Lettori fissi

martedì 6 aprile 2021


IL FANTASMA BIFRONTE DI PERON




Nei miei ultimi libri (1) ho dedicato ampio spazio al tema del “socialismo del secolo XXI”, occupandomi delle cosiddette rivoluzioni bolivariane (termine appropriato soprattutto per quella venezuelana, quella ecuadoriana si autodefinisce revolución ciudadana e quella boliviana socialista tout court). In quelle pagine ho esaminato i motivi del fallimento delle sinistre tradizionali (sia socialdemocratiche che rivoluzionarie, queste ultime nelle loro molteplici varianti ideologiche: stalinisti, trotskisti, maoisti, ecc.) in contrappunto al successo dei populismi di sinistra capeggiati da leader come Chavez, Correa e Morales (successo oggi in discussione su tutti i fronti). Ho inoltre tentato di evidenziare le peculiarità del contesto socioeconomico e della composizione  di classe ed etnica dei Paesi interessati, e di analizzare il dibattito teorico associato ai fenomeni politici in questione, con particolare attenzione alle teorie di Laclau sul populismo e al marxismo “eretico” di Linera. 

L’influenza che le esperienze appena citate hanno esercitato su movimenti come lo spagnolo Podemos, che ha tentato di “clonarle” nel contesto europeo (2), è all’origine del successo che le teorie del filosofo argentino Ernesto Laclau (3) hanno ottenuto negli ultimi anni, anche in casa nostra. Chi mi conosce sa che, pur apprezzando il contributo che questo autore ha dato alla comprensione di alcuni aspetti del fenomeno populista, non ho mai condiviso tale entusiasmo (soprattutto se associato alle tesi della sua amica e sodale, Chantal Mouffe, che, nei suoi ultimi lavori (4), ha “purgato” il discorso di Laclau delle sue implicazioni sovversive e antagoniste, e  dalle influenze gramsciane che ne ispiravano il pensiero, unitamente alla filosofia strutturalista e post strutturalista). 

Rinvio chi sia interessato ad approfondire gli argomenti con cui ho criticato il pensiero di Laclau ai lavori citati in nota 1; qui voglio piuttosto approfittare dello spunto offertami dalla lettura di un libretto - inedito in italiano e ormai pressoché introvabile in altre lingue - dello scrittore argentino Ernesto Sabato, curato da Alessandro Volpi (L’altro volto del peronismo, Rogas Edizioni), lettura assai utile per mettere a nudo le radici concrete della filosofia di Laclau, che affondano nella storia argentina dal secondo dopoguerra a oggi. 





Prima di entrare nel merito del testo di Sabato, tuttavia, è opportuno premettere un paio di cose che possono favorirne una migliore comprensione. In primo luogo, va evitato lo strabismo (tipicamente eurocentrico) di coloro che considerano il subcontinente latinoamericano come una sorta di blocco omogeneo sul piano storico, socioeconomico e politicoculturale, dimenticando che le differenze fra i Paesi del Cono Sud, della dorsale andina, dell’area caraibica e il Brasile sono molte e radicali (il che significa che i temi che andremo ora a discutere sono riferibili soprattutto, anche se non esclusivamente, al concreto contesto argentino). Ciò detto, va aggiunto che uno degli elementi caratterizzanti – forse il più importante – di tale contesto è la particolare torsione, caratterizzata dalla mescolanza fra opposte ideologie – non solo conservatori e progressisti, ma anche estremismi di destra e sinistra – che il peronismo ha impresso al fenomeno populista. 

Ne è derivata quella peculiare ambiguità di atteggiamento che le sinistre argentine – anche le più radicali – hanno sempre tenuto nei confronti della figura di Peron e del peronismo in generale, non arrivando mai a condannarlo in toto. Segnalo in particolare due contributi che possono aiutare a capire le ragioni del fenomeno: il primo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/16486-carlo-formenti-quando-la-fiat-parlava-argentino-e-l-ambiguita-radicale-del-peronismo.html (Camillo Robertini, Quando la Fiat parlava argentino, Le Monnier) è una ricerca che dimostra fino a che punto il peronismo avesse messo radici nella classe operaia argentina; il secondo https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/16282-carlo-formenti-argentina-perche-la-terza-via-peronista-continua-a-sedurre.html (Manolo Morlacchi, La linea del fuoco, da Peron alla lotta armata, Mimesis) è una biografia di Roby Santucho, leader storico del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, che più di altri militanti di sinistra seppe interpretare le contraddizioni socioculturali del suo Paese. Ma veniamo a Sabato.

L’altro volto del peronismo è una lettera aperta (pubblicata nel 1956) dello scrittore a Mario Amadeo, intellettuale conservatore e peronista “pentito” (si schierò con la Revolución Libertadora, il colpo di stato che rovesciò Peron nel settembre del 1955). In questo breve ma denso testo, Sabato, ex militante comunista che si era opposto al peronismo impegnandosi in particolare nelle battaglie per la difesa della democrazia e dei diritti politici e civili, invita le sinistre a non demonizzare le masse popolari che avevano aderito al regime, e a capirne piuttosto le ragioni, per evitare il perpetuarsi dello “storico divorzio” fra élite intellettuali e classi lavoratrici.      

Nella sua presentazione, il curatore del libro, Alessandro Volpi, prende le mosse proprio dal tema del divorzio “fra dottori e popolo”, evidenziando come Sabato accusi gli intellettuali in generale, e quelli di sinistra in particolare, di guardare alla realtà del loro Paese esclusivamente attraverso le lenti del razionalismo e dell’illuminismo, e di esprimere disprezzo nei confronti delle masse (liquidandole come un coacervo di sottoproletari, gauchos, descamisados, e rimuovendo il fatto che anche i “veri” proletari amavano Peron), senza impegnarsi minimamente a integrarne le pulsioni irrazionali e violente dentro un processo di civilizzazione. Dopodiché Volpi ritiene di riconoscere in questo approccio un’anticipazione di alcuni elementi caratterizzanti del discorso di Laclau: da un lato, la riemersione del “lato pulsionale” del popolo (Sabato si riferisce soprattutto al popolo argentino, mentre Laclau estende la riflessione ai popoli in generale, ma per entrambi si tratta di un fenomeno da comprendere e non da denigrare); dall’altro lato, la rivalutazione dell’elemento libidico (che per Sabato viene da Freud mentre per Laclau viene da Lacan) e delle dimensioni passionali e del mito, da valorizzare in quanto fattori cruciali della vita politica. 

Entrerò ora nel testo di Sabato che, come cercherò di mostrare, contiene effettivamente una serie di aspetti accostabili al pensiero di Laclau – fatti salvi gli adeguamenti di contesto storico –, e non solo: contiene, più in generale, evidenti analogie con la cultura degli attuali movimenti populisti di sinistra, con i quali condivide le stesse radici socio culturali, di classe e ideologiche (sempre salvo gli adeguamenti di contesto storico), e proprio in ragione di tali analogie consente, a mio avviso, di evidenziare limiti e contraddizioni di tutti i discorsi politici che condividono questa matrice.

Parto dalla critica ai “dottori” incapaci di capire e apprezzare il popolo. Sabato punta il dito contro la oligarchia porteña (con questo appellativo gli argentini chiamano gli abitanti di Buenos Aires) che è sempre stata “esterofila” (per inciso, nei miei soggiorni a Buenos Aires – che risalgono alla fine dei Novanta - ho potuto constatare che lo è tuttora, o almeno che era ancora tale in quegli anni), in snobistica adorazione delle (e velleitaria identificazione con) le élite europee (in particolare francesi, inglesi e tedesche) e colma di disprezzo per la rozza (in)cultura della provincia “gaucha”, e dei suoi immigrati nei sobborghi della capitale (per inciso: ove si consideri che nel centro di Buenos Aires già quando scrive Sabato si concentrava la quasi totalità degli strati sociali medio alti, si potrebbe dire che l’Argentina ha anticipato il conflitto fra metropoli gentrificata e periferie povere che a quei tempi, in Europa, non aveva ancora raggiunto le dimensioni attuali, dato il permanere di ampi strati proletari nelle aree metropolitane) (5).  

Del resto questo paradossale eurocentrismo della borghesia argentina non era appannaggio esclusivo delle élite dominanti, coinvolgeva anche gli intellettuali di sinistra, comunisti compresi. Per esempio, parlando dei suoi ex compagni, Sabato (che nel momento in cui scrive era uscito dal partito da diversi anni) ironizza sui loro sforzi di “traslare astrattamente le teorie e i procedimenti europei nella singolare struttura latinoamericana”. Una delle conseguenze di tale atteggiamento era un’astratta postura “internazionalista” che faceva sì, ricorda Sabato, che “da giovani comunisti ci vergognavamo a usare parole come patria e libertà, soprattutto se con la maiuscola”. Un comportamento paradossale, ove si consideri che il patriottismo rivoluzionario era un tratto distintivo delle sinistre latinoamericane schierate contro l’imperialismo yankee (un sentimento fortemente condiviso da Sabato, il quale, a un certo punto scrive: <<La penetrazione imperiale incontrollata e infine onnipotente ha corrotto la nostra vita politica, ha comprato le nostre coscienze, ha piegato l’economia nazionale ai suoi fini (…) ha distrutto l’industria regionale, ha annichilito o pervertito il federalismo, ha monopolizzato ferrovie e comunicazioni (…), ha sviluppato mostruosamente la capitale e, infine, ha esposto al pericolo del naufragio la nostra incipiente nazionalità nell’anonimo oceano del cosmopolitismo>>). 

Armati del loro catalogo di principi astratti i marxisti argentini, prima si erano illusi che quel demagogo filofascista di Peron, che diceva tutto e il contrario di tutto, che faceva appello alle pulsioni irrazionali, alla “pancia”, del sottoproletariato, della “plebe” argentina, non avrebbe mai potuto conquistare i “veri” operai (sulla penetrazione del peronismo nella classe operaia vedi invece il libro di Robertini sopra citato); poi, quando il dittatore viene rovesciato, non dal popolo ma da un golpe, hanno fatto fronte comune con le altre forze antiperoniste per celebrare la fine del regime, senza accorgersi che quella notte del settembre 1955, scrive Sabato, mentre “noi dottori, possidenti e scrittori” festeggiavamo la caduta del tiranno <<Milioni di diseredati  e di lavoratori stavano versando lacrime in quegli istanti, per loro duri e tetri>>.      

Ancora una volta, i “dottori” non si erano resi conto che <<non è la ragione che governa il mondo ma la passione, non il libro ma l’amore e l’odio, non l’educazione scolastica ma l’istinto. E le masse, che sono femminili, si innamorano di un leader e in questo amore non c’è calcolo né sensatezza, come in qualsiasi amore>> (dovremo tornare su questo passaggio, perché contiene uno dei noccioli duri della mentalità populista). Se i canoni della razionalità politica non avevano funzionato <<in paesi tanto avanzati come la Germania e l’Italia, come avrebbero potuto non fallire in questi barbari territori dell’America del Sud>> (torneremo anche su questo contrappunto fra civiltà europea e barbarie latinoamericana che, paradossalmente, ripropone l’esterofilia da lui tanto criticata). Invece, argomenta Sabato, contro il demagogo Peron che impugnava le bandiere dell’antimperialismo e della giustizia sociale, si sarebbe dovuto costruire un movimento popolare che ne smascherasse il fascismo e rivendicasse per sé quelle bandiere (6). Ma per questo sarebbe stato necessario capire le masse in misura sufficiente per per riuscire ad arrivare alle loro teste, ma soprattutto ai loro cuori. 

Prima di passare a una disamina critica dei discorsi appena esposti, è il caso di esaminare  un ultimo, fondamentale passaggio. Nella parte finale della Lettera, Sabato, preoccupato del fatto che la caduta di Peron possa innescare una catena di risentimenti e vendette, e che la retorica “classista” delle sinistre marxiste possa subentrare a quella populista del peronismo (in effetti, già allora si avvertivano i primi segni della nascita di un peronismo di sinistra – vedi in proposito il libro di Morlacchi citato in apertura), elabora quello che si potrebbe definire una sorta di appello interclassista per il governo dei “migliori”, di cui cito qui di seguito tre passaggi. 1) <<Stiamo attenti a non ritornare a questa dottrina neoperonista, secondo la quale l’unica cosa che conta, l’unica reale è il popolo, intendendo la massa lavoratrice>>, dopodiché si ammonisce che questo significherebbe cancellare il contributo di milioni di appartenenti alle classi medie e alte , di studenti, artisti e intellettuali, e delle <<creazioni dei nostri spiriti più alti>>. 2) <<Anche con grandi principi e con nobili parole d’ordine si può svegliare il fervore del popolo>>. 3) <<È pericoloso che una rivoluzione sociale sia invocata e diretta da quelli che hanno tutto da guadagnare. E anche qui, in Argentina, abbiamo l’esempio di ciò che succede quando è diretta da risentiti e delinquenti. Speriamo che in questi momenti i migliori spiriti della nostra borghesia comprendano la missione che storicamente le spetta>>. Procedo a commentare il tutto per punti. 


Ernesto Sabato 



1) Sulla puzza sotto il naso e sul dogmatismo degli intellettuali di sinistra 

Su questo è indubbio che Sabato avesse ragione, e non solo nei confronti dei suoi colleghi argentini degli anni Cinquanta ma, per quanto ho potuto constatare a Quito e a Città del Messico (ma non a L’Avana!), anche ai giorni nostri e in altri Paesi latinoamericani. Non a caso, come ho già sottolineato altrove (vedi nota 1), le formazioni marxiste “ortodosse” (aggettivo appropriato non solo nei confronti degli eredi della Terza Internazionale staliniana, ma anche di trotskisti e altre correnti ideologiche) raramente hanno giocato un ruolo determinante nei processi rivoluzionari del subcontinente. E tuttavia è sbagliato generalizzare. Da Mariategui (7) (cui si deve, fra l’altro, l’attenzione che il pensiero di Gramsci riscuote tuttora in America Latina), a Alvaro G. Linera, passando per Guevara, sono stati tutt’altro che rari gli apporti creativi alla teoria marxista (poco e male conosciuti dai marxisti europei che ignorano i contributi teorici provenienti dagli altri continenti con lo stesso snobismo con cui gli intellettuali porteños incensano quelli europei). 

Come esempio di uno di questi apporti “eretici”, cito quello dell’ex vicepresidente boliviano Linera il quale, criticando la tesi dei marxisti ortodossi (8), secondo cui le comunità indie tradizionali, che non conoscono la proprietà individuale della terra , dovrebbero trasformarsi in piccoli proprietari privati e braccianti salariati e uscire così dal loro stato di “arretratezza” socioeconomica e culturale, prima di poter partecipare come alleati del proletariato industriale alla lotta anticapitalista, ha viceversa spiegato come la resistenza di quelle forme sociali alla colonizzazione da parte del mercato capitalistico rappresenti a tutti gli effetti una forma di lotta di classe, ancorché specifica di un concreto contesto storico, etnico e culturale. Questo riconoscimento è stato il cemento del blocco sociale che ha consentito sia il successo della rivoluzione socialista, sia la sua capacità di resilienza dopo un golpe di destra.

Sempre in Bolivia, come è successo in Venezuela e altrove, le sinistre radicali “europeggianti”, hanno invece spesso osteggiato il regime, accusandolo di pratiche “antidemocratiche”. Così come hanno manifestato nei confronti delle masse indie, del proletariato inurbato e del sottoproletariato degli slum metropolitani, e delle moltitudini degli “sdentati” (Hollande dixit) lo stesso distacco, se non disprezzo, che Sabato rimproverava agli antiperonisti nei confronti dei descamisados (e qui il pensiero corre immediatamente all’orrore “politicamente corretto” delle sinistre nordamericane nei confronti degli elettori di Donald Trump, figura politica dotata di caratteristiche non lontane da quelle che Sabato attribuiva a Peron). 


2) Elitismo di un anti elitista

Anche a una lettura superficiale del testo di Sabato, salta agli occhi come il suo anti elitismo sia intriso di paternalismo nei confronti del popolo che vorrebbe difendere dal disprezzo dei suoi pari. Quando spiega perché il popolo piangeva dopo la caduta di Peron (un amore che, ricordiamolo, è proseguito fino alla sua morte), Sabato da assai poco spazio alla capacità del presidente di venire incontro alle esigenze e ai bisogni concreti delle classi subalterne (fra l'altro, fu addirittura lui a garantire la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale - vedi il libro di Morlacchi sopra citato) – politiche che il nostro liquida sbrigativamente come “demagogiche”. Si dilunga invece sul fatto se il nazifascismo aveva potuto vincere nella “avanzata” Europa, a maggior ragione poteva farcela nella “selvaggia” America del Sud (ho già sottolineato questo “lapsus” che rivela come Sabato non sia poi tanto meno eurocentrico degli intellettuali che critica). Ma soprattutto si dilunga sul concetto secondo cui il popolo è “femmina”, ragiona con la pancia, si innamora di un  leader e l’amore, come si sa, non ha bisogno di motivazioni razionali, ecc. A parte la battuta sul “popolo femmina” – da far inorridire le femministe (e non solo loro) -, quello che emerge da questo discorso è una visione “psicologista” dei processi storici, in cui gli interessi materiali e le ideologie spariscono, sostituiti dalle pulsioni e dall’adorazione tribale per il capo (il tentativo di interpretare la storia con le categorie della psicoanalisi è stato spesso foriero di clamorosi svarioni scientifici). Non solo: questa lettura contrappone implicitamente la razionalità dell’intellettuale alla irrazionalità delle masse, invitando il primo a non disprezzare la seconda ma a incanalarla nella giusta direzione. 

In questo senso, Volpi ha ragione nel riconoscere in Sabato un antesignano di Laclau. Infatti i populismi di sinistra che si ispirano alle teorie del filosofo argentino adottano esattamente questo atteggiamento nei confronti del popolo cui si rivolgono. Podemos è nato come progetto studiato a tavolino da un gruppo di intellettuali dell’Università di Madrid - esattamente come la Revolución ciudadana ecuadoriana è nata dal progetto di un gruppo di intellettuali dell’Università Flacso di Quito (9) -, ed è nato celebrando le virtù del movimento popolare del 15M ma, al tempo stesso, prendendone le distanze in quanto lo giudicava  incapace di dare sbocco politico al proprio impulso. In questo senso si potrebbe provocatoriamente parlare di una visione leninista (un leninismo borghese, come vedremo più avanti parlando di classi sociali). Senonché Lenin ha costruito il successo della Rivoluzione del 17 sulla parola d’ordine “terra e pace”, mossa geniale perché, come spiega Lukacs (vedi in proposito quanto ho scritto nel mio ultimo post su questo blog), ha saputo sfruttare il fatto che le élite russe non potevano oggettivamente esaudire quelle richieste (in sé per nulla sovversive); ma anche e soprattutto sulla ferrea organizzazione di un gruppo di rivoluzionari di professione. Podemos ha a sua volta ripreso le parole d’ordine dei movimenti, ma ha scommesso tutto non sull’organizzazione ma sulla comunicazione, sulla “pancia” delle masse e sull’amore per un leader come Iglesias, costruito attraverso un talk show televisivo. 

E' solo questione di diversi contesti storico culturali? Non proprio: dietro queste scelte c’è una filosofia che va al di là della contingenza storica, una visione che ipotizza – seguendo Laclau - l’esistenza di una relazione strutturale, di una “forma” ideale, fra leadership intellettuale e popolo. E questa ipotesi, come ho cercato di mostrare in varie occasioni, ha portato al fallimento sistematico di pressoché tutti i movimenti populisti di sinistra.               

 

3) Dalla classe al popolo e ritorno

Il paternalismo di Sabato ha ben definite radici di classe. Del resto è lui stesso a dircelo esplicitamente nelle parti conclusive della sua Lettera. Lo abbiamo già messo in luce citando i passaggi in cui esprime preoccupazione per il delinearsi di una variante di sinistra del peronismo, della quale sembra paventare una sorta di sincretismo fra populismo del dittatore deposto e classismo delle opposizioni di sinistra (presagio che troverà conferma storica nel ruolo svolto da un movimento come i Montoneros nella resistenza al regime dei generali). E qui Sabato rivela la sua anima squisitamente borghese, sia allorché invita a non identificare il popolo esclusivamente con la massa lavoratrice e a estenderne i confini alle classi medie e alte, oltre che agli intellettuali (la sua critica ai vizi della sua categoria non arriva a fargli assumere il ruolo del transfuga), e ancor più quando si appella “ai migliori spiriti della nostra borghesia” perché non abdichino al loro ruolo storico (che resta s’intende quello delle élite); per tacere della sua denuncia della pericolosità di una rivoluzione sociale fatta da coloro che “hanno tutto da guadagnare” (cioè dai proletari, visto che i borghesi hanno tutto da perdere) categoria che il nostro identifica con i “risentiti”, anticipando un tema caro alle anime belle di oggi, le quali, a ogni attacco ai privilegi dei super ricchi, gridano ai cattivi umori dettati dal risentimento (e a un gradino ancora più in basso troviamo l’odio di classe, foriero di istinti criminali). Dopodiché, dimentico delle precedenti filippiche sulla necessità di accettare e riconoscere gli istinti pulsionali che agitano le masse, indossa la veste talare per dirci che <<anche con grandi principi e con nobili parole d’ordine si può svegliare il fervore del popolo>>. 

Fino a che punto possiamo riconoscere in questo atteggiamento un’anticipazione del discorso di Laclau? Forse se pensiamo all’approccio interclassista con cui quest’ultimo affronta il problema della costruzione politica del popolo, che fonda sulla unificazione di catene equivalenziali di rivendicazioni disparate provenienti dai più diversi strati sociali, e forse anche in quel richiamo di Sabato ai grandi principi e alle nobili parole d’ordine (anche se Laclau svuota il pathos di termini come Giustizia, Libertà ecc. definendoli  “significanti vuoti”, meri strumenti retorici). Assai meno laddove Sabato esprime una franca diffidenza borghese nei confronti della “cattiveria” e del “risentimento” delle masse che inseguono solo i loro interessi particolari, di classe appunto. Laclau invece, pur avendo voltato le spalle al marxismo, resta, forse a causa degli influssi gramsciani, simpatetico nei confronti dei piani bassi della piramide sociale, degli ultimi e degli esclusi, e conserva una visione francamente antagonista del popolo come prodotto del tracciamento di un confine amico/nemico nei confronti delle élite. 


Laclau e Mouffe



Non così Chantal Mouffe, la quale, sepolto - prima metaforicamente e poi nella realtà – Laclau, ha preso definitivamente commiato da Gramsci (del quale conserva solo più il concetto – depotenziato fino all’inservibilità – di egemonia) e dalla concezione antagonistica della lotta politica, cui contrappone un “agonismo” che riconduce il conflitto sociale nei confini (sia pure ampliati) della democrazia liberale (mentre delle classi sociali non si fa più nemmeno cenno, neppure come tema accademico). 

Ebbene, non è un caso se i fan di Laclau – un po’ meno quelli di Podemos più decisamente quelli di casa nostra – fanno ormai riferimento al discorso della Mouffe più che a quello del maestro. Con i disastrosi esiti politici denunciati da Manolo Monereo (11). Per concludere: è vero che oggi il marxismo ha un serio problema di rinnovamento critico, e di pulizia del proprio edificio teorico da un ingombrante ammasso di residui dogmatici (12), così com’è vero che uno dei compiti più urgenti cui si trova di fronte è proprio quello di ragionare sulla forma populista che la lotta di classe ha assunto ai giorni nostri (senza dimenticare che le classi esistono ancora, anche se è tutta da ridefinire la loro struttura socioeconomica e da ricostruire la loro unità politico culturale); è però altrettanto vero che la parabola populista che si è sviluppata da Sabato a Laclau, per approdare melanconicamente alla Mouffe, ha esaurita la sua spinta propulsiva in tempi storici relativamente brevi, e difficilmente potrà offrire al nostro futuro soluzioni che fuoriescano dal recinto della realtà sociale in cui viviamo da qualche secolo, che era, è, e resterà, finché non verrà rovesciato, una realtà di classe. 


Note

(1) Vedi, in particolare, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2018 e Il socialismo è morto, viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. Per quanto riguarda la rivoluzione ecuadoriana, vedi Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2014.

(2) Cfr.  F. Campolongo, L. Caruso, Podemos e il populismo di sinistra, Meltemi, Milano 2021. All’evoluzione di Podemos ho dedicato due recenti post che trovate negli Archivi di questo blog. 

(3) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; vedi anche E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008 e Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(4) cfr. C. Mouffe, Sul politico, Bruno Mondadori, Milano 2005; C. Mouffe, C. Errejon,  Construir pueblo, Icaria, Barcellona 2015; C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari 2018.

(5) La “vera” Buenos Aires, per i porteños delle classi medie è Capital Federal, il centro storico circondato da sterminati slum periferici. Sull’antagonismo di classe fra metropoli gentrificate e province cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014. 

(6) Critica analoga a quella che Karl Radek rivolse al Partito Comunista Tedesco negli anni Trenta, rimproverandogli di non aver saputo contrastare i nazisti sul loro stesso terreno, cioè assumendo la direzione della lotta del popolo tedesco contro le condizioni capestro imposte dei vincitori della Prima guerra mondiale, ma dando loro un’impronta di classe invece che nazional sciovinista. 

(7) Cfr. Obras de José Carlos Mariategui, Ediciones La Biblioteca Digital.

(8) Cfr. A. G. Linera,  La potencia Plebeya, Clacso/Prometeo libros, Buenos Aires 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015. 

(9) Nel corso di un soggiorno a Quito nel 2013 ho avuto modo di ricostruire quella storia con alcuni di coloro che ne furono protagonisti, ne accenno in Magia bianca magia nera, cit. 

(10) Vedi Il socialismo è morto…cit.; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020; vedi infine alcuni miei interventi su Podemos pubblicati su questo blog.

(11) Cfr. M. Monereo, Oligarquia o Democracia, El Viejo Topo, 2020.

(12) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.  


             



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