Lettori fissi

mercoledì 26 luglio 2023



Le buche di Keynes. Per una prospettiva (almeno) socialdemocratica

di Emanuele dell'Atti



J. M. Keynes affermava che in tempi di disoccupazione è meglio occupare persone a scavare buche e a colmarle che non occuparle affatto. Ma al di là della celebre (ed efficace) affermazione, un aspetto centrale del pensiero dell’economista britannico, come è noto, è nell’idea dell’intervento pubblico riequilibrante a vantaggio della piena occupazione e del sostegno alla domanda.


Oggi, che di dissesti infrastrutturali ne abbiamo in abbondanza, non dovremmo nemmeno preoccuparci di scavare buche per creare lavoro. Basterebbe riempirle. Strade e autostrade impraticabili, reti idriche da potenziare, laghi e fiumi da bonificare, prevenzione del rischio idrogeologico, cura dell’ambiente. Potrebbe bastare questo, insomma, in un’ottica keynesiana, non bolscevica, per creare posti di lavoro e – se proprio siamo affezionati alla formula – “crescita economica”.


Solo che – dopo Maastricht e trattati seguenti – l’Italia si è privata degli strumenti per agire in questo senso, disapplicando e subordinando la Costituzione (keynesiana) alle norme comunitarie (anti-keynesiane). Il fine (dichiarato e perseguito: si leggano i trattati europei e si ripercorra la storia degli ultimi trent’anni) dell’Unione Europea, infatti, non è la piena occupazione, ma una certa e costante disoccupazione (unita al contenimento salariale) che possa tenere bassa l'inflazione. Obiettivo, peraltro, ugualmente non raggiunto. Come ben sappiamo.


L’UE non coincide con l’idea di cooperazione tra Stati. Essa non è un progetto democratico: è un dispositivo geneticamente neoliberale. È un’arena, un campo di gioco in cui domina la logica della competizione: non è un caso che non sia mai nato il tanto agognato esercito europeo e che non sia mai passato il disegno di una vera Costituzione politica europea. L’UE, in altri termini, non è diventata tale, cioè, per carenze o errori compiuti nel percorso: il suo scopo è – originariamente e costitutivamente – l’assenza di scopi. Un progetto “nichilista” privo di idealità sociali (cfr. D’Andrea 2022). L’UE, infatti, è stata progettata in un senso dichiaratamente anti-keynesiano e continuamente riprogrammata (dall’Atto unico del 1986, propedeutico al Trattato di Maastricht, fino al Fiscal compact del 2012) con l’obiettivo di spoliticizzare il mercato, subordinando ad esso la decisione democratica. 


C’è chi ne auspica una maggiore politicizzazione, battendosi “dall'interno” – come si ama dire – per farne una federazione politica vera e propria, che abbia come architrave l’emancipazione sociale e la solidarietà. Puro romanticismo. Dovrebbe infatti accadere ciò che non può mai accadere: cioè che tutti gli stati membri, nello stesso istante, siano d’accordo nel disapplicare i trattati e scrivere una Costituzione europea con a fondamento la subordinazione dell’interesse privato all’utilità sociale. Cioè l’esatta antitesi del progetto dell’UE.


Ma il fanatismo integrazionista e l’“europeismo retorico” (ibid.) impediscono ormai di ragionare. Sono una fede. E come tutte le fedi annebbiano il pensiero razionale. La flessione sotto ogni parametro economico (pil pro capite, indice di produzione industriale, occupazione) che ha caratterizzato la maggior parte degli stati europei, Italia in testa, negli ultimi decenni non viene in alcun modo messa in relazione all’accelerazione che l’integrazione europea ha subito a partire dal 1992, anzi, si sostiene che i problemi irrisolti derivino da una ancora scarsa integrazione: un “aggiustamento epistemologico” (o più semplicemente una forzatura) tipico di chi tenta di risolvere le anomalie emergenti in un paradigma rimanendo ostinatamente all’interno dello stesso paradigma, per usare un lessico kuhniano.  


L’europeismo retorico discende da un’ideologia integrazionista trasversale, eretta a bandiera in primo luogo dalla sinistra, rimasta orfana di fedi dopo aver abbandonato la prospettiva socialista. Essa ha infatti abbracciato integralmente la logica del “vincolo esterno” quasi come una misura espiativa e riparatoria rispetto al “senso di colpa” di essere stata per quasi tutto il XX secolo critica e oppositiva nei confronti delle logiche di mercato. Lo ha fatto recidendo qualsiasi legame con la propria tradizione “inter-nazionalista” e richiamandosi in maniera confusa a un mito fondativo – quello di Ventotene – estrapolandone, però, solo gli aspetti coreografici della cooperazione e della “pace perpetua” tra gli Stati e lasciando cadere tutti quegli elementi spoliticizzanti che già i due celebri autori del Manifesto – in particolare Altiero Spinelli – sostenevano con particolare enfasi (cfr. Somma 2022). 


L’esito è stata la creazione di una nuova linea di demarcazione tra sinistra e destra: “europeista” la prima, “nazionalista” la seconda. Facendo della più classica linea di demarcazione capitale/lavoro un aspetto meramente decorativo, utile solo per marcare il territorio. A fronte di una sinistra che obliterava il conflitto sociale sostituendolo con un’ideologia astrattamente europeista, perciò, la destra ha trovato un nuovo terreno su cui giocare la sua partita, cioè quello della difesa degli interessi nazionali, coincidenti, però, non certo con quelli delle classi lavoratrici, bensì con quelli del ceto imprenditoriale.


Nei fatti, tuttavia, anche le seducenti istanze della destra hanno dato prova di totale incapacità di tutela degli interessi nazionali. L’attuale compagine che ci governa, infatti, anche se ha costruito i suoi consensi sulla critica alla fede europeista, ha dimostrato (e continuerà a farlo) che nonostante i finti bracci di ferro propagandistici con la Commissione europea e nonostante le finte battaglie culturali per l’ “italianità”, non si distanzierà di un millimetro da questa matrice ideologica (oggi detta “agenda”) e dai suoi correlati operativi e procedurali (taglio della spesa pubblica, pareggio di bilancio, allarmismo economico) che – come segnalavano avveduti e inascoltati economisti come Federico Caffè – costituiscono una vera e propria tragedia per i lavoratori (non solo) italiani (Fazi 2022).


Chi si richiama convintamente ai valori del socialismo, perciò, oggi dovrebbe avere il coraggio di tematizzare la questione dell’integrazione europea con maggiore lucidità e individuare nuovi strumenti teorici che sappiano decifrare e decriptare il presente, togliendo i paraocchi ideologici e rinunciando, quando è il caso, alle vecchie categorie interpretative. Nel contesto odierno, infatti, “i nostri vecchi argomenti laici, illuministi, razionalisti, non sono solo spuntati e inutili, ma anzi fanno il gioco del potere” (Pasolini 1975: 127). Occorre allora un lavoro ancora più faticoso che in passato. Uno sforzo che sappia riconoscere le insidie che si annidano in ciò che viene presentato come “integrazione”, “opportunità”, “innovazione”. Che sveli e denunci ciò che il potere chiama “riforme” col fine di mascherare la staticità sociale: la “neolingua del circo mediatico” (Preve 1999: 40), infatti, mutando il significato delle parole, ha mutato anche il significato del termine “riformismo”, che cessa di significare “cambiamento graduale”, per diventare una sorta di lasciapassare per lo “smantellamento neoliberista del welfare state e delle conquiste centenarie del vecchio riformismo laburista e socialista” (ibid.). 


Il lavoro più urgente, quindi, è quello di recuperare una visione teorica sistemica. Da qui riattivare, nelle forme oggi realisticamente possibili, la categoria del  conflitto a sostegno di quella ampia maggioranza che non beneficia dei privilegi dell’economia di mercato e che paga il prezzo dello sviluppo in termini materiali, psicologici, esistenziali. Consapevoli, tuttavia, che il paradigma socioeconomico egemone non si supera dall’oggi al domani e che, probabilmente, è più realistico il ripristino di quel sistema di “economia mista” già sperimentato in Europa nel cosiddetto “trentennio glorioso” successivo al secondo conflitto mondiale e ben rappresentato in alcuni passaggi fondamentali della nostra (tradita) Costituzione.


Occorre dunque procedere con una gradualità tattica che – tenendo ferma la strategia di un orizzonte regolativo egualitario e socialista – si batta per la ricostituzione di una vera forza socialdemocratica. Una forza che non ripudi, d’un sol colpo, il mercato, che ne preservi talune dimensioni ma in un quadro costituzionale orientato all’utilità sociale (v. art. 41) e che rimetta in moto il conflitto redistributivo per recuperare terreno rispetto alle innumerevoli e cocenti sconfitte subite nella lunga e sfibrante “lotta di classe dall’alto” (Gallino) condotta negli ultimi trent’anni dai grandi gruppi economico-finanziari ai danni dei lavoratori e della dimensione pubblica in generale: si vedano, tra le altre cose, l’umiliante e grottesca metamorfosi della scuola in senso burocratico-aziendale e l’erosione lenta e costante della sanità e del diritto alla salute perpetrati negli ultimi decenni da governi di vario colore politico, in ossequio alle direttive (esplicite o implicite) di Bruxelles.


L’attuale sinistra è all’altezza del compito? La risposta è decisamente negativa. Anzi, l’attuale sinistra non ha nemmeno l’intenzione di riappropriarsi di quella tradizione di lotta ai meccanismi perversi della mercificazione totale che l’hanno caratterizzata nel secolo scorso. E tra l’altro è divenuto stucchevole e ozioso trastullarsi con la questione se esista ancora o meno la sinistra o se il Pd sia o no un partito di sinistra: la sinistra ha ormai completato la sua metamorfosi da tempo e oggi non rappresenta più i lavoratori. Essa è il principale garante dei dogmi neoliberali e, benché sul piano del significante rimarchi differenze valoriali e identitarie rispetto alla destra, sul piano del significato si mostra omologa alla sua controparte politica, discostandosene solo per questioni tecnico-procedurali, avendo come referente elettorale principalmente i ceti medio-alti. 


Una dinamica storicamente già nota, se pensiamo agli inizi della storia unitaria del nostro Paese, dove destra e sinistra erano espressione del medesimo ceto politico, quello che afferiva al campo liberale, con distinzioni poco nette, sicuramente non riconducibili alla più netta linea di demarcazione novecentesca. Le cose, come è altrettanto noto, cominciarono a cambiare solo con l’elezione del primo deputato socialista e la successiva fondazione del Partito dei lavoratori italiani (1892). Nasceva in Italia la prospettiva del socialismo. Che allora – come oggi – era ben altra cosa dalla “sinistra”.

La storia può cambiare solo con una sua rinascita.



Riferimenti bibliografici


D’ANDREA, Stefano (2022), L’Italia nell’Unione Europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato”, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino.


FAZI, Thomas (2022), Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Milano, Meltemi.


GALLINO, Luciano (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza.


PASOLINI, Pier Paolo (1975), Scritti corsari, Milano, Garzanti (ristampa 2021).


PREVE, Costanzo (1999), Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, Pistoia, Editrice Petite Plaisance.


SOMMA, Alessandro (2021), Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, Rogas edizioni.

sabato 15 luglio 2023

    L’insostenibile pesantezza del non essere                       di Fosco Giannini


“De mortuis nihil nisi bonum” (dei morti niente si dica se non il bene) è una famosa frase idiomatica contenuta nell’opera “Vita e opinioni di filosofi eminenti” che lo storico greco Diogene Laerzio, autore dell’opera, attribuisce a Chilone, uno dei sette saggi di Sparta.  La locuzione è importante poiché svolge sia il ruolo di rivelazione di una già vigente cultura, di un senso comune, volti alla venerazione, al rispetto dei morti (siamo circa a 200 anni dopo Cristo) che quello di propagazione del culto e persino dell’enfatizzazione della vita e delle opere dei morti. Una enfatizzazione spesso tanto vicina alla distorsione della realtà da spingere il giornale “Vita cattolica.it”, il 20 maggio 2016, in relazione alla morte di Marco Pannella a scrivere: “Non sempre «De mortuis nihil nisi bonum». A volte è meglio tacere”.


Lo scorso 11 luglio, a Parigi, a 94 anni, è morto lo scrittore ceco Milan Kundera, autore - come hanno ricordato tutti i media attraverso una grancassa mediatica rivolta ad una nuova, acritica, celebrazione dell’opera – de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Diversi giornali e telegiornali (tra i più enfatici il TG La7) hanno proclamato sul campo Milan Kundera “uno dei più grandi scrittori della seconda metà del ‘900 e “L’insostenibile leggerezza dell’essere” “tra i più grandi romanzi dell’intero ’900”. Rilanciando in pieno, attraverso questo discutibile stile di lavoro, la retorica insita nell’asserzione apodittica “de mortuis nihil nisi bonum” dell’antico Chilone. Un’asserzione apodittica, lo abbiamo già visto, per la quale anche la cultura cattolica contemporanea chiede più sorveglianza etica e culturale.

Liberati dalla gabbia ideologica del panegirico pregiudiziale dei morti possiamo chiederci: ma davvero Milan Kundera è uno dei più grandi scrittori della seconda metà del ’900? E davvero “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è uno dei più grandi romanzi del ’900?


È bene, intanto, parlare della trama poiché, a nostro avviso, già in essa è fortemente ravvisabile una zoppia letteraria che non depone certo a favore di un’opera affascinante come un cavallo razza, ma piuttosto evocativa di un Ronzinante alla Miguel Cervantes. La trama è complessa e, peggio ancora, inutilmente complessa, poiché essa non risponde a nessuno dei princìpi retorici che richiedono la complessità del plot, dal romanzo d’appendice, o feuilleton, che attraverso una vasta “ragnatela” di relazioni sociali e familiari può raccontare il popolo e una fase storica, sino alla complessità oscura (che ad esempio segna di sé il thriller, ma anche il “colpo di scena” shakespeariano) funzionale alla messa in campo della suspense, dell’inaspettato.


La complessità della trama dell’“Insostenibile leggerezza” vorrebbe piuttosto evocare - attraverso una sorta di struttura letteraria modernista ceco-morava concettualmente rintracciabile nell’opera di Antoni Gaudi, attraverso, dunque, una sorta di architettura volutamente “obliqua” rispondente ai canoni stilistici della Sagrada Familia - il corposo non dicibile che domina il campo delle relazioni umane, politiche e sociali. Lo vorrebbe evocare ma, per chiaro difetto letterario, dogma ideologico e meschino utilizzo del pensiero filosofico, non riesce ad evocare altro che i “mal di pancia” e i “bovarismi” della piccola borghesia intellettuale e (peggio ancora) pseudo artistica della Cecoslovacchia ancora socialista che la degenerazione liberale della “Primavera di Praga” sta già aggredendo e disfacendo. 


Avanziamo questo nostro punto di vista, cioè che il romanzo, non ha la forza letteraria  di evocare nulla al di là della propria trama dichiarata (rimanendo dunque uno scatolone vuoto, una trama  inutilmente piena di “intrecci” come quella de “I Miserabili”,  ma senza il cuore pulsante del feuilleton di Victor Hugo),  e affermiamo ciò perché il proposito dichiarato di Kundera era quello di scrivere, invece, un romanzo collocato all’interno di una cornice filosofica, un romanzo-saggio  avente il compito, attraverso la trama e la messa in scena dei personaggi, di offrire una “concezione del mondo”, una weltanschauung da formarsi attraverso la dialettica oppositiva di Parmenide tra “pesante e leggero”, tra il non essere e l’essere, tutto ciò sotto il cono d’ombra dell’idea nietzschiana dell’Eterno ritorno.


Un progetto letterario-filosofico dichiarato (da Kundera stesso e ripetuto didascalicamente dai suoi mille esegeti occidentali) non così facile da rintracciare nelle pagine del romanzo, sia perché debole “in nuce”, sia perché non emergente nella sua fatiscente traduzione letteraria. Una trasposizione nella struttura semantica del progetto letterario-ideologico piuttosto segnata, nella sua oscura grammatica concettuale, da una chiara subordinazione al mercato editoriale occidentale affamato di esotismo. Subordinazione che già appare in tutta la sua evidenza nella delineazione di un titolo, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che sia Kundera che i recensori/lanciatori del romanzo sanno essere un formidabile Cavallo di Troia per la vendita di massa, poiché fortemente accattivante nella sua magistrale somiglianza ai migliori spot pubblicitari occidentali.


Parmenide, Nietzsche, l’essere, il non essere, l’Eterno ritorno: categorie filosofiche maldestramente piegate a sostenere una trama che doveva essere allusiva, evocativa, volta a dare un’anima a personaggi che, nell’intento di Kundera, avrebbero dovuto, nella loro sofferenza e disorientamento esistenziale, denunciare – questa è l’essenza scarnificata del discorso, piaccia o non piaccia - il socialismo cecoslovacco e con esso tutto il socialismo, iniziando da quello sovietico. Ciò cercando “un altro mondo”, quello delle “libertà”, della fine di quel non essere mostruosamente cresciuto, per Kundera, nella “triste” uguaglianza imposta dal socialismo cecoslovacco.


Oltre che con la dialettica essere-non essere di Parmenide, Kundera gioca con la categoria nietzschiana dell’Eterno ritorno, identificato da una parte come grigia ripetizione del sé nelle società costituite da individui dalla vita priva di imprevisti del socialismo (gli intellettuali borghesi che non conoscono la durezza della vita non apprezzano certo la garanzia del vivere materiale che offre il socialismo, anzi ne disprezzano, per la loro fascinazione esistenzialista e per la loro inclinazione ideologica alla pirateria del vivere, la natura egualitaria e non “eroica” per l’individuo). D’altra parte, Kundera gioca con la categoria dell’Eterno ritorno interpretandola positivamente, nella speranza che esso possa riportare, dopo “l’oscurità del socialismo” e anche attraverso le crepe liberiste che può aprire la Primavera di Praga, il mondo idilliaco borghese, tutto amore, erotismo liberato e libertà individuali.


Nell’essenza, il cuore filosofico dell’“Insostenibile leggerezza” risiede in una miserevole riproposizione di un esistenzialismo d’accatto volto – secondo Kundera e i suoi mille aedi liberali – a riguadagnare la totale “libertà” del soggetto individuale, non importa se a scapito dell’uguaglianza e dell’equilibrio socialista, forme oscure, per Kundera, dell’Eterno ritorno. Povera e distorta superfetazione dell’individualismo in salsa anticomunista. Super bovarismo di Kundera. 


Vediamo i personaggi: il primo è Tomáš, medico a Praga (nelle pagine di Kundera sale l’odore della sanità pubblica socialista come cosa ammuffita e grigia, non troppo buona). Tomáš ha un figlio, nato da un matrimonio fallito, figlio col quale non ha più rapporti. Da quando Tomáš si è separato ha avuto diversi rapporti con altre donne, ma mai più relazioni stabili, solo, come egli stesso asserisce, “amicizie erotiche”, guidate da una sua regola: mai dormire insieme. Come si vede, questioni di grande rilevanza sociale, che di certo avrebbero affascinato un Balzac e che la nuova letteratura cecoslovacca post socialista e anti socialista elegge a paradigmi delle nuove libertà neo borghesi (l’auspicato riaffermarsi, come una Vandea, dell’Eterno ritorno).


In una piccola città della Boemia, Tomáš incontra una barista,  Tereza.  Dopo la partenza di Tomáš, Tereza decide di raggiungerlo a Praga. Tereza si ammala e Tomáš è costretto ad ospitarla a casa sua, infrangendo la regola del “mai dormire assieme”. L’intento di Kundera di addensare di potenza filosofica tale evento è una vera caduta nel ridicolo, filosofico e letterario. Un’ala degenerata dell’esistenzialismo francese segna miserabilmente di sé questo atto letterario e questo intento “filosofico” dello scrittore ceco. La libertà individuale, nella metafora di Kundera, cade sotto la dittatura della ragione illuminista, propedeutica all’odiato socialismo regolatore malsano di ogni casualità. 


A Praga Tereza diventa fotografa, ma dopo quella che il sistema mediatico occidentale di allora e di oggi chiama “invasione sovietica dell’agosto 1968 e soppressione violenta della Primavera di Praga” e che Kundera fa risaltare, nella sua griglia evocativa di neri e di grigi, come l’orrore comunista, Tereza e Tomáš fuggono in Svizzera, a Zurigo. Quando tornano a Praga (lui che rincorre lei) Tomáš, “naturalmente”poiché ovvia è la ferocia comunista – perde il lavoro. Intanto - colpa del socialismo? - il rapporto tra Tereza e Tomáš si complica: lui la tradisce regolarmente e finisce per avere un rapporto più stabile con Sabina, naturalmente pittrice (come nei film di Woody Allen, nei quali si perlustra la piccola borghesia intellettuale ed artistica di Manhattan, anche nel romanzo di Kundera appaiono solo medici, artisti e intellettuali, come se essi fossero l’intera società, l’intero sociale.) 


Tereza diviene amica di Sabina, poi quest’ultima lascia Praga (chi non vuole lasciare l’oscura Praga socialista, rievocata da Kundera con i malsani segni della Praga del “Golem”, il romanzo del 1915 di Gustav Meyrink?) e a Ginevra si innamora di Franz (finalmente un operaio, un postino, un infermiere? No: un professore universitario), il quale, in un ginepraio sentimentale degno di Liala, confessa il suo tradimento alla moglie Marie-Claude. Sabina si trasferisce poi in America (dove si va, se non negli Usa a conquistare la propria libertà?), Franz in Cambogia (la colpa del tradimento si punisce inviando il “traditore” a contatto col socialismo asiatico, il più truce nel pregiudizio di Kundera), Tereza e Tomáš in una località di campagna, inseguendo l’illusione, come Bouvard e Pècuchet, della “bella vita agraria lontana dal chiassoso mondo”, solo che Flaubert ironizza su Bouvard e Pècuchet, ridicolizzandoli nel loro desiderio piccolo borghese, mentre Kundera manda davvero Tereza e Tomáš  a guadagnare pace nella campagna, dove peraltro moriranno in un incidente automobilistico. Morte banale, perché banale è la vita, e la morte, di chi è stato segnato dal socialismo e da esso non riesce totalmente a liberarsi?


“L’insostenibile leggerezza” è un romanzo di rara inconsistenza, segnato da trame sentimentali sul piano letterario imbarazzanti, da un erotismo continuo, da una sorta di sessualità seriale e di maniera che strizza l’occhio al botteghino e diviene per questo piatta pornografia. Un’opera che ricorda il grande successo di un’altra opera insulsa, “Histoire d’O”, del 1954, di Dominique Aury, che con qualche pagina di ridicola pornografia si assicurò un vitalizio. Un’opera che parte dal presupposto di essere un romanzo filosofico ma per la sua estrema leggerezza (questa sì è presente: l’evanescente leggerezza letteraria) e per il suo dogmatico pregiudizio politico diventa un povero pamphlet anticomunista. Che, per il suo schierarsi decisamente nel campo ideologico liberale, nulla racconta della vera società socialista cecoslovacca dell’epoca nelle sue inevitabili contraddizioni e problemi. Senza invece ridursi, come un filosofo di serie “C” della Scuola di Francoforte o di un rappresentante di serie “D” della scuola esistenzialista parigina di Jean-Paul Sartre, a raccontare malamente le vite della piccola borghesia praghese nella fase della “Primavera di Praga”, evento, peraltro, tutto ancora da raccontare nella sua essenza filo capitalista, mentre Kundera narra ad un mondo, ben disposto ad ascoltare, la cupezza del socialismo anti individualista. 


Forse non ci piace “L’insostenibile leggerezza” perché chiaramente liberale e antisocialista? No. Non si tratta di questo. Louis Ferdinand-Céline, autore del capolavoro letterario “Viaggio al termine della notte”, era un fascista e un razzista dichiarato. Ma la sua arte letteraria è così grande che occorre ogni volta fare uno sforzo enorme per non essere catturati, anche ideologicamente, dalla magnifica trappola del suo sistema letterario. Una nassa stracciata, invece, è la “rete” letteraria di Kundera e dovrebbe essere più agevole, dunque, sfuggire al suo lacciolo liberale, a meno che non si appartenga al popolo  dell’individuo-massa che sostiene il mercato, in questo caso editoriale. Ma la forza del mercato è vasta e capillare…


Forse non ci piace “L’insostenibile leggerezza” perché troppo “erotico”? Abbiamo già visto che il suo erotismo esangue scivola, proprio per questa sua natura “dissanguata”, in una noiosa pornografia. Il Marchese De Sade, in “120 giornate di Sodoma”, sparge perversione e violenza sessuale in ogni pagina, ma alla fine, compreso che questa scelta è funzionale ad una denuncia senza pari del potere oscuro dell’aristocrazia, l’opera di De Sade perde ogni parvenza pornografica, trasformandosi in un manifesto illuminista e rivoluzionario.


“L’insostenibile leggerezza” non ha nulla, sul piano letterario, che possa dargli valore. E se ci chiediamo il perché del suo grande successo mondiale e di mercato la risposta è semplice: scritto nel 1982 ed uscito, in Francia, nel 1984, il romanzo di Kundera, nel suo totale antisocialismo esistenzialista (segnato, cioè, da quell’esistenzialismo  occidentale così ben letto, smontato e stigmatizzato da Domenico Losurdo, ma anche da teologi quali Dionigi Tettamanzi, capaci di contrapporre, come Lukacs, una concezione della totalità al relativismo esistenzialista), ha la fortuna di anticipare d’un soffio la crisi dell’URSS e dei Paesi socialisti, divenendo così un’opera “cult” per chi ha voluto credere, anche se per un solo minuto alla “fine della storia” “ratificata” da Francis Fukuyama. Per un solo minuto poiché poi la storia vera delle rivoluzioni in America Latina, in Africa e in Asia ha celermente ri-cambiato il mondo ricollocando prepotentemente al centro la questione del socialismo e della rivoluzione. Facendo di botto invecchiare opere insipide come “L’insostenibile leggerezza”. 





 





Ma di gran pianto Andromaca bagnata

di Piero Pagliani


Chissà cosa si aspettava Zelensky dal vertice Nato. Ha ottenuto ciò che era naturale (e che lui si merita): A) promesse di armi per continuare a mandare al massacro la sua gente (ripeto per l'ennesima volta: per niente perché bastava onorare gli accordi di Minsk, ma la Nato e i suoi pretoriani nazisti non glielo hanno permesso), B) la promessa di accettare Kiev nell'allegra compagnia atlantica della buona morte, non appena "avrà vinto". E qui ci sarebbe da piangere ma scappa solo una risata, anzi il "sogghigno della realtà", come diceva Gramsci.

Insomma, l'Ucraina deve essere munta fino all'ultimo uomo, all'ultima risorsa e all'ultima grivnia (scambiata in dollari o euro, of course - Kiev è indebitata con noi "alleati" per la metà del suo PIL).

In realtà è vero che il regolamento Nato impedisce di accettare paesi in guerra. Ma data la legge si troverebbe l'inganno se non fosse che Usa, Germania, Italia e il nucleo storico della Nato (tranne apparentemente la superpotenza mignon UK ormai completamente in stato di delirio) non se la sentono di affrontare direttamente la Russia.

E non è solo una questione di rischio nucleare. Qualche militare avrà avvertito che un conto è andare a sparare a un pastore afgano armato di kalashnikov o far fuori carri armati d'epoca iracheni, un altro è affrontare una superpotenza formato King Kong dotata di armi che l'Impero del Caos e della Menzogna nemmeno si sogna e che fanno strame in quantità industriale di tutte le armi Nato profuse in Ucraina.

Perché la Nato non ha i mezzi per affrontare la Russia, ma la Russia ha i mezzi per affrontare la Nato altrimenti il Cremlino, storicamente sede di ultrà della pianificazione, non avrebbe iniziato questa Operazione Militare Speciale che col 20% delle forze armate disponibili fa vedere i sorci verdi a uno dei più grandi e armati eserciti del mondo sostenuto da migliaia di "volontari" Nato e da un flusso continuo di armi occidentali.

Un flusso un po' troppo continuo se Biden ha dovuto affermare che fornisce bombe a grappolo (che Kiev sta già usando, quindi erano già arrivate) perché negli arsenali non ha più munizioni "normali" (sic!). Facendo impensierire Francia e Germania che si sono ricordate che la Russia possiede bombe a grappolo ben più potenti anche se finora non le ha utilizzate (Usa, Russia, Cina, India, Israele, Pakistan e Brasile non hanno firmato la Convenzione di Dublino).


I paesi dell'Est Europa - tranne l'Ungheria - Lettonia, Repubblica Ceca e Polonia in testa, scalpitavano invece per far entrare al più presto Kiev nella Nato. Sono i parvenu dell'Organizzazione Atlantica e cercano un posto al sole (e tanti bei soldini prodotti dal business della guerra). In particolare la Polonia, la jena d'Europa a sentir Churchill, vorrebbe scalzare la Germania come prima della classe (e riprendersi Leopoli e, per chiarire dove vuole andare a parare, il Sejm, la Camera dei deputati, ha adottato all'unanimità una risoluzione sulle stragi di polacchi in Volinia e Galizia effettuate durante la II Guerra Mondiale, che le riconosce come "genocidio ucraino". E Varsavia chiede a Kiev di ammettere pienamente la propria colpa. Niente sconti e messaggio chiaro). 

Ma la Vecchia Europa occidentale - Germania, Francia, e anche l'Italia se per questo - sa che se lo scontro continua la sua economia va a picco. 

In Francia vediamo le banlieue che bruciano e in  Italia un aumento esponenziale della criminalità piccola e media, e della relativa violenza, non di rado opera di immigrati "salvati" e lasciati a sé stessi e di giovani, aborigeni o oriundi, con l'anima e la mente piallate dalla società dello spettacolo, ipnotizzate dai social, umiliate dalla disoccupazione e dalla  sottoccupazione. Un modo francese e uno italiano di dar corso a una profonda rabbia e a un profondo disagio economico, culturale, affettivo e comunitario, che riguarda cioè l'intero spettro dell'esistenza sociale. Un fenomeno che fa sempre più invocare la forca ma che la forca non risolverà mai. Anzi. 


Dunque, durante il summit Nato di Vilnius a Zelensky è venuto un dubbio: non è che mentre mi bastonano mi fan vedere la carota per spingermi a negoziare con la Russia pretendendo che sia io a prendere l'iniziativa?

Intanto io dico a tutti che se la controffensiva più preannunciata della Storia sta andando in malora  è colpa loro. Poi però, visto che sono uomo di spettacolo, dico anche che i russi a Bachmut sono in trappola (i battaglioni nazisti Aidar e Azov hanno effettivamente occupato alcune alture attorno alla città, ma le forze russe ne hanno occupate altre da cui martellano quelle perse. So what? Ti assorbo e poi ti inondo, il modus operandi russo sperimentato da Napoleone e da Hitler).


Fin qui la pornografia bellica. Adesso usciamo all'Ucraina, e andiamo nel resto del mondo, là dove si svolge il lavoro back office della crisi sistemica che stiamo vedendo. Andiamo in Africa. L'Etiopia, il secondo paese africano per popolazione, ha annunciato che ha chiesto di entrare nei BRICS.

BRICS vuol dire anche nuove vie della seta, cioè la Belt and Road Initiative (BRI) cinese. L'Italia è l'unico paese europeo che ha firmato un memorandum of understanding con la BRI. Lo fece Conte e oggi la Meloni se ne è ricordata.

Con grande imbarazzo: proseguiamo, col rischio di sanzioni e attentati targati "jihad" ma ordinati   da Washington via Amazon, o facciamo finta di niente leccando le ferite di un'economia che va sempre peggio e isolandoci sempre di più dal mondo reale per rimanere intrappolati   nell'universo alternativo occidentale?

Bel dilemma, dubito che la pur vispa Giorgia sia in grado di risolverlo. 

La Schlein invece non avrebbe dubbi: la seconda che hai detto.

Ah, le donne al potere! Che svolta! Ovviamente il problema non è nelle donne che stanno al potere, ma in chi pensa che con le donne al potere sparisce il problema. 


Gira per i social la foto di Zelensky in disparte a Vilnius mentre tutti se la spassano e chiacchierano amabilmente tra loro, ma non con lui. A me quella foto mette angoscia, perché è l'icona dell'ipocrisia, della falsità e della malvagità occidentali, e io sono occidentale. 

Il messaggio è chiaro: piccolo Ze, continua a far crepare la tua gente, così noi possiamo spassarcela senza troppi pensieri.

Rhys Byrne, un mercenario irlandese al soldo di Kiev, dopo 18 mesi di guerra ha detto che ne ha abbastanza, anzi troppo, e torna a Dublino. Così ha dichiarato a Sky News:

«Sulla linea zero del fronte, è l'orrore. È l'orrore... È un massacro... Morti ovunque... Il problema più grande che dobbiamo affrontare quando andiamo in trincea è scavalcare tutti i cadaveri delle precedenti persone che ci sono già state». 


Cadaveri, su cadaveri. Figli, mariti, fratelli, padri. Cadaveri. 

Mi viene in mente Andromaca:

«Or mi resti tu solo, Ettore caro. Tu padre mio, tu madre, tu fratello, tu florido marito. Abbi deh   dunque di me pietade e qui rimanti meco a  questa torre, né voler che sia vedova la consorte, orfano il figlio».

In prima media mi studiai a memoria per diletto e ambizione tutto il VI libro dell'Iliade. Non potevo allora immaginarmi che lo avrei estratto 60 anni dopo dalla custodia della mia mente per questa enorme tragedia capitalista: cinque anni dopo eravamo convinti che stavamo iniziando la rivoluzione comunista.

mercoledì 5 luglio 2023

Senza partito niente coscienza di classe
Senza classe niente partito rivoluzionario




Questa non è una recensione. Il nuovo libro di Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo (1), tratta troppi argomenti perché li si possa esaurire nell'angusto spazio di una recensione, ancorché corposa. In questo articolo mi limito quindi ad affrontare due temi teorici che reputo cruciali: la ridefinizione del concetto di classe (e il suo impatto sul concetto di partito) e il background "religioso" della civiltà capitalistica (e la sua capacità di "contaminare" il discorso socialista). Da queste pagine restano quindi fuori temi quali il lascito delle grandi rivoluzioni otto-novecentesche, nonché l'alternanza fra capitalismo di mercato e capitalismo politicamente regolato, associata all'alternanza fra fasi di crisi e fasi di ripresa economica, temi ai quali il lavoro di Visalli dedica ampio spazio.


1. Classe e partito: due questioni inscindibili

"Lo spettro che si aggira per l'Europa" evocato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti era in larga misura un'entità virtuale (decenni più tardi, al tempo della Comune, gli insorti saranno in larga misura garzoni di bottega e artigiani, più che operai in senso moderno), ma presentava già una consistenza materiale sufficiente a inquietare una borghesia timorosa di dover abbandonare il trono sul quale si era da poco seduta. Oggi, dopo che la controrivoluzione neoliberale ha espropriato il proletariato occidentale della propria identità sociale, culturale e politica, lo spettro di cui sopra sembra persino più evanescente di quello evocato un secolo e mezzo fa. Per parafrasare il sottotitolo di Visalli, potremmo dire che il fantasma del collettivo si presenta ormai come un'ombra dispersa fra una miriade di soggettività incapaci di "fare corpo". Nel secolo scorso, i marxisti rivoluzionari potevano disquisire sui metodi migliori per risvegliare la coscienza politica di una classe "oggettivamente" rivoluzionaria, ancorché frenata dalla tendenza spontanea a non oltrepassare i limiti del tradunionismo; oggi si tratta piuttosto di reintrodurre in una massa polverizzata in atomi individuali la consapevolezza di appartenere a un'unica classe sociale dotata di interessi, bisogni e aspettative comuni. Visalli indaga i presupposti teorici che renderebbero concepibile la realizzazione di un simile obiettivo.



L'analisi parte da due punti fermi. Il primo consiste nel rifiutare gli approcci "sostanzialisti", termine con il quale Visalli si riferisce ai dogmi economicisti e "oggettivisti" di un marxismo dogmatico che considera la classe operaia come una sorta di realtà "a priori", un dato di fatto che trascende le condizioni storiche concrete. Contro questa posizione scrive, citando la lezione di Labriola, (2), "le classi sociali non emergono dalla terra" non esistono come entità astratte, bensì "nascono storicamente entro e attorno una determinata forma di produzione, al punto di congiunzione di volontà e necessità". Da ciò discende il secondo punto fermo: la questione della classe è inevitabilmente intrecciata a quella dell'agire politico, vale a dire a quella del partito, si costituisce assieme all'azione, al progetto politico.

Antonio Labriola


Il rifiuto dell'approccio sostanzialista non comporta la negazione dell'esistenza di interlocutori sociali concretamente definibili, atteggiamento che appartiene piuttosto alle correnti culturali che si ispirano alle filosofie post strutturaliste e post moderne. Ecco perché il libro dedica molte pagine a smontare le tesi di André Gorz e dei teorici postoperiasti (3), i quali pontificano di una presunta "fine del lavoro" equivocando il senso della profezia marxiana contenuta in un noto frammento dei Grundrisse, laddove si afferma che, raggiunto un certo livello di sviluppo delle forze produttive, la teoria del valore-lavoro non può più essere applicata, dal momento che l'unico motore della produzione di ricchezza diviene il general intellect, vale a dire l'insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche generate dall'individuo sociale.

Come ho scritto in varie occasioni (4), polemizzando con questa corrente di pensiero, i teorici postmoderni si sono illusi di riconoscere nelle utopie dei profeti della rivoluzione digitale, come Yokai Benkler (5) e Manuel Castells (6), la conferma che la appena citata profezia marxiana si era ormai trasformata in realtà di fatto. Per tutti costoro, i cosiddetti "lavoratori della conoscenza" (categoria costruita estendendo a dismisura un campo limitato a esigue minoranze, quali le comunità degli sviluppatori opensource e i membri delle culture hacker) sarebbero le avanguardie rivoluzionarie di una forza lavoro dotata di consapevolezza e competenze tali da potersi affrancare dalle vestigia di un capitalismo ridotto a spettrale residuo del passato, a una sorta di sovrastruttura parassitaria, priva di reali funzioni produttive, che sopravvive solo imponendo con la forza "leggi" economiche desuete a una comunità produttiva che sarebbe ormai in grado di autogestirsi liberamente. Nella sua variante "accelerazionista" (7) il mito guarda con speranza alle tendenze più estreme del turbo capitalismo digitale che, sostiene, a mano a mano che prevarranno sulla "Old Economy", finiranno per estinguersi a causa del loro stesso trionfo.

Il secondo punto fermo coincide con una visione che associa classe e partito in un unico processo costituente, visione in nome della quale Visalli ingaggia un'altra battaglia cruciale: quella contro la sostituzione del concetto di classe con quello di popolo. In questo caso il bersaglio polemico è la coppia Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (8) e il loro rifiuto di identificare il soggetto del conflitto sociale nelle classi lavoratrici. Questi autori rimpiazzano infatti il proletariato con il popolo, un soggetto che considerano come una costruzione puramente linguistico-discorsiva operata da leader carismatici capaci di tradurre il coacervo delle domande inevase dal sistema liberal democratico in una "catena equivalenziale", che "si fa" popolo nella misura in cui identifica nelle élite dominanti il nemico comune. Questa costruzione intellettuale si fonda su una peculiare rilettura del concetto gramsciano di egemonia, non più riferito al dominio ideologico-culturale delle classi dominanti sulle classi subalterne, bensì alla capacità di una particolare rivendicazione di sovradeterminare gli altri anelli della catena equivalenziale.

Laclau e Mouffe


A offrire una parvenza di validità a questa tesi, argomenta Visalli, hanno contribuito la crisi economica iniziata nel 2008 e il suo aggravamento, associato alla pandemia del Covid19. Questi due "cigni neri" hanno destabilizzato le procedure e le istituzioni del regime neoliberale, riducendone la facoltà di generare consenso e ottenere legittimazione. La società è così entrata in un momento Polanyi (8), ha cioè iniziato a reagire agli effetti distruttivi del neoliberismo su tutti gli aspetti della vita sociale. L'individualismo edonista, che per decenni era riuscito a narcotizzare le velleità di opposizione, mascherando la realtà di una rapida e vertiginosa crescita delle disuguaglianze, ha iniziato a perdere colpi a mano a mano che si esaurivano le condizioni di sicurezza e fiducia che lo rendevano possibile. Purtuttavia la consapevolezza che solo l'azione collettiva (leggi la lotta di classe) può rovesciare i rapporti di forza vigenti non è a tutt'oggi riuscita a riemergere.

Assieme alla sfasatura temporale fra "il vecchio che muore e il nuovo che non riesce a nascere", Visalli evoca il monito di Gramsci sui rischi di rivoluzione passiva associati a queste fasi di transizione che, in assenza di un credibile progetto politico alternativo, appaiono senza sbocco. L'ondata populista (di destra e di sinistra: Sanders e Trump negli Stati Uniti, Corbyn in Inghilterra; Podemos e Vox in Spagna, M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia) se da un lato conferma questa diagnosi gramsciana, dall'altro sembrerebbe corroborare le tesi di Laclau e Mouffe, se non fosse che questi movimenti, non essendosi posti l'obiettivo del rovesciamento del regime neoliberale, bensì quello di un suo addolcimento (a sinistra), o quello della restaurazione dei suoi principi e valori originari "traditi" da caste politiche corrotte (a destra) sono quasi del tutto rifluiti sotto i colpi della reazione delle élite dominanti.

Ma se il momento populista esaurisce la sua spinta propulsiva, il momento Polanyi con le sue laceranti contraddizioni, permane e si radicalizza. E quindi crescono i rischi. Il crollo dei sistemi tecno-scientifici di protezione provocato dal covid, scrive Visalli, ha imposto il ritorno dello stato in forme autoritarie, provocando la rabbia e il rifiuto delle classi medie sedotte da ideologie antipolitiche e dal sovversivismo di destra. Ma il peggio è che la mobilitazione contro il virus ha lasciato il posto alla mobilitazione totale in vista di una Terza guerra mondiale fra le potenze occidentali e i Paesi che si oppongono alla loro egemonia, di cui la guerra tra Ucraina e Russia è il primo atto. Il keynesismo di guerra torna dunque a proporsi come soluzione di ultima istanza a una crisi senza sbocco. In questa situazione tragica, scrive Visalli, il lavoro intrecciato e parallelo di ricostruzione della classe e del suo partito diventa l'obiettivo prioritario e irrinunciabile, mentre al discorso populista va riconosciuto il merito di avere evidenziato il problema di ridefinire una soggettività antagonista non più descrivibile nei termini classici della opposizione bipolare operai/padroni.

Sbarazzarsi di questo dogma che, pur essendo già discutibile ai tempi di Marx (il quale era del resto consapevole di descrivere un modello astratto a partire dall'osservazione dal processo di accumulazione originaria in Inghilterra), è rimasto in auge per più di un secolo, non è compito agevole. Visalli lo affronta rimpiazzando lo schema bipolare con una rete complessa in cui si intrecciano una serie di "diagonali" che descrivono altrettanti criteri di selezione. Da un lato resta importante, anche se non esclusivo, il criterio delle differenze quantitative e qualitative di reddito, per cui la condizione di chi ha come unica fonte di reddito la vendita della propria forza lavoro - né è in grado di determinare il prezzo di questa "finta merce" - funge da fattore unificante dell'arcipelago dei frammenti (lavoro precario, "uberizzato", finto autonomo, intermittente, terziarizzato, ecc.) in cui l'offensiva neoliberale ha fatto esplodere la classe operaia tradizionale. Dall'altro lato, occorre leggere queste nuove forme a partire dalle catene produttive globali, che dimostrano come la legge del valore si sia ampliata e complessificata, in barba a coloro che ne decretano la fine (vedi sopra). Lo sfruttamento classico viene così a intrecciarsi con il conflitto fra centri, periferie e semi periferie, tanto a livello nazionale (9) che a livello globale, uno scenario che già Lenin aveva abbozzato nelle sue tesi sull'imperialismo e che i teorici dello scambio ineguale e della dipendenza hanno ripreso ed approfondito (10). Senza tenere conto di quest'ultimo scenario resterebbe incomprensibile il fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute in Paesi ex coloniali e hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine, più che le minoranze operaie (un motivo in più per superare il modello classico della opposizione binaria fra capitalisti e proletariato industriale).

Quale formula organizzativa dovrebbe adottare un partito rivoluzionario per unificare questo complesso intreccio di contraddizioni, evitando la scorciatoia del populismo? Visalli sembra dirci che, al di là degli inevitabili adeguamenti di formule organizzative e linguaggi, sono ancora il gramsciano Partito Principe e il Che fare di Lenin a indicare la strada da imboccare: posto che riunificazione della classe e ricostruzione del partito sono processi interconnessi, resta il fatto che in quella magmatica materia grezza che sono le attuali classi subalterne, potenzialmente antagoniste ma attualmente ridotte alla passività, la coscienza politica, intesa come consapevolezza non solo dei propri interessi immediati ma anche del proprio ruolo nel contesto delle relazioni fra tutte le classi sociali, può penetrare solo dall'esterno. Senza dimenticare la lezione di Lukács (11), secondo cui questa coscienza importata diventa reale autocoscienza di classe solo se e quando la massa proletaria se ne appropria effettivamente, il che dovrebbe renderci consapevoli della necessità di incorporare gli strati proletari più combattivi e politicizzati già nelle prime fasi di costruzione dell'organizzazione.


2. Il capitalismo come religione

L'influsso dei fattori religiosi sulla cultura capitalista non è argomento inedito. E' nota la tesi di Max Weber (12) che identifica nell'etica protestante (in particolare in quella calvinista) le radici storiche dello spirito del capitalismo e le ragioni del ritardo con cui tale spirito ha potuto trionfare nei paesi di cultura cattolica, o ha dovuto essere importato dall'esterno in quelli di cultura islamica, confuciana e buddista.

Non meno note sono le critiche rivolte a tale tesi, a partire da quella di Samir Amin (discussa in un precedente articolo su questa pagina (13)) il quale, da un lato rovescia il punto di vista weberiano, sostenendo che sono state piuttosto le religioni ad adattarsi, prima o dopo, a seconda delle differenti condizioni storiche, all'evoluzione dei rapporti sociali; dall'altro lato critica il materialismo volgare di quei marxisti che hanno eretto a dogma la battuta marxiana sulla religione come "oppio dei popoli", ricordando come in determinati contesti storici e geografici (vedi il ruolo della Teologia della Liberazione in America Latina) la religione abbia svolto al contrario un ruolo rivoluzionario. Senza dimenticare le pagine (14) in cui Lukács analizza la storia del cristianesimo e l'alternanza fra ruolo progressivo e ruolo reazionario che ne ha contraddistinto differenti fasi evolutive. E senza dimenticare che un grande filosofo marxista (ancorché eretico) come Ernst Bloch (15) ha addirittura visto nella rivoluzione bolscevica il compimento di un annuncio profetico inaugurato dal cristianesimo, proseguito dalle eresie medievali e culminato nell'utopia socialista.

Visalli affronta il tema da un altro angolo visuale, adotta cioè il punto di vista di Walter Benjamin, il quale, in alcuni testi (16), più che occuparsi del rapporto fra capitalismo e religione, descrive il capitalismo stesso in quanto religione. Il capitalismo, scrive Visalli seguendo le tracce di Benjamin, "serve alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini cui un tempo davano risposta le religioni". In altre parole: non si tratta di leggere l'influenza di credenze religiose secolarizzate sui valori della civiltà capitalistica, bensì di capire come proprio il radicale processo di secolarizzazione messo in atto da tale civiltà abbia creato un vuoto di senso che lo stesso capitalismo ha finito per riempire. Ma di che religione stiamo parlando? Siamo di fronte a un culto, risponde Visalli sempre ispirandosi a Benjamin, che si fonda quasi esclusivamente sulla ritualità, che è mero rito, ripetizione di gesti e pratiche senza una vera teologia; un culto che introduce nel mondo la dismisura, la cattiva infinità dell'accumulazione di ricchezza (in forma di denaro) fine a se stessa, che è illimitatezza di un desiderio disperato il cui fine ultimo non è la buona vita bensì la creazione di valore economico. Siamo infine di fronte a una religione mortifera, sia perché opprime il lavoro vivo per accumulare oggetti, lavoro morto, sia perché non offre redenzione bensì la disperazione di una colpa irredimibile che indossa la maschera del debito.


Walter Benjamin

Ma il vero motivo per cui Visalli adotta questa lettura benjaminiana del capitalismo come culto religioso è il fatto che, adottando il punto di vista del grande eretico della Scuola di Francoforte su questo tema, è possibile mettere sotto accusa i feticci del progresso e del lavoro industriale; feticci che ispiravano la socialdemocrazia tedesca fra fine 800 e primo 900, ma che sono rimasti saldamente incastonati nella cultura di tutte le correnti - tanto riformiste che rivoluzionarie, tanto nel passato quanto nel presente - del marxismo mainstream.

Nella misura in cui il socialismo si converte ai valori dell'industrialismo progressista, non considerandoli semplicemente come strumenti per sottrarre milioni di persone alla povertà (vedi il caso della Cina socialista), bensì ipostatizzando la tecnica e lo sviluppo delle forze produttive come fattori determinanti, se non esclusivi, della transizione a un nuovo modo di produzione e a una nuova civiltà, ci si è già inconsapevolmente esposti al rischio di abbracciare la fede borghese nella natura salvifica della crescita illimitata.

Superare questo approccio, argomenta Visalli, implica rivisitare criticamente alcuni dogmi del marxismo mainstream (compresi certi passaggi dei testi marxiani). Dall'esaltazione positivista, evoluzionista e progressista del ruolo rivoluzionario della tecnica, dello sviluppo delle forze produttive, deriva infatti una visione della rivoluzione come l'esito necessario, "naturale" di presunte leggi immanenti alla storia. Abbandonare questa visione significa seguire Benjamin nel suo tentativo di ridefinire il senso del progetto rivoluzionario. La metafora benjaminiana dell'angelo della storia (17), rappresentato come una figura che il vento trascina verso un futuro cui essa volge le spalle, mentre contempla il cumulo delle rovine e delle vittime che il progresso si lascia dietro, ispira l'idea della rivoluzione come "estrema difesa davanti al disastro", più che come approdo di una evoluzione spontanea verso un futuro predestinato. Così concepita, la rivoluzione non può essere altro se non la rottura del continuum storico nell'attimo dell'azione, il "balzo di tigre" (per citare un'altra metafora benjaminiana) che spezza la continuità della dominazione.


Note

(1) A. Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023.

(2) Le idee di Antonio Labriola (vedi in particolare, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 2019) esercitano una forte influenza sul pensiero di Visalli che ritiene questo autore un anticipatore di Gramsci.

(3) Cfr. A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma 1998 e L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Quanto ai teorici postoperaisti il riferimento è soprattutto ad Antonio Negri.

(4) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, EGEA, Milano 2011 e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013 (anche se sul tema mi ero già espresso in lavori precedenti così come sono tornato in lavori successivi).

(5) Cfr. Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007.

(6) Cfr. M. Castells, L'età dell'informazione: economia, società, cultura, 3 voll., Università Bocconi Editore, Milano 2002-2003.

(7) Cfr. N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Editions, Roma 2018.

(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; E. Laclau, La ragione populista, Latera, Roma-Bari 2008; E. Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017.

(9) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.

(10) La questione della territorializzazione del conflitto di classe nei paesi a capitalismo avanzato è associata al tema del processo di gentrificazione dei centri metropolitani e del parallelo processo di periferizzazione delle città minori. Per quanto riguarda il caso francese cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.

(11) Per una dettagliata ricostruzione della storia della teoria della dipendenza vedi A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(12) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997; ma soprattutto vedi Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023.

(13) Cfr. M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991; vedi anche M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.

(14) "Samir Amin: una spallata contro l'eurocentrismo" https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/06/samir-amin-una-spallata-contro.html

(15) Cfr. G. Lukács, Ontologia, op. cit.

(16) Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, 3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019.

(17) Visalli discute soprattutto due testi di Benjamin: le "Tesi di filosofia della storia", in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962 e Strada a senso unico, Einaudi Torino 1983.

(18) vedi nota precedente.














NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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