Lettori fissi

mercoledì 5 maggio 2021



RIFLESSIONI AUTOBIOGRAFICHE DI UN COMUNISTA 

SENZA (FINORA) PARTITO 



Per cominciare. Qualche notizia autobiografica

La mia vita politica è iniziata nella prima metà degli anni Sessanta quando – poco più che adolescente – mio padre, militante comunista dal 1921, mi inserì in una piccola formazione bordighista di cui era membro. Più tardi, a partire dal 1967, frequentai i primi gruppi maoisti finché, entrato nel mondo del lavoro (come impiegato di una multinazionale americana), mi dedicai soprattutto all’attività sindacale. All’inizio degli anni 70, fui notato dalla FIM, che mi offrì di lavorare a tempo pieno come responsabile provinciale degli impiegati e dei tecnici per la Federazione di Milano. Accettai con la benedizione dei compagni del Gruppo Gramsci (di cui ero stato uno dei promotori), in quanto valutammo che la linea sindacale di quella confederazione fosse più radicale e avanzata di quella della FIOM milanese. Nel 1974 cessai la carriera sindacale per completare gli studi (mi sono laureato in Scienze Politiche nel 1976, all’Università di Padova, con una tesi di laurea sull’impatto delle tecnologie informatiche sull’organizzazione del lavoro che nel 1980 fu pubblicata nella collana degli Opuscoli Marxisti di Feltrinelli, con il titolo Fine del valore d’uso). Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo una breve esperienza nei ranghi di Autonomia, mi allontanai progressivamente dalla politica attiva, anche perché il riflusso delle lotte operaie, culminato con la sconfitta del 1980 alla Fiat, mi aveva privato degli unici interlocutori che mi interessassero realmente (ho sempre guardato con diffidenza ai partitini nati dai movimenti studenteschi, e più in generale alla cultura libertaria degli strati sociali che ne formavano la base, forse avvertendo confusamente i primi segnali di quel divorzio fra “critica sociale” e “critica artistica” che Boltanski e Chiapello hanno descritto decenni dopo (1)). Da allora e fino a cinque anni fa non ho più condotto vita politica attiva, limitando il mio impegno alla lotta ideologica e teorica in qualità di giornalista e saggista (negli anni 80 sono stato caporedattore e condirettore del mensile “Alfabeta”, ho pubblicato diversi libri e, dai primi del Duemila, sono diventato ricercatore all’Università di Lecce, dove ho ripreso l’analisi teorica sulle conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali della rapida e pervasiva diffusione delle tecnologie digitali). Nelle pagine che seguono cercherò di spiegare perché, dopo essere andato in pensione, ho avvertito l’esigenza di tornare a impegnarmi non solo sul piano culturale; descriverò quale è stato, da allora, il mio percorso politico; infine motiverò la scelta che mi appresto a compiere.


Le tappe di una complicata ricerca di compagni di strada 

A indurmi a cercare un ambito in cui svolgere politica attiva è stata la constatazione che gli effetti della controrivoluzione liberale in termini di degrado della qualità di vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani, per tacere dei tassi di violenza, oppressione e sfruttamento cui quasi tutti noi siamo in maggior o minor misura sottoposti, sono ormai divenuti assolutamente intollerabili. Non meno intollerabili appaiono i livelli di degrado morale e culturale di quelle forze politiche che hanno il fegato di definirsi di sinistra. Ho quindi ritenuto che non bastasse più analizzare, indignarsi e inveire, ma fosse necessario partecipare attivamente a uno sforzo collettivo di cambiare le cose. Ciò detto, sono partito dalla convinzione che il punto non è “rifondare la sinistra” (termine che non mi ha mai entusiasmato: se mi chiedono se sono di sinistra rispondo che sono comunista, il che non è la stessa cosa), ma piuttosto lavorare alla dura impresa di rilegittimare un progetto di superamento della società capitalista per instaurare il socialismo. Devo ammettere che mi è parso subito dolorosamente chiaro quanto debole, confusa e dispersa (soprattutto qui in Italia) sia oggi la comunità per cui e con cui vorrei tornare a battermi. Passo ora a descrivere le esperienze che ho fatto dal momento in cui ho cercato di rimettermi in gioco.                

Negli ultimi anni ho partecipato a una serie di progetti politici animati dalla volontà  di lottare contro le politiche neoliberali della Unione Europea. Il primo è stato quello di Eurostop, associazione vicina alla Rete dei Comunisti e ai sindacati di base (USB). Me ne sono allontanato quando quell’organizzazione ha scelto di convergere nel cartello elettorale di Potere al Popolo in vista delle elezioni politiche del 2018. Due le ragioni fondamentali del mio dissenso: 1) partecipare alle elezioni mi parve una scelta prematura, in quanto ritenevo  necessario privilegiare piuttosto il lavoro di radicamento nei territori e nei luoghi di lavoro; 2) ancora meno condividevo la convergenza con soggetti politici che ritenevo omologhi alla fallimentare esperienza delle sinistre “radicali”, riproponendo la logica fallimentare delle famigerate liste “arcobaleno”.

Successivamente ho partecipato a vari tentativi di aggregazione del variegato arcipelago di singoli militanti e microgruppi accomunati: 1) dalla volontà di riaffermare i principi e i valori di un patriottismo costituzionale ispirato alla lettera e allo spirito della Carta del 48; 2) dall’intenzione di caratterizzare in senso socialista l’opposizione alla Ue (lotta per la sovranità nazionale come mezzo per restaurare la sovranità popolare e non come fine in sé, e per un programma politico orientato alla costruzione di un’economia mista capace di garantire piena occupazione e condizioni di vita e di lavoro dignitose per le classi subalterne). 

La  mia scelta di privilegiare il rapporto con quest’area dei sovranismi e dei populismi di sinistra, piuttosto che con i residui delle sinistre “radicali”, era fondata su precisi motivi teorici e ideologici. In primo luogo, dalla convinzione che la lotta di classe - a causa della disgregazione delle classi subalterne causata da un’offensiva liberista che le aveva sconfitte tanto sul piano politico quanto sul piano sindacale, dal tradimento delle sinistre tradizionali convertitesi all’ideologia liberista e dalla distruzione dei loro strumenti organizzativi - avesse assunto la forma ambigua e spuria dei populismi, tanto di destra e di sinistra. Mentre alcune esperienze latinoamericane (che ho conosciuto grazie a una serie di viaggi in quei Paesi (2)), negli Stati Uniti (Sanders) e in Europa (Podemos, Mélenchon, Corbyn) sembravano prospettare la possibilità di sfruttare la marea populista come occasione per innescare una battaglia socialista, anche se, nel contempo, cresceva il rischio che a fungere da contenitori della rabbia sociale fossero piuttosto i populismi di destra (Trump, Marine Le Pen, Salvini, ecc.) sempre più abili nell’appropriarsi demagogicamente di parole d’ordine di sinistra per promuovere una "rivoluzione passiva" (Gramsci). Di qui la necessità di riappropriarsi di slogan e parole d’ordine, un tempo patrimonio delle sinistre rivoluzionarie, “dirottati” dalle destre, e di lavorare alla costruzione di un blocco sociale alternativo fra lavoratori e classi medie impoverite. Questa ipotesi era avvalorata dal fatto che gli strati popolari esprimevano ormai un rifiuto totale delle sinistre, identificate con l’ideologia del politicamente corretto ed impegnate a difendere esclusivamente interessi,  bisogni e  diritti individuali, oltre a quelli delle comunità Lgbt,  di un movimento femminista ormai alleato di fatto al blocco liberal progressista espressione dei ceti medio alti e dei residenti dei centri urbani gentrificati.

Sulla base di questa analisi ho deciso di partecipare, prima al movimento che sembrava in procinto di nascere dopo il lancio del “Manifesto per una sovranità costituzionale” (3), poi, svanita quella possibilità, alla costituzione del gruppo di Rinascita, successivamente confluito con altre componenti nell’associazione Nuova Direzione (cfr. le Tesi approvate in occasione dell’assemblea fondativa nel gennaio 2020 https://www.nuova-direzione.it/le-tesi-di-nuova-direzione ). Un anno più tardi, poco prima che Nuova Direzione celebrasse la sua seconda assemblea nazionale, ho dato le dimissioni dal direttivo assieme all’amico Alessandro Visalli, fino ad allora coordinatore nazionale (la discussione che ne è seguita è consultabile sul sito di Nuova Direzione). Nello scorso mese di febbraio, anticipai i motivi che mi avrebbero di lì a poco dopo indotto ad andarmene, scrivendo un documento sulla fase politica generata dalla crisi pandemica, documento di cui riproduco qui di seguito ampi stralci (con diversi tagli, segnalati da puntini di sospensione fra parentesi, alcuni inserti aggiornativi e qualche correzione di forma).



Perché è nata Nuova Direzione

Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato: 

1) dal protrarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto l’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica. Una situazione che ha generato elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; un aumento dei livelli di disuguaglianza; l’aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; il deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; la gentrificazione dei centri urbani con l’acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; le difficoltà di gestione dei flussi migratori.

2) dalle crescenti contraddizioni con la Ue, aggravate dalle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che hanno utilizzato le regole imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica. Tappe fondamentali di tale processo sono stati l’autonomizzazione della Banca d’Italia dalla politica (con conseguente aggravamento del debito pubblico, provocato dalla necessità di ricorrere alla finanza privata); i continui sforzi per snaturare la Costituzione (riforma dell’articolo V, inserimento del vincolo di pareggio di bilancio, ecc.); la progressiva dismissione degli interventi pubblici in economia. 

3) Il venir meno di una rappresentanza politica e sindacale delle classi lavoratrici e dei settori impoveriti delle classi medie, dovuto alla svolta neoliberista delle forze socialdemocratiche e all’abbandono dell’impegno sui temi sociali da parte di sinistre radicali interessate esclusivamente alla promozione dei diritti civili e individuali.

4) Il trasferimento del consenso elettorale degli strati popolari dalla sinistra a formazioni populiste di destra come la Lega o “di sinistra” come l’M5S (in questo caso ha senso parlare di sinistra solo in ragione della presenza di una quota significativa di ex militanti delusi nelle file del Movimento, certo non per i programmi politici, tanto fumosi quanto moderati) 

In questo contesto, alla fuga degli elettori di sinistra verso l’M5S si è affiancata la diaspora, meno vistosa perché sommersa, di una galassia di piccole formazioni (associazioni, gruppi e micro organizzazioni) convinti della necessità di lottare per la riconquista della sovranità nazionale come mezzo per riattivare le condizioni di possibilità della lotta di classe e della partecipazione democratica, e convinti dell’esigenza di rilanciare principi, valori e programmi di chiara matrice socialista. L’opposizione all’Europa ordoliberale a guida franco-tedesca era dunque considerata condizione indispensabile per la rinascita di un movimento popolare e socialista. (…) Questo fermento era parso trovare un momento di coagulo con il lancio del Manifesto per la sovranità costituzionale, elaborato da compagni provenienti da diverse esperienze che si erano aggregati attorno a Stefano Fassina. Rientrato (come prevedibile) nei ranghi Fassina, una parte di coloro che avevano partecipato a quella esperienza hanno dato vita, nel gennaio 2020, all’associazione Nuova Direzione. 

Le Tesi fondative contenevano: 1) un’analisi dei dispositivi istituzionali, economici e ideologici attraverso i quali l’Unione Europea è riuscita a consegnare ai Paesi del blocco centrale la possibilità di sfruttare la forza lavoro qualificata, e a basso costo, dei Paesi del Sud e dell’Est europei, favorendo il modello neomercantilista tedesco e declassando queste regioni a mercati di sbocco privi di autonomia e risorse competitive; 2) una analisi dell’ideologia liberal liberista, che ne ricostruiva le radici storiche e i percorsi evolutivi, mettendo in luce come le sinistre tradizionali e i “nuovi movimenti” abbiano progressivamente assunto principi, valori e obiettivi politici liberali; 3) un abbozzo di analisi delle trasformazioni che la composizione di classe ha subito nel corso degli ultimi decenni: individualizzazione; frazionamento secondo linee generazionali, etniche e di genere; perdita di capacità organizzativa e contrattuale, ecc. 4) un’analisi del fenomeno populista come forma spuria della lotta di classe in una fase di arretramento generale dei rapporti di forza delle classi subalterne, analisi che, pur mettendo in luce limiti e contraddizioni del fenomeno, affermava la necessità di fare i conti con queste modalità di espressione della rabbia popolare, di “attraversarle” per creare condizioni favorevoli alla formazione di un blocco sociale antagonista; 5) l’indicazione di obiettivi strategici come la lotta per la piena occupazione, il contrasto all’autonomia regionale come leva per ottenere ulteriori privilegi per le regioni ricche, la nazionalizzazione dei servizi di base (scuola, sanità, trasporti), il rafforzamento del welfare, l’abolizione delle riforme che hanno sconciato la Costituzione, la riconfigurazione delle alleanze internazionali, con attenzione prioritaria per i Paesi mediterranei e i Brics. 

Tradurre in azione politica – anche solo sul piano dell’agitazione e della propaganda - queste linee generali si è rivelato impossibile, sia a causa della crisi pandemica, sia a causa dallo scontro interno con un gruppo di compagni che hanno scelto di convergere con il progetto politico del senatore Paragone. La pandemia, tuttavia, non è stata solo un ostacolo “meccanico” allo sviluppo dell’attività politica del gruppo. Il fatto è che essa ha provocato un’accelerazione esponenziale delle contraddizioni economiche, sociali e politiche del sistema, riconfigurando scenari politici e rapporti di forza fra le classi e internazionali. Perciò non mi pare esagerato affermare che le analisi contenute nelle Tesi non richiedono solo aggiornamenti, ma un radicale cambiamento di prospettiva 

Lo scenario internazionale.  

Tanto la vittoria di quattro anni fa quanto la recente sconfitta di Trump sono un sintomo della crisi di egemonia degli Stati Uniti. Il termine è da intendersi in senso gramsciano: crisi di egemonia non significa negare che gli Stati Uniti restino la prima potenza mondiale (…) significa prendere atto della loro incapacità di mantenere il controllo assoluto sul resto del mondo (…). Crisi di egemonia significa inoltre che il potere può essere conservato solo attraverso il puro dominio, ma nemmeno questo è semplice, vista la crisi del processo di globalizzazione. Quest’ultimo è stato il frutto, più che di presunte “leggi” economiche, della volontà americana di dominio imperiale sul mondo unificato dal crollo dell’Urss, ma ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, creando le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti). I contraccolpi interni di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti; in particolare, l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media ha generato una rabbia diffusa delle regioni più colpite che hanno votato per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che le aveva tradite, mentre la sinistra populista di Sanders non ha potuto contrastare l’ascesa di Trump perché intrappolata nel Partito Democratico. Il progetto di Trump condensato nello slogan America First (...) non è riuscito a mantenere le promesse elettorali, perché frenato dalla capacità di interdizione del deep state. Anche il suo tentativo di blandire Putin, per impedirne la convergenza con la Cina, è stato frustrato dalla lobby trasversale neocons. Ma il colpo di grazia è venuto dalla crisi pandemica e dalla linea negazionisti dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Non meno pesanti gli effetti della nuova ondata di conflitti razziali, che ha visto Trump difendere le violenze dei poliziotti fascisti. La somma di queste difficoltà ha fatto sì che il blocco sociale che lo aveva premiato quattro anni fa si sfaldasse: in parte è rientrato nell’ovile democratico, lasciandosi convincere dagli argomenti della sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta fedele una base socialmente e culturalmente eterogenea che ha mostrato il suo volto folcloristico nell’assalto a Capitol Hill. Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (…) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari e high tech sugli altri settori del capitale nazionale; verrà garantita la continuità  delle politiche economiche democratiche (sia pure con correzioni in senso neokeynesiano), ma soprattutto verrà perseguito con determinazione lo sforzo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. (…).

Questo disegno non è perseguibile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio dei loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue. Quest’ultima ha subito gli effetti devastanti della pandemia (aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni, tagli alla spesa e ai servizi pubblici): crollo dell’occupazione e della produzione, centinaia di migliaia di vittime, servizi sanitari al collasso. Per fronteggiare l’emergenza è stato necessario compiere una brusca inversione di rotta: allentare significativamente i vincoli di bilancio, erogare enormi quantità di denaro pubblico per impedire che decine di milioni di persone sprofondino in povertà assoluta, rivalutare il ruolo dello Stato come garante in ultima istanza della sicurezza e del benessere popolari (…). In generale è possibile evidenziare significative analogie con lo scenario americano: anche in Europa il blocco sociale populista si è tendenzialmente sfaldato separando gli strati (lavoratori garantiti, pensionati, dipendenti pubblici) che più beneficiano dell’assistenza pubblica da quelli (precari, disoccupati, finti autonomi, impiegati nella gig economy, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.) che più soffrono per il lockdown e la perdita di reddito. Di conseguenza, anche in Europa i movimenti populisti e sovranisti di destra e di sinistra hanno subito un secco ridimensionamento: quelli di destra sono rifluiti nel blocco liberale dominante o sono stati marginalizzati. Quanto ai populisti di sinistra, la loro parabola discendente era già iniziata prima della pandemia, a mano a mano che sceglievano di allearsi con i tradizionali partiti di centro sinistra per “difendere la democrazia” dalla minaccia dei populismi di destra. Avendo perso anche questi “contenitori dell’ira” e trovandosi nella quasi impossibilità di esprimersi pubblicamente a causa dello stato di emergenza sanitario, la rabbia degli strati più marginalizzati si manifesta con scoppi episodici e ideologicamente caricaturali (complottisti, no Vax, ecc.) non troppo dissimili dalla variopinta umanità che ha dato l’assalto a Capitol Hill. Il consolidamento dei tradizionali equilibri istituzionali (consolidamento che in Italia ha assunto la forma del golpe bianco di Draghi) non risolve tuttavia le contraddizioni scatenate dalla crisi pandemica: l’Europa – soprattutto dopo avere perso la “costola” inglese – non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e del suo ruolo geopolitici, di rientrare disciplinatamente sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, anche perché questi ultimi ne richiedono la partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese, il che comporta gravi conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti (questa mia previsione è stata parzialmente smentita, nel senso che, almeno finora, la Ue si è rivelata più disponibile di quanto prevedessi ad allinearsi alla politica provocatoria degli Usa nei confronti di Cina e Russia). 

A questa schematica rappresentazione dello scenario mondiale (…) manca ovviamente una sezione sulla Cina, che richiederebbe un’analisi approfondita sulla natura del sistema socioeconomico cinese e sul modo peculiare in cui la cultura millenaria di quel Paese si è intrecciata con il marxismo, nonché sulle prospettive del suo scontro geopolitico con l’Occidente (...) Qui mi limito ad affermare che, qualsiasi sia il giudizio sulla natura del sistema cinese, è demenziale descrivere il conflitto cino-americano come uno scontro simmetrico fra imperialismi: 1) perché l’aggressore è l’America; 2) perché il tipo di investimenti occidentali nei Paesi in via di sviluppo (predatori) è completamente diverso da quello degli investimenti cinesi (strutturali, a condizioni favorevoli, non vincolati all’orientamento politico dei beneficiari e finalizzato al loro sviluppo reale); 3) perché la crescita della Cina, dacché ha abbandonato il modello mercantilista per scommettere sullo sviluppo del mercato interno, è divenuta un fattore in grado di accelerare la crisi capitalistica globale.  


Lo scenario nazionale

Tralascio tutta la prima parte di questa sezione del documento, nella quale ricostruivo alcuni passaggi storici: dal boom economico del dopoguerra, reso possibile da un’economia mista che ha potuto contare sulle performance della grande industria di Stato, alla crisi del compromesso fordista fra capitale e lavoro, causata dal ciclo di lotte operaie che ha eroso i margini di profitto delle imprese e dalla crisi petrolifera, alla controffensiva liberista degli anni Ottanta, con i vari Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi protagonisti della autonomizzazione della Banca d’Italia dalla politica, delle privatizzazioni e delle “riforme” antipopolari legate all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso nell’area euro. Dopo avere descritto i devastanti effetti economici, politici e ideologici di questa controrivoluzione passavo all’analisi delle trasformazioni della  composizione di classe e delle forme della rappresentanza politica, scrivendo: 

abbiamo assistito all’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Nel contempo Tangentopoli sanciva la morte dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione e dalla scelta di recidere i legami con le loro tradizionali basi sociali. Infine Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali, fondati sulla mobilitazione di una massa composita di individui sensibili alla comunicazione mediatica più che ai programmi politici. Non sono mancati movimenti spontanei di rivolta, i quali tuttavia rispecchiavano a loro volta questo marasma sociale, culturale e politico: esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa; il “cittadinismo” dei vari girotondi alimentati dalla piccola e media borghesia urbana e privi di velleità antisistema (via i corrotti, potere agli onesti); le esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi (meno strutturati e dotati di consapevolezza politica rispetto a fenomeni come il 15M spagnolo o i gilet gialli francesi). Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S, un fenomeno che tocca da vicino le ragioni della nascita di Nuova Direzione e delle scelte di fronte alle quali oggi ci troviamo.

Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni del partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Nel periodo fra il governo Monti e l’incarico che Mattarella ha affidato a Draghi mentre scrivo queste pagine (due momenti in cui l’alta finanza internazionale ha assunto in prima persona il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo qualsiasi finzione di democrazia, due golpe bianchi che hanno confermato la validità del detto di Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato di eccezione”) abbiamo assistito all’ascesa, culminata con le elezioni del 2018 e la nascita del primo governo Conti, e alla fulminea caduta, coincisa con la fine del secondo governo Conti,  di un momento populista (4) bicefalo. Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (anche perché la sua base sociale è legata a triplo filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche). Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito a “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”( 5). Alla fase pionieristica dei Meetup (una rete di collettivi locali egemonizzati, dal punto di vista socioculturale, da esponenti delle nuove professioni emergenti e dalla diaspora dei delusi delle sinistre tradizionali), caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale (orizzontalismo, uno vale uno, ecc.), e dal rifiuto intransigente del professionismo politico, si è passati alla fase governista: incoraggiato dai successi ottenuti dai clamorosi successi nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, il movimento ha tentato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo era venuto aggregando un consenso sociale più ampio e trasversale rispetto alle origini (le analisi dei flussi elettorali ne hanno evidenziato il forte seguito fra gli strati operai e impiegatizi, fra le nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, e fra le classi medie “riflessive”, con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo). Dal punto di vista programmatico l’M5S è parso un’incarnazione da manuale delle tesi del massimo teorico del populismo, Ernesto Laclau (6): un aggregatore di rivendicazioni diverse, provenienti da settori sociali eterogenei, nei confronti di un sistema incapace di dare risposte. In poche parole, quello che Laclau definisce una “catena equivalenziale”, alla quale è mancata, tuttavia, la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare il tutto, visto che l’unico vero collante è stato la critica alla “casta” politica e l’unico vero “programma” quello di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate da meccanismi di democrazia di base. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema capitalistico, nessuna indicazione concreta su fini e mezzi in tema di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico palesemente incapace di gestirlo. Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD – forza dotata di ben altra esperienza e capacità di manovra e con idee chiarissime sugli interessi da difendere – lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Incalzato dai poteri forti, decisi a usare la crisi come occasione di affossamento di qualsiasi capacità di resistenza – ancorché debole e moderata – ai propri obiettivi, si è letteralmente dissolto, riducendosi a stampella esterna dei Dem.


Perché oggi serve qualcosa di più di Nuova Direzione

Il fatto è che, fin dall’inizio, anche se non ce lo siamo mai chiariti del tutto, la ragione di fondo per costituirci in gruppo politico, e non semplicemente in associazione politico culturale, non era tanto la speranza di riuscire ad aggregare le varie componenti della sinistra “sovranista” (il che non garantirebbe comunque il raggiungimento di una “massa critica” sufficiente a consentire un radicamento sui territori e una reale capacità di intervento politico) ma l’aspettativa che la prevedibile crisi dell’M5S potesse tradursi in una “liberazione” dello spazio politico che il Movimento aveva occupato, sottraendolo alla sinistra. In assenza di tale eventualità, e date le nostre ridottissime dimensioni organizzative, ogni velleità di svolgere una “vera” attività politica appariva illusoria. Alcuni compagni, non condividendo questa realistica presa d’atto dei nostri limiti, hanno creduto di riconoscere nel costituendo partito di Paragone, una opportunità di andare a occupare lo spazio politico liberato dalla crisi dell’M5S. La maggioranza si è opposta a quella ipotesi perché riteneva che quella di Paragone rappresentasse inequivocabilmente una micro scissione da destra rispetto all’M5S: antisocialista, filo occidentale e coerentemente “sovranista” nel senso del primo Salvini, quindi incompatibile con i paletti fissati dalle Tesi fondative. (…) Da alcune recenti discussioni avvenute al nostro interno a proposito della necessità di rafforzare e implementare la nostra struttura organizzativa e la nostra capacità di intervento, ho la sensazione che il problema si stia ripresentando in forma abbastanza simile. Non ho alcuna obiezione se i compagni avvertono l’esigenza di svolgere attività politica attiva, ma quello che vi chiedo è: ND è realmente in grado di impegnarsi in tal senso, ma soprattutto perché e con quali prospettive dovrebbe farlo in un contesto come quello che ho fin qui delineato? Per rispondere positivamente occorrerebbe essere convinti 1) che l’ipotesi di poter sfruttare - non dico egemonizzare - lo spazio “liberato” dalla crisi dell’M5S sia ancora praticabile; 2) che sia ancora realistica l’idea di “attraversare” – non il momento populista in generale, destinato a mio parere a durare a lungo, ancorché in forme diverse – bensì “questo” populismo, così come si è concretamente evoluto nel nostro Paese, per “estrarne” un potenziale antisistemico. Le mie risposte sono due secchi no. 

Ecco le ragioni del primo no: gli spazi politici non sono fogli bianchi che si possano riempire immediatamente dopo avere cancellato quanto vi era scritto sopra. Se l’M5S ha potuto occupare in tempi relativamente rapidi il vuoto lasciato dalle sinistre è stato solo perché quel vuoto non si è aperto di colpo, ma è stato l’esito di un lento, decennale processo di degrado di una cultura politica che era riuscita a sopravvivere a lungo solo grazie all’inerzia di fedeltà costruite sulla memoria storica di decine di generazioni. La memoria e la fedeltà sedimentate dall’M5S sono roba di qualche mese, se non di giorni (è l’altra faccia del populismo: quel che si ottiene rapidamente sparisce altrettanto rapidamente). Quello spazio è stato riempito “per disperazione”, per mancanza di alternative e ora che i disperati che ci hanno creduto avranno conferma che, per dirla con la Tatcher, There is no alternative, resterà vuoto a tempo indeterminato (vedi la catastrofe del dopo Tsipras in Grecia). Ergo: l’idea di navigare fra i rottami dell'M5S per pescare un numero sufficiente di naufraghi da arruolare è illusoria. 

Le ragioni del secondo no sono più complesse. Negli ultimi anni ho sostenuto (7) che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa epoca di disarticolazione delle classi subalterne. Ho anche sostenuto che una forza socialcomunista dovrebbe essere parte attiva dei movimenti populisti con caratteristiche progressive (o di sinistra, volendo usare questa connotazione, ormai sempre meno caratterizzante) per agire come catalizzatore di un processo di aggregazione di un blocco sociale egemonizzato dalle classi subalterne. Ma se ho ragione nell’affermare che quei movimenti populisti hanno subito un rapido processo di normalizzazione, e/o si sono disgregati secondo i confini che separano diversi strati di classe, allora il compito prioritario non è oggi la costruzione di un blocco sociale inteso come alleanza fra classi lavoratrici e classi medie, bensì - come ho scritto nel mio ultimo libro (8) la ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista. Il primo obiettivo potrebbe essere perseguito – a condizione che esistano condizioni che oggi in Italia a mio parere non si danno -  attraverso abili strategie di comunicazione, elaborate da un piccolo nucleo dotato di competenze culturali e teoriche in grado di dare vita a nuove correnti di opinione pubblica (è il modello” ispirato dalle teorie di Laclau, dalla rivoluzione “cittadinista” di Correa in Ecuador, e dall’esperienza spagnola di Podemos). Il secondo richiede invece la volontà di compiere un paziente, faticoso e capillare lavoro di penetrazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, sui territori, ecc. e mi pare evidente che ND non è attrezzata per questo. (…) Penso quindi che in questo momento svolgeremmo un ruolo più utile come associazione politico culturale (penso all’esempio di Marx 21) piuttosto che come uno dei tanti micro gruppi che nutrono la velleità di agire come nucleo fondativo di un nuovo movimento, se non addirittura di un nuovo partito. 

Tralascio le ultime righe del documento, di scarso interesse per chi non sia direttamente implicato nell’esperienza di Nuova Direzione. Mi limito a riferire che il dibattito (torno a ricordare che chi fosse interessato può trovarne traccia nel sito dell’associazione) è proseguito in serenità ma senza sciogliere i nodi da me posti, per cui ho reiterato le mie dimissioni dal direttivo e mi sono di fatto allontanato dall’associazione. Dopodiché gli amici di Nuova Direzione hanno celebrato la loro seconda assemblea nazionale, eletto un nuovo direttivo e proseguono la loro attività. Aggiungo solo che mi par di capire che, pur condividendo alcuni dei punti sollevati dal sottoscritto e da Alessandro Visalli, ritengono che l’impianto delle Tesi non necessiti di sostanziali stravolgimenti, malgrado i radicali mutamenti avvenuti nel corso dell’ultimo anno. In particolare, mantengono come prospettiva strategica la lotta al bipolarismo (anche se il governo Draghi sta creando le condizioni per la sua liquidazione, perlomeno nelle forme classiche) e la costruzione di un non meglio definito ”terzo polo” (già in occasione dell’assemblea fondativa mi ero inutilmente opposto a questa formulazione, che ritengo politicamente ambigua e inconcludente) che - in concreto – può basarsi solo sulla speranza che i detriti “dell’ala sinistra” di un M5S che attraversa una drammatica crisi d’identità si ricompattino in un progetto “alternativo” (ammesso e non concesso che ciò possa avvenire, si tratterebbe dell’ennesima versione del velleitarismo politico di quelle “classi medie riflessive” costitutivamente incapaci di assumere una posizione chiaramente anti sistemica).



Torno ora a ragionare “in tempo reale”. Chiusa l'esperienza di Nuova Direzione, mi sono chiesto se esistesse una offerta politica in grado di rispondere alle esigenze che avanzavo nel documento di cui ho appena riproposto ampie parti. Per un marxista la teoria non è mai esercizio fine a se stesso, ma analisi concreta della situazione concreta, strumento per l’azione. Nel caso in questione, ciò vuol dire che, se è vero che l’obiettivo non può più essere quello di costruire un inedito blocco sociale, cavalcando un momento populista che oggi appare in avanzata fase di esaurimento, bensì quello di mettersi pazientemente al lavoro per ricostruire una unità di classe che decenni di neoliberalismo hanno distrutto (passando, per riproporre la metafora gramsciana, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione), allora è evidente che la prima cosa da verificare è se esista oggi in Italia una forza di chiara matrice comunista che cerchi di affrontare tale obiettivo. A questo punto, cerco di elencare quali sono, a mio parere, i requisiti minimi che una forza del genere dovrebbe soddisfare.

1) Viviamo in un contesto storico in cui “essere di sinistra” è divenuto sinonimo: a) di linguaggio politicamente corretto; b) di impegno a rincorrere tutti i bisogni, i desideri e le rivendicazioni di “riconoscimento” identitario da parte di individui e minoranze (spesso alimentati da un perverso intreccio fra tecnologia e mercato),  a prescindere dalla loro compatibilità con gli interessi comunitari e il bene comune, o dai possibili danni collaterali a carico dell’integrità fisica e morale di altri soggetti (vedi  la rivendicazione di sancire la mercificazione del corpo femminile legalizzando l’ignobile pratica dell’utero in affitto; c) di apologia della trasgressione nei confronti di ogni confine etico e simbolico, associata alla delegittimazione di ogni critica nei confronti di tale atteggiamento, automaticamente bollata come “transfobia” (per inciso il significato stesso della parola trasgressione, tanto cara ai reduci del 68 e ai loro emuli, appare svuotato di senso nella misura in cui trattasi di trasgressione senza oggetto, visto che il licitazionismo è ormai l’ideologia ufficiale della società in cui viviamo); d) di incondizionata approvazione dei dogmi economici liberisti e dei dogmi politici liberali, associata al culto dei “diritti universali dell’uomo” (ignorando la feroce critica che Marx fece di questo concetto astratto, dietro al quale si nascondono i concretissimi diritti dell’uomo proprietario) e della “società aperta” di popperiana memoria, principi in nome dei quali si giustificano sia l’aggressione sistematica contro i Paesi socialisti, o comunque restii ad accettare l’egemonia occidentale, sia l’instaurazione di un clima neo maccartista del quale l’ignobile equiparazione fra nazismo e socialismo da parte del parlamento europeo è la massima espressione (che prelude al progetto di metter fuori legge i comunisti). Considerati questi e altri significati assunti dalla parola sinistra, mi aspetto che la forza politica di cui sopra NON si dichiari di sinistra bensì si professi chiaramente e orgogliosamente comunista.     

2) Dato che dichiararsi comunisti non basta (persino Antonio Negri e “il Manifesto” inalberano abusivamente questa etichetta, mentre tutto ciò che dicono e scrivono li classifica impietosamente del campo delle “sinistre progressiste”, cioè liberali), mi aspetto che la forza in questione legittimi questa autodefinizione con  un impegno coerente e constante nel lavoro di ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto. Questo sapendo che parte di tale impegno consiste precisamente nel lavoro teorico di ridefinizione della classe in sé nel complesso scenario creato dalle trasformazioni del modo di produrre (definire la classe in sé è condizione preliminare per costruire la classe per sé, la soggettività politica antagonista). Un lavoro teorico che sappia liberarsi dalle concezioni dogmatiche, riconoscendo le forme nuove che l’oppressione e lo sfruttamento capitalistici  hanno assunto, generando inedite articolazioni del proprio potenziale nemico (vedi, ad esempio, il contributo di Linera (9) all’analisi della natura di classe delle comunità andine,  o quello di Harvey (10) che invita a riconoscere l’appartenenza alla classe operaia dei lavoratori dei settori terziarizzati (nuovi servizi alle imprese e alla persona, gig economy, logistica, ecc.). Un lavoro pratico e teorico da integrare reciprocamente in funzione della costruzione del nuovo partito di classe.  

3) Mi aspetto inoltre che la forza in questione si differenzi dalle sinistre liberali e presunte “radicali” anche contestandone l’ideologia antistatalista e antipolitica che è stata e continua ad essere un tratto distintivo della cultura e dei movimenti post sessantottini. A prescindere da quanto si possa pensare in merito al fatto se l’utopia marxiana sull’estinzione dello stato conservi o meno la sua validità e il suo significato, dovrebbe essere chiaro che l’idea secondo cui lo sviluppo delle forze produttive avrebbe oggi raggiunto un livello tale da consentire il passaggio diretto al comunismo (magari senza passare, come teorizzano i post operaisti, dalla conquista del potere politico) non è solo sbagliata, è letteralmente reazionaria. Questa idea rimuove infatti il fatto che lo stato non è solo lo strumento delle classi dominanti, è anche il terreno dello scontro fra gli interessi e le idee di tutte le classi sociali, terreno che, dati certi rapporti di forza, può anche rispecchiare le aspirazioni delle classi subalterne. Ignorarlo significa sminuire le conquiste che decenni di lotte operaie hanno strappato non solo sul piano economico e sindacale ma anche sul piano delle conquiste democratiche. È quindi demenziale rinunciare alla lotta per il potere politico (considerandolo come una sorta di incarnazione del male) e sognare di poter cambiare il mondo “a partire da sé”, attraverso pratiche di autoemancipazione individuale o di microcomunità, una mentalità tipica dei nuovi movimenti sociali (femminismo, pacifismo, no global, ecc.) che hanno preso il posto delle formazioni extraparlamentari degli anni Settanta. La presa del potere politico resta l’obiettivo irrinunciabile di qualsiasi forza che si definisca comunista, e ciò a prescindere dal dibattito sulle forme con cui tale obiettivo possa o debba essere perseguito.

4) Mi aspetto che si batta con decisione contro il cosmopolitismo borghese che è divenuto la cifra del progressismo di sinistra. L’internazionalismo proletario non ha nulla a che fare (e Lenin lo aveva ben chiaro, come dimostra il suo decisivo contributo al dibattito sulla questione nazionale) con l’ideologia no border. Internazionalismo è il rapporto di solidarietà fra proletari e popoli oppressi e sfruttati nella comune lotta contro l’imperialismo. E la sovranità popolare, al pari della democrazia – sempre che con il termine non ci si limiti a indicare le procedure della democrazia rappresentativa -, non possono prescindere dalla sovranità nazionale, nella misura in cui nessun popolo cui sia stata sottratta la propria sovranità è in grado di decidere liberamente del proprio futuro. Il che conduce immediatamente alla necessità di assumere una chiara e inequivocabile posizione contro questa Europa. La Unione Europea è nata infatti con il preciso obiettivo, chiaramente formulato dal nume tutelare del liberal liberismo von Hayek, di distruggere i rapporti di forza e la capacità di lotta dei proletari delle singole nazioni aderenti. La sua costituzione materiale, di chiara impronta ordoliberale, è il fondamento del rapporto di sudditanza che la Germania è riuscita ad instaurare nei confronti delle nazioni del Sud e dell’Est Europa, trasformandole in altrettanti fornitori di forza lavoro qualificata a basso costo, in mercati di sbocco dei suoi prodotti, e privandole di risorse tali da poterle trasformare in concorrenti. In  poche parole, la Ue non può essere riformata ma dev’essere distrutta, per costruire sulle sue ceneri un’Europa basta sulla collaborazione pacifica e paritaria fra popoli. 

5) come corollario di quanto appena affermato, mi aspetto che, di fronte a una situazione mondiale che vede crescere i venti di guerra, con gli Stati Uniti incapaci di gestire il proprio declino egemonico e di accettare un mondo multipolare e impegnati a costruire una “santa alleanza” contro Cina e Russia e contro tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali, assuma una coerente e dura posizione antimperialista. Nessuna aggressione imperialista – ipocritamente motivata con la difesa dei diritti umani da parte di potenze che quei diritti hanno sempre calpestato – contro qualsiasi Paese può essere tollerata. Questo vale per la Russia, l’Iran, la Siria che socialisti non sono, ma vale a maggior ragione per i Paesi socialisti come Cuba, il Vietnam, la Bolivia, il Venezuela e – soprattutto – come la Cina. Nelle sinistre liberal progressiste circola la delirante posizione secondo cui lo scontro fra Usa e Cina sarebbe uno scontro fra opposti imperialismi, in quanto la Cina è un Paese autoritario e capitalista di stato, qual era l’Urss, se non esplicitamente capitalista. Posto che io ritengo, come ho argomentato in varie occasioni (11) che la Cina sia un Paese socialista sulla cui natura sarebbe necessario aprire – come hanno fatto gli amici di Marx 21 – un approfondito dibattito sulla possibilità di convivenza – sotto precise condizioni politiche – fra socialismo e mercato, resta il dato di fatto che la relazione fra Usa e Cina è senza ombra di dubbio quella fra un aggressore e un aggredito per cui è dovere dei comunisti schierarsi con il secondo.  

6) mi aspetto infine che abbia il coraggio di non mettersi in una posizione “codista” nei confronti del movimento femminista. Storicamente il femminismo ha dato un contributo importante all’analisi della funzione del lavoro riproduttivo non retribuito ai fini della conservazione degli equilibri del modo di produzione capitalista, così come ha messo all’ordine del giorno il tema delle contraddizioni di genere come strumento di divisone delle classi lavoratrici. Purtroppo di quel femminismo anticapitalista oggi è rimasto poco. Ne rimangono tracce in America Latina, nel femminismo afroamericano e nei gruppi minoritari che si rifanno alle origini del movimento. Il femminismo mainstream, il femminismo post marxista che egemonizza i movimenti di massa alla MeTo e colonizza il discorso politico e gli spazi mediatici e, in alleanza con la cultura Lgbt, mette al centro dell’agenda politica il riconoscimento di diritti individuali sul tipo di quelli sopra descritti (vedi al punto 1), è oggi parte integrante del blocco politico (ma anche sociale: le sue radici di classe sono inequivocabilmente medioborghesi) dominante e quindi è, di fatto, un avversario della classe lavoratrice.

Arrivo alla conclusione. Guardandomi attorno, mi pare che esista una sola forza politica che risponda ai requisiti appena elencati: il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Dalla storia personale che vi ho raccontato in precedenza, avrete capito che in vita mia non ho mai messo in tasca la tessera di un partito politico. Non so se lo farò oggi, alle verde età di 73 anni, ma quel che è certo è che ho intenzione di confrontarmi seriamente con questi compagni, sia perché non mi basta più lottare con le mie armi di intellettuale e giornalista, sia perché sono consapevole che qualsiasi lavoro teorico necessita di un contesto collettivo che ne misuri la consistenza. Le sfide che dobbiamo affrontare sono troppo complesse perché ognuno di noi possa affrontarle da solo. Saluti comunisti. 

Note

(1) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(2)  Vedi in particolare l’estate che ho passato in Ecuador nel 2013 che ha inspirato un mio libro uscito l’anno dopo da Jaka Book (Magia bianca magia nera). In precedenza e successivamente sono stato in Argentina, in Messico e a Cuba. 

(3) http://www.patriaecostituzione.it/wp-content/uploads/2019/02/Folder-Manifesto-Sovranita-Costituzionale.pdf 

(4) Per la definizione di momento populista cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.

(5) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(6) Cfr. La ragione…, op. cit., vedi anche Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(7) Vedi, in particolare, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016. 

(8) C. Formenti, Il capitale vede rosso. Socialismo del XXI secolo e reazione maccartista, Meltemi, Milano 2020. 

(9) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.

(10) Cfr. D. Harvey, Cronache anticapitaliste, Feltrinelli Milano 2021. 

(11) Cfr. Il capitale vede rosso, op. cit. vedi anche Il socialismo è morto viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

 


        


    

             

venerdì 30 aprile 2021




    IL GRANDE GIOCO DI LENIN 



La distinzione fra marxismo orientale e occidentale, proposta dal filosofo Domenico Losurdo (1), è senza dubbio una delle più efficaci chiavi interpretative per comprendere un ampio ventaglio di fenomeni contemporanei: dal clamoroso successo della via cinese al socialismo al fallimento dei partiti comunisti occidentali, trasformatisi – salvo meritevoli eccezioni – in altrettante varianti “di sinistra” dell’ideologia liberale, che oggi esercita un’egemonia incontrastata sull’intero emisfero occidentale; dal fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute – contro le previsioni di Marx ed Engels - in Paesi industrialmente arretrati e non laddove le forze produttive erano più sviluppate, al fatto che la questione nazionale – della quale quasi il solo Lenin seppe valutare adeguatamente il peso strategico – ha finito per svolgere un ruolo più importante delle lotte del proletariato industriale delle metropoli come fattore di resistenza alle politiche imperialiste. Non intendo tornare qui sull’ampio e complesso dibattito teorico suscitato dalle tesi di Losurdo, cui ho dato a mia volta un sia pur modesto contributo (2). Voglio piuttosto sfruttare le suggestioni inspiratemi dalla lettura di un affascinante libro del giornalista inglese Peter Hopkirk (Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis editore), per mettere in luce come la storia - poco conosciuta - di eventi accaduti in Asia Centrale nei decenni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, offra una conferma empirica alla validità del punto di vista di Losurdo. 

Attingendo a documenti dei governi inglesi dell’epoca, a vecchi articoli di riviste e giornali, ma soprattutto alle memorie di alcune spie britanniche, di russi bianchi e di ex bolscevichi fuggiti dall’Unione Sovietica, Hopkirk descrive la spietata guerra che, dal 1920 alla metà degli anni Trenta, oppose – perlopiù indirettamente, appoggiando l’una o l’altra delle fazioni ed etnie locali in conflitto reciproco – inglesi e russi su un’area di migliaia di chilometri che si estende dall’Afghanistan alla Mongolia, passando per lo Xinjiang. Rievocando il Grande Gioco, che già aveva opposto la Russia zarista e l’Impero inglese, i quali si contendevano il controllo di quegli stessi territori – immortalato da Rudyard Kipling nel suo famoso romanzo Kim - Hopkirk presenta le storie che racconta come una sorta di Grande Gioco 2.0, tende cioè a descriverle come una “seconda puntata” - sostanzialmente in continuità sul piano geopolitico – con il conflitto precedente. Ciò emerge chiaramente dal sottotitolo “Il sogno di Lenin di un impero in Asia”, che allude esplicitamente a una supposta continuità fra le mire espansioniste degli zar in Asia e quelle del leader della Rivoluzione d’Ottobre. Mire alle quali gli inglesi si opposero con tanta maggiore energia in quanto, a quei tempi, rappresentavano l’avanguardia del fronte capitalista mondiale che tentava di soffocare sul nascere la minaccia bolscevica. 

È il caso si chiarire subito che il punto di vista di Hopkirk è tutt’altro che obiettivo: nella sua narrazione ai russi (o meglio ai bolscevichi, perché con i russi bianchi adotta tutt’altro atteggiamento) spetta la parte dei cattivi e agli inglesi quella dei buoni, senza se e senza ma. Così le imprese dell’agente britannico Frederick Marsham Bailey, maestro di travestimenti e astuto manipolatore di uomini, vengono descritte con lo stesso entusiasmo con cui Ian Fleming ha costruito il mito del suo eroe immaginario, James Bond. Lo stesso dicasi per Percy Thomas Etherton, incaricato di presidiare lo Xinjiang, impedendo qualsiasi cedimento del debole governo cinese alle mire egemoniche dei sovietici, o della spia al servizio dei Bianchi Pavel Nazarov. Sul fronte opposto i bolscevichi vengono viceversa descritti come bande disorganizzate, guidate da comandanti tanto feroci quanto sprovveduti, i quali, in assenza dell’appoggio della lontanissima Mosca, riescono a stento a controllare la resistenza delle tribù musulmane centroasiatiche che li considerano invasori al pari degli zaristi (Hopkirk insiste sull’atteggiamento neocoloniale dei bolscevichi, sostenendo che le spie britanniche potevano contare sul risentimento delle popolazioni autoctone nei loro confronti). Che poi gli eserciti dei “resistenti” – siano essi locali o russi bianchi – alleati degli inglesi si rivelassero ben più feroci dei bolscevichi è un dettaglio che non turba Hopkirk: lo ammette senza reticenze, ma lascia al tempo stesso capire che, per preservare gli interessi dell’Impero, tutto era lecito. 

Il "barone pazzo"



Il libro descrive l’ascesa e la caduta di una serie di signori della guerra come il barone pazzo von Ungern-Sternberg, un generale bianco rifugiatosi in Mongolia dove sperava di emulare le gesta di Gengis Kahn, del quale credeva di essere la reincarnazione, il generale Enver Pasha, fuggito dalla Turchia dopo la rivoluzione di Ataturk, inseguendo il sogno di creare un proprio impero personale unificando tutte le etnie centroasiatiche di religione islamica, e Ma Zhongying, un brigante che per poco non riuscì a conquistare lo Xinjiang. Tutti costoro vengono liquidati a mano a mano che la presa dell’Unione Sovietica su quei remoti territori si fa più salda, grazie all’arrivo di reparti scelti dell’Armata Rossa guidati dal generale Frunze, che si rendono disponibili dopo avere sbaragliato la resistenza dei Bianchi sui fronti occidentali. 


Il generale Frunze




Tuttavia, benché il racconto di queste storie sia affascinante, rivelando fatti storici noti solo agli specialisti di quel periodo e di quelle regioni, la cosa più interessante, come stiamo per vedere è un’altra. È chiaro che Lenin, e più in generale il partito bolscevico, non erano tanto sprovveduti da sognare di costruire un impero in Asia – come recita il sottotitolo del libro -, dal momento che la debolezza economica e industriale della Russia postrivoluzionaria, l’assedio da parte dell’intero concerto delle potenze occidentali, e la necessità di consolidare il regime nei suoi primi anni di vita, facevano sì che la mera sopravvivenza della neonata repubblica fosse allora l’obiettivo più ambizioso perseguibile. Ciò che faceva davvero paura a Londra, come lo stesso Hopkirk spiega, è il cambiamento degli obiettivi di politica internazionale voluto da Lenin dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa occidentale (in Germania e Ungheria, per tacere dell’avanzata fascista in Italia). Coerentemente con la sua analisi dell’Imperialismo, e con la comprensione del ruolo strategico che le lotte dei popoli coloniali avrebbero potuto svolgere per accelerare la prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale, l’attenzione di Lenin si sposta decisamente ad Oriente. Se gli imperialisti accerchiano la Russia, e se dai proletari dei loro Paesi non ci si può più aspettare un appoggio decisivo, allora non resta che contro accerchiarli, sottraendo loro il controllo e il dominio sulle colonie, dalle quali traggono le risorse per garantire l’accumulazione allargata del capitale metropolitano (e la pace sociale, ottenuta distribuendo le briciole del saccheggio coloniale alla classe operaia). 


Soldati dell'Armata Rossa in marcia




Particolarmente interessante, in tal senso, è la ricostruzione che Hopkirk fa del rapporto privilegiato che Lenin instaura con il comunista indiano Manabendra Nath Roy, uno dei pochi “cattivi” nei confronti dei quali Hopkirk non può esimersi di esprimere ammirazione per il coraggio, lo spirito di iniziativa e l’intelligenza che saprà manifestare, sia barcamenandosi nei meandri delle diverse correnti presenti nel Comintern della Terza Internazionale, sia quando sarà inviato sul campo per coordinare gli agenti comunisti infiltrati in Afghanistan e in India, con lo scopo di scatenare una rivolta contro il dominio coloniale inglese. Lenin infatti individua giustamente nell’imperialismo inglese il nemico principale e nel subcontinente indiano la sua miniera d’oro, perdendo la quale perderebbe gran parte del suo potere. Nessuna mira “imperiale” dunque, ma un brusco cambio di strategia che, secondo quanto racconta Roy nelle sue memorie - citate da Hopkirk - risultò indigesto ad altri capi bolscevichi (a Zinoviev in particolare), senza che Lenin si lasciasse tuttavia sviare. 


Borodin (al centro) in Cina




Morto Lenin e falliti i tentativi di esportare la rivoluzione in India, Roy viene progressivamente emarginato, mentre l’interesse dell’Unione Sovietica, ora guidata da Stalin, si sposta progressivamente sulla Cina. E qui Hopkirk rende omaggio al coraggio e all’abilità di un altro “cattivo”, quel Michail Borodin che fu appunto incaricato di coordinare le attività del neonato Partito Comunista Cinese. Com’è noto, l’appoggio tattico che Stalin concesse al Kuomintang guidato da Chiang Kai Shek (i comunisti erano stati invitati a entrare nel Kuomintang, agendo come ala sinistra al suo interno) si risolse in un disastro, con il massacro seguito all’insurrezione di Canton, mentre Borodin riuscì avventurosamente a fuggire e rientrare a Mosca (dove ritrovò la moglie che si riteneva fosse stata assassinata dagli sgherri di un signore della guerra cinese). 

Hopkirk conclude recitando il de profundis per il presunto sogno imperiale sovietico in Asia, ma in realtà, al netto dei tanti errori commessi, si può dire che alla lunga distanza la svolta di Lenin abbia prodotto i frutti sperati, ove si consideri che il seme trapiantato in Cina è germogliato nel trionfo del socialismo in quel grande Paese, che ha raccolto l’eredità dell’Unione Sovietica, nella misura in cui incarna il nuovo incubo che turba il sonno dell’imperialismo occidentale (che oggi ha dismesso l’Union Jack per ammantarsi della bandiera a stelle e strisce). Tornando a Losurdo, questo racconto – ancorché apologetico nei confronti dell’Occidente - ci aiuta a collocare con una certa precisione (diciamo fra il 1920 e il 1924) la data del divorzio fra marxismo occidentale e marxismo occidentale. Divorzio che – come auspicava lo stesso Losurdo - si spera possa essere sanato quanto prima con la rinascita del marxismo occidentale. 

Un ultima cosa: agli appassionati del fumetto d’autore, e in particolare delle graphic novel di Hugo Pratt, consiglio di procurarsi Lanterne Rosse, un album che contiene un’avventura di Corto Maltese ambientata negli stessi luoghi e nello stesso periodo di cui abbiamo appena parlato (nella storia compare anche, fra gli altri il barone pazzo von Ungern-Sternberg).

NOTE
(1) Cfr. D. Losurdo, Il marxismno occidentale. Come nacque, comne morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017
(2) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

domenica 25 aprile 2021





METAMORFOSI DEL TAYLORISMO

Le insidie della "umanizzazione" del lavoro


L’atteggiamento dei movimenti operai di ispirazione marxista nei confronti della tecnologia è sempre stato determinato dalla convinzione che lo sviluppo delle forze produttive è di per sé -a prescindere dal suo essere prodotto del processo di accumulazione capitalistica - un fattore progressivo, nella misura in cui crea le condizioni per la transizione a una forma più avanzata di civiltà. Per questo motivo, la rivolta luddista contro l’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra dell’Ottocento - benché gli storici ne riconoscano il ruolo nella genesi di una embrionale coscienza di classe (1) – è stata generalmente classificata come una vana resistenza – eroica, ma oggettivamente conservatrice – al processo di industrializzazione, dal momento che questo avrebbe favorito la crescita numerica degli “affossatori” del modo di produzione capitalistico. Per la stessa ragione Marx, tanto nel Manifesto quanto nel Capitale, esalta la funzione “rivoluzionaria” del capitale che, nella sua irresistibile avanzata, spazza via tutte le forme economiche e sociali “arretrate” (arrivando a celebrare la missione “civilizzatrice” dell’imperialismo britannico in India (2) – pur riconoscendone i crimini). Per lo stesso motivo, infine, tanto Lenin che Gramsci diedero un giudizio positivo sulle “scoperte” di Taylor, ritenendo che i principi dell’organizzazione “scientifica” del lavoro rappresentassero un’importante innovazione di cui la classe operaia avrebbe dovuto impadronirsi, per sviluppare la produzione e avanzare più rapidamente verso il socialismo. 

Del resto, anche la variante fordista del taylorismo ha riscosso la sua quota di approvazione, nella misura in cui la si è potuta considerare uno dei fondamenti del compromesso capitale/lavoro che ha dato vita al trentennio “dorato” del secondo dopoguerra. In concomitanza con il ciclo di lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, questo atteggiamento subisce una radicale trasformazione, senza però che venga messo in discussione il dogma di fondo in merito al ruolo intrinsecamente rivoluzionario del progresso tecnologico. Pesa il fatto che si è acquisita crescente consapevolezza della durezza della condizione operaia - sofferenza mentale e fisica, ridotta qualità di vita, perdita di dignità, ecc. – associata a tale progresso, e se quest’ultimo viene ancora considerato positivamente, non è tanto perché aumenta la produttività del lavoro, quanto perché favorisce l’unità di classe – cementata dalla condivisione delle stesse esperienze da parte di centinaia di migliaia di lavoratori concentrati in grandi fabbriche, dove vengono costretti a svolgere mansioni puramente esecutive – e alimenta la volontà di lotta.

Sorvolando sull’ideologia operaista e sulla sua tesi di fondo – secondo la quale questa nuova condizione operaia attribuisce alla lotta di fabbrica un carattere direttamente politico, in quanto consapevolmente anticapitalista –, tesi di cui mi sono ampiamente occupato altrove (3), mi limito a ricordare come le sinistre radicali di quegli anni considerassero conservatrice e reazionaria la linea del sindacato tradizionale, il quale si batteva per la tutela della professionalità degli strati superiori della forza lavoro e per la riqualificazione professionale della massa dei lavoratori esecutivi. Questa politica, si argomentava, mirava a neutralizzare lo spirito ribelle dell’operaio-massa, alimentando l’illusione di poter salvare quel compromesso fordista che la crisi stava inesorabilmente spazzando via.

Nel mezzo secolo che va dalla metà degli anni Settanta ad oggi, la narrazione sul conflitto capitale/lavoro subisce una dislocazione radicale. L’impatto della ristrutturazione tecnologica delle imprese, dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia e della svolta liberal liberista delle sinistre socialdemocratiche, è talmente duro da alimentare il mito della “fine del lavoro”. Il lavoro operaio trasmigra in Cina e negli altri Paesi in via di sviluppo, si diluisce nelle catene di subappalto, ma soprattutto perde – oltre ai tradizionali strumenti organizzativi e di rappresentanza politica e sindacale – la propria identità antropologica, il proprio status socioculturale. Infatti il processo di terziarizzazione “camuffa” il lavoro industriale, il quale  – pur restando tale nella sostanza, come osserva David Harvey (4) – sembra sparire a mano a mano che si disperde nei mille rivoli della logistica, della gig economy, dell’intrattenimento, del turismo, della ristorazione, ecc., e si “imbastardisce”, mescolando ex operai industriali autoctoni, immigrati, studenti, finti lavoratori “autonomi”, ecc. Una massa individualizzata e dispersa, quasi del tutto priva di qualsiasi consapevolezza della propria comune appartenenza di classe. I nuovi soggetti della narrazione sono ora gli eredi di quegli strati di forza lavoro in formazione che, negli anni Sessanta e Settanta, avevano trasformato scuole e università in altrettante casematte della alleanza studenti/lavoratori. 

Un’alleanza effimera fra “critica sociale” e “critica artistica”, secondo l’azzeccata definizione di Boltanski e Chiapello (5), destinata a sciogliersi a mano a mano che le lotte operaie rifluiscono, fino a sparire quasi del tutto sotto i colpi di  maglio della crisi e della ristrutturazione capitalistiche. Dopodiché il conflitto sociale viene raccontato quasi esclusivamente in base ai canoni ideologici della “critica artistica”: antiautoritarismo, no al paternalismo e alle gerarchie famigliari, aziendali e politiche, riconoscimento delle differenze di genere, culturali, di orientamento sessuale ecc. Un bagaglio politico-culturale che i nuovi movimenti sociali (femminismo, pacifismo, no global, ecc.) hanno ereditato dal 68,  e che riversano nel mondo del lavoro, a mano a mano che entrano a farne parte in quanto membri di quella nuova classe media variamente definita “classe creativa”, “lavoratori della conoscenza”,  “Quinto Stato”, ecc. (6). 

Con il salto tecnologico della rivoluzione digitale - il quale, a partire dagli anni Novanta, ridisegna sia l’organizzazione del lavoro e le filosofie gestionali all’interno delle grandi imprese (non solo nelle Internet Company e nel settore High tech), sia le reti che interconnettono flussi commerciali e finanziari, produttori e consumatori (generando la figura ibrida del prosumer), metropoli e periferie, catene di subfornitura e lavoro autonomo - emerge progressivamente un nuovo paradigma che si inspira soprattutto alle teorie post operaiste. In questo nuovo modello, il ruolo di avanguardia di classe un tempo appannaggio dell’operaio massa, dell’operaio comune unskilled, viene trasferito ai “lavoratori della conoscenza” (una categoria dai confini imprecisi, al punto che si tende ad estenderli progressivamente, fino ad abbracciare l’insieme degli strati tecnico – impiegatizi, le nuove forme di lavoro autonomo e finto autonomo, o addirittura gli utenti-consumatori dei social network). 

Il ruolo virtualmente “sovversivo” di queste “moltitudini” è nuovamente associato alle opportunità generate dalla tecnologia, anche se, nel racconto, il digitale prende il posto della fabbrica fordista, e anche se ora la tecnica non è più considerata come mero fattore “oggettivo”, in grado di generare condizioni favorevoli all’unificazione della classe e ad alimentarne lo spirito e la volontà di lotta, non viene più percepita cioè come lavoro morto che domina il lavoro vivo, bensì come prodotto immediato delle inedite capacità di cooperazione sociale di una forza lavoro (7) che non ha più bisogno del capitale per innovare e aumentare la forza produttiva del lavoro sociale. Al Marx del Manifesto e del Capitale è subentrato il Marx dei Grundrisse, in particolare laddove si profetizza l’emancipazione del general intellect dal comando capitalistico, a partire dal momento in cui lo sviluppo delle forze produttive diverrà tale da non potere più essere contenuto nei confini della legge del valore-lavoro. In sintonia con questo scenario, le nuove condizioni di lavoro – che si presumono caratterizzate da accresciuti margini di autonomia, allentamento delle regole gerarchiche, lavoro di gruppo, mansioni più creative, ecc. (8) – vengono salutate come il tramonto del fordismo/taylorismo e come il prodotto dell’egemonia culturale che i nuovi movimenti avrebbero conquistato, sia nella società in generale, sia nei confronti dello stesso universo aziendale.

In Felici e sfruttati, un libro di dieci anni fa (9) ho lanciato un  primo attacco – reiterato in opere successive – a questa rappresentazione irenica della magnifiche sorti e progressive dei lavoratori della conoscenza. In quel lavoro avevo cercato di dimostrare: 1) che non esiste una classe omogenea di “lavoratori della conoscenza”, bensì un mondo del lavoro altamente differenziato e gerarchicamente stratificato in relazione alla maggiore o minore contiguità ai centri di comando capitalistico, dai quadri manageriali giù giù fino alla massa dispersa e individualizzata dei lavoratori pseudo autonomi della gig economy; 2) che questa galassia dei nuovi lavori non è unificata sul piano culturale né, tantomeno, su quello politico, per cui i suoi livelli di conflittualità nei confronti del capitale sono a dire poco scarsi (la critica alle tradizionali forme di gestione delle imprese non si estende mai al mercato e al controllo privato sui mezzi di produzione, ma si inspira, quando c’è, a una visione anarco-capitalista che combatte il monopolio in nome della libertà di iniziativa individuale e della concorrenza (10)): 3) che la cooperazione spontanea all’interno delle comunità di utenti consumatori dei network digitali assume sempre più il carattere di lavoro gratuito per i giganti della Net Economy (produzione gratuita di Big Data, che sono la materia prima del modello di business di questi ultimi); 4) che il taylorismo classico non è stato soppiantato da modelli produttivi più liberi, creativi e autonomi, bensì da una inedita forma di taylorismo digitale, che ha una capacità di controllo ancora più pervasiva – in quanto si estende dall’attività lavorativa a tutti gli ambiti della vita quotidiana – sul lavoro. Qualche anno dopo, leggendo l’edizione italiana del già citato lavoro di Boltanski e Chiapello (vedi nota 5), ho avuto conferma della fondatezza di una quinta critica che avevo formulato, relativa al fatto che la penetrazione dei modelli culturali dei movimenti sociali post sessantottini nel mondo aziendale, non è il prodotto della loro egemonia culturale, bensì della capacità di quest’ultimo di appropriarsi di strumenti ancora più sofisticati di manipolazione e controllo nei confronti della forza lavoro. È quindi con molto interesse che ho accolto la pubblicazione dell’edizione italiana del libro di Danièle Linhart (La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management neoliberale), una sociologa francese che smonta ancora più crudamente questi miti sulla “emancipazione” del lavoro, svelando come, dietro la sua presunta “umanizzazione” da parte delle nuove tecniche di gestione aziendale, si celi una realtà di autosfruttamento e servitù volontaria (11).  

Come spiega Enrico Donaggio nella Postfazione, La tesi della Linhart è che l’intera storia del rapporto fra capitale e lavoro è caratterizzato, da un lato, dallo sforzo ininterrotto del capitale per espropriare i lavoratori delle loro competenze professionali, dall’altro dal tentativo  di questi ultimi di preservarle quanto più possibile, nella misura in cui in esse riconoscono, più o meno consapevolmente, un’arma fondamentale di resistenza contro l’intensificazione dello sfruttamento: “La storia del lavoro salariato è quella di una deprofessionalizzazione sistematica dei lavoratori da parte di un management preoccupato di controllare/dominare il loro lavoro”. 





In apertura di questo scritto, citavo la lotta dei luddisti contro l’introduzione dei telai meccanici, ricordando che la loro resistenza fu giudicata, dai padri fondatori del pensiero socialista, tanto eroica quanto inutile e controproducente, in quanto si opponeva allo sviluppo delle forze produttive, il quale, a sua volta, avrebbe favorito la crescita numerica del proletariato industriale, avvicinando la possibilità di abbattere il modo di produzione capitalistico. Ho anche ricordato come questo punto di vista si sia riproposto nel corso della storia del movimento operaio, citando l’apprezzamento di Lenin e Gramsci nei confronti del taylorismo, e il loro invito a utilizzare l’organizzazione “scientifica” del lavoro per aumentare la produttività del lavoro sociale. L’ultima versione di questa narrazione è l’entusiasmo con cui Antonio Negri e altri intellettuali post operaisti (ma non solo quelli) accolgono la rivoluzione digitale, nella quale vedono addirittura le condizioni per un passaggio diretto al comunismo senza transitare dal socialismo (e senza che sia necessario conquistare il potere politico). Ora è evidente che la costante di tutti questi discorsi consiste nell’invitare implicitamente i lavoratori a sopportare i sacrifici immediati imposti dai salti tecnologici (resta inteso che parlare di tecnologia del lavoro non significa parlare solo di macchinario, computer e algoritmi ma anche, se non soprattutto, di organizzazione del lavoro, tanto nell’impresa fordista quanto in quella neo liberale) in vista di una possibile emancipazione futura. 

Posto che la fede nella concreta possibilità di tale emancipazione è sempre meno diffusa fra i lavoratori, dopo decenni di quella controrivoluzione liberale che è riuscita a sradicarla dal loro immaginario. Posto che in passato, quando era ancora diffusa, il proletariato occidentale ha avuto ripetute e tragiche esperienze che gli hanno dimostrato come le aspettative di emancipazione apparivano tanto meno credibili quanto più elevato si faceva lo sviluppo tecnologico (e il corrispondente aumento del tasso di oppressione e sfruttamento), mentre le sole rivoluzioni socialiste si sono verificate in Paesi industrialmente “arretrati”. Posto tutto ciò, è naturale che i lavoratori di oggi nutrano sentimenti di nostalgico attaccamento nei confronti di quei metodi di lavoro che consentivano di dare all’attività che si svolge la propria impronta, che offrivano la possibilità di riconoscervisi. “Rispettare l’umano al lavoro, argomenta la Linhart una volta significava rispettare il professionista e il suo punto di vista, la sua esperienza”. E ancora: “possedere un mestiere consente di non mettere in pericolo la propria persona in ogni  istante”. Fin qui il mestiere come arma di difesa individuale, ma c’è poi l’aspetto collettivo, perché i saperi, le conoscenze e le regole professionali sono un patrimonio condiviso che rimanda a riferimenti comuni e consente tanto ai singoli che ai gruppi di mettersi al riparo dalle intrusioni che vengono dall’alto. 


Frederick Taylor 



Questo patrimonio tanto individuale che collettivo è vissuto da padroni e manager come un intollerabile fattore di resistenza al proprio controllo/comando. Ecco perché quelle conoscenze e quei saperi devono lasciare il posto a regolamenti, prescrizioni e procedure formali. Ed è esattamente questo che ha fatto l’organizzazione “scientifica” del lavoro “scoperta” da Taylor. Ironizzando su questo aggettivo – dal quale anche Lenin e Gramsci si sono fatti incantare - Linhart ne svela la natura di narrazione volta a legittimare il vero obiettivo, cioè spoliticizzare la fabbrica, spegnere il conflitto di classe che vi si annida. Per questo occorreva spiegare all’operaio che il suo interesse coincide con quello padronale, che i nuovi metodi di lavoro avrebbero regalato più soldi, più tempo libero, più posti di lavoro. Intanto le sue competenze venivano trasmesse alla direzione, che diveniva così l’unico vero attore del sistema di fabbrica. Il fordismo  ha condotto a perfezione il modello: prima ha completato il processo di trasformazione del lavoratore in semplice esecutore di compiti predefiniti;  poi è uscito dalla fabbrica, sconfinando nella vita privata dell’operaio, al quale si dettano veri e propri comandamenti, imponendogli di essere sobrio e frugale, marito fedele e buon padre di famiglia; ha cominciato a interessarsi anche del suo equilibrio psicologico, inventando il movimento delle relazioni umane; ma soprattutto ha imposto il suo marchio sull’intera società, promuovendo il “circolo virtuoso” fra salari relativamente alti e consumi di massa che è stato a fondamento del “trentennio dorato” postbellico (per questo Ford, uomo di idee notoriamente conservatrici e reazionarie, venne accusato dalla destra repubblicana di essere “socialista”). 


Henry Ford



Linhart descrive come, nel corso del tempo, gli operai abbiano reagito a questo attacco sviluppando pratiche collettive “clandestine” (cioè  al di fuori del, se non addirittura in aperto contrasto con il, sistema delle procedure aziendali) per migliorare il contenuto del lavoro, per introdurvi frammenti di autonomia e si senso, ma soprattutto sentimenti di solidarietà. Sulla base di questi saperi informali, che combattono il senso di impotenza e di dipendenza totale nei confronti del management, nascono collettivi di lavoro che accumulano “micropoteri”. Chi, come il sottoscritto, abbia vissuto dall’interno del mondo del lavoro il ciclo di lotte fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, non può non ricordare come proprio questi collettivi informali siano divenuti l’ossatura su cui è venuta costruendosi l’esperienza dei consigli dei delegati di fabbrica, che ha caratterizzato la breve stagione della democratizzazione del sindacato italiano. Linhart non si occupa di questo aspetto (probabilmente perché troppo specifico della nostra storia sindacale rispetto a quella francese) ma concentra piuttosto l’attenzione sulle leggi promosse dal Partito Socialista del suo Paese negli anni Ottanta, le quali avevano l’obiettivo di “democratizzare” le imprese, valorizzando i suddetti collettivi informali di lavoro e investendoli di funzioni istituzionali di rappresentanza. La sua tesi, apparentemente paradossale, è che questo nuovo modello di democrazia formale ha contribuito a rafforzare il dominio reale delle direzioni d’impresa. La trasformazione dei collettivi informali nella pletora di gruppi di progetto, circoli di qualità, team e collettivi ad hoc, ecc. promossi dall’impresa così “democratizzata”, ne ha infatti neutralizzato il potenziale di contropotere che si basava sulla loro “segretezza”, sulla possibilità di agire in un “cono d’ombra” che li metteva al riparo dagli sguardi gerarchici, e dalla possibilità che il management li espropriasse di saperi e conoscenze volgendoli a proprio favore.

Ciò che distingue i collettivi informali dalle loro versioni istituzionalizzate è, fondamentalmente, il fatto che i primi sono espressione di identità collettive auto costituite, che incorporano un potenziale conflittuale nei confronti delle direzioni d’impresa per il solo fatto che si sottraggono al loro controllo, viceversa le seconde sono assemblaggi di persone singole messe assieme per perseguire finalità eteronome (aziendali). I “diritti” e i “riconoscimenti” che i singoli membri di queste entità artificiali ottengono dalla democratizzazione formale dell’impresa, sono beni illusori che si scambiano con l’adesione del dipendente ai valori e agli interessi dell’impresa (e con la contemporanea rinuncia ai propri interessi e valori, i quali non possono essere che collettivi). Linhart, sulle tracce di Boltanski e Chiapello, e a partire dal racconto delle sue esperienze di partecipazione a una serie di convegni e seminari sul tema del rapporto con i dipendenti, organizzati da associazioni di manager e quadri, mette in luce come a fornire la materia prima della nuova filosofia manageriale sia stata la “critica artistica” dei nuovi movimenti sociali, con il suo progressivo slittamento dalla lotta per obiettivi politici e sociali alle lotte per il riconoscimento di bisogni, desideri e diritti personali (12) (do you remember “il personale è politico”?). 





A chi individua le ragioni della sofferenza dei lavoratori di oggi nella delusione per il mancato riconoscimento economico e professionale del capitale culturale accumulato attraverso la formazione, o nell’anomia di lavori standardizzati dall’impatto omologante delle nuove tecnologie, Linhart controbatte che “il dramma del lavoro oggi non è che viene disumanizzato, ma che si giochi con gli aspetti più profondamente umani degli individui. È l’interezza della persona che si cerca di mobilitare”.  Sulle tracce di Ford, ma usando metodi assai più sofisticati e solo apparentemente meno autoritari, l’impresa neoliberale aspira a estendere il suo dominio “sulla fibra stessa dell’umano” (13). L’impresa “si prende cura” del dipendente, della sua felicità, ma, al tempo stesso, procura di fargli capire che è lui che deve farsi imprenditore della propria felicità (“la felicità è in noi stessi, essere felici dipende da ciascuno di noi, dalla nostra capacità di nutrire fiducia, di pensare positivo”). Procura soprattutto di fargli capire che la precarietà non è una cosa negativa ma un potente fattore di stimolo: spinge a lottare per affermarsi, a competere, insegna a contare sulle proprie forze, “fa crescere”. Lo stesso dicasi del cambiamento continuo: il dipendente non deve adagiarsi, scavare una nicchia in cui si senta sicuro e protetto, dev’essere obbligato ad adattarsi a un ambiente in costante evoluzione, l’idea stessa di essere “superato”, non aggiornato deve diventare un incubo fonte di terrore. La professionalità tradizionalmente intesa dev’essere rimossa, dimenticata (produrre amnesia, spiegare che tutto ciò che sapevate non serve più a nulla: così Linhart descrive la guerra aziendale contro la memoria, giustamente identificata come una pericolosa arma di resistenza), sostituita con le “competenze”, identificate con qualità come adattabilità, flessibilità, capacità di fidarsi, bisogno di mettersi alla prova, di “scoprire i propri limiti” (qualità destinate a salire nella scala degli obiettivi formativi prioritari della scuola di ogni ordine e grado, dall’asilo all’università). Cerchiamo ora di tirare le fila di quanto finora esposto.

Riassumendo,  la tesi della Linhart può essere formulata così: il taylorismo non è uno strumento contingente, limitato a una ben definita fase storica, del controllo capitalistico sul lavoro; esso incarna piuttosto un metodo, una vera e propria filosofia del dominio che attraversa l’intera storia del rapporto fra capitale e lavoro, e che consiste nello sforzo sistematico di “deprofessionalizzare” il lavoro,  di espropriare i saperi e le conoscenze dei singoli lavoratori, ma soprattutto i saperi condivisi da comunità informali e sottratte allo sguardo padronale, per trasferirle al management, che diventa così il dominus incontrastato del processo produttivo. È per questo che i lavoratori hanno sempre tentato di preservare, per quanto possibile, questo patrimonio di conoscenze collettive, in modo da proteggere le proprie identità individuali e collettive dietro lo schermo impersonale della professionalità. 

Se si condivide questo punto di vista, una prima conseguenza da trarre è che il paradigma “classico” che attribuisce agli avanzamenti tecnologici (sia che riguardino l’introduzione di nuovi macchinari, sia che si riferiscano a processi di razionalizzazione dei metodi e dell’organizzazione del lavoro) una valenza comunque progressiva (per i motivi ideologici spiegati in precedenza) dev’essere sottoposto a una seria revisione critica, nella misura in cui non tiene conto dei rapporti di forza fra capitale e lavoro che sovradeterminano il significato di tali innovazioni e che, sistematicamente, finiscono per rivelarsi strumenti di rafforzamento del controllo e del dominio del capitale sui lavoratori. Per dirla con altre parole: modernizzazione e razionalizzazione non sono valori positivi di per sé. 

Il secondo punto sollevato dalla sociologa francese riguarda i “danni collaterali” generati dalla cultura libertaria, antipolitica, orizzontalista e antigerarchica dei nuovi movimenti sociali, votata alla rivendicazione di diritti individuali più che di diritti collettivi, alla richiesta di riconoscimento delle differenze di ogni sorta, più che alla richiesta di giustizia e uguaglianza per le classi subalterne, ossessivamente concentrata sui principi e i valori della “cura” nei confronti dei singoli. Riprendendo la tesi di Boltanski e Chiapello, Linhart sostiene che questa cultura sta a fondamento del progetto di “umanizzazione” del lavoro che il management neoliberale è venuto mettendo in pratica negli ultimi decenni. Un progetto apparentemente lontano dallo spirito del taylorismo ma che, in realtà, ne condivide l’obiettivo di fondo: distruggere i saperi “segreti” che stanno a fondamento delle comunità informali dei lavoratori, o meglio, farli emergere per appropriarsene, smontando i collettivi di cui sono espressione e rimpiazzandoli con la “sollecitudine” aziendale nei confronti del singolo lavoratore, di cui si coltivano le “doti” di flessibilità, adattabilità, capacità di sopravvivere in ambienti in rapida e continua trasformazione, fiducia nella “mission” aziendale e identificazione con i suoi valori. 

Posto che entrambe le tesi mi paiono convincenti e condivisibili, credo tuttavia valga la pena di fare due precisazioni. La prima è che mi pare che l’universo aziendale da lei esplorato si riferisca soprattutto alle grandi imprese e, in particolare, alle grandi imprese che operano nei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati (pur se è vero che anche le grandi imprese del settore pubblico assumono modelli simili, se non identici). La massa dei lavoratori delle piccole e medie imprese, dei lavoratori della logistica e dei servizi tradizionali, dei lavoratori pseudo autonomi (gig economy e dintorni) e di altri settori marginali, restano esclusi o vengono sfiorati solo tangenzialmente da questo processo di “umanizzazione” (in questi luoghi controllo e dominio si inspirano spesso a modelli più tradizionali). La seconda considerazione riguarda gli effetti controintuitivi della emersione dei collettivi informali. In apertura citavo l’esempio dei consigli dei delegati di reparto degli anni Sessanta e Settanta: ebbene, è indubbio che quella esperienza, finché è servita da strumento di mobilitazione e di lotta dei lavoratori – cioè finché ha avuto valenza antagonistica, conflittuale – sia stata altamente positiva in termini di avanzamento della coscienza di classe. Che poi la si sia potuta “addomesticare” non è dovuto al fatto in  sé che i collettivi sono passati da uno statuto informale a un ruolo istituzionale, bensì alla loro spoliticizzazione, dovuta alla sconfitta del movimento operaio, piegato dalla crisi, dall’opportunismo sindacale e dall’assenza di un credibile progetto politico anticapitalistico. È chiaro che per combattere contro il dominio del capitale i collettivi operai “devono” uscire dalla clandestinità, perché solo così possono connettersi fra loro, mettersi in relazione con l’insieme della società, in una parola politicizzarsi. Dopodiché è vero che, se tutti questi passaggi vengono a mancare, ha ragione Linhart nell’affermare che la loro emersione finisce inevitabilmente per rivoltarglisi contro.                





Note

(1) Cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Penguin Books, London 1991.

(2) Cfr. C. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.

(3) Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(4) Cfr. D. Harvey, Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2021.

(5) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(6) Sul concetto di classe creativa cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003; per una critica dei concetti di lavoratori della conoscenza e di Quinto Stato, vedi quanto ho scritto in Utopie letali, op. cit.; vedi anche un mio precedente lavoro: Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(7) Si tratta di una visione che ritorna in tutti i lavori di Antonio Negri, da Impero (Rizzoli, Milano 2002) in poi. Vedi anche A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma 1998 e, dello stesso autore, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

(8) Questa immagine idilliaca è costruita sull’autorappresentazione dei protagonisti della cultura hacker e del boom delle startup californiane, nonché di comunità virtuali come Wikipedia. Cfr W. McKenzie, La classe hacker, Feltrinelli, Milano 2004. Vedi anche P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito della società dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2001.

(9) Op. cit.

(10) Il massimo teorico dell’anarco capitalismo digitale è Yochai Benkler (La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007) ma si trovano tracce di questa concezione – ancorché meno ideologizzate – anche nell’opus magnum di Manuel Castells (L’età dell’informazione: economia, società, cultura, 3 voll. Università Bocconi Editore, Milano 2002-2003). 

(11) D. Linhart, La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management digitale; Mimesis, Milano-Udine 2021. 

(12) La persona – presentata come singolarità concreta, in realtà del tutto astratta nella misura in cui viene descritta come un’entità cosmopolita, come una “cittadina del mondo” avulsa da ogni riferimento geografico, storico e sociale (di classe) – viene posta come il centro di imputazione della pletora dei “nuovi diritti” che la società tardo capitalista sforna a getto continuo, a partire dai dispositivi che connettono desideri e bisogni individuali, tecnologia e mercato. Cfr. in merito S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.  

(13) Una delle critiche più organiche e approfondite dei dispositivi grazie ai quali l’economia neoliberale produce non solo prodotti e servizi, ma gli uomini e le donne che li producono e li consumano, si trova in P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.    





   

       

       

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