Lettori fissi

martedì 6 giugno 2023

Quando la denuncia ideologica serve solo a coprire l'assenza di linea politica 


Con questo post inauguro il nuovo corso di questo blog. Infatti ho deciso di smettere di alimentare il mio profilo Facebook (in considerazione dei limiti sempre più stringenti che tendono ad allineare la piattaforma ai criteri imposti dal "pensiero unico" veicolato dai media mainstream; della sua efficacia limitata come veicolo di informazione/mobilitazione relativa a eventi politici, culturali e sociali; dell'insipienza di dibattiti in cui la ricerca narcisistica di visibilità prevale sul confronto costruttivo delle idee; dell'impossibilità di andare a fondo sui temi affrontati nei post in quanto quelli troppo lunghi non vengono letti, per cui si finisce per esprimere "opinioni" piuttosto che pareri motivati). In conseguenza di questa scelta il blog non ospiterà solo articoli lunghi di taglio teorico come è stato finora, ma anche brevi commenti sull'attualità politica, culturale e mediatica, come quello che trovate qui di seguito.

Non sono un fan di Travaglio, anche se gli riconosco straordinarie doti di polemista. Nei suoi articoli, le osservazioni puntute e intelligenti si mischiano spesso a luoghi comuni e cliché tipici di quella sinistra liberale che, dai Girotondi a oggi, passando per l'M5S nelle sue varie (e a dir poco contraddittorie) incarnazioni, ben poco hanno inciso nella lotta contro le lobby finanziarie, industriali e politiche che governano questo Paese in nome degli interessi della NATO e del capitalismo mondiale. Ciò detto, nel suo fondo sul "Fatto quotidiano" di oggi (martedì 6 giugno) ci azzecca in pieno: dopo aver ironizzato su una pseudo(opposizione) di sinistra che si limita a etichettare come fascista l'attuale compagine governativa, in assenza di qualsiasi seria riflessione storica sul "vero" fascismo degli anni Trenta, ma soprattutto cadendo nella trappola dell'effetto "al lupo al lupo" (se tutto è fascismo nulla è fascismo) ed emettendo ipocrite condanne su pratiche "autoritarie" (leggi lottizzazione Rai) che nessuna forza politica al governo si è mai risparmiata, si domanda quali discorsi sarebbero assai più mobilitanti per un elettorato che si è rifugiato in massa nell'astensione. Ecco la risposta: denuncia della guerra ai poveri (mezzo milione senza reddito di cittadinanza da luglio), denuncia del folle bellicismo atlantista, denuncia dei disastri su Pnrr e 110%, "schiforme" su giustizia penale, miliardi "buttati nel Ponte e in altri regali a ricchi e ladri, promesse tradite su bollette e accise. Condivido parola per parola. Naturalmente manca qui del tutto una strategia politica in grado di inquadrare queste parole d'ordine in un progetto di trasformazione sistemica. Ma non è questo che possiamo chiedere a Travaglio e al suo giornale. Questo sarebbe piuttosto quanto aspettarsi da una forza socialcomunista degna di tale nome che, purtroppo, sappiamo che oggi in Italia non esiste.

lunedì 17 aprile 2023

Si dice occhio ai rischi della IA
ma si legge occhio alla minaccia cinese 

Ricevo da Fosco Giannini (direttore della rivista "Cumpanis") questo articolo che riflette sugli obiettivi dell'appello di Elon Musk contro "i seri rischi per l'umanità" associati alla ricerca sull'Intelligenza Artificiale: il vero bersaglio del magnate americano, sostiene l'autore, non sono le minacce generate da una ricerca scientifica fuori controllo bensì il timore che i rapidi progressi della Cina in questo settore (che ha fondamentali ricadute sia in campo industriale che in campo militare) possano mettere in discussione l'egemonia americana sul piano tecnologico e scientifico. 


                                    

Elon Musk e l’Appello del capitalismo contro la scienza e contro la Cina  


di Fosco Giannini


L'occhio di Hal 9000, l'incubo tecnologico di 2001 Odissea nello spazio




Nel marzo 2023 il “Future of Life Institute” lancia un Appello attraverso il quale oltre mille accademici, intellettuali, tecnici e imprenditori delle tecnologie digitali, in buona parte nordamericani, denunciano, per ciò che specificamente riguarda l’Intelligenza Artificiale (Ai), “seri rischi per l’umanità”.

Innanzitutto: che cos’è il “Future of Life Institute”? È “un’associazione di volontariato impegnata a ridurre i rischi esistenziali che minacciano l’umanità, in particolare quelli che possono essere prodotti dall’Intelligenza Artificiale”. Un’associazione molto americana e con sede a Boston, e la doppia notazione potrà essere utile in sede di analisi dell’Appello che lo stesso “Future of Life Institute” ha lanciato.


L’Appello, all’interno della propria denuncia generale, chiede una moratoria di sei mesi per ciò che riguarda la ricerca relativa al sistema di Ai denominato Gpt4, un sistema ancor più sofisticato e potente rispetto al già rivoluzionario sistema ChatGpt. Quest’ultimo, acronimo di Generative Pretrained Transformer, è sinteticamente definito, dagli scienziati, come “uno strumento di elaborazione del linguaggio naturale che utilizza  algoritmi avanzati di apprendimento automatico  per generare risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso”.  Nell’essenza: il ChatGpt è definibile come un mezzo tecnologico dell’Ai volto alla costruzione di una relazione più attiva tra macchina ed essere umano. Mentre il nuovo Gpt4 è definito sinteticamente dalla letteratura scientifica come “un modello linguistico multimodale di grandi dimensioni, un modello di quarta generazione della serie GPT-n”. Un modello creato da OpenAi, un laboratorio di ricerca sull'intelligenza artificiale con sede a San Francisco, con Elon Musk come co-fondatore.


E attraverso questa puntualizzazione (Elon Musk come co-fondatore del Gpt4) si può iniziare a decodificare “politicamente” il senso ultimo di questo Appello lanciato dagli oltre mille “addetti ai lavori” – “addetti” sia sul piano scientifico che imprenditoriale – che getta allarme sull’Ai e sullo stesso Gpt4, chiedendo addirittura di sospendere per almeno sei mesi la ricerca scientifica su questo modello di ultima generazione. 

Perché si può iniziare a leggere politicamente (ed economicamente) l’Appello attraverso il fatto che Elon Musk sia co-fondatore del Gpt4? Perché Musk è anche, e in apparenza surrealisticamente, anche il primo firmatario e “capocordata” dell’Appello. Un Appello contro se stesso?


Ma chi è Elon Musk? 

Elon Reeve Musk, probabilmente l’uomo più ricco del mondo, è un imprenditore sudafricano con cittadinanza canadese e naturalizzato statunitense. È come si può leggere dalla sua biografia ufficiale – “fondatore, amministratore delegato e direttore tecnico della compagnia aerospaziale SpaceX, fondatore di The Boring Company, cofondatore di Neuralink e OpenAi, proprietario e product architect della multinazionale Tesla e proprietario e presidente di Twitter”. Sta, inoltre, lavorando ad una compagnia mondiale per un sistema di trasporto ad altissima velocità denominato Hyperloop. 

Un proto capitalista, se mai ve n’è stato uno. Un imprenditore su scala mondiale che incarna in sé l’essenza imperialista. Un ricercatore strenuo e senza scrupoli di profitto, come dimostra il fatto che è stato, e molto probabilmente lo è ancora, un venditore privato di droni da guerra e altri sistemi bellici ad altissima densità scientifica a Zelensky per il conflitto contro la Russia. Un imprenditore contemporaneo che “santifica” le proprie merci (spesso in verità diaboliche, come quelle militari) attraverso l’aureola dell’iper modernità “positiva” e “liberatrice” dell’individuo.


Elon Musk



Dunque, Elon Musk (che al contrario di quel Lorenzo Valla del quale, incongruamente, pare indossare sui “media” l’immagine umanista, è piuttosto l’esatta proiezione contemporanea di quell’agente del capitalismo belga (Kurtz) che nel “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad semina l’orrore imperialista in Congo per poi riconoscere il proprio assassinio e il proprio abominio pronunciando le parole finali, “Quale orrore! Quale Orrore!”) è il capofila dell’Appello critico verso l’Ai e il Primo Crociato, in apparenza, in difesa di un’umanità minacciata dalla tecnologia digitalizzata. Ancora: in difesa – vestito da filosofo umanista da se stesso imprenditore imperialista?


Una gag sui pericoli della seduzione della IA  



Entriamo, allora, per la questione dirimente che affronta, densa di contenuti per il futuro dell’umanità, del proletariato mondiale e per la lotta di classe a livello planetario, nel cuore dell’Appello lanciato dal “Future of Life Institute” di Boston. 

La prima questione da enucleare è quella che lo stesso Massimo Gaggi, giornalista del “Corriere della Sera”, evidenzia nel suo articolo di giovedì 30 marzo sul quotidiano di via Solferino, dal titolo “Perché l’intelligenza artificiale spaventa i re della tecnologia”.

Scrive Gaggi, riferendosi all’Appello: “Suscita qualche sospetto: ad alcuni il messaggio appare troppo enfatico, altri sottolineano come sia impensabile fermare il lavoro dei ricercatori. Non sarà che si vuole semplicemente rallentare l’integrazione della tecnologia degli scienziati di OpenAi nei prodotti Microsoft in attesa che gli altri concorrenti recuperino il gap? Nel mondo della Silicon Valley il buonismo delle origini è stato da tempo travolto dalla logica della massimizzazione del profitto importata da Wall Street… E gli scettici sottolineano il fatto che Sam Altam, fondatore di OpenAi e padre di Chat Gpt, non abbia firmato la lettera…”.


Gaggi, da una postazione non certamente anticapitalista, come quella del “Corsera”, mette tuttavia il dito nella piaga. L’Appello capeggiato dal pirata capitalista Elon Musk ha, innanzitutto, tutti i crismi di un documento politico atto alla lotta inter-capitalista, inter-imperialista, per la conquista dei mercati: Musk, co-fondatore di Gpt 4, in ritardo tecnologico rispetto al sistema Chat Gp, chiede alla OpenAi di Sam Altman (OpenAi della quale, nella sua versione di capitalista tentacolare, Musk fa parte), produttrice di Chat Gp, di fermarsi. Per sei mesi, ma di fermarsi, gettando ombre inquietanti sullo stesso sistema Chat Gp.

Ma è del tutto evidente che l’attacco di Musk e della frazione capitalista e imperialista che questo corsaro nero del capitalismo mondiale rappresenta, nei mercati internazionali e nell’Appello, non è diretto solo contro la OpenAi guidata da Sam Altman (che infatti non firma l’Appello), non è diretta solo contro la Microsoft di Bill Gates (che come Altam non firma l’Appello),ma soprattutto, con lo sguardo visionario del grande imperialista, è diretta contro i sistemi produttivi, ormai ad altissimo tasso tecnologico, della Cina e dell’India.


In Cina, l’utilizzo in ogni segmento del sistema produttivo generale, in ogni area dell’attività sociale e nel campo militare delle tecnologie digitali e dell’Ai è un obiettivo da tempo messo a fuoco e ritenuto centrale per lo sviluppo generale cinese, un obiettivo strategico che molto ha preso slancio sin dal “Piano di attuazione triennale Internet+ e Produzione intelligente 2025” che dal “Piano di sviluppo dell’industria robotica 2016-2020″, per essere poi rilanciato con forza anche dall’ultimo Congresso del Partito Comunista, il XX°, celebrato nell’ottobre del 2022.


In seguito a questa “pianificazione” politico-economico-tecnologica, oggi la Cina va decisamente superando gli USA anche nel campo tecnologico avanzato e specificatamente in quello dell’Ai. Dalle università e dalle aziende ad altissimo tasso tecnologico di Pechino la nuova frontiera dello sviluppo tecnologico va rapidamente irradiandosi in tanta parte delle università e delle fabbriche cinesi: università, aziende e fabbriche sotto il segno della tecnologia digitalizzata e dell’Ai e in grandissima parte sotto il controllo pubblico. E ciò proprio perché, per la Cina socialista, l’intelligenza artificiale riveste un ruolo di fondamentale importanza, non solo come cardine per una vincente competizione mondiale sui mercati d’avanguardia, ma anche come motore centrale per un nuovo ciclo – ritenuto imprescindibile dalla Cina di Xi Jinping di rivoluzione scientifica e industriale nazionale.

Oggi, in seguito al fortissimo impulso dell’ultimo ventennio operato dal socialismo cinese e ai suoi titanici investimenti sul campo della tecnologia digitalizzata e dell’Ai, anche l’intera intelligenza artificiale cinese sta vivendo uno sviluppo senza paragoni sul piano mondiale. Progressi enormi e persino inaspettati nella loro grandezza ottenuti sui diversi campi big data, cloud computing, internet, robotica, tecnologia dell’informazione, auto elettriche, tecnologia aerospaziale e, appunto, Ai. Con una conseguente e alta discussione filosofico-politica in relazione al rapporto uomo-macchina, uomo-macchina intelligente, macchina intelligente-macchina intelligente. 

Una vasta discussione filosofico-politica su questi temi che si inserisce all’interno di quella vera e propria “effervescenza culturale” (“wenhua re”, ossia “febbre culturale”, “frenesia culturale”) che contraddistingue non solo l’attuale mondo accademico e intellettuale cinese, ma che si popolarizza attraverso una grande e positiva grancassa di dibattiti sostenuta anche da una sempre più vasta rete editoriale di stampo filosofico, letterario e culturale. Un fenomeno, peraltro, che contraddice platealmente e sonoramente quell’immagine di Paese chiuso e autocratico che l’Occidente affibbia alla Cina attuale. Una Cina odierna che vede la presenza di almeno una settantina di diverse riviste di filosofia – in discussione dialettica tra loro – a fronte delle quattro riviste che vi erano prima della fase Deng e, solo in apparenza paradossalmente, nella stessa fase della Rivoluzione Culturale. 

I progressi tecnologici sono stati naturalmente messi a valore anche sul versante militare, in grande, e necessitato sviluppo di fronte alla crescente aggressività bellica USA e Nato, a partire dal progetto secessionista per Taiwan sostenuto dagli USA. Le aziende cinesi di intelligenza artificiale detengono il 70% delle quote mondiali del mercato dei velivoli senza pilota. Imprese colossali come  Tencent, Alibaba, TikTok e Jingdong sono stabilmente piazzate ai primi posti, a livello planetario, nel mercato degli algoritmi, registrando ogni anno il maggior numero di brevetti. Ed è tutto questo che allarma il capitalismo mondiale e quello nordamericano, con Elon Musk in testa. 

Un progetto generale di informatizzazione e automazione del Paese che trova, in Cina, un terreno già reso fertile dalle grandi “riserve intellettuali” del popolo cinese, nel senso che l’inclinazione alla matematica e alla scienza applicata fa parte del senso comune di massa del popolo cinese, nasce da testi antichissimi come “Il libro dei procedimenti matematici”, dalla stessa vocazione alla scienza e alla tecnologia delle grandi dinastie Han e Tang (la prima inizia nel 206 a.C. e la seconda finisce nel 907 d.C.) ed è ispirato da grandi matematici come Qin Jiushao (1202-1261 circa). La stessa inclinazione cinese verso il marxismo scientifico e non verso “il marxismo esistenzialista” (come il grande filosofo marxista Domenico Losurdo notava) trova, forse, le sue basi materiali anche in questa antica “riserva intellettuale scientifica” del popolo cinese.


Ma anche l’India, scegliendo la strada obbligata (al fine di evitare una colonizzazione tecnologica e dunque economico-politica da parte di altre potenze) del pieno sviluppo informatico e legato all’Ai, sta bruciano le tappe al fine di potersi presentare, entro un decennio, come una delle grandi nazioni tecnologiche del pianeta e malgrado possibilità, disponibilità e asset per ora diversi da quelli di  Usa e Cina, anch’essa va rapidamente attrezzandosi per essere protagonista della quarta rivoluzione industriale a livello mondiale. Peraltro, il già significativo e oggettivo sviluppo strutturale indiano nel campo informatico e dell’intelligenza artificiale (basti pensare a quanta sia vasta “l’esportazione”, negli USA, dei tecnici e degli ingegneri informatici indiani) è totalmente funzionale e dunque assolutamente necessario al progetto volto a trasformare stabilmente l’India in un polo  manifatturiero globale (“make in India”) integrato nelle catene mondiali del valore e volto a conquistare sia l’autosufficienza (“atmanirbhar bharat”), che ad aprire il proprio, sterminato, mercato interno. 

 Anche lo sviluppo indiano, dunque, popola gli incubi delle multinazionali nordamericane dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. Anche Nuova Delhi ha spinto Musk e i mille firmatari dell’Appello del “Future of Life Institute” a chiedere che le aziende produttrici del sistema avanzato Gpt4 sospendano le ricerche. E non certo per “i rischi esistenziali che minacciano l’umanità”, ma ben più banalmente e prosaicamente per i rischi di perdere. In un periodo medio-lungo, profitti e leadership mondiale nel campo dell’informatica e dell’Ai.



L’Appello dei mille accademici, intellettuali, tecnici e imprenditori, con il suo carico di critica ombrosa ed equivoca nei confronti del sistema di Ai Gpt4 (come se il sistema ChatGpt, in sé e nel suo intrinseco e inevitabile sviluppo, non ponesse le stesse questioni relative al rapporto uomo-macchine) evoca essenzialmente la questione della concezione filosofica della scienza. 

È del tutto evidente che la richiesta di sospensione della ricerca scientifica in relazione al sistema Gpt4 espressa dall’Appello sia segnata da una disarmante quanto volgare (innanzitutto sul piano filosofico) pulsione idealistica. Essa somiglia, nella sua totalità idealistica, al tentativo di ratifica della “fine della storia” che venne tanto disinvoltamente quanto infantilmente lanciato da Francis Fukuyama un poco prima (1989, di fronte ad un’era Gorbaciov in evidente e gravissima crisi) e subito dopo l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica.

In verità, esattamente come per la storia, il processo di sviluppo della scienza non è arrestabile. E tale asserzione nulla ha a che fare chi scrive sente la necessità di affermarlo con quella concezione feticista dello “sviluppo delle forze produttive” che nella vastissima ala storica del movimento operaio e socialista, da Kautsky a Turati sino alla versione socialdemocratica del PCI, sfociava in quel pigro accomodamento positivista svuotato di pulsione e prassi rivoluzionaria in nome di un comunismo immanente allo stesso sviluppo capitalistico: se il comunismo è immanente e sarà lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche a deciderne la genesi, perché anticipare “maldestramente” la storia? Perché immettere una soggettività rivoluzionaria nel fluire predeterminato del divenire? 

A questa distorsione, come sappiamo, risposero Lenin, Gramsci, Mao Zedong, Fidel Castro, Ho Chi Minh attraverso la riproposizione dell’elemento soggettivo nella storia, attraverso la rottura dell’anello debole della catena.


Nemmeno vogliamo affermare la neutralità della scienza e del suo impiego nella produzione di merci (da quelle che ingolfano e deturpano la nostra vita, automobili e cellulari, alle armi da fine mondo).

Ciò che vogliamo affermare, rimarcando l’impossibilità oggettiva della fine dello sviluppo scientifico, della sua “sospensione”, come chiedono ambiguamente Musk e i suoi “mille”, è che in questo modo di approcciarsi alla scienza riappaiono sia la deleteria superstizione mistico-religiosa tendente a consegnare a Dio i misteri della vita e dell’energia, che un neo luddismo ingannatore del movimento operaio complessivo e antirivoluzionario.


Proponiamo qui, poiché ci sembrano molto utili alla nostra riflessione, alcune righe del primo capitolo (“La cassetta degli attrezzi”), facente parte dell’ultimo libro di Carlo Formenti “Guerra e Rivoluzione”. Scrive Formenti, dopo aver elencato i primi punti relativi ad una certa e vasta superfetazione dello sviluppo delle forze produttive: “infine la fede nel potere di emancipazione delle forze produttive, che ha impedito a Marx (ma anche a Lenin e Gramsci) di cogliere appieno il carattere distruttivo della tecnologia al servizio del capitale”.

Appunto, sottolineiamo noi a partire da Formenti: quella al servizio del capitale, non della tecnologia in sé, non dello sviluppo della ricerca scientifica in sé.


Oggi sappiamo che la fusione nucleare (quella auspicata dalla grande astrofisica – comunista Margherita Hack) sarebbe la positiva risposta planetaria all’esigenza di energia. L’energia che scaturisce dalla fusione nucleare, la stessa prodotta dal sole e dalle stelle, essendo priva di scorie radioattive, superando il problema della temporalmente lunghissima e devastante decantazione degli isotopi radioattivi liberati, sarebbe la risposta all’esigenza di energia dei popoli e degli Stati poveri del mondo, che potrebbero dotarsi di una grande, infinita energia pulita funzionale al loro sviluppo economico e sociale liberandoli dal giogo imperialista.

Oggi, la scienza si sente vicina alla possibilità di produzione di energia (infinita e possibile per tutti i popoli del mondo) attraverso la fusione nucleare positiva, cioè priva di scorie radioattive.

Ma come si è giunti a questa, ancora in fase di studio ma ormai quantomeno fortemente verosimile, fusione nucleare?


Attraverso la scoperta della fissione nucleare, la stessa che portò alla costruzione della bomba atomica e al suo criminale sganciamento, da parte degli USA – ancora unico e solo Paese al mondo ad aver distrutto intere città e intere popolazioni con l’arma radioattiva su Hiroshima e Nagasaki.

Quando Otto Hahn e Fritz Strassmann, il 6 gennaio del 1933, documentarono sulla rivista “Die Naturwissenschaften” la scoperta della fissione dell’uranio, i grandi fisici del mondo, da Niels Bohr ad Enrico Fermi, compresero immediatamente l’immensa portata, ai fini dello sviluppo umano, ai fini della liberazione dell’umanità dal lato oscuro della Natura, che la scoperta recava in sé. Compresero immediatamente quanto fosse liberatoria, per l’umanità, la possibilità di produzione infinita di energia. 

Ci furono, naturalmente, anche scienziati, fisici, come l’ungherese Leó Szilárd, che riuscirono sin da subito a mettere a fuoco la dialettica dai caratteri anche nefasti e “demoniaci” insita nella scoperta della fissione dell’uranio: la possibilità, cioè, che assieme a tanta energia elettrica si potesse giungere anche a produrre la bomba atomica per uso militare. Di straordinario valore scientifico ed etico, a questo proposito, fu il carteggio tra Szilárd ed Einstein, il quale, pur apprezzando la scoperta dal punto di vista scientifico, metteva anch’egli in rilievo le possibilità nefaste della fissazione dell’uranio. E la sorprendente spregiudicatezza anti umanistica e il cinismo delle classi dirigenti americane gli dettero ragione.


Ma la storia ha assodato almeno tre questioni cardinali: 

- primo: solo a partire dalla scoperta della fissione nucleare in un tutt’uno dialettico la scienza oggi può concretamente giungere alla fusione nucleare, priva di rischi e capace di produrre, a costi possibili per tutti, energia pulita per ogni popolo del mondo, liberando gli stessi popoli dal potere dei detentori e dei produttori di gas e petrolio, dal potere imperialista delle compagnie petrolifere e dall’intera “governance” imperialista;

- secondo: il flusso della scienza, come quello della storia, non è sospendibile da un decreto politico, da un ordine umano di qualsiasi natura: ciò evocherebbe soltanto, assieme al risultato che la scienza proseguirebbe comunque il suo inevitabile corso, un regime dittatoriale oscuro e folle, antistorico e antiumano;

- terzo: che il vero problema, come insegna storicamente il fatto che l’atomica è stata usata solo dall’imperialismo americano, è quello di quale ordine politico, sociale, morale gestisce, padroneggia, mette a valore la scienza. O un ordine volto ad uno sviluppo sociale egualitario e alla fine del dominio di una parte ristretta dell’umanità sulla sua parte immensamente più grande, un ordine che sulla struttura materiale del socialismo proietti una sovrastruttura etico-morale fortemente umanistica e antitetica alla guerra; oppure un ordine segnato dall’“esigenza” strutturale del profitto e della spoliazione mondiale, del loro mantenimento e dunque della guerra e dell’uso – legittimato e consentito dalla stessa “morale” capitalista di sempre più orrendi ordigni bellici (chissà cosa, oltre il nucleare) per vincere la guerra di classe mondiale. 


La certezza dell’esistenza del rapporto dialettico tra fissione nucleare e fusione nucleare (senza la prima non potrebbe, non potrà esserci la seconda), come del rapporto dialettico, per ciò che riguarda l’intelligenza artificiale, tra il sistema ChatGpt e il sistema Gpt4, rimanda direttamente al problema della concezione filosofica della scienza, che in Elon Musk e i suoi seguaci imperialisti sembra piuttosto essere una sorta di materia inerte, indipendente dalla storia, dallo spazio e dal tempo, subordinabile al profitto e plasmabile, a loro piacimento, dai padroni della terra. 

In verità, l’insopprimibile natura dialettica della scienza, che un potere umanamente “giusto” (e quello più giusto che oggi storicamente conosciamo è il potere politico socialista) può piegare agli interessi dei popoli ma che anch’esso non può fermare, è stato chiarito in modo insuperabile da Ludovico Geymonat, non per niente il più grande filosofo italiano della scienza e tra i più grandi filosofi europei. Marxista, peraltro, col marxismo che segna il suo intero pensiero. 


In un’estrema e rozza sintesi possiamo affermare che tutta la lotta filosofico-politica di Ludovico Geymonat è diretta a battere quel positivismo filosofico e politico che, in Italia, lungo l’asse crociano-gentiliano, riduce, ossifica la storia e la scienza attorno ad “assoluti” tanto idealisti quanto irrazionali che “dettano”, nel processo storico, tutti i tempi del divenire dogmatico (prima il pieno sviluppo capitalistico e poi la rivoluzione, che tanto serve ai Turati al fine di non fare mai la rivoluzione...), rimuovendo ogni azione soggettiva della “classe”, delle avanguardie, dei popoli, e nella scienza fissando gli “assoluti” – o, nella migliore ipotesi, il nocciolo duro degli “assoluti” di ogni tempo presente. Mentre Geymonat, rimarcando le fasi a strappi della scienza, le sue crisi violente, i suoi cicli di continua negazione di sé e di una continua e nuova riproposizione di sé, immette la stessa scienza nel fluire della dialettica storica, del materialismo dialettico, negando così ogni “assoluto” della scienza, come della storia. Non per niente Geymonat prende chiaramente a supporto delle sue tesi anche il Lenin di “Materialismo ed empiriocriticismo”, quel Lenin inevitabilmente non compreso da quel marxismo occidentale ancora malato di “hegelismo di sinistra”, quel Lenin che, strapazzando Ernst Mach, ricolloca al centro il materialismo dialettico.


Una riproposizione della scienza come un fluire vivo e inarrestabile nel suo svolgersi dialettico che, se ve n’era bisogno, ridicolizza la richiesta di Musk e dei seguaci imperialisti di “sospensione” (per ordine politico? Per ordine giuridico? Per uno stesso contraddittorio ordine “scientifico”?) della ricerca scientifica, richiesta tanto malmostosa poiché dietro essa, come abbiamo visto, si nasconde un’altra e indicibile verità: la paura storica di perdere la partita del secolo, innanzitutto a favore della Cina, sulla tecnologia digitale e sulla Ai e con essa perdere profitto ed egemonia imperialista. Le stesse paure che spingono gli Usa e la NATO, peraltro, alla guerra contro la Cina attraverso, per ora, la guerra contro la Russia. 


Ma vi è un’altra questione dirimente, nella medioevale richiesta, da parte di Musk e dei suoi “mille”, di critica – da postazioni oscure che sfruttano la superstizione alla scienza e nella conseguente richiesta di sospendere il fluire della scienza: la paura, pienamente consapevole o meno, ma comunque politicamente agente, di non poter controllare il prodotto sociale dello sviluppo scientifico, di non poterlo più subordinare al profitto capitalistico.


È del tutto evidente, infatti, che lo sviluppo pieno dell’intelligenza artificiale oltre i problemi oggettivi che potrà produrre nel rapporto tra macchina e uomo, problemi affrontabili e risolvibili solo da un potere rivoluzionario e antitetico ai disvalori anti umanistici capitalisti – produrrà un contesto sociale nel quale la richiesta di forza-lavoro tenderà sempre più a ridursi, sino alla fuoriuscita, in un mondo ancora capitalista, di centinaia di milioni di esseri umani dalla produzione, sostituiti da robot sempre più intelligenti e capaci. In questo contesto si porrà la questione, che già segna il presente e ancor più segnerà il futuro, della riduzione secca dell’orario di lavoro a scapito del profitto capitalista. Una contraddizione forse finale che difficilmente il capitalismo potrà sopportare, se non cambiando strutturalmente i propri connotati e la propria concezione del rapporto forza-lavoro/capitale, del mercato e del mondo (e una trasformazione così profonda di sé appare impossibile persino alla luce delle grandi capacità di adattamento ai tempi continuamente nuovi che il capitalismo ha sempre dimostrato).


Una contraddizione, quella capitalistica, che potrebbe essere segnata da una ciclopica crisi di sovrapproduzione inevitabilmente prodotta dal dispiegamento globale dell’Ai, probabilmente impossibile da portare a sintesi, comunque di difficilissima soluzione per il capitale, quanto densa di spinta rivoluzionaria per la “classe”, per il mondo del lavoro e del non lavoro, per le avanguardie. Una contraddizione nefasta e infelice per il capitalismo quanto felice per “la classe”, per il proletariato, per l’umanità nel suo insieme, se è vero, come è vero, che “il lavoro è la lotta dell’uomo contro la natura” (Marx) e, come ogni lotta, ha in sé una dose massiccia di sofferenza da cui liberarsi. Lo sviluppo della scienza, al di là di ogni superstizione pseudofilosofica e nichilista, è anche liberazione dell’uomo e della donna dal lavoro. La gestione della dialettica della scienza da parte di un potere rivoluzionario vorrà dire rendere la scienza funzionale alla liberazione umana. Non più, com’è inscritto nell’Appello di Elon Musk, al profitto capitalista. 


 


lunedì 3 aprile 2023

ELOGIO DEI SOCIALISMI IMPERFETTI


Fra qualche giorno sarà in libreria il Secondo Volume di "Guerra e rivoluzione"  (del Primo Volume, intitolato "Le macerie dell'Impero", ho dato alcune anticipazioni su questa pagina un paio di mesi fa, poco prima che uscisse). Il tema di fondo di questa seconda parte del lavoro è il socialismo: in che misura i Paesi che oggi si definiscono socialisti meritano di essere definiti tali, qual è il contributo che le loro esperienze possono dare alla rinascita del marxismo occidentale e alla ripresa di un progetto di trasformazione socialista nei nostri Paesi? Qui di seguito anticipo alcuni stralci dalla Nota conclusiva alla Prima Parte, dedicata alla Rivoluzione cinese e alle rivoluzioni latinoamericane. 







Conclusioni alla Prima Parte del Secondo Volume


I tre capitoli di questa Parte contengono quella che considero la tesi più importante del libro: contro i “puristi” che sostengono che oggi nel mondo non esiste alcun Paese socialista, ma solo differenti forme di capitalismo in competizione reciproca, io sostengo che nel mondo i socialismi esistono, anche se “imperfetti”. Imperfetti non perché non corrispondono al modello ideale elaborato da Marx ed Engels e rimasto sostanzialmente immutato in tutta la storia novecentesca. Chi ha letto il primo Volume, sa che considero quel modello del tutto obsoleto, sia perché frutto di elaborazioni condotte in un contesto economico, politico e sociale radicalmente diverso dall’attuale, sia perché ibridato con paradigmi – evoluzionismo, positivismo, progressismo e modernismo borghesi, ecc. – estranei alle stesse fondamenta della ontologia sociale marxiana (1). Né a rendere imperfetti questi socialismi  è il fatto che si tratta di formazioni sociali in cui permangono il mercato e la proprietà privata (2), bensì il fatto che, pur avendo incredibilmente migliorato le condizioni della stragrande maggioranza delle persone che in esse vivono e lavorano, convivono con una serie di contraddizioni che ne rendono imprevedibile l’ulteriore evoluzione. Si tratta cioè di società in transizione che potranno approdare a esiti differenti in base all’evoluzione delle contraddizioni di cui sopra, e ancor più in base ai rapporti di forza che riusciranno a instaurare con i Paesi capitalisti del blocco occidentale (...).


Tutto questo ci porta alla guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato non solo contro questi Paesi ma anche contro tutti quelli che, pur non essendo socialisti, tentano di sottrarsi al loro dominio. Molti marxisti occidentali vedono, in questa alleanza “spuria” fra Paesi in via di sviluppo con regimi fra loro ideologicamente assai diversi, l’ulteriore conferma del fatto che Paesi come Cina, Bolivia, Venezuela, Cuba non sono “veramente” socialisti. Analogamente  non viene digerito il fatto che queste nazioni mantengono un ferreo controllo politico sulle dinamiche di mercato presenti al proprio interno, il che induce a definirli totalitari e antidemocratici (laddove si intende che l’unica “vera” forma di democrazia è, per definizione, la democrazia rappresentativa occidentale). Tali accuse non vengono rivolte solo alla Cina, dove vige un regime di partito unico, ma anche a Bolivia e Venezuela, benché in questi Paesi le forze rivoluzionarie siano andate al potere per vie legali e abbiano continuato a governare rispettando le procedure della democrazia formale (...).


Nel discutere di questi e altri problemi ho richiamato l'attenzione  sulle molte e significative differenze fra il sistema cinese e i socialismi latinoamericani. Ritorno sul tema evidenziando alcuni aspetti emersi nel corso dell’analisi. Il più importante mi pare il seguente: il PCC ha costruito letteralmente ex novo lo Stato cinese, già demolito dalla colonizzazione occidentale e poi definitivamente dissolto da decenni di guerra civile e di lotta contro l’invasione giapponese, il che vuol dire che dispone di un poderoso strumento progettato “su misura” per le esigenze del processo rivoluzionario. Tutti i processi rivoluzionari latinoamericani hanno invece ereditato Stati plasmati da secoli di dominio borghese e coloniale, con caste burocratiche, giuridiche, militari e accademiche abituate a servire gli interessi delle élite dominanti e in larga misura provenienti da quelle stesse élite. Ciò ha creato gravissimi problemi nell’implementazione dei progetti di trasformazione sociale dei governi post-neoliberisti. Problemi altrettanto gravi ha creato la necessità di far convivere le nuove istituzioni di democrazia diretta e partecipativa inserite nelle Costituzioni approvate dopo le rivoluzioni  con la democrazia rappresentativa. 


Una seconda differenza strategica si riferisce al ruolo delle classi medie. Anche in questo caso la Cina è in vantaggio: un partito e uno Stato espressione di una rivoluzione eminentemente contadina hanno in qualche modo potuto “dosare” la crescita delle classi medie, educandole ad accettare e condividere i valori del progetto socialista. Viceversa in America Latina sussistevano, e sussistono, ampi settori di classi medie tradizionali profondamente reazionarie, mentre è mancato il tempo di educare le nuove classi medie, cresciute in fretta e disorientate dalla crisi globale.


La mia tesi è che, paradossalmente, sono questi fattori di maggior debolezza delle esperienze rivoluzionarie latinoamericane a rendercele più “vicine” di quella cinese. Sia perché in Europa è difficile immaginare situazioni rivoluzionarie che contemplino la possibilità di costruire ex novo lo Stato, per cui anche qui si porrebbero problemi analoghi, se non più gravi, a quelli incontrati da Bolivia e Venezuela; sia perché i nostri legami culturali con l’America Latina sono tradizionalmente più stretti di quelli con la Cina. Tutto ciò comporta la difficoltà, non dico di progettare/praticare ma anche di immaginare, percorsi rivoluzionari che non restino impastoiati in logiche di tipo elettoralistico. 


Un’altra affinità riguarda l’orizzontalismo: analizzando le tesi dell'ex vicepresidente boliviano Linera (3) ho evidenziato come costui, pur polemizzando con l’antistatalismo di certe opposizioni “di sinistra”, conservi una visione che associa il socialismo realizzato a un processo progressivo di dissoluzione dello Stato, che verrebbe sostituito da  istituzioni popolari di autogestione dal basso. Come è noto, questa ideologia è largamente prevalente nei movimenti della sinistra radicale europea e nordamericana, ed è stata uno degli ostacoli che più hanno impedito di ricostruire una forza politica anticapitalista dopo il crollo delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio (...).


Questa maggiore affinità fra marxismi occidentali e marxismi latino-americani rispetto a quello cinese ci riporta alla divaricazione fra marxismo orientale e marxismo occidentale (4) cui ho più volte fatto riferimento in questo lavoro, con il marxismo latinoamericano che si colloca in una posizione intermedia: più vicina a quella cinese sul piano dell’agire concreto, più vicina a quella europea sul piano del progetto utopistico (5).


Tirando le somme: sbarazzato il campo dalle ubbie puriste e preso atto dei meriti (e dei limiti) dei socialismi imperfetti di cui abbiamo ragionato; posto che il salto di paradigma compiuto da Arrighi, che ha messo in luce la necessità di superare l’equazione fra capitalismo e mercato (6), è un’acquisizione irrinunciabile per chiunque non voglia attardarsi in nostalgiche celebrazioni delle utopie ottocentesche; posto infine che la guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato contro i socialismi imperfetti e i loro alleati disegna due campi contrapposti dai quali i marxisti rivoluzionari non possono dirsi equidistanti; posto tutto ciò, resta il compito di discutere a quali condizioni possa essere fatto rinascere un marxismo occidentale che torni a porsi l’obiettivo della presa del potere e della costruzione del socialismo.



Note

(1) Cfr. G.  Lukács, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012.

(2) Sulla possibilità che nella prima fase di transizione al socialismo possano convivere socialismo e mercato, e sul modo in cui questa convivenza si è realizzata nella concreta esperienza di costruzione del socialismo in Cina, cfr.G. Arrighi,  Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007. 

(3) Cfr. A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(4) Cfr. D. Losurdo,  Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari 2017.

(5) A dire il vero, nemmeno i comunisti cinesi rinnegano l’utopia marxista classica, ma la proiettano in futuro talmente vago e lontano da disattivarne l’impatto sulla prassi politica quotidiana.

(6) Vedi nota (2).

giovedì 16 marzo 2023

OLTRE LA GEOPOLITICA
STORIA, ECONOMIA E SOGGETTIVITÀ POLITICA



Per la maggioranza degli esperti di geopolitica, in particolare per coloro che tendono a ragionare in termini di real politik (penso a un filosofo come Carl Schmitt o, si parva licet, all'editorialista del Corsera Sergio Romano), le guerre e i conflitti fra nazioni e blocchi regionali si spiegano prevalentemente, se non esclusivamente, in base a un combinato disposto di storia e tradizioni culturali, caratteristiche morfologiche dei territori coinvolti, carattere nazionale (mentalità) delle popolazioni interessate e ambizioni di potenza. Da queste ultime non sono ovviamente espunti i motivi di competizione economica, ma raramente vengono considerati la causa prevalente. 


Nel caso in cui gli esperti in questione adottino un punto di vista marxista, queste gerarchie tendono a rovesciarsi: le ragioni del conflitto fra opposti interessi economici (riferiti non solo alle diverse economie nazionali o regionali ma anche alle formazioni sociali, cioè ai conflitti di classe interni a tali sistemi e intersistemici) vengono in primo piano, mentre tutti gli altri motivi, pur senza sparire, passano in subordine. In questo articolo intendo abbozzare la tesi secondo cui in entrambi i casi, anche le analisi più raffinate risultano monche, nella misura in cui sottovalutano, nel primo caso le cause strutturali, nel secondo il peso delle ideologie e delle strategie politiche di stati, governi, partiti, movimenti e classi sociali coinvolti nei conflitti che si intende prendere in esame. 


Per sostenere quanto appena affermato, discuterò due libri (Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, di Benjamin Abelow, Fazi Editore e Stati Uniti e Cina allo scontro globale, di Raffaele Sciortino, Asterios Editore) che possono essere assunti (benché non senza forzatura) come esempi dei due approcci appena indicati. In particolare, dedicherò il primo paragrafo al libro di Abelow e il secondo al lavoro di Sciortino.







1. Abelow. Ovvero la colpevole stupidità del governo Usa    


La tesi di fondo di Abelow, come spiega sinteticamente Luciano Canfora nella Prefazione, si basa su un parallelismo storico: così come la Seconda guerra mondiale è stata provocata dalla cecità delle potenze vincitrici, che hanno scelto di umiliare la Germania, alimentando il revanscismo tedesco che ha trovato espressione nel regime nazista e nella sua volontà di rivincita, allo stesso modo la cecità dell'Occidente, e in particolare degli Stati Uniti e del loro braccio militare, la NATO, è consistita nella volontà di stravincere la Guerra fredda, umiliando la Russia dopo il crollo del regime sovietico, fino al punto di metterne in discussione la stessa sopravvivenza in quanto nazione autonoma e indipendente.  


Per costruire la sua requisitoria contro le responsabilità di Usa e NATO nella guerra ucraina, Benjamin Abelow attinge a documenti, articoli e opinioni che esprimono le idee di una decina di noti esperti angloamericani di politica internazionale, nessuno dei quali sospetto di simpatie per la Russia, né tantomeno per la Cina, ma anzi perlopiù esponenti del coté conservatore della cultura occidentale. Il filo rosso della sua argomentazione è la totale incapacità dell'establishment atlantista di identificarsi con le ragioni della controparte, e quindi di interpretarne i comportamenti e agire di conseguenza.  


Da quando fu formulata (ne1 1823) la dottrina Monroe, gli Stati Uniti considerano come un casus belli il fatto che un'altra potenza schieri forze militari nelle vicinanze del proprio territorio - vedi il caso dei missili russi a Cuba nel 1962 (1) - anche se quel "nelle vicinanze" è stato progressivamente esteso a tutte le aree del mondo in cui siano presenti "interessi vitali" americani. Usa e NATO rifiutano tuttavia di ammettere che tale principio valga anche per la Russia. Tanto è vero che, dall'inizio degli anni Novanta a oggi, hanno messo in atto una serie di gravi provocazioni nei confronti di quest'ultima. Eccone l'elenco stilato da Abelow: in spregio agli impegni assunti all'atto dell'unificazione tedesca (secondo cui, in cambio del ritiro di 400000 soldati russi dalla Germania Est, la NATO si impegnava a non estendere i propri confini al di là di quel Paese) la NATO si è progressivamente allargata di 1600 chilometri, fino ad arrivare ai confini della Russia; gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato sui missili antibalistici (ABM) e li hanno schierati in alcuni Paesi ex socialisti a ridosso dei confini russi; hanno inoltre appoggiato - se non istigato - il golpe di estrema destra del 2014 in Ucraina; la NATO ha condotto esercitazioni con armi in grado di colpire il territorio russo; è stata più volte dichiarata l'intenzione di integrare l'Ucraina nella NATO e si è   costruita l'interoperabilità militare con questo Paese prima ancora che avvenisse il suo ingresso nell'alleanza; infine Usa e NATO hanno spinto il governo ucraino ad assumere posizioni sempre più aggressive nei confronti del vicino. 


Tutto ciò è avvenuto contro il parere di esperti di geopolitica come George Kennan, il quale si è così espresso sull'allargamento della Nato: "penso sia un tragico errore. Non c'era alcun motivo per farlo. Nessuno stava minacciando nessuno". Sempre Kennan dichiarò che questa mossa equivaleva a emettere una profezia destinata ad auto avverarsi sull'aumento dell'aggressività russa. Analoghi pareri sono stati formulati dall'ex segretario alla difesa McNamara, da Henry Kissinger e molti altri. A parte queste voci, scrive Abelow, nessun membro dell'establishment di Trump prima e Biden poi sembra essersi chiesto come avrebbero reagito gli Usa a situazione invertita, dopo che il ritiro (nel 2019) americano dal trattato sulle armi a raggio intermedio ha esposto la Russia al rischio di subire un eventuale first strike prima di poter reagire, riducendone di fatto la capacità di deterrenza. Un esperto di politica russa come Richard Sakwa aggiunge che "Mosca non ha due grandi oceani per difendersi, non possiede montagne che la proteggano. Nessun fiume importante", non ha quindi confini difendibili e, dalla memoria storica delle imprese di Napoleone e Hitler ha ereditato un costante senso di minaccia da Occidente che ne alimenta la (più che giustificata) paranoia. 


A peggiorare la situazione, scrive Abelow, contribuisce il mancato ruolo critico dei media, tanto americani che europei, che censurano sistematicamente le opinioni dissenzienti. In questo modo le false narrazioni divengono modelli di realtà, si impongono come guida per l'azione. Così il racconto della guerra come una limitata iniziativa umanitaria per aiutare l'Ucraina a difendersi dall'aggressione russa è progressivamente slittato fino a enunciare apertamente l'obiettivo di indebolire la capacità della Russia di combattere guerre future (2). Così il rischio di una guerra nucleare viene minimizzato, evitando di porsi la domanda di cosa potrebbe fare la Russia ove avesse la percezione di essere esposta a un rischio di invasione. Così si alimenta l'illusione che prolungando il conflitto si creino le condizioni per rimpiazzare Putin con qualche fantoccio prono agli interessi occidentali, rimuovendo sia il crescente risentimento anti occidentale del popolo russo che cementa il consenso per Putin, sia il fatto che a subentrargli potrebbe essere un governo ultra nazionalista dotato di mezzi offensivi in grado di radere al suolo gli Usa in mezzora.


Il responsabile di quanto avvenuto è davvero Putin? si chiede Abelow in conclusione. Dopodiché, pur affermando la propria antipatia per il presidente russo, si azzarda a dire che la responsabilità primaria è occidentale, e in particolare americana, aggiungendo che, se Usa e NATO avessero agito diversamente, a suo avviso è assai probabile che la guerra in Ucraina non ci sarebbe stata. In poche parole la causa della guerra sarebbe stata la stupidità del governo Usa (per tacere della deferente codardia degli alleati europei). 


Stalingrado


Marjupol




Per rafforzare tale giudizio, Abelow cita come aggravante il fatto che, a suo avviso, l'Ucraina sarebbe una pedina irrilevante sullo scacchiere geopolitico degli interessi americani. E qui si misurano i limiti dell'approccio "puramente" geopolitico cui accennavo in apertura, riferendomi al fatto che si tratta di un punto di vista che sottovaluta le ragioni "strutturali" (socioeconomiche) dei conflitti internazionali, concentrandosi prevalentemente sui fattori "sovrastrutturali" (3) politico- culturali, ideologici e "psicologici"(in senso lato). Da un lato, è a dir poco riduttivo considerare quanto sta succedendo come frutto della "stupidità" dell'establishment statunitense, come se non esistessero potenti forze materiali che lo spingono a compiere certe scelte (mentre anche lo scontro di opinioni interno alle élite Usa documentato da Abelow rispecchia gli interessi contrastanti di precisi settori del capitalismo a stelle e strisce). Dall'altro lato, è assurdo parlare di irrilevanza dell'Ucraina per gli interessi Usa dimenticando 1) che quel Paese è un tassello importante nella proiezione della Cina verso Occidente attraverso la Via della Seta (cui gli Usa cercano in ogni modo di sbarrare la strada), 2) che la guerra contro la Russia serve in primo luogo a indebolire il più importante partner politico-militare (oltre che sempre più anche economico) della Cina, per isolare e accerchiare quello che gli Stati Uniti considerano oggi il nemico principale (e, in subordine, per indebolire e rendere ancora più prono ai propri interessi l'alleato europeo).




Sciortino: meriti e limiti di un'analisi strutturale del "Grande Gioco" fra Oriente e Occidente


A Sciortino dedicherò più spazio perché, mentre quello di Abelow è un pamphlet, il suo libro è un saggio complesso, approfondito e articolato, di cui condivido molte argomentazioni, mentre intendo motivare con la maggior cura possibile (per rispettando le esigenze di sintesi imposte dalle dimensioni di un articolo) le ragioni per cui dissento da alcune sue tesi. Parto da una citazione che l'autore pone in esergo alla Introduzione: "I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale, politica e bellica della signoria americana sul mondo capitalistico". L'autore citato è Amedeo Bordiga, scelta tutt'altro che casuale, come cercherò di dimostrare. Quanto al contenuto della citazione: mentre condivido l'augurio di catastrofe rivolto all'imperialismo americano, dissento dall'idea (da contestualizzare negli anni Cinquanta del Novecento in cui fu presumibilmente formulata) secondo cui ai marxisti non sarebbe dato (oggi come ieri?) essere protagonisti della storia. Temo che Sciortino, pur non potendo essere definito neo bordighista tout court, la pensi attualmente come la pensava allora Bordiga, mentre il sottoscritto è convinto che i marxisti siano oggi attori tutt'altro che trascurabili della storia in tutto il mondo non occidentale, e che non debbano rinunciare a svolgere un proprio ruolo nemmeno nel disastrato panorama occidentale. Ma procediamo con ordine.     


a) Globalizzazione e "superimperialismo" americano


Uno degli apporti più importanti del lavoro di Sciortino a un'analisi marxista del mondo attuale consiste nell'aggiungere il proprio contributo alla schiera degli autori (4) che stanno rilanciando la categoria di imperialismo, progressivamente abbandonata dalle sinistre (non solo le moderate ma anche le presunte "radicali") a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, allorché la lezione delle teorie del sottosviluppo prima (5) e di quelle della dipendenza poi (6) vennero liquidate come "terzomondismo". 


Sciortino sgombra il campo dalle posizioni che tracciano uno scenario secondo cui esisterebbe un conflitto interimperialistico sia fra Stati Uniti ed Europa, sia fra questi due e la Cina. Della Cina diremo più avanti, per ora basti dire che per Sciortino esiste piuttosto un "superimperialismo" Usa (da non confondersi con il concetto proposto a suo tempo da Kautsky né con quello di Impero teorizzato da Antonio Negri) che è l'esito del  processo che ha consentito di instaurare e consolidare il signoraggio del dollaro: dallo sganciamento della moneta americana dall'oro all'inizio degli anni Settanta, al Volcker shock (con lo spregiudicato uso dei tassi da parte della Federal Reserve finalizzato a stroncare ogni velleità concorrenziale da parte di altri Paesi capitalisti). Il progressivo consolidamento del ruolo mondiale del dollaro come mezzo di pagamento e moneta di riserva ha messo Washington nelle condizioni di effettuare operazioni alternate  stop and go, inondando di volta in volta i mercati con la propria moneta per poi risucchiare capitali su scala mondiale. 


Questa alternanza di docce fredde e bollenti ha sbarrato la strada ai tentativi di Giappone, Germania e Tigri Asiatiche di porsi come poli autonomi del processo di concentrazione dei capitali a livello globale. Ma il vero "colpo gobbo" del capitalismo mondiale, la vera essenza di quello che va sotto il nome di processo di globalizzazione, argomenta Sciortino, è stata quella peculiare divisione internazionale del lavoro in ragione della quale il plusvalore prodotto dalla classe operaia cinese (e più in generale dai cosiddetti Paesi in via di sviluppo) si è riversato nelle tasche della finanza occidentale, sia come quota direttamente appropriata da parte delle multinazionali, sia come finanziamento del debito Usa attraverso l'acquisto massiccio dei relativi titoli, sia come quota parte di un mercato mondiale dei capitali dominato dalla finanza a stelle e strisce (per la Cina la contropartita di questo scambio ineguale è stata la fuoriuscita dal sottosviluppo, ma di questo più avanti). 


Aspetti non secondari di questi meccanismi intrecciati a livello mondiale sono stati, da un lato, il rapido indebolimento del proletariato occidentale, schiacciato dalle ristrutturazioni tecnologiche e dai decentramenti produttivi verso l'Asia e il Sud del mondo e costretto ad accettare drastici ridimensionamenti di salario (7), nonché altrettanto drastici peggioramenti di welfare e condizioni di vita; dall'altro lato l'atrofizzazione prima e la morte definitiva poi delle sinistre, le quali, già protagoniste del lungo 68, hanno regalato al capitale un nuovo carburante generato dalle trasformazioni ideologiche, politiche e culturali indotte da movimenti sempre più concentrati sui temi della emancipazione individuale, e creato i presupposti dell'egemonia delle nuove classi medie su un proletariato frastornato dal nuovo compromesso sociale neo liberale (8).


La stessa diversificazione geografica che ha consentito la ripresa dell'accumulazione capitalistica in occidente, fino alla crisi del 2008 e ai contraccolpi della pandemia da Codid19, ha tuttavia favorito  una crescita formidabile in Asia ma soprattutto in Cina, un processo, argomenta Sciortino, di proporzioni tali da non essere più contenibile nella gabbia della finanziarizzazione imperialista occidentale. Nel prossimo paragrafo discuteremo le cause endogene che, sempre secondo Sciortino, hanno indotto la Cina a imprimere un salto di qualità al proprio processo di sviluppo, riducendo progressivamente la propria subordinazione nei confronti della controparte a stelle e strisce e incamminandosi sulla strada di una crescita più qualitativa e trainata dal mercato interno. 


Gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a questa sfida in un momento in cui al loro interno maturavano tensioni sociali innescate dai contraccolpi della crisi. Una sorta di "momento Polanyi" ( ma Sciortino non usa questa categoria, preferendo il concetto di neopopulismo (9))  che ha trovato espressione nella vittoria elettorale di Trump e toccato un vertice mediaticamente vistoso con l'assalto a Capitol Hill. Si tratta di reazioni sociali caratterizzate, scrive Sciortino, da  soggettività povera,  forme interclassiste e confuse manifestazioni di scontento popolare associate a richieste di protezione. Capitol Hill, aggiunge, rappresenta la "fine del primo tempo neopopulista", ma queste spinte in cui si mischiano ambigue componenti sovraniste, cittadiniste e classiste sono destinate a riproporsi e a tenere sotto pressione un establishment che, sia con Trump che con Biden, ha affrontato la sfida alzando il livello di scontro con la Cina, passando dalla guerra dei dazi alla guerra aperta, per cui il conflitto ucraino appare come la prima mossa di una "strategia del doppio nemico" da affrontare nel contesto di un unica guerra di lunga durata, che punta a indebolire la Russia per togliere una sponda alla Cina per poi attaccarla direttamente.



L'assalto ma Capitol Hill




b) Ascesa cinese. Verso il "decoupling" Cina-Usa


Nel ricostruire il processo che ha consentito alla Cina di passare da nazione ex coloniale e sottosviluppata a potenza mondiale (10), Sciortino parte da una premessa fondamentale: questo processo, scrive, è assai più complesso delle rappresentazioni che ne danno i teorici operaisti (anche se andrebbe precisato che tale quadro è condiviso dalla maggioranza degli intellettuali sedicenti marxisti occidentali, non solo dagli operaisti) secondo il quale la "borghesia" cinese (in cui vengono inquadrati allo stesso titolo imprenditori privati, manager delle imprese di stato e funzionari di partito) e le multinazionali straniere che operano nel Paese a partire dalle riforme postmaoiste vanno messi sullo stesso piano, in quanto associati nello sfruttamento della classe operaia. Questa diagnosi non tiene conto del punto di partenza del processo: una rivoluzione di liberazione nazionale a base contadina, cui ha fatto seguito un processo di industrializzazione in alcuni settori di base (industria pesante) che, pur avendo formato (soprattutto grazie ai miglioramenti in tema di sanità ed educazione) un nucleo di classe operaia avanzata, da solo non sarebbe stato in grado di garantire la fuoriuscita del Paese dal sottosviluppo e di centinaia di milioni di cittadini dalla povertà.  


Un altro punto cieco delle analisi semplificatorie dei teorici di cui sopra (obnubilati, penso sia il caso di aggiungere, da pregiudiziali ideologiche "anti stataliste") riguarda la mancata comprensione del rapporto dialettico fra stato-partito e masse operaie e contadine, rapporto che ha consentito di fare della lotta di classe il motore dello straordinario sviluppo cinese. Trattando di tale argomento Sciortino fa un'affermazione che suona scandalosa per il senso comune addestrato dalla propaganda occidentale: la Cina, scrive, è uno dei pochi stati democratici rimasti al mondo, non nel senso degli aspetti formali, istituzionali e procedurali della nostra liberal democrazia, per altro sempre più svuotata di contenuto effettivo, ma appunto nel senso del rapporto sostanziale fra proletariato e stato. Il partito-stato cinese non è un semplice apparato burocratico, più o meno efficiente o clientelare, bensì un organismo legato da mille fili a una base sociale che può esser mobilitata o può mobilitarsi, luogo effettivo di mediazione tra stato, capitale e classi, fra città e campagna, tra Cina e mondo esterno, presidio dell'unità nazionale e della continuità del processo rivoluzionario avviato nel 1949. 


Se non si tiene conto di questo, si rischia di schematizzare la transizione dalla fase maoista all'era delle riforme inaugurata da Deng, riducendola a una "controrivoluzione" capitalista che ha posto fine all'esperimento socialista. Sospendendo il giudizio sul carattere più o meno socialista dell'era maoista e sulla natura del socialismo di mercato (o socialismo con caratteri cinesi), dell'era successiva, tema su cui tornerò nel prossimo paragrafo, vediamo le forme concrete del processo avvenuto nell'ultimo mezzo secolo. 


Posto che, come osservato da Giovanni Arrighi (11), il processo di trasformazione non ha avuto nulla a che vedere con la shock therapy imposta alla Russia post sovietica, ma è stato graduale, accompagnato e controllato da provvedimenti (sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, ecc.) che hanno permesso di contenere l'impatto delle dismissioni/privatizzazioni di imprese pubbliche; posto che il processo di ristrutturazione delle aziende di stato non ha coinvolto i settori strategici e le imprese maggiori (in base al principio  lasciare le piccole, tenere le grandi); posto che quello delle imprese private è a tutt'oggi un sistema di imprese piccole o piccolissime, per cui Sciortino ha ragione nel sostenere che la borghesia cinese è tutto fuorché una classe sociologica dominante; posto che alla classe contadina continua a essere garantito l'accesso alla terra; posto infine che lo stato mantiene il controllo dei maggiori istituti di credito. Posto tutto ciò, è innegabile che la politica di apertura agli investimenti esteri stranieri abbia assicurato alle multinazionali (non solo quelle occidentali ma anche quelle dei capitali cinesi della diaspora) i benefici di una "accumulazione per espropriazione" basata su elevati tassi di sfruttamento (plusvalore assoluto) (12). Ciò ha creato crescenti tensioni sociali culminate negli eventi di piazza Tien An Men, nei quali tuttavia, le rivendicazioni dei giovani studenti che chiedevano riforme democratiche di tipo occidentale (espressione della spinta liberale di settori borghesi emergenti) non si sono saldate con lo scontento operaio che chiedeva aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro e di vita. Lo stato-partito ha represso le prime e progressivamente soddisfatto le seconde, a conferma della diagnosi di Sciortino sulla "democrazia sostanziale" del sistema cinese. 

Nei decenni successivi sono state lasciate le briglie sul collo alle lotte operaie, che hanno coinvolto soprattutto le grandi imprese straniere e raggiunto elevati picchi di intensità nei primi anni del secolo XXI, ma soprattutto hanno favorito il progressivo miglioramento in termini di salario e condizioni di vita di larghe masse operaie (in particolare delle centinaia di milioni di migranti provenienti dalle campagne). Per ottenere e consolidare questi risultati, argomenta Sciortino, si è  avviato un processo di industrializzazione e modernizzazione (passaggio da un'accumulazione basata sul plusvalore assoluto a un'accumulazione basata sul plusvalore relativo) che ha comportato una vera e propria rivoluzione sociale e politica: ristrutturazione tecnologica e ri-dislocazione spaziale delle attività economiche, crescita dell'occupazione nelle industrie ad alta tecnologia favorite dai piani statali e da massicci investimenti all'estero. Infine progressivo spostamento del motore dello sviluppo dalle esportazioni alla crescita del mercato interno (scelta obbligata anche per la contrazione degli scambi internazionali dovuta alla crisi e all'emergenza pandemica). 


Quanto appena descritto ha comportato una progressiva sottrazione della Cina alla tutela geopolitica e geo economica Usa, rompendo quella interazione "virtuosa" (per gli interessi dell'imperialismo americano) descritta nel precedente paragrafo. La reazione punitiva di Washington, dalla guerra dei dazi al decoupling (13), perseguito attraverso il tentativo di tagliare tutte le vie di penetrazione in occidente ai capitali e ai prodotti cinesi - soprattutto a quelli tecnologici - ha avuto l'effetto di rafforzare ulteriormente la spinta di Pechino verso una maggiore autonomia tecnologica e industriale. La presidenza Xi Jinping incarna questa nuova strategia del Dragone: il ruolo delle imprese statali resta decisivo, nella misura in cui consente di accelerare il passaggio dallo sfruttamento intensivo del lavoro allo sviluppo tecnologico e all'internazionalizzazione degli  investimenti; la lotta alla corruzione viene intensificata per vincere le resistenze interne al partito e centralizzarne l'azione; infine la Cina cerca di contrastare la strategia del decoupling lanciando un suo modello di globalizzazione, alternativo a quello occidentale.


In quello che la stampa occidentale presenta come il "paradosso" di una Cina che rilancia la globalizzazione proprio nel momento in cui in Occidente se ne annuncia  il drastico rallentamento, se non la fine, non c'è in realtà niente di paradossale, nel senso che il concetto cinese riflette contenuti diversi. Il modello globalista occidentale utilizza l'esportazione dei diritti umani e rivendica il "diritto a proteggere" per giustificare l'intromissione negli affari interni dei Paesi del Sud del mondo e intrappolarli nella gabbia della finanziarizzazione e del debito. Il modello cinese, ben esemplificato dall'ambizioso progetto denominato Via della Seta (che prevede la realizzazione di una infrastruttura fisica, logistica e digitale fra Cina e continente euroasiatico fino all'Europa atlantica da un lato e all'Asia orientale dall'altro), è fondato su investimenti esteri in maggioranza di banche statali a supporto di interventi di imprese statali, riguarda soprattutto i Paesi emergenti e in via di sviluppo, e prevede in particolare grandi progetti infrastrutturali; tende a generare una base economica autopropulsiva creando ricchezza reale e solvibilità e incrementando la capacità dei Paesi interessati oltre il mero ricorso al debito. Ma ciò aggrava ulteriormente il conflitto con la controparte imperialista e avvicina il rischio di una resa dei conti anche sul piano militare. 


Il Plenum del PCC



A questo punto, per introdurre gli scenari di guerra descritti da Sciortino, che discuterò nel prossimo paragrafo, è il caso di citare questa affermazione: nel criticare chi presenta il confronto Usa-Cina come un conflitto interimperialistico, e nel ribadire che la Cina non può essere considerata imperialista, Sciortino chiarisce che, a suo avviso, tale carattere non imperialistico non è dovuto al fatto che la Cina non è un Paese capitalista, bensì a un ritardo di fase del suo sviluppo capitalistico. E' qui che i nostri punti di vista divergono, nella misura in cui, come mi accingo a  spiegare, ritengo che questo approccio pecchi di "oggettivismo" economicista. 


 c) I limiti di un'analisi strutturale che sottovalutata il peso della mediazione politica 


Washington deve (sottolineatura mia) bloccare l'ascesa cinese che alla lunga metterebbe in discussione il dominio imperiale del dollaro, mentre la Cina è spinta (sottolineatura mia) dal suo peculiare corso capitalistico verso una collocazione meno subordinata all'interno del mercato mondiale. Nei due termini appena evidenziati è sintetizzato ciò che non condivido nell'approccio di Sciortino e che getta una certa luce sulla citazione di Bordiga riportata qualche pagina sopra. Nell'evidenziarla, ho detto che non considero Sciortino un neo bordighista, aggiungo però che penso che il punto debole della sua analisi sia un certo oggettivismo economicista che era una  delle caratteristiche di fondo del pensiero del comunista "eretico" napoletano. 


Il nodo è l'idea che la storia sia mossa da una necessità immanente che ha il proprio unico motore nei rapporti di produzione e nei loro processi evolutivi (14). Da un lato, Sciortino è convinto che il sistema cinese, se non può essere definito imperialista, non può nemmeno essere considerato socialista, sia in quanto: 1) (non lo dice esplicitamente ma mi pare ovvio), considera incompatibili in linea di principio socialismo e mercato, secondo i canoni marxisti "classici" (15); 2) in quanto considera impossibile la realizzazione del socialismo in un solo Paese (e qui rifa capolino Bordiga, oltre che Trotsky); benché si tratti qui di un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti dotato di immense risorse, non solo demografiche. Se la Cina svolge nei fatti un ruolo antimperialista, ciò è essenzialmente dovuto, secondo Sciortino, al fatto che la possibilità di completare la transizione a un moderno capitalismo, basato sul plusvalore relativo e su un compromesso sociale socialdemocratico, dipende dallo spazio di manovra che essa riesce a sottrarre all'imperialismo americano. 


Non sto a ripetere gli argomenti con cui Sciortino definisce le forze che spingono necessariamente gli Stati Uniti a stroncare sul nascere tale ambizione. Non discuto nemmeno le ragioni per cui ritiene che l'egemonia Usa, ancorché la sua funzione ordinatrice appaia indebolita da un quadro globale sempre più instabile, non rischi di venire rimpiazzata da un rivale globale né sul piano economico, né su quello monetario, né su quello diplomatico, né tantomeno su quello militare (personalmente condivido l'aspetto militare, mentre gli altri mi paiono discutibili, malgrado i dati statistici che Sciortino cita a sostegno delle proprie tesi, ma si sa che in base ai dati si può affermare tutto e il contrario di tutto, a seconda delle fonti da cui vengono tratti e di come li si legge ). 


Sta di fatto che il suo ragionamento esclude, per ragioni oggettive (sottolineatura mia), ogni ipotesi di egemonismo globale cinese come spazio di possibilità reale, né la prospettiva di un ordine multipolare appare a suo parere probabile. La Cina, argomenta, non è in grado di porre una sfida egemonica in senso proprio, ma deve affrontare una sfida esistenziale: o fa un salto di sviluppo o la pressione imperialista le impone un arretramento anche sul piano del compromesso sociale, e quindi minaccia la stabilità complessiva del sistema. Insomma: solo una disarticolazione sistemica globale con esisti catastrofici  potrebbe aprire una prospettiva mondiale di transizione a un diverso ordinamento sociale (o alla rovina delle nazioni e delle classi in lotta!). Per quanto riguarda la Cina, la possibilità che l'intreccio di istanze di classe e nazionali sopra descritto esiti in un processo di transizione  verso il socialismo ha una qualche consistenza solo ( sottolineatura mia) a condizione di una ripresa della lotta di classe al di fuori della Cina (sottinteso a partire dal cuore dell'Occidente). 


A questo punto dispongo di tutte le tessere che mi consentono di trarre alcune conclusioni critiche. Dire che Sciortino rimuove il problema della soggettività sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato: come si è visto, nelle sue tesi il conflitto sociale, la lotta di classe, svolge un ruolo determinante sia negli Stati Uniti che in Cina, funge addirittura da motore che spinge i due sistemi verso la rotta di collisione. Il guaio è che anche il conflitto sociale viene trattato come un fattore oggettivo, immanente ai meccanismi sistemici, mentre ciò che manca del tutto è la mediazione politica fra i meccanismi del modo di produzione e la spontanea soggettività di classe. Non a caso Sciortino critica tutte le analisi che danno spazio alla "autonomia del politico" (16). Come se il prevalere di questa o quella fazione interna all'establishment di Washington, o di questa o quella corrente interna al Partito Comunista e allo Stato cinesi, fossero un aspetto marginale, se non del tutto indifferente, ai fini dello sviluppo e degli esiti dello scontro. O come se l'esplicita rivendicazione della volontà di realizzare una società socialista da parte del PCC fosse un mero orpello ideologico, privo di qualsiasi impatto sulle scelte strategiche dello stato-partito. 


L'impostazione che ho dato al tema nel secondo volume, non a caso intitolato "Elogio dei socialismi imperfetti", del mio ultimo libro (17) è radicalmente diversa: mentre rinvio alla sua lettura chi desideri approfondire l'argomento, mi limito a concludere dicendo che concordo sul fatto che la Cina non sia in grado di rimpiazzare gli Usa nel ruolo di egemone globale, ma non perché ritengo che ciò sia "oggettivamente" possibile, bensì perché sono convinto che questo non è il suo vero obiettivo, che consiste piuttosto nel proseguire nella costruzione del socialismo in stile cinese, una esperienza su cui dovremmo riflettere seriamente, nella speranza che ciò contribuisca a liquidare  una serie di dogmi (18) che continuano a paralizzare la capacità di analisi e di azione del marxismo occidentale.    




Note


(1) Abelow sottolinea come la narrazione occidentale sulla crisi cubana rappresenti il ritiro dei missili russi dall'isola come una "vittoria" americana, laddove si trattò di un compromesso, nel senso che poco dopo furono ritirati i  missili americani dalla Turchia.


(2) Sulla intenzione di prolungare il conflitto per indebolire la Russia; Abelow cita la cinica dichiarazione dell'ex vicesegretario alla Difesa Chas Freeman:"combatteremo fino all'ultimo ucraino per l'indipendenza ucraina".  


(3) Ovviamente qui l'opposizione fra struttura e sovrastruttura non è intesa nel senso di un certo marxismo "ortodosso" e dogmatico, bensì in senso dinamico-dialettico, alla Lukács per intenderci (vedi la mia Prefazione alla Ontologia dell'essere sociale di cui ho anticipato ampi stralici su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/03/finalmente-torna-lontologia-grandezza-e.html ).


(4) Vedi quanto scrivo in proposito nel quarto capitolo del primo volume del mio Guerra e rivoluzione (Meltemi, Milano 2023).  


(5) Sul rapporto necessario fra sviluppo dei centri e sottosviluppo delle periferie cfr., fra gli altri, P. Baran, Il surplus economico, Feltrinelli, Milano 1962; vedi anche P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.


(6) Mi riferisco alla scuola dei teorici della dipendenza che Alessandro Visalli (Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020) definisce "la banda dei quattro": Giovanni Arrighi, Samir Amin, Gunder Frank, Emmanuel Wallerstein.


(7) E' quella che alcuni hanno definito WalMart Economy:  l'importazione di merci cinesi di bassa qualità e a basso prezzo (spacciate da catene discount come Walmart) ha consentito di abbassare i costi di riproduzione della forza lavoro americana e quindi di comprimere i salari.


(8) Sull'uso capitalistico della "critica artistica" come L. Boltanski e E. Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014) hanno definito la cultura libertaria dei "nuovi movimenti" post 68, concentrata sui diritti civili e individuali, vedi quanto scrivo nel quinto capitolo ("Le sinistre del capitale") di Guerra e rivoluzione, cit.


(9) Cfr. R. Sciortino, L'ascesa dei neopopulismi, Asterios, Trieste 2019. Il tema è ripreso nel libro di Sciortino discusso in questo articolo; quanto al concetto di momento Polanyi, vedi quanto scrivo nel secondo volume di Guerra e rivoluzione (op. cit.) discutendo le tesi di Ernesto Laclau.


(10) Ritengo che l'autore della ricostruzione più accurata e completa del processo in questione sia D. A. Bertozzi (Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, Edizioni l'Antidiplomatico, 2021.


(11) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007. 


(12) Sulla durezza della condizione operaia negli anni a cavallo del passaggio di secolo, cfr. Pun Ngai, La società armoniosa, Jaka Book, Milano 2102; della stessa autrice vedi anche Morire per un I Phone, Jaka Book, Milano 2016. 


(13) Il concetto di decoupling non va confuso con quello di delinking (sganciamento), che Samir Amin usa laddove teorizza la necessità, per le economie postcoloniali che intendono imboccare la via della transizione al socialismo, di allentare progressivamente i rapporti con il mercato globale dominato dalle economie imperialiste occidentali (cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Dècouvert, Paris 1986).


(14) A formulare la critica filosoficamente più convincente di questa visione economicista del processo storico è G. Lukács ne L'ontologia dell'essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023 (appena rieditato con una mia Prefazione). 


(15) In Guerra e rivoluzione (cit.) discuto la questione della natura della realtà socioeconomica  cinese (socialista di mercato, capitalista, formazione sociale non classificabile secondo criteri classici, ecc.) a partire dalla provocazione teorica di Arrighi (Adam Smith a Pechino, cit.) riassumibile nei seguenti enunciati: società di mercato e società capitalistica di mercato non sono la stessa cosa, per cui non basta l'esistenza di relazioni di mercato per definire la Cina un Paese capitalista; esistono formazioni sociali che, pur basandosi in maggior o minor misura sul mercato, non sono assimilabili al modello di società descritto da Marx (potete aggiungere tutto il mercato che volete, argomenta Arrighi, ma se la classe capitalistica non controlla il potere politico, non siamo in presenza di una società capitalista); la Cina di oggi è un esempio di questo tipo di formazione sociale, che conserva alcune caratteristiche del sistema economico cinese precedente alla colonizzazione da parte dell’imperialismo occidentale. A sua volta Vladimiro Giacché (cfr. “Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno, n.1, gennaio-febbraio 2021; vedi anche “L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020), ricorda che Marx ed Engels, pur non avendo mai largheggiato nel definire quali averebbero dovuto essere i requisiti di una società socialista, non prevedevano che in essa potessero sussistere relazioni di mercato, per cui in base a tale criterio non è possibile definire la Cina un Paese socialista. Tuttavia fa poi riferimento alle parole con cui Lenin replicava alle critiche della sinistra del partito che lo accusava di avere imboccato la via del "capitalismo di stato" (critiche che si intensificarono dopo la svolta della NEP) :" “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet” (citato in Economia della rivoluzione, raccolta di testi di Lenin a cura di V. Giacché, il Saggiatore, Milano 2017). Non ha dunque il PCC lo stesso diritto di rivendicare il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese? Tuttavia Sciortino (vedi la nota 99 a pag 173 del libro di cui sto qui discutendo) considera arbitrario l'accostamento che molti (compreso chi scrive) propongono fra la NEP e le riforme cinesi degli anni Settanta, ma soprattutto liquida il criterio secondo cui il controllo dello stato-partito sull'economia sarebbe un fattore rilevante ai fini della definizione del carattere socialista di una determinata formazione sociale, in quanto rifiuta a priori il concetto di "autonomia del politico" (il che è esattamente quello che gli rimprovero, in quanto ritengo ciò lo induca a cadere nell'oggettivismo economicista).


(16) Vedi nota precedente.


(17) Guerra e rivoluzione, cit.


(18) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.



























  

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