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lunedì 12 dicembre 2022

USA, NATO, UE L'ABBRACCIO INSCINDIBILE FRA I TRE DELL'APOCALISSE




I. Le guerre illegali della NATO. Sul libro di Daniele Ganser. 

Daniele Ganser è uno storico svizzero che insegna all'Università di San Gallo, dirige l'Istituto Svizzero per la Ricerca sulla Pace e l'Energia ed è autore di libri che hanno suscitato l'ira degli ayatollah atlantisti, come La storia come mai vi è stata raccontata. Gli eserciti segreti della NATO, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi di Fazi. Sempre Fazi manda in libreria il suo ultimo lavoro, Le guerre illegali della NATO, che si spera possa insufflare qualche dubbio nelle teste di quelli che si bevono le balle di un sistema mediatico occidentale ormai ridotto a dispensatore di veline per conto di Washington. Eppure questo libro, che i detrattori hanno già iniziato a bollare come “complottista”, non svela alcunché di nuovo o inedito: si limita perlopiù a riportare ciò che gli stessi vertici dell'Amministrazione Usa e dell'Alleanza Atlantica hanno ammesso qualche anno dopo eventi che i media avevano manipolato per ingannare l'opinione pubblica mondiale (del resto, se le menzogne emergono dopo un congruo intervallo di tempo il loro impatto è nullo, o comunque non basta a rimediare al danno provocato all'epoca in cui sono state diffuse). 

Ma passiamo ai contenuti del libro a partire dal titolo. Perché Ganser definisce illegali le guerre della NATO? La risposta è che nessuno dei conflitti (con l'eccezione della prima guerra contro l'Iraq provocata dall'invasione del Kuwait) scatenati da Washington e dai suoi alleati soddisfa i requisiti fissati dall'ONU nel 1945, secondo i quali la guerra come metodo di risoluzione del conflitto fra le nazioni aderenti all'Organizzazione è ammessa solo in due casi: il diritto all'autodifesa e un mandato formale da parte del Consiglio di sicurezza. In tutti gli altri casi, compresi i tentativi di una nazione di rovesciare il governo legittimo di un'altra nazione anche senza un intervento militare diretto (per esempio sostenendo forme di opposizione violente o ricorrendo a guerre sotto copertura), si tratta di guerre illegali. 

 Perché questa legalità internazionale è stata sistematicamente disattesa senza che i responsabili abbiano subito sanzioni, benché nel 1945 sia stata istituita la Corte internazionale di giustizia dell'Aia, e nel 1998 la International Criminal Court che, in teoria, sarebbe tenuta a procedere contro i colpevoli di crimini di guerra non solo se semplici soldati o ufficiali ma anche se presidenti, ministri o generali? Il fatto è che i responsabili delle aggressioni illegali non sono stati quasi mai arrestati e puniti perché troppo potenti e perché i media non osano riconoscere e denunciare i loro crimini come tali. Si aggiungano i limiti connaturati alla struttura decisionale dell'ONU: solo il Consiglio di sicurezza (5 membri permanenti con diritto di veto – Usa, GB, Francia, Russia e Cina - più dieci senza diritto ed eletti ogni dieci anni) può decidere se e quando ricorrere alla forza (le decisioni del Consiglio sono vincolanti per tutti i 193 membri dell'Organizzazione purché approvate da almeno 9 membri e in assenza di veto), laddove le risoluzioni dell'Assemblea hanno il carattere di semplici raccomandazioni. Di fatto, ciò significa che l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e il segretario generale finiscono per sancire il volere dei membri più influenti, per cui processi e condanne per crimini di guerra ci sono stati solo se e quando l'hanno voluto i vincitori, che erano in grado di imporre la loro decisione sui vinti. Come se non bastasse, gli Usa separano il diritto nazionale da quello internazionale, per cui se un loro cittadino viola delle leggi interne viene arrestato, ma se viola la legge internazionale per “servire il Paese” non subisce alcuna conseguenza (se non viene premiato). Nel 2002 il Congresso ha addirittura approvato una legge che autorizza il presidente a liberare con la forza i cittadini statunitensi chiamati a rispondere delle loro azioni di fronte alla Corte penale internazionale. 

Daniele Ganser



Più avanti proverò a ragionare sui motivi per cui Ganser considera gli organismi internazionali appena descritti come un fattore di progresso, a prescindere dalla loro incapacità di impedire che le relazioni internazionali siano governate dal diritto del più forte. Ma prima stilerò il lungo elenco delle guerre illegali che gli USA e la NATO hanno scatenato dagli anni Cinquanta a oggi (provocando fra i venti e i trenta milioni morti, poco meno della metà di quelli causati dalla Seconda guerra mondiale), e prima ancora riassumerò il modo in cui Ganser descrive l'impero americano e la NATO in quanto suo strumento di dominio mondiale. 

 Lo storico svizzero definisce gli USA un impero per i seguenti motivi: 1) in quanto dominano la finanza mondiale grazie al “signoraggio” del dollaro: dalla decisione unilaterale di Nixon che ne ha decretato la fine della convertibilità, gli Stati Uniti si stampano da soli la loro moneta che svolge il ruolo di riserva internazionale; 2) perché hanno più di 700 basi militari sparse per il mondo, il che li mette in condizione di intervenire in tempo reale su tutti i possibili scenari di guerra; 3) perché nel 2015 hanno speso 600 miliardi in armamenti (a fronte dei 200 della Cina e degli 80 della Russia, ma con la guerra in Ucraina la cifra sta lievitando a livelli ancora più stratosferici); 4) perché a decidere come e perché impiegare tutta questa potenza non è un regime democratico bensì una oligarchia di censo dominata da una élite ricca e potente (come ha ricordato l'ex presidente Jimmy Carter in un'intervista, i candidati alla presidenza devono disporre di almeno 200-300 milioni di dollari per competere con qualche chance di successo; e quasi nessuno dei senatori dispone di un patrimonio inferiore a qualche milione); 5) perché a decidere se scatenare una guerra, o assassinare qualche nemico al di fuori e al di sopra di qualsiasi legalità internazionale, è la cricca dell'NSC (il National Security Council) il pugno di “ottimati” che compongono il “cerchio magico” del presidente; 6) perché, come già ricordato, non riconoscono l'autorità della Corte penale internazionale in quanto temono che possa limitarne gli interessi; 7) infine perché la NATO (nata nel 1949), più che come un'alleanza fra diversi Paesi è sempre stata il braccio armato degli USA. A confermarlo basterebbe il fatto che si è sistematicamente adeguata a tutte le decisioni americane (i suoi membri votano all'unisono con gli Stati Uniti in sede ONU), mentre il suo segretario europeo ha un ruolo puramente di facciata, in quanto l'effettivo potere decisionale è concentrato nelle mani del supremo comandante militare per il territorio europeo, sempre americano. Quanto al suo millantato carattere difensivo, esso è stato definitivamente smentito allorché, invece di sciogliersi dopo la caduta dell'Urss e il venir meno del Patto di Varsavia, si è progressivamente allargata ad Est, fino a contare gli attuali 30 membri, facendosi sempre più aggressiva. Veniamo ora all'atto di accusa di Ganser sui crimini imperiali. 


Iran. Nel 1951 il governo Mossadeq nazionalizza il petrolio persiano sottraendolo al controllo delle multinazionali inglesi, le quali si rivolgono agli Stati Uniti per provocarne la caduta (in cambio dovranno cedere una quota consistente del petrolio agli “amici” americani). Nel 1953 il capo della CIA Allen Dulles avvia una operazione di regime change, stanziando un milione di dollari per tutti gli interventi necessari a rovesciare il governo legale. Fra i vari metodi utilizzati per destabilizzare il regime, si fa ricorso ad attentati terroristici contro i musulmani che vengono attribuiti al governo in carica e ai comunisti che lo sostengono. Caduto Mossadeq viene annullata la nazionalizzazione e le imprese inglesi e americane si spartiscono il bottino. 

 Guatemala.  Nel 1951 il presidenze Arbenz vince le elezioni con un programma che prevede di espropriare le terre dei latifondisti e redistribuirle ai braccianti senza terra, scatenando l'ira della multinazionale United Fruit di cui sono azionisti sia il direttore della CIA Allen Dulles che suo fratello John Foster Dalles, segretario di Stato. Bande armate organizzate e addestrate dalla CIA scatenano la guerriglia penetrando nel Paese dal vicino Honduras. Il presidente tenta di fronteggiarle acquistando armi dai Paesi occidentali ma questi si rifiutano, piegandosi alle pressioni USA. Arbenz le acquista allora dalla Cecoslovacchia e gli USA usano questo fatto come prova che il Guatemala si appresta ad aderire al blocco comunista, sfruttando la propaganda occidentale per giustificare la propria ingerenza che, nel 1954, raggiunge il proprio obiettivo regalando il potere al dittatore di destra Somoza, il quale reintegra immediatamente la United Fruit nei suoi “diritti”. 

 Egitto. Nel 1956 Nasser nazionalizza la società che gestisce il canale di Suez, gettando nel panico Inghilterra e Francia, che erano state fino ad allora garanti degli interessi commerciali associati al controllo del canale. A violare la legge internazionale aggredendo un Paese membro dell'ONU senza il mandato del Consiglio di sicurezza sono quindi questa volta francesi e inglesi (con il supporto di Israele, che fa così le prove generali della guerra del 67), due potenze che, godendo del diritto di veto, si sottraggono alla condanna internazionale. Sono tuttavia indotte a rinunciare di fronte all'ultimatum dell'Unione Sovietica e al mancato appoggio degli USA, irritati perché l'aggressione è avvenuta senza il loro consenso. 

 Cuba. Dopo la vittoriosa rivoluzione del 59 Castro avvia una riforma agraria che prevede, fra le altre cose, l'esproprio di aziende americane. Benché il nuovo regime non si definisca socialista, il presidente Eisenhower avvia immediatamente dei tentativi per rovesciarlo, che prevedono, fra le altre cose, il blocco delle importazioni dello zucchero di canna. L'Avana si vede costretta a rivolgersi ai mercati dell'Est Europa e, dopo il moltiplicarsi di attentati (aerei statunitensi lanciano bombe incendiarie su coltivazioni e fabbriche), e a fronte del rifiuto dei Paesi occidentali di venderle le armi necessarie a difendersi, deve rivolgersi a Mosca (come era avvenuto per la crisi del Guatemala, ciò viene immediatamente usato come prova del carattere comunista del regime). Il Consiglio di sicurezza dell'ONU si lava le mani, rimbalzando le richieste cubane di intervento all'OAS (l'Organizzazione degli Stati Americani controllata dagli USA), la quale sposa la tesi statunitense secondo cui il terrorismo è un affare interno cubano (Ganser ricorda che nel 1975 una commissione del Senato americano rivelerà che furono orditi numerosi attentati alla vita di Castro). Sempre all'inizio dei 60 Eisenhower decide di reclutare, armare ed addestrare reparti di profughi anticastristi in Guatemala per organizzare l'invasione dell'Isola, e Kennedy ne eredita il piano approvando l'impresa, miseramente fallita, dello sbarco alla baia dei Porci (successivamente lo stesso Kennedy ammise la propria responsabilità nell'operazione, mentre nel 1998 sono stati desecretati documenti dai quali emerge come si fosse arrivati a progettare l'affondamento di una nave Usa nella baia di Guantanamo, per creare un casus belli). 

Gli invasori si arrendono ai cubani



Com'è noto, Mosca reagì installando propri missili sull'isola provocando la crisi che portò il mondo sull'orlo di una guerra nucleare. Dopodiché l'aggressione americana è proseguita sotto forma dell'embargo economico mantenuto da tutti i presidenti succeduti a Kennedy e tuttora in atto. In nessuno di questi passaggi l'ONU è stato capace di giocare un qualsiasi ruolo (l'Assemblea generale approva ogni anno una mozione che condanna il blocco senza che ciò abbia il minimo effetto). 

 Vietnam. Dopo la sconfitta dell'esercito francese che tentava di restaurare il dominio coloniale sul Vietnam (1954) gli USA fecero insediare come presidente del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem dopodiché, constatato che i suoi metodi disumani e la sua corruzione rischiavano di far collassare il regime, lo fecero liquidare da un golpe militare (come successivamente rivelato dai Pentagon Papers) ed entrarono direttamente in guerra a fianco del nuovo governo. Come scusa del proprio coinvolgimento usarono il cosiddetto incidente del Tonchino (una bufala secondo cui siluranti nordvietnamite avrebbero attaccato un cacciatorpediniere americano). Anche in questo caso l'ONU manifestò la sua totale incapacità di porre fine all'aggressione, durata fino alla vittoria del Vietnam del Nord nel 1975. Nel corso di questo lungo e sanguinoso conflitto (tre milioni di morti vietnamiti, in maggioranza civili, e oltre cinquantamila soldati americani), furono commessi ripetuti crimini di guerra anche contro Laos e Cambogia, che non erano direttamente parte in causa. 

Un'immagine della caduta di Saigon



 Nicaragua. La vittoria elettorale del movimento sandinista all'inizio degli anni 80 scatenò l'ira di Reagan, che li considerava comunisti, per cui decise di replicare il copione dell'intervento USA contro il Guatemala degli anni 50, avviando una guerra per procura affidata all'esercito mercenario dei contras (armati e addestrati dai corpi speciali nordamericani). Queste bande si macchiarono di crimini orrendi ai danni della popolazione civile che rimasero tuttavia impuniti perché Reagan allungò la mano protettiva del suo governo sui “combattenti per la libertà”. Il progetto di regime change fallì, ma l'impotenza delle istituzioni internazionali fu clamorosamente confermata dal fatto che, benché la International Criminal Court avesse riconosciuto la responsabilità degli USA condannandoli a risarcire il Nicaragua per la loro aggressione, gli Stati Uniti rifiutarono di pagare un solo dollaro. 

 Serbia. Secondo la testimonianza dell'ex agente CIA Robert Baer, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, gli USA avevano immediatamente progettato di destabilizzare la Jugoslavia smembrandola in vari staterelli e, a tale scopo, si impegnarono ad applicare la lezione imperiale britannica, aizzando l'uno contro l'altro i vari gruppi etnici che prima convivevano pacificamente. Una delle prime armi messe in campo fu la politica del debito: Croazia e Slovenia, le regioni più ricche, si proclamarono indipendenti per non essere costrette a finanziare il debito federale, e Germania (e Vaticano!) si precipitarono a riconoscerne la sovranità, creando i presupposti di una guerra civile (rispetto alla quale l'ONU si dichiarò incompetente in quanto si trattava di un affare interno) combattuta a suon di pulizie etniche incrociate. Sempre Baer racconta che il progetto occidentale prevedeva fin dall'inizio di affibbiare la parte dei cattivi ai serbi. Ciò emerse chiaramente quando, finita la guerra fra serbi e croati nel Nord del Paese, scoppiò la guerra di tutti contro tutti (serbi ortodossi, croati cattolici, musulmani) in Bosnia. USA e NATO, con la compiacente collaborazione di tutti i media occidentali, attribuiscono tutti i genocidi ai serbi, sorvolando su quelli commessi da croati e musulmani, e appoggiano i musulmani importando nel Paese i mujaheddin già utilizzati contro i russi in Afganistan. Dopo gli accordi di Dayton, la NATO torna all'attacco appoggiando i secessionisti kossovari (di cui vengono ignorati i crimini e le pratiche di pulizia etnica contro la popolazione serba). Riprendono quindi i bombardamenti indiscriminati contro la Serbia (cui partecipano non solo gli Usa ma diversi Paesi NATO fra cui l'Italia e la Germania, che si ritrova così in guerra per la prima volta dopo il 45, con la benedizione del ministro Verde Fischer). L'ultimo atto della tragedia è la morte nel carcere del Tribunale dell'Aia dell'ex presidente serbo Milosevic, definito con totale sprezzo del ridicolo “il nuovo Hitler” dagli stessi media che linciano lo scrittore austriaco Peter Handke per averne preso le difese (1). 

 Afganistan. Questa parte del libro frutterà sicuramente all'autore l'accusa di complottismo, in quanto rilancia i dubbi che alcuni giornalisti hanno espresso in merito alla possibilità che i servizi USA siano coinvolti nell'attentato delle Torri . In effetti tale ipotesi può sembrare al limite del fantastico, anche se certe rivelazioni a posteriori hanno dimostrato, che quando è in ballo la geopolitica, la realtà supera spesso la fantasia. Quel che è certo è che allo stato non esistono prove ma solo qualche indizio inquietante come il crollo del World Trade Center 7, che pur non essendo stato colpito da un aereo in volo, è “imploso” con modalità analoghe a quelle provocate con esplosivi per demolire vecchi edifici. In ogni caso l'ironia della “guerra al terrorismo” dichiarata da Bush dopo l'attentato consiste nel fatto che i “nemici” sono in questa circostanza quelle stesse organizzazioni appoggiate dall'Arabia Saudita che, come quella di Bin Laden, erano “combattenti per la libertà” quando attaccavano i sovietici in Afganistan ma diventano terroristi quando rivolgono le armi contro l'Occidente. Ganser ricorda che nemmeno in questo caso la guerra era legale secondo i requisiti ONU: è pur vero che il Consiglio di sicurezza adottò, su pressione USA, una risoluzione che rafforzava il diritto all'autodifesa (già previsto dallo statuto) e stabilì che nessuno stato possa offrire rifugio a chi progetta attentati terroristici, ma visto che non esistevano prove inoppugnabili che l'attacco in questione fosse partito dall'Afganistan, l'aggressione della NATO (anche qui come nel caso della Jugoslavia gli americani furono affiancati da molti altri Paesi dell'Alleanza, Italia compresa), restò priva di legittimazione internazionale. Com'è noto la guerra è durata più di vent'anni ed è finita da poco con il ritiro occidentale che ha lasciato il Paese sotto il controllo degli integralisti islamici. 

Fuga da Kabul



 Iraq 
 La guerra promossa da Bush padre è stata l'unica, in questo elenco di aggressioni, a rispettare i requisiti ONU per giustificare il ricorso alla forza. La prima guerra del Golfo fu infatti approvata dal Consiglio di sicurezza in seguito all'aggressione di Saddam nei confronti del Kuwait (il dittatore iracheno aveva probabilmente pensato di poter agire indisturbato, dopo che gli USA lo avevano appoggiato nella guerra con l'Iran). Anche in questo caso, tuttavia, per legittimare la guerra agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, si ricorre alla menzogna: una ragazza che si spaccia per infermiera d'ospedale, mentre era parente di un politico kuwaitiano, dichiara di avere assistito all'uccisione di decine di neonati in un reparto di maternità da parte degli invasori (prima di diventare il nuovo Hitler, come avverrà qualche anno più tardi, Saddam fu dunque denunciato come il nuovo Erode). Ben più clamorosa la bufala utilizzata da Bush junior e Blair nel 2003 per giustificare la seconda guerra del Golfo (questa volta senza mandato ONU): non solo si millantano falsi legami fra Saddam e l'attacco terrorista alle Torri ma si accusa l'Iraq di essere in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa, come ebbe a riconoscere un pentito generale Colin Powell anni dopo avere esibito false prove davanti all'Assemblea dell'ONU. 

 Libia. Gheddafi ha segnato il suo destino fin da quando, salito al potere (1969), iniziò a sottrarre la Libia al dominio delle multinazionali occidentali. Ciò gli è valso una serie di aggressioni motivate di volta in volta con la presunta responsabilità libica in una serie di attentati terroristici avvenuti in Europa, a partire dal 1986, quando Reagan, dopo avere accusato Gheddafi di avere organizzato un'attentato a Berlino in cui erano morti due soldati americani, fece bombardare la Libia uccidendo la figlia adottiva del presidente (che era presumibilmente il vero bersaglio). La NATO ha realizzato l'obiettivo nel 2011, sfruttando una guerra civile alimentata dagli occidentali per assassinare Gheddafi, provocando quella situazione di caos e ingovernabilità della regione che dura tutt'oggi. 

 Siria. Anche il presidente siriano Assad, dopo Milosevic e Saddam, è stato definito il nuovo Hitler (ormai è una specie di tic dei media occidentali che, per quanto appaia ridicolo agli occhi di qualsiasi persona sensata, fa sempre il suo porco effetto propagandistico). Anche in questo caso si è provveduto a costruire il mostro per realizzare un progetto di regime change che ha radici lontane. Un giornalista francese, racconta Ganser, rivela che già nel 2008, nel corso di una conferenza Bilderberg (noto think tank ultraconservatore), l'allora segretario di Stato Condoleezza Rice chiese la caduta del governo siriano. A condividere il progetto erano almeno altri tre Paesi NATO: Inghilterra, Francia e Turchia, i quali trovarono alleati locali nei regni del Qatar e dell'Arabia Saudita (ai quali Assad aveva rifiutato il permesso di far passare sul proprio territorio un gasdotto che avrebbe danneggiato gli interessi dell'alleato russo, in quanto principale fornitore di gas per l'Europa). L'occasione per scatenare il conflitto furono le manifestazioni della primavera araba che, iniziate pacificamente, vennero infiltrate da agenti provocatori allo scopo di farle degenerare in guerra civile. Dopo che questa fu iniziata furono nuovamente utilizzate, come in Afganistan e nei Balcani, le bande degli integralisti islamici, ma in questo caso la strategia del caos si è rivoltata contro l'Occidente perché ha favorito l'espansione della minaccia terrorista internazionale dell'ISIS, dopodiché il conflitto si è convertito in una guerra di tutti contro tutti (USA, Francia, Turchia, Curdi, Inglesi, Russi) senza riuscire a rovesciare Assad, ma causando centinaia di migliaia di vittime e costringendo milioni di siriani a emigrare. 

 Ucraina. L'ultimo caso trattato da Ganser è quello siriano, ma io preferisco finire questa sintesi con la guerra ucraina perché è quella che meglio di tutte permette di mettere in luce sia i meriti che le contraddizioni dell'approccio pacifista dell'autore. Ganser muove da un dato di fatto che politici e media occidentali hanno cercato in tutti modi di rimuovere, minimizzare se non addirittura di negare: nel 1990 il segretario di Stato USA Baker aveva rassicurato Gorbacev sul fatto che la NATO non si sarebbe ampliata a Est. Sappiamo invece com'è andata: l'Alleanza si è progressivamente estesa fino ai confini della Federazione russa. Già nel vertice di Bucarest del 2008 Bush auspicò l'inclusione di Ucraina e Georgia, ignorando il pericolo di una possibile reazione russa. Ne derivò il conflitto fra russi e georgiani per il controllo dell'Ossezia (vinto dai russi) mentre, nel frattempo, alcuni esperti di geopolitica americani, come George Friedman, del think tank neocons Strafor, dichiaravano apertamente che si sarebbe dovuto coinvolgere Germania e Russia in una guerra per realizzare il duplice obiettivo di indebolire l'Europa e rafforzare l'impero a stelle e strisce: Germania e Russia si sarebbero indebolite a vicenda consentendo di replicare il principio divide et impera che Reagan aveva applicato con successo al conflitto fra Iran e Iraq. 

 Qui apro un primo inciso: Ganser torna più volte sul ruolo degli appartenenti ai think tank neocons, gente come l'appena citato Friedman o come Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, inseriti nell'amministrazione Bush dal gennaio 2001, o come l'attuale sottosegretaria di Stato Victoria Nuland. A mio avviso il peso di questi figuri ne esce sopravvalutato, allo stesso modo in cui Ganser sopravvaluta l'impatto delle distorsioni istituzionali che hanno trasformato la democrazia americana in un'oligarchia dominata da un pugno di super ricchi e di loro funzionari. Con questo voglio dire che il limite di Ganser consiste nel vedere l'impero ma non l'imperialismo, non coglie, cioè, i fattori strutturali, causali (vale a dire le dinamiche evolutive del sistema capitalistico) che hanno fatto sì che gli USA assumessero l'attuale ruolo egemone e che li inducono oggi a ricorrere ai metodi descritti in questo libro per conservare tale ruolo (a prescindere dagli individui chiamati a metterli in pratica). 

 Ma torniamo all'Ucraina. L'idea di integrarla nella NATO era già presente, come si è visto, nel 2008, ed è da quell'anno che inizia un sistematico lavoro di preparazione dell'ennesima operazione di regime change da parte dei servizi americani, operazione giunta a compimento con il colpo di stato del 2014 contro il governo legittimo di Yanukovich (la cosiddetta “rivoluzione arancione”). Subito dopo il nuovo regime inizia la guerra civile contro le regioni russofile del Donbass, e contemporaneamente la Russia, forse in modo inaspettato, nel senso che la NATO non aveva previsto che potesse reagire militarmente, rioccupa il territorio della Crimea. Infine, dopo otto anni di tira e molla, accordi diplomatici inattuati, pressioni sempre più dure di Kiev sulle regioni orientali del Paese, Putin decide di invadere l'Ucraina. Così dopo l'accusa di complottista, Ganser si guadagnerà anche quella di “putiniano”, soprattutto perché sostiene che la reintegrazione della Crimea nel territorio della Federazione russa non può essere definita una annessione, ma va considerata una secessione, dal momento che gli abitanti della Crimea non hanno mai cessato di considerarsi cittadini russi. In effetti Ganser non manca di dichiarare che l'aggressione russa è illegale al pari di tutte quelle della NATO, così come non manca di definire illegali gli interventi russi in Ungheria (1956), Cecoslovacchia (1968) e Afganistan (1979). Ovviamente ciò non basterà a giustificare la sua posizione agli occhi di un sistema informativo occidentale schierato senza se e senza ma al fianco dell'impero USA e della NATO, un sistema che considera i pacifisti come Ganser “utili idioti” al servizio dei “nuovi Hitler” di turno. 

Un'immagine della guerra russo-ucraina



 Riconosciuti la coerenza e il coraggio del pacifista svizzero, tocca però mettere in luce un altro limite intrinseco al suo contributo, che consiste nell'adottare un punto di vista astrattamente legalitario (2). Pur avendo ampiamente dimostrato l'assoluta impotenza delle istituzioni internazionali a far rispettare le regole fissate nel 1945 per impedire che si ripetano le tragedie delle due guerre mondiali, e pur avendo spiegato come, allo stato dei fatti, vale a dire in una situazione in cui viene fatta sistematicamente valere la legge del più forte (e così sarà finché l'impero USA e la NATO potranno continuare a imporla con la complicità di un'opinione pubblica mondiale manipolata da un sistema informativo blindato), Ganser insiste nel dire che “sarebbe tuttavia sbagliato concludere che tutte le organizzazioni internazionali sono inefficaci” e che “se non ci fosse l'ONU avremmo un mondo in cui i più forti imporrebbero i loro interessi” (come se lui stesso non ci avesse dimostrato che è già così!). Ingenuità? No, la parziale cecità di Ganser consiste, come detto poco sopra, nel vedere l'Impero senza vedere l'imperialismo, senza cogliere cioè le cause strutturali, profonde degli orrori che denuncia. Il fatto è che Ganser non è marxista, quindi non si rende conto che il governo della legge che invoca non è altro che un'astrazione dietro la quale si nascondono i concreti rapporti di forza che governano i rapporti fra classi sociali, nazioni e popoli. Quei rapporti di forza che fanno sì che l'Europa, come sta confermando il suo coinvolgimento nella guerra ucraina, non abbia la minima chance di sganciarsi dalla NATO, che è la gabbia che la tiene avvinta e sottomessa al dominio imperiale. Ma di questo nel prossimo paragrafo. 

 
II.Perché l'Europa deve accettare di svolgere il lavoro sporco. A margine di due articoli di Manolo Monereo e Fosco Giannini 

 Per gli integralisti che sognano un nuovo secolo americano, scrive Manolo Monereo (3), il vero Occidente risiede Oltreoceano, mentre il Vecchio Continente ha perso ogni residua capacità di egemonica. Per costoro l'Europa non potrebbe nemmeno svolgere il ruolo di alleato strategico, se la fine del Patto di Varsavia non avesse permesso di integrare nella NATO (contro ogni accordo con la Russia, vedi sopra) quei Paesi dell'Est che apportano il contributo del loro fanatismo nazionalista e anticomunista. Unificazione tedesca e ampliamento della Ue (e della NATO) a Est hanno creato i presupposti di una rimilitarizzazione del Vecchio Continente, in barba alle retoriche sulla unità europea come strumento di pacificazione. Contrariamente a quanto previsto da alcuni analisti geopolitici, il processo in questione non è stato tuttavia il presupposto della creazione di un polo imperiale europeo autonomo, se non alternativo a quello USA. Al contrario, l'esito è stato la fine di ogni velleità di autonomia e un drastico ridimensionamento delle aspirazioni egemoniche di Francia e Germania. 

Ciò, argomenta Monereo, non stupisce, ove si consideri che il vero obiettivo delle élite europee è sempre stato creare un'organismo transnazionale in grado di neutralizzare la capacità contrattuale delle classi lavoratrici dei rispettivi Paesi e non dare vita a degli Stati Uniti d'Europa capaci di competere sul nuovo scenario geopolitico mondiale. Ciò ha spianato la strada al progetto imperiale americano che assegna all'Europa il ruolo di testa di ponte per stabilire il proprio controllo sull'Eurasia. Nessuno lo ha spiegato più chiaramente di Zbigniew Brzezinski, scrive Monereo citando le parole dell'esperto geopolitico polacco-americano: “Oggi una potenza non eurasiatica detiene la preminenza in Eurasia e la supremazia globale degli Stati Uniti dipende direttamente da quanto a lungo e quanto efficacemente riuscirà a mantenere la sua preponderanza sul continente eurasiatico”. Da un lato si tratta quindi di impedire possibili convergenze fra gli interessi russi e tedeschi; dall'altro di garantire la continuità del ciclo egemonico (4) americano, la cui fine potrebbe segnare la fine dello stesso sistema capitalistico. Per capire la portata della posta in gioco occorre saper leggere le linee di frattura che caratterizzano il mondo attuale, che Monereo descrive così: “a) Il relativo declino della superpotenza statunitense. Le grandi potenze non scompaiono da un giorno all'altro, tanto meno quando si tratta degli Stati Uniti, che restano di gran lunga la più grande potenza militare del mondo; il declino è sempre relativo e relazionale, cioè nella competizione globale emergono altri Paesi che la mettono in ombra e la sfidano oggettivamente; b) La rinascita della Cina, tornata a essere una grande potenza economica, tecnologica e finanziaria, a cui si aggiungono la ricostruzione della Russia e l'emergere di nuove potenze – come l'India – che tornano a far sentire il loro grande peso storico, demografico e, sempre più spesso, economico; c) L'asse di gravità del sistema mondiale si sta spostando rapidamente verso l'Asia. Non si tratta solo di un cambiamento epocale, ma anche storico-culturale. Ciò che è in discussione, dopo 500 anni, è l'egemonia dell'Occidente; d) La novità è l'aggravarsi della crisi ecologica e sociale del pianeta in un contesto di risorse sempre più scarse, di ricorrenti conflitti militari e di intensificazione dei processi migratori”. 

 Se lo scenario è questo, non si vede come l'Europa possa ambire a svolgere un ruolo più che marginale. Fosco Giannini ribadisce questa tesi commentando (5) un'intervista e un articolo dell'autorevole opinionista del Corsera Sergio Romano. Nella prima, costui, ancorché atlantista sul piano geopolitico e liberale sul piano ideologico, ha dichiarato: “Io credo che se avessimo in qualche modo aiutato Putin, per esempio senza insistere per l’allargamento della Nato fino ai confini della Russia e lasciare che l’Ucraina chiedesse di far parte della Nato, mettendola, per così dire, in una lunga sala d’aspetto piuttosto che lasciarla sperare, beh tutto sarebbe stato probabilmente diverso e meno imbrogliato”. Nel secondo auspicava la costruzione di un esercito europeo autonomo dalla, anche se non alternativo alla, NATO. Giannini nota giustamente come questa tesi trovi una eco nelle posizioni di una certa sinistra “europeista critica” che “a partire dall'“impossibilità” di uscire dalla NATO (una "realpolitik" che diviene una resa) si affidano, per giungere a ciò che essi pensano potrebbe essere un “contraltare” della NATO, alla costruzione, alla presenza attiva di un esercito europeo autonomo”. Una posizione che non solo rimuove il fatto che un polo politico-militare, oltre che economico, europeo non sarebbe meno imperialista e aggressivo di quello americano, ma è del tutto irrealistico ove commisurato allo scenario geopolitico descritto poco sopra da Monereo. 

Per concludere: se vuole difendere in propri interessi, che richiedono di mantenere le classi lavoratrici in una posizione del tutto subalterna, l'Europa capitalista non ha altra scelta se non restare a sua volta subalterna agli USA e svolgere il lavoro sporco per conto dell'Impero, anche al costo di rimetterci sul piano economico.

Note

(1) Sull'incredibile vicenda del processo a Milosevic vedi il dossier Slobodan Milosevic. In difesa della Jugoslavia che raccoglie numerose testimonianze e interventi, fra i quali quelli dello scrittore Premio Nobel austriaco Peter Handke, in merito alle modalità con cui fu costruito il mostro da linciare onde legittimare i crimini NATO contro la Serbia. Dai documenti emerge chiaramente come Milosevic fosse riuscito a controbattere le accuse rivoltegli e a mettere sotto accusa i suoi accusatori, finché fu lasciato morire senza assistenza nel carcere del tribunale dell'Aia. Emerge inoltre la forsennata campagna di diffamazione cui fu sottoposto Hanke per averne preso le difese. 

(2) In merito ai limiti dell'approccio legalitario con cui i pacifisti in buona fede tentano di porre argine ai crimini dell'imperialismo occidentale, valgono sempre le pungenti parole di Marx sia contro la retorica borghese sui cosiddetti "diritti umani", sia contro l'illusione di risolvere conflitti governati dai rapporti di forza fra classi sociali, popoli e nazioni attraverso le procedure formali di un diritto che implementano di fatto quegli stessi rapporti di forza. 
 
(3) Cfr. Manolo Monereo, "la nuova NATO nell'era del declino occidentale" consultabile sulla pagina Facebook della rivista "Cumpanis" (https://www.facebook.com/cumpanisrivista).

(4) Sul concetto di ciclo egemonico vedi G. Arrighi Adam Smith a Pechino. genealogie del XXI secolo, recentemente dieditato da Meltemi.

(5) Cfr. F. Giannini, " Sergio Romano e l'esercito imperialista europeo", consultabile sulla pagina Facebook della rivista "Cumpanis" (https://www.facebook.com/cumpanisrivista)

giovedì 1 dicembre 2022

RILEGGERE LUKACS
PER SALVARE IL MARXISMO OCCIDENTALE


Il testo che segue anticipa la mia Prefazione della nuova edizione della "Ontologia dell'essere sociale" di Lukács che l'editore Meltemi manderà in libreria ai primi del 2023


Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo al ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce  perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1);  inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2).  Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione (3) , e ancor più con Storia e coscienza di classe (4), un  libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato. 


Lukács da giovane



Riproponendo la Ontologia in questa versione editorialmente più curata di quella uscita nel 2012 per i tipi di Pgreco, Meltemi offre un importante contributo al rinnovamento del marxismo in un momento storico in cui esso rischia seriamente di sparire, o peggio di ridursi ai balbettii dogmatici di esigue minoranze, in quasi tutti i Paesi occidentali. In questa Prefazione mi propongo di spiegare perché ritengo che lo studio di quest'opera potrebbe rivelarsi un formidabile strumento per capire le cause della crisi epocale che il movimento anticapitalista occidentale sta attraversando, e per  cercare vie di uscita dall'impasse, perlomeno sul piano teorico. Nella prima parte cercherò di enucleare alcuni nodi fondamentali del pensiero filosofico dell'ultimo Lukács, avvalendomi anche delle sue riflessioni autocritiche (5) sulle tesi sostenute in Storia e coscienza di classe, nonché di una lunga conversazione del 1966 registrata da tre intervistatori tedeschi &); nella seconda analizzerò brevemente alcuni argomenti della interpretazione lukacsiana delle teorie leniniste.


  1. La svolta ontologica


Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito anche il titolo: evocare i concetti di ontologia ed essere non poteva non suonare sospetto alle orecchie della “moda” allora prevalente in campo marxista, cioè al progetto di “depurare” il pensiero del maestro dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era precisamente quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel:. “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità, scrive Lukács nel 67, non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà”(7). Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema dell'emergenza di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società”(8). Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma, si chiede Lukács, “il soggetto-oggetto identico è  qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”; dopodiché si risponde: “E' sufficiente porre questo interrogativo con precisione per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato” (9). 


L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano  presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro” (10) ; per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali” (11). Passiamo alla totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero...oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa...per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità” (12). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia” (13). Viceversa, nella Ontologia, come sottolinea Tertulian nella sua “Introduzione”, la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui (14). Già in Storia e coscienza di classe la tendenza ad alimentare una visione determinista del processo storico appariva tuttavia parzialmente corretta grazie al concetto di possibilità: per esempio, dopo avere citato il detto di Marx che recita “l'umanità si pone solo dei compiti che è in grado di assolvere”, il giovane Lukács aggiunge che “anche in questo caso è data solo la possibilità. La soluzione stessa può essere soltanto il frutto dell'azione cosciente del proletariato” (15). L'ultimo  Lukács andrà al di là, negando la stessa esistenza di una necessità storica assoluta, attribuendo all 'idea di necessità la forma di una successione di catene causali del tipo “se questo...allora quello” e riconoscendo l'irriducibile ruolo del caso.  


La svolta ontologica, tuttavia, è caratterizzata soprattutto dal rovesciamento di prospettiva che pone la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione del contributo di Marx alla comprensione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive  Lukács nella Prefazione del 67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura” (16). Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottraeva all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura” (17). Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello,  si converte in contemplazione idealistica (18). Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate” (19). 


Costanzo Preve sottolinea (20) come il percorso evolutivo del pensiero di Lukács da Storia e coscienza di classe alla Ontologia possa essere descritto come approdo a uno dei tre distinti “regimi narrativi” presenti nell'opera di Marx, superando gli altri due. Secondo Preve il corpus teorico marxiano è infatti caratterizzato dai tre “discorsi”: grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Nel primo la categoria di soggetto è titolare di un’essenza che contiene in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, per cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, e a generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulteranno superate. Il secondo alimenta la tendenza a una sorta di antropomorfizzazione della storia, nel senso che, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una necessità immanente (21). Mentre questi due regimi ispirano Storia e coscienza di classe, l'ultimo Lukács approda al filone ontologico-sociale del pensiero di Marx che esclude qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia. In quest'ultimo regime narrativo, nessuna teleologia è all’opera nel processo storico, perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. In conclusione, Preve sintetizza il significato della svolta ontologica di Lukács in quattro punti : 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”, gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto (motivo per cui le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum); 3)  la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come l'insieme delle possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e delle catene causali da esse generate; 4) tali possibilità non possono essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale, dal che deriva che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole. Qui di seguito tenterò a mia volta di analizzare alcuni dei nodi affrontati nella Ontologia, partendo dal lavoro per poi affrontare, nell'ordine, la critica del meccanicismo, la storia, l'ideologia e il socialismo come superamento della estraneazione. 


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Per  Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (22) . Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale” (23).  Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più corretto e rigoroso. 


Nella misura in cui l'economia, intesa come  processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “ la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente” (24). Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (25). Quest’ultimo passaggio aiuta a comprendere come l'ontologia materialistica di Lukács sia lontana dalle tentazioni meccaniciste, come conferma la seguente citazione: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico.


Va inoltre sottolineato il fatto che ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce  sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive Lukács, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente” (26). A conclusione di questa sintetica descrizione del ruolo che la categoria del lavoro svolge nell'ontologia lukacsiana, segnalo l'attenzione che il filosofo dedica al fenomeno della inversione gerarchica fra il fine e il mezzo del processo lavorativo: “In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità” (27). Si tratta di un tema che svolge un ruolo importante nell'analisi lukacsiana sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura”. 


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Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude minimamente il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante”(28). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico. 


La versione meccanicista del marxismo (29), nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità”(30). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai”(31). Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia ma che, al tempo stesso, la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali. 


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La critica di  Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo,  porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)”(32). Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto”(33). 


Questa imprevedibilità degli esiti dell'agire umano, condizionato tanto dai vincoli dell'economia quanto dall'ineliminabile peso dei fattori casuali, significa che non è possibile associare al processo storico alcun tipo di legalità? Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità è, scrive Lukács, che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (34). In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce”(35).


A questo punto sorge inevitabilmente una domanda: se si nega l'esistenza di ogni fattore teleologico immanente al processo storico, che ne è del concetto di “progresso”? In effetti, diverse parti della Ontologia contengono una rigorosa critica dell'ideologia progressista. In particolare,  Lukács si accanisce contro quelle che definisce le “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”, le quali fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche sufficiente, dell'emancipazione umana. Ciò significa appiattire l'essere sociale sulla dimensione economica, dimenticando che “lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma (…) lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana”(36). Per ribadire quest'ultimo concetto, Lukács riprende temi cari agli autori della scuola di Francoforte e alle loro analisi sulle mutazioni culturali indotte dal consumismo di massa e dall'industria culturale, rinfacciando agli “illusionisti del progresso” l'incapacità di prendere atto del fatto che “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana”(37).


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Nel dialogo del 66 (38) Lukács, rispondendo alla domanda di uno dei tre intervistatori, afferma: “Credo che Gramsci avesse ragione quando osservava che noi usiamo in generale la parola 'ideologia' in due significati distinti. Da un lato si tratta del dato di fatto che nella società ogni uomo esiste in una determinata situazione di classe, cui naturalmente appartiene l'intera cultura del suo tempo, non può esserci nessun contenuto di coscienza che non sia determinato dall'hic et nunc. D'altro lato si originano certe deformazioni per cui ci si è abituati a intendere l'ideologia anche come una certa reazione deformata alla realtà...una coscienza cosiddetta libera da legami sociali non esiste”. Nel IV° volume della Ontologia (39) citandone un'opera sul pensiero di Croce (40),  Lukács reitera il giudizio positivo sulla tesi di Gramsci, tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere  espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, per cui occorre chiarire che cosa colleghi, in termini ontologici, i due concetti di ideologia cui allude Gramsci, quindi scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale” (41). Ogni reazione umana all'ambiente sociale può dunque diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapporti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero”(42); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe. 


Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra è cosa che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante” (43). Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che:  “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace”(44). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia, sostiene, è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo. 





Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno a priori l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, citando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato  il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana”(45). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita. Dopodiché spende parole durissime nei confronti di quegli intellettuali che, per non essere accusati di “fare dell'ideologia”, assumono nei confronti dei poteri dominanti un atteggiamento “critico” in forme “che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale”(46).


Del ruolo che Lukács attribuisce all'ideologia come fattore strategico del processo rivoluzionario mi occuperò più avanti. Qui non ho invece spazio sufficiente per approfondire certe questioni legate all'autocritica dell'ultimo Lukács alla tesi sostenuta di Storia e coscienza di classe, secondo cui per il marxismo non esisterebbero una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unitaria dello sviluppo della società come totalità, in quanto economia, diritto e stato sono meri momenti di un intero, privi di reale autonomia.  L'Ontologia concepisce invece la totalità sociale come un “complesso di complessi” in cui ogni complesso è eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, specifica e irriducibile. Su questo argomento, e in particolare  sul rifiuto di Lukács di ridurre le sfere del diritto e della religione a semplici “sovrastrutture”, rinvio a quanto ho scritto altrove (47).


* * *


Descrivere il modo in cui Lukács tratta la questione del socialismo come transizione dal regno della necessità al regno della libertà non è facile (48). Ci provo partendo dalla questione della libertà in generale. Secondo il filosofo il problema della libertà può essere posto solo in un rapporto complementare con la necessità (qui le tracce della lezione hegeliana sono evidenti) per cui il pensiero che mette in opposizione i due termini va respinto in quanto “identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di 'se…allora'. In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (…) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale”(49). Viceversa tale problema, argomenta Lukács, può essere affrontato correttamente solo ricercandone il fondamento nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete (50). 


Ciò detto, come è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma  forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (51). Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” /52). In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico (53). 


A questo punto sorge l'interrogativo di come si configuri il “salto” dal socialismo al comunismo. Ricordiamo che, per Marx, l'uomo nuovo sarà emancipato da ogni genere di estraneazione, nella misura in cui tutti i sensi e le qualità umane verranno emancipate: “perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così 'umanizzati') si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano” (54). Il punto però è: Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra (55)? Mi sia consentito esprimere più di un dubbio. È pur vero che Lukács critica le correnti filosofiche, come l'esistenzialismo, che considerano l'estraneazione come una “condizione umana” eterna e universale, per cui evidentemente ritiene che la specifica forma storica che l'estraneazione assume nella società capitalistica debba e possa essere superata, ma ciò significa che pensa anche che ogni e qualsiasi tipo di estraneazione sia destinato a sparire nel comunismo realizzato? Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico che abbiamo fin qui tentato di ricostruire. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco sopra, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare radicalmente la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi  scrive per esempio,  “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità(56). Ovviamente la mia è un'interpretazione soggettiva, per cui lascio al lettore il compito di valutarne l'attendibilità.


    II. Breve nota sul leninismo di Lukács  


Lukács non è stato solo un filosofo: la sua biografia non è quella di un semplice intellettuale engagé, bensì quella di un militante politico. Convertitosi al marxismo dopo la Prima guerra mondiale, si iscrisse al Partito comunista ungherese e partecipò alla rivoluzione del 1919, ricoprendo la carica di commissario all'istruzione per la Repubblica sovietica ungherese (57). Dopo il fallimento della rivoluzione, riparò a Vienna e pendolò fra Berlino e Mosca, dove rimase dopo l'avvento del nazismo e fino alla liberazione del suo Paese. Nel '56 partecipò al governo Nagy e, dopo l'intervento sovietico, fu allontanato dall'Ungheria e “confinato” per qualche tempo in Romania. Malgrado la sua convinzione in merito alla necessità di procedere a una riforma radicale del socialismo reale, e di condurre con più decisione e coerenza il processo di destalinizzazione, non espresse mai posizioni antisocialiste e filo occidentali (58). Questa coerenza di comportamento non è senza relazioni con il fatto che il tema del partito rivoluzionario è uno dei pochi rispetto al quale le idee di Lukács sono rimaste sostanzialmente immutate da Storia e coscienza di classe alla Ontologia, restando fedeli al pensiero di Lenin. 


Parto dal seguente esempio: secondo Lukács, il principio leninista secondo cui “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi” (59), non vale solo nelle condizioni di un Paese “arretrato” qual era la Russia del 1917, con un proletariato di recente formazione, ma appare ancora più giustificato nelle società a capitalismo avanzato del secondo dopoguerra, nelle quali gli strumenti di manipolazione delle masse proletarie da parte delle classi dirigenti si sono fatti immensamente più potenti. Sempre rispetto alla teoria leninista del partito, va sottolineato come Lukács abbia preso le parti di Lenin (60) nei confronti delle critiche di settarismo e scarsa democrazia interna rivoltegli da Rosa Luxemburg (ricordiamo che mentre quest'ultima sosteneva che la lotta all'opportunismo poteva e doveva essere condotta all'interno del partito, Lenin era invece convinto che tale lotta implicasse la separazione organizzativa fra opportunisti e rivoluzionari). 


Lenin viene poi assunto da Lukács ad esempio del ruolo decisivo che il fattore casuale può assumere nella storia, nel senso che solo il caso regala di tanto in tanto dei leader come lui, dotati di doti straordinarie sia sul piano teorico che sul piano politico. Una delle virtù fondamentali di queste figure consiste nella capacità di cogliere e sfruttare le opportunità offerte dalla drastica semplificazione delle decisioni che si accompagna alle situazioni rivoluzionarie: “Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli se e ma (nelle situazioni rivoluzionarie) questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali” (61). La parola d’ordine terra e pace, che giocò un ruolo decisivo nel 1917, in teoria appariva realizzabile anche nella società borghese, ma la genialità politica di Lenin fu quella di cogliere la contraddizioneper cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo” (62).


Se la Rivoluzione riuscì a vincere, argomenta poi Lukács, ciò fu reso possibile dall'approccio anti-economicista di Lenin: nessuna delle parole d'ordine con cui fu rovesciato il capitalismo russo era socialista (63), ma Lenin era consapevole che la rivoluzione non è il frutto della maturazione di presunte condizioni oggettive (sviluppo delle forze produttive, ecc.), ma diviene possibile quando “gli 'strati inferiori' non vogliono più il passato e gli 'strati superiori' non possono più vivere come in passato” (64). Mettendo in luce questa opposizione fra volere e potere, commenta Lukács, Lenin intende attirare l'attenzione sul modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, nella misura in cui “alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà”(65). Questa “debolezza” strutturale della posizione  del proletariato rispetto a quella borghese è il motivo per cui, anche quando si è impadronito del potere “il proletariato continua a lottare con la borghesia con armi impari, fino al momento in cui non ha acquisito ingenua sicurezza nel proprio ordinamento giuridico come unico legittimo” (66). 


La tomba di Lukács



Anche in merito al problema della continuazione della lotta di classe dopo la presa del potere il contributo di Lenin, secondo Lukács, è fondamentale: vedasi quando, all'inizio degli anni Venti, si oppose a quegli esponenti dell'ala sinistra del partito bolscevico che invocavano la transizione immediata al socialismo. Lenin liquidò come “estremismo infantile” questa posizione in quanto era consapevole che, per consolidare il potere socialista, sarebbe occorso un lungo processo di transizione anche attraverso compromessi come quelli associati alla Nuova Politica Economica, che instaurava di fatto una inedita forma di capitalismo di stato. Compromessi accettabili a condizione che il controllo dello stato restasse saldamente in mano al proletariato e al suo partito (67). Con queste note conclusive sul leninismo di Lukács, spero di essere riuscito a dimostrare che la svolta ontologica del filosofo ungherese, mentre contribuisce a innovare profondamente la teoria marxista, non intende minimamente rinnegare l'obiettivo del superamento della società capitalistica e della instaurazione del socialismo. 


Carlo Formenti


Genova, ottobre 2022


Note


(1)  Nella sua Introduzione (riproposta nel primo volume di questa nuova edizione) il filosofo rumeno Nicolas Tertulian, fondandosi sullo scambio epistolare che intrattenne con l'autore fino alla di lui morte, rivela come Lukács ritenesse di dover ulteriormente rimaneggiare i Prolegomeni e progettasse di dare seguito alla Ontologia scrivendo una Etica dedicata ai temi dell'ultima parte dell'opera. Sempre Tertulian ipotizza che i Prolegomeni siano stati scritti perché Lukács nutriva dei dubbi sulla suddivisione della Ontologia in una parte storica e una parte teorica, suddivisione superata nei Prolegomeni che contengono le idee di base della Ontologia in forma condensata (il che, per inciso, ne rende più difficile la fruizione rispetto agli altri volumi).


(2) Le annotazioni critiche degli allievi sono apparse alla fine degli anni Settanta sulla rivista aut aut. Tertulian ritiene che Lukács abbia scritto i Prolegomeni anche per rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da coloro che avevano potuto leggere in anteprima il manoscritto, ma è convinto che il filosofo non abbia accolto gli argomenti dei critici; ritiene inoltre che tanto i ritardi nella pubblicazione quanto le critiche rispecchino la volontà degli allievi di prendere distanza dalle idee del maestro in un momento storico in cui il marxismo era sotto tiro (la successiva conversione di un'autrice come Agnes Heller al liberalismo conferma questa ipotesi).


(3) G. Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.


(4) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970.


(5)  Cfr. la “Prefazione” del 1967 che G. Lukács scrisse per una ristampa della sua opera giovanile (vedi nota precedente).


(6)  Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


(7) Cfr. “Prefazione”, cit., p. XXIV.


(8) Vedi quest'altro passaggio in cui l'influenza emerge ancora più chiaramente:“presentandosi come conseguenza immanente della dialettica storica, la sua (del proletariato) coscienza si presenta essa stessa dialetticamente. Cioè essa non è altro che l'espressione di una necessità storica...non è altro che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale” (Storia e coscienza di classe, cit., p. 234, corsivo mio). Per tacere di quest'altro passaggio in cui si afferma la necessità di “liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, ottenere la comprensione di questo loro carattere come fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica”. (Ivi, p. 11).


(9) “Prefazione”, cit., p. XXIV.


(10) Ivi, p. XXVI.


(11) Ivi, p. XL.


(12) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.


(13) Ivi, pp. 285-286.


(14) Tertulian mette in relazione questa definizione con l'esigenza di superare sia il determinismo che assolutizza il ruolo del fattore economico a scapito degli altri complessi della vita sociale, sia un concetto di necessità che riconosce in ogni formazione sociale e ogni azione storica una tappa del cammino verso la realizzazione di un fine immanente o trascendente. Secondo Tertulian, Lukács farebbe risalire questa versione distorta della necessità (comune ai teorici della II Internazionale e a Stalin) allo stesso Engels, il quale avrebbe sottovalutato il peso della casualità e accordato credito eccessivo alla forza coercitiva della necessità.


(15) Storia e coscienza di classe, cit., p. 95.


(16) “Prefazione”, cit., p. XVI.


(17) Ivi, p. XVII.


(18) Ivi, p. XVIII. Poco oltre (p. XIX) Lukács aggiunge che così “mi fu possibile arrivare solo alla formulazione di una coscienza di classe attribuita di diritto”.


(19) Conversazioni con Lukács, op. cit., p. 17.


(20) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(21) Il fondamento di questa visione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali.


(22) Ontologia dell'essere sociale, Pgreco, Milano 2012, vol II, p. 265.


(23) Ivi, vol. III, p. 23.


(24) Ivi vol. III, p. 14.


(25) Ivi, p. III, p. 58.


(26) Ivi, vol. III, p. 103.


(27) Ivi, vol. III, p. 29. Il rischio associato al fenomeno dell'inversione gerarchico fra il fine e il mezzo del processo lavorativo è la feticizzazione della tecnica, un errore teorico che Lukács attribuisce, fra gli altri, a Bucharin, e a proposito del quale scrive che si tratta di una visione in cui “i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fera uomini, ma sono invece feticizzati, 'reificati', ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma” (Vo. III, p. 341).

 

(28) Ivi, vol. II, pp. 290/91.


(29) Visione che per Lukács è tipica del marxismo della II Internazionale e dello stalinismo.


(30) Ontologia, cit., vol IV, p. 511.ù


(31) Ivi, vol. I, p. 325. Nelle Conversazioni del 66 (cfr. op. cit.) chiarisce assai bene la sua visione del rapporto fra determinismo socio economico e libertà soggettiva. A pag. 133 scrive: “una libertà in senso assoluto non può esistere. La libertà esiste semmai nel senso che la vita degli uomini pone delle alternative concrete, consiste nel fatto che deve e può operare una scelta fra le possibilità offerte entro un certo margine”. E poche pagine dopo: “Lo sviluppo sociale può creare le condizioni obiettive del comunismo, se poi da tali condizioni venga fuori un coronamento dell'umanità o il massino dell'anti-umanità ciò dipende da noi e non dallo sviluppo economico di per se stesso”.


(32) Ivi, vol. III, p. 300.


(33) Ivi, vol. IV, p. 347.


(34) Ivi, vol. IV, p. 344.


(35) Ivi, vol. I, p. 308.


(36) Ivi, vol. IV, p. 562.


(37) Ivi, vol. IV, p.670.


(38) Cfr. Conversazioni..., op. cit. p. 44.


(39) Op. cit., vol IV, p.445.


(40) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949.


(41) Ontologia, cit., vol. IV, p. 446.


(42) Ivi, vol. IV, pp. 452-453.


(43) K. Marx, L'ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.


(44) Ontologia, cit., vol. I, p.245.


(45) Ivi, vol. IV, p. 770. La tragica attualità di questa tesi è confermata dalla recente, ignobile, risoluzione del parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo, i cui effetti devastanti si sono potuti misurare grazie al modo in cui le oligarchie neoliberali e i media occidentali hanno manipolato l'opinione pubblica in merito alla guerra russo-ucraina.


(46) Ivi, p. 782.


(47) Cfr. Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(48) Anche perché il tema è in sé particolarmente complesso, anche a causa dello spazio relativamente esiguo che Marx gli ha dedicato.


(49) Ontologia, cit., vol. III, p. 117.


(50) A pag. 113 leggiamo: se la questione viene portata a un più alto livello di astrazione distaccandola del tutto dal concreto, essa perde ogni contatto con la realtà, diviene una vuota speculazione”. Poco oltre viene aggiunto che più complicato è rispondere alla domanda “fino a che punto il determinismo esterno o interno alla decisione può essere inteso come criterio della sua libertà. Se l’antitesi fra determinismo e libertà viene concepita in termini astratto - logicistici, si viene a dire che soltanto un dio onnipotente potrebbe davvero essere interamente libero, il quale però, data la sua essenza teologica, poi esisterebbe oltre la sfera della libertà”, ma nell’uomo, che vive nella società e socialmente agisce”, la libertà non è mai del tutto priva di determinismo.


(51) Ivi, vol. III, p. 136.


(52) Troviamo queste citazioni nel III° volume della Ontologia.


(53) Cfr. Ontologia, cit., vol IV, p. 510.


(54) Marx, MEGA, I. 3, p.120 (trad. it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329).


(55) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019. Ricordo che Lukács si è più volte espresso criticamente contro l'afflato “messianico” di Bloch (cfr. in merito C. Formenti, Ombre rosse, op. cit.).


(56) Ontologia, cit., vol. IV, p. 522.


(57) Ragionando di quel periodo nella Prefazione del 67 alla riedizione di Storia e coscienza di classe, Lukács ricorda di aver partecipato alla elaborazione di una linea teorico politica “di sinistra”, caratterizzata da aspirazioni utopistico – messianiche e dalla opposizione alle tendenze burocratiche del partito (ragione per cui fu indotto all'autocritica)., Ammette anche, tuttavia, che alcune delle posizioni adottate in quegli anni nascevano da una scarsa conoscenza della teoria leninista del partito e della rivoluzione.


(58) Benché la sua critica filosofica alla versione staliniana del materialismo dialettico (diamat), e la sua opposizione alla linea politica e ai metodi adottati da Stalin nella gestione del partito e dell'Unione Sovietica, Lukács non si allineò mai alle posizioni antisovietiche di certi intellettuali comunisti “pentiti”, e disse di essere stato dalla parte di Stalin sulla questione della possibilità del socialismo in un paese solo (vedi la più volte citata Prefazione del 67).


(59) V. I. Lenin, Che fare, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, pp. 389-390.


(60)Vedi Storia e coscienza di classe, cit., pp. 351 e segg.


(61) Ontologia, cit., vol. IV, p. 506.


(62) Ivi, vol. IV, p. 486.


(63) La Luxemburg criticò per questo motivo la politica agraria bolscevica, ma Lenin sapeva che se non si fosse sfruttata l'energia scatenata dalla sollevazione contadina il proletariato sarebbe rimasto isolato e quindi sconfitto.


(64) V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191.


(65) Ontologia, cit., vol. IV, pp. 503-504.


(66) Storia e coscienza di classe, cit., p, 331.


(67) Come ho evidenziato altrove (cfr. Ombre rosse, op. cit.; vedi anche Il socialismo del secolo XXI, di imminente pubblicazione per i tipi di Meltemi), la lezione della NEP di Lenin è stata creativamente applicata dal Partito comunista cinese con le riforme degli anni Settanta, che ha consentito alla Cina di evitare la disastrosa fine della Unione Sovietica.

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