo sull’intero sistema produttivo, commerciale e finanziario). E anche in Cina si ammette che questa situazione è propria della prima fase del socialismo, il quale potrà essere realizzato solo in capo a una lunga fase di transizione.
Mettendo fra parentesi la questione se a tale proposito sia lecito parlare di capitalismo di stato (11), vengo al punto dolente. Nell'intervista, Linera afferma che il salto alla fase successiva non potrà né dovrà avvenire sotto l’egida dello stato, del governo o del partito bensì “quando la società stessa si metterà in marcia per democratizzarsi”. La sua visione del socialismo coincide con un processo di costruzione comunitaria “dal basso” rispetto alla quale partito governo e stato hanno solo il compito di facilitatori del processo. Purtroppo, come insegna il golpe (ma basta perdere le elezioni, come è avvenuto in Ecuador) senza il monopolio del potere politico da parte dello stato/partito tutte le utopie di costruzione dal basso sono esposte al rischio di venire spazzate via da un giorno all’altro, e tutte quelle finora tentate o anche solo immaginate, da Owen ai giorni nostri, sono rimaste appunto confinate nel regno dell’immaginazione. È vero che il popolo boliviano ha tenuto botta, almeno per ora, ma è altrettanto vero che ciò è stato possibile solo grazie alla peculiare realtà di una nazione in cui sono sopravvissute alla colonizzazione del mercato capitalistico antiche forme comunitarie (12). Non credo si debba cedere alla tentazione di elevare a modello questa realtà a dir poco idiosincrasica.
Il neo presidente Luis Arce |
Chiudo con qualche breve cenno alle prospettive del dopo Morales, per quel poco che si può capire dalle ancora scarne informazioni disponibili. Secondo varie fonti giornalistiche (tutte da verificare) le manifestazioni dei mesi fra il golpe e le elezioni del 2020, più che chiedere il ritorno di Morales (che pure resta una figura simbolica di grande peso, anche se non va dimenticato che, quando ha indetto il referendum per potersi candidare per la terza volta alla presidenza, è stato sconfitto), si opponevano alla visione razzista e reazionaria del governo golpista e di coloro che lo sostenevano. Il neo presidente Luis Arce, dopo la vittoria, ha parlato di costruire un governo di unità nazionale, annunciando provvedimenti a favore delle micro, piccole, medie e grandi imprese, del settore pubblico e di tutte le famiglie che hanno vissuto per 11 mesi in una condizione di incertezza. Ha preso atto di una situazione internazionale che vede una guerra commerciale fra Usa e Cina, che è fonte di rischi ma anche di opportunità (in tal senso ha accennato a negoziati con Cina e Russia). Infine ha affermato di voler riprendere il processo del cambiamento, ponendo riparo agli “errori” commessi dal MAS. Ignoro quali siano gli errori cui si riferisce, ma non bisogna dimenticare che il MAS non è un partito tradizionale, bensì una sorta di federazione in cui confluiscono numerose associazioni, partiti e movimenti, per cui è scontato che al suo interno convivano posizioni diverse, non senza tensioni e conflitti. Quel che certamente resta invariato è il saldo riferimento alla cosmovisione aymara, incarnata dal vicepresidente indigenista Choquehuanca.
Note
(1) Cfr. R. Regalado, G. Rodas (a cura di), America Latina hoy. Reforma o Revolución, Ocean Sur, 2009. A proposito del dibattito fra riformisti e rivoluzionari nella Socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento - primo Novecento, va ricordato che F. Engels e R. Luxemburg sostennero che il problema non era riforme sì o riforme no, bensì se le riforme erano intese come strumenti per creare le condizioni per una transizione rivoluzionaria oppure concepite come fine a sé stesse.
(2) Cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera. Ecuador, la guerra fra culture come guerra di classe, Jaka Book, Milano 2014.
(3) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de sueños, Quito 2015; La potencia plebeya. Acción colectiva e identidades indígenas, obreras y populares en Bolivia, Clacso/prometeo libros, Buenos Aires 2013; Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
(4) Per una definizione del termine buen vivir vedi Magia bianca…op. cit.
(5) Pablo Stefanoni sostiene che il concetto di moltitudine di Linera differisce da quello di Toni Negri in quanto il primo si riferisce a una totalità di soggetti collettivi mentre il secondo connota un insieme di singolarità. Cfr. P. Stefanoni, Posneoliberalismo cuesta arriba, in “Nueva Sociedad” N. 239, Maggio-giugno 2012.
(6) https://jacobinmag.com/2021/04/interview-alvaro-garcia-linera-mas-bolivia-coup
(7) Le citazioni sono tratte da Democrazia, stato, rivoluzione, op. cit.
(8) La composizione di classe dell’esercito venezuelano ha svolto un ruolo determinante nella rivoluzione chavista. Cfr. C. Colotti, Talpe a Caracas, Jaka Book, Milano 2012 e, della stessa autrice, Dopo Chavez, Jaka Book, Milano 2018.
(9) A tale proposito: sono rimasto esterrefatto nell’apprendere che certe femministe boliviane (ovviamente bianche della classe media) dopo il golpe hanno dichiarato di non voler prendere posizione fra Morales e i militari golpisti perché entrambi “machos”. Forse sono le stesse che anni prima (come riferisco in Magia bianca magia nera, cit.) votarono contro la regolarizzazione delle collaboratrici domestiche di origine india, guadagnandosi l’appellativo di femministe señorial da parte di alcune loro compagne. E in ogni caso non credo che nelle sinistre movimentiste boliviane manchino personaggi come quelli che affliggono gli scenari di altri Paesi latinoamericani (per tacere di quelli europei), sempre pronti ad attaccare i governi socialisti perché non sufficientemente radicali sul piano economico e “antidemocratici” su quello politico (in Venezuela alcuni sono arrivati a schierarsi con le opposizioni di destra).
(10) vedi i due post su Podemos che ho pubblicato sul questo blog. Vedi anche M. Monereo, Oligarquia o Democracia, El Viejo Topo, 2020.
(11) Linera loda il realismo delle scelte di Lenin al tempo della NEP. Al tempo stesso, sembra ritenere che lo stesso Lenin, ai tempi, fosse convinto che il capitalismo di stato adottato da un Paese socialista fosse un male necessario e comunque non sostanzialmente diverso da quello in vigore nei paesi capitalisti. Ma basta leggere questa citazione ripresa da A. Gabriele (cfr. Enterprises; Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020) per capire che le cose non stanno esattamente così: << il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato. Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano>>. In altre parole il punto, per Lenin, non è la forma giuridica della proprietà statale bensì quale classe ne detiene il controllo politico. Né Lenin pensava, diversamente da Linera, che per riconoscere la natura di classe di tale controllo fosse necessario il controllo diretto dei proletari sull’industria di stato.
(12) La discussione sul ruolo politico di queste forme comunitarie tradizionali in ambito marxista non è inedito: vedi il dibattito fra Marx e i Narodniki a proposito del destino della obščina, l’antica comunità di villaggio dei contadini russi. Vedi, in particolare, la celebre lettera a Vera Zasulic contenuta nella antologia di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano 1960); vedi infine P. P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1978.