Lettori fissi

mercoledì 15 settembre 2021

Afghanistan: come non lasciare un bel ricordo


di Piero Pagliani



La ressa nel tentativo di lasciare Kabul



Secondo i media e i commentatori mainstream, l'evacuazione degli Stati Uniti dall'Afghanistan è stato un orrendo errore. Ma c'è poco da obiettare alla risposta di Biden: “Those who say that 2 or 5 more years will bring us victory are lying to you”. Un'affermazione piena di saggezza che, confesso, mi ha sorpreso in una persona come Biden a cui io non ho mai dato molto credito, anzi. In venti anni non abbiamo vinto, ma perso terreno. Pensate proprio che in ventidue potremmo vincere? Questo è il (buon) senso dell'inquilino della Casa Bianca. 

La cosa a prima vista più stupefacente, fateci caso, è che se un presidente degli Stati Uniti fa un'affermazione sensata, i media e i commentatori occidentali vengono presi dall'isteria. Tanto che la vice Khamala Harris si è data alla fuga, al mutismo metodico: pensa alla sua carriera, quindi non vuole essere coinvolta in queste polemiche in cui si scatenano fissazioni di ogni tipo. Così ha deciso di lasciare da solo il suo capo nella bufera. Io non ci sono per nessuno. Non m'importa se qui, nel bene o nel male, si sta facendo la Storia del mio Paese. Io non esisto. Notevole per una vice presidente.

In realtà la decisione non è stata del quasi ottuagenario signor Joe Biden, ma del “Biden collettivo”, cioè quell'insieme di forze e di interessi che nel corso del tempo fanno la politica degli USA, che ha preso il testimone dal Trump collettivo che a sua volta lo aveva ricevuto dall'Obama collettivo. Tale è la storia della decisione di ritirarsi dall'Afghanistan. Storia dimenticata da commentatori e commentatrici  che vivono nel mondo di Papalla. 


Secondo gli ultrà dell'antimperialismo senza macchia, senza paura e senza dubbi, ma anche secondo i sostenitori della tesi del “complotto mondialista”, ovviamente demo-pluto-giudaico (per alcuni vi facevano parte anche Marx e Lenin perché di ascendenza ebraica!), secondo questi straordinari analisti che la sanno più lunga del Cremlino, della Casa Bianca, di Pechino, di Londra e così via, la decisione di Biden è stata sic et simpliciter la dichiarazione che l'impero USA-NATO è stato sconfitto dalle forze popolari afgane. 

Ora, che in un modo particolare che poi vedremo, ci sia stata una sconfitta dell'arrogante Occidente, è vero. Ma questo non vuol dire che Kabul sia stata una nuova Saigon (addirittura “al quadrato” per qualcuno). In realtà, al contrario del Vietnam dove gli USA e il suo esercito proxy sud-vietnamita sono stati drammaticamente sconfitti dai soldati del Nord e dai Vietcong del Sud al prezzo di 1 milione di morti tra i combattenti e di 2 milioni tra i civili, in Afghanistan gli USA non sono stati sconfitti sul campo, ma si sono sconfitti da soli, perché la loro “grand strategy” ideata dai neocons e iniziata nel 2001 non poteva funzionare, per una miriade di motivi che cercheremo di vedere sotto un particolare punto di vista.

Di questa grand strategy parlai in un libro edito nel 2003 da Punto Rosso. Si intitolava “Alla conquista del cuore della Terra. Gli Usa: dall'egemonia sul «mondo libero» al dominio  sull'Eurasia” (su Internet, i termini “egemonia” e “dominio” del titolo sono spesso scambiati, non so perché). Per prepararlo avevo scartabellato centinaia di studi e decine di riviste internazionali che non mi portarono ad avere una conoscenza dei problemi dell'Asia Centrale e del Caucaso, ma se non altro mi permisero di farmi un'idea un po' meno cialtrona delle analisi propinate dai media e dai libri mainstream.

In seguito i miei interessi si concentrarono di più sull'India, ma non persi l'abitudine di andare a vedere le fonti che si erano rivelate più informate e intelligenti riguardo ai problemi del “cuore della Terra”.

Dieci anni dopo scrissi due volumi che intitolai “Al cuore della Terra e ritorno” (liberamente scaricabili da Internet). Avevo iniziato a vedere che, al di là di ciò che succedeva sui campi di battaglia e si diceva nelle narrazioni in voga, l'andamento della crisi sistemica (che coinvolge cioè non singoli settori economici e non solo l'economia, ma anche la politica e la geopolitica, e non singole nazioni) stava imponendo un “ritorno”, cioè una ritirata (molto contraddittoria e con impressionanti ritorni di fiamma): dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione, dall'espansione imperialistica.

Così, lasciata posare la polvere sollevata dal “momento Kabul”, ho deciso di tentare di fare un primo (e necessariamente lacunoso) punto su ciò che sta succedendo.


1. Lo strano attacco dell'ISIS-K

Iniziamo con questa orrenda strage, chiamata “Abbey Gate massacre”. Secondo fonti della BBC molte delle persone morte durante l'attacco ISIS all'aeroporto di Kabul sono in realtà state uccise da proiettili statunitensi [1].

Adesso c'è un rapporto dal Kabul Emergency Hospital che rivela che “all victims were killed by American bullets, except maybe 20 people out of 100.” (esiste anche un reportage in lingua Dari, quella dei Tagiki, con commenti esplicativi in Inglese, di una notevole “street-level TV”, Kabul Lovers, che mortifica i grandi network) [2].  

In realtà oltre alle vittime civili sono stati ammazzati anche 30 miliziani talebani [3]. 

Secondo l'Ansa, ciò è stato causato dalla “confusione” che si è creata con le bombe suicide. E' possibile. Ma la presenza dell'ISIS in Afghanistan è stata pianificata:


A) Molti miliziani dell'ISIS (che, non bisogna mai dimenticare, sono stati organizzati, equipaggiati e addestrati da USA, Qatar e Sauditi [4]), sono stati messi in salvo dalle regioni della Siria occupate  dall'alleanza SDF-USA e da Idlib tramite un ponte aereo coordinato dagli Stati Uniti con terminali le province di Konar e Nangarhar nell'Afghanistan orientale (altri sono stati dislocati nello Xinjiang cinese, nelle zone del Myanmar abitate dai Rohingya e al confine con lo stato indiano conteso del Jammu & Kashmir).

B) I servizi segreti talebani avevano avvisato gli Stati Uniti che l'ISIS-K stava preparando un attentato all'aeroporto e di stare in allerta. Allarme che sempre di più pare sia stato recepito solo a parole.

C) Lo stesso ex presidente Afghano di fiducia della NATO, Hamid Karzai, ha descritto l'ISIS-K come “uno strumento degli Stati Uniti”. 


Come gli Stati Uniti intendano utilizzare questo loro “strumento” (che pochi anni fa, in relazione alla Siria, il Pentagono stesso descrisse come “l'unico reparto operativo dell'esercito saudita”, cioè dell'esercito di un loro strettissimo alleato), può essere per ora solo oggetto di speculazioni. Una di esse, non campata per aria, è che sia usato per controllare e tenere sotto scacco il futuro nuovo governo afgano, qualsiasi esso sia. Questa ipotesi potrebbe spiegare come mai gli USA si siano subito affrettati ad ipotizzare una collaborazione militare e di intelligence coi Talebani contro l'ISIS, ipotesi rigettata al mittente in quanto evidente tentativo di rimettere i piedi nel Paese asiatico (anzi, vedremo che i Talebani stanno tentando di smantellare le due reti di intelligence messe in piedi dalla CIA nel loro Paese, cosa non riportata da nessun media mainstream occidentale).

Un'altra ipotesi deriva dalla constatazione che il sempiterno Piano B degli USA recita: “Se le cose vanno storte, lasciare dietro di sé il caos”, un caos che qualcun altro dovrà affrontare.

Ad esempio, dopo aver trasformato l'Ucraina in uno stato fallito, l'odierna strategia di Washington è lasciare la patata bollente alla Germania e alla Russia. Cosa che ovviamente potrebbe avere un risvolto negativo per gli USA, ovvero una rinnovata e ampliata collaborazione tra i due Paesi europei, se non fosse che Washington lascia sempre sul campo una quinta colonna: in Ucraina le formazioni politiche e paramilitari naziste, in Afghanistan l'ISIS e, come vedremo, al-Qaida. 


2. Il problema dei Talebani: instabilità, divisioni etniche e complessificazione della società afgana

Il “nuovo” Afghanistan difficilmente sarà stabile. I Talebani sono tutti di etnia Pashtun, che conta solo il 42% degli Afgani. Le altre etnie fanno eventualmente riferimento ad altri “signori della guerra” che possono o non possono allearsi con i cosiddetti “studenti coranici”, a seconda dei loro interessi. In secondo luogo i Talebani non sono una formazione compatta, ma una sorta di federazione di combattenti organizzati su base clanica, tribale e regionale. Non solo, sono attualmente contrapposti al loro interno tra i “negoziatori di Doha” (uomo di riferimento Abdul Ghani Baradar), la rete politico-militare Haqqani (uomini di riferimento Haji Mali Khan e Anas Haqqani), molto collegata ai servizi segreti pakistani e quella nazionalista del giovane Mullah Yakoob (figlio di Mullah Omar). Il cemento ideologico dei Talebani, ovvero la loro dottrina nazional-fondamentalista, sostenuta dai wahhabiti sauditi, definibile “neo-Deobandi” [5] (qualcosa di sconosciuto ai nostri media), dovrà vedersela con la complessificazione della società afgana che oggi è molto diversa da quella di venti anni fa. 

I Talebani sono tradizionalmente visti nelle città, e specialmente a Kabul, come degli alieni, così come, reciprocamente, essi considerano Kabul una sorta di “pianeta proibito”. 

Infatti Kabul, così come Herat e Mazar-i-Sharif, è abitata in maggioranza da Tagiki, che non sono organizzati su base tribale e formano anche la crème intellettuale (e religiosa) dell'Afghanistan. Questa ostilità delle città nei confronti dei Talebani si è ampliata con l'ampliarsi della classe media, col diffondersi di altri stili di vita, di altre conoscenze e modi di pensare permesso dall'occupazione della NATO (questo effetto delle occupazioni occidentali nei Paesi del Sud del mondo, effetto non totalmente controllabile dall'occupante e non totalmente asservibile alle sue esigenze, è una costante storica che ho già avuto modo di sottolineare e che benché faccia capo ad alcune élite locali, spesso ha svolto ruoli positivi nel Paese occupato, dinamizzandone la società e fungendo da elemento chiave anche nella lotta per l'indipendenza – può essere difficile da comprendere o da digerire, ma la Storia dice questo, vedi India e vedi Algeria, per fare due esempi). 

Di questo profondo cambiamento sono testimonianza le manifestazioni di protesta che vediamo in questi giorni, impensabili durante il primo regime talebano. 

Le dichiarazioni ufficiali di “moderazione” da parte dei portavoce del movimento riflettono queste difficoltà che si intersecano con la necessità di riconoscimento internazionale, ma si tenga conto che i propositi di moderazione dei vertici, così come quelli di “magnanimità” nei confronti di chi ha collaborato con gli occupanti, possono essere disattesi man mano che si scende al livello di capi locali e di singoli miliziani (a dire che vendette anche sanguinose e repressioni vecchio stile dei costumi “liberali” sono sicuramente da aspettarsi).



I Talebani entrano a Kabul 




3. Gli accordi con Washington

I Talebani hanno firmato con gli USA impegni in cambio dell'evacuazione delle forze NATO. A mio avviso sono impegni soprattutto geopolitici. Sicuramente gli USA vorranno controllare che essi  vengano rispettati e per far ciò utilizzeranno vari mezzi. L'uso della pressione economica deve essere molto misurato, per impedire massicce incursioni economiche e finanziarie della Cina. Le pressioni saranno quindi soprattutto politiche e oltre alla minaccia di isolamento (dall'Occidente) comprenderanno quelle di carattere “militare” ottenibili mobilitando le quinte colonne di cui sopra.  Proprio il fatidico 31 agosto è rientrato in Afghanistan l’ex capo della sicurezza di Bin Laden, Amin-ul-Haq, esponente di spicco di al-Qaida, senza che gli USA abbiano avuto sostanzialmente niente da ridire. Non è una sorpresa, essendo stata apertamente questa organizzazione uno “strumento” USA durante la guerra contro la Repubblica Democratica dell'Afghanistan e l'Unione Sovietica (guerra fortemente voluta da Zbigniew Brzezinski, consulente per la Sicurezza di Carter), nella guerra di Bosnia, in quella in Kosovo, nello Yemen, in Libia e in Siria.

Occorre poi citare altri due strumenti che sono ignoti alla grande maggioranza dei nostri commentatori (che pare si limitino a passare veline o a scopiazzare i giornali anglosassoni – ovviamente non i migliori quali il realmente prestigioso The Nation). Si tratta della Khost Protection Force (KPF) e del National Directorate of Security (NDS), entrambi assets della CIA. Si presume che durante l'occupazione fossero composti da un minimo di 3.000 a un massimo di 10.000 persone ed avevano compiti di polizia segreta, di intelligence e di squadroni della morte (e qui si capisce perché non vengano mai citati, a parte l'ignoranza) [6].

I Talebani stanno cercando di neutralizzarne le rimanenze. Si sa che le cellule dormienti talebane  infiltrate negli apparati dell'amministrazione fantoccio sono riuscite a mettere le mani sulle liste dei nomi e che il famoso “bussare alla porta delle abitazioni” e i cordoni talebani di isolamento all'aeroporto di Kabul che hanno fatto scattare l'isteria dei media e del pubblico occidentali, in larga parte riguardano la ricerca dei membri del KPF e dell'NDS [7].

Infine nel Panshir c'era (c'è?) il movimento guidato da Massud jr, il figlio del “leone” Ahmad Shah Massud. Anche in questo caso l'approssimazione dei nostri media è sconfortante. Per anni Ahmad Shah fu visto e descritto come un tollerante difensore della libertà contro i Talebani, dimenticandosi volutamente, o non sapendo, che si era macchiato di pesanti crimini di guerra, anche contro le donne [8]. Era anche un antico alleato del generale Dostum, un bieco traditore del governo della Repubblica Democratica dell'Afghanistan, una sorta di Pinochet. Oggi la resistenza del figlio del “leone del Panshir” è stata appaltata ad Amrullah Saleh, l'ex vice-presidente afghano, che è apertamente considerato un asset della CIA. Ma la resistenza nel Panshir a regola fa parte anche degli interessi britannici. Dato questo quadro, lascia di sasso che venga presa per buona la notizia che Putin avrebbe avuto intenzione di intervenire con l'aviazione nel caso i Talebani fossero avanzati nella valle. Basterebbe riflettere sul fatto che Putin è uno statista prudentissimo che nel Donbass ha giocato di fioretto per non essere coinvolto e che ha centellinato col bilancino l'intervento in Siria. E basterebbe riflettere sul fatto che il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov, ha dichiarato che Mosca vuole una soluzione politica pacifica tra Massud e i Talebani  (“come tutte le Potenze”, ha aggiunto), ma che non intende minimamente fare da mediatrice (figuriamoci intervenire militarmente – a fianco della CIA poi) [9].  

Adesso i nostri media strillano disperati che Massud è stato lasciato solo da Russia e USA nonostante le promesse. Per la Russia abbiamo visto. Per quanto riguarda gli USA, non vi sembra imbecille pensare che una potenza che si ritira da tutto l'Afghanistan il 31 agosto lasciandosi indietro tonnellate di armamenti, il primo settembre vi rientri dal Panshir per affrontare le forze con cui ha concluso un accordo e che di fatto ha contribuito ad armare? Ogni tanto mi sembra che i nostri media, i nostri politologi, i nostri commentatori e molti nostri politici siano in preda a disconnessione cognitiva (i nostri militari sembrano invece avere i piedi più per terra, vedi il generale Carlo Jean).


4. Chi ha realmente sconfitto gli Stati Uniti in Afghanistan?

Il famoso e sbandierato raid della vendetta contro l'ISIS a Jalalabad (la capitale della provincia di Nangarhar – vedi sopra) in realtà si è concretizzato nello sterminio di tre famiglie: 12 civili inclusi 7 bambini tra i 2 e i 10 anni. Non è una novità per gli USA: in Afghanistan e in Pakistan sono anni che compiono queste eroiche imprese. Sono i risultati di quella che è stata chiamata la “dronificazione della violenza di stato” [10]. 

Non c'è allora da meravigliarsi del ripetersi dei “momenti Saigon” cioè la fuga precipitosa degli Usa inseguiti dall'ira dei legittimi abitanti delle nazioni in cui intervengono con arroganza e violenza, vedi Vietnam, vedi Libano, vedi Somalia, e vedi adesso Afghanistan [11].

In una larga parte del mondo c'è un reale odio/astio/profonda diffidenza contro gli Stati Uniti che i  media e i politici occidentali vogliono ovviamente nascondere utilizzando spesso il successo mondiale della cultura pop – e non solo – americana. Questo successo è reale, solo gli antiamericani senza se e senza ma, i sognatori romantici dei bei tempi andati, i devoti delle sane tradizioni locali (non importa quanto retrograde siano), e gli ultrà antimperialisti, possono negarlo. Il successo c'è ed è spiegabile. 

Tuttavia anche la cultura dell'antica Roma aveva un successo mondiale, un successo che si è protratto per secoli e secoli anche dopo la caduta dei due imperi, occidentale e orientale. Ma ciò non toglie che i due imperi caddero. 

Gli imperi cadono per vari motivi e gli studiosi più attenti hanno cercato di distinguere ciò che varia da ciò che è costante nella storia di queste cadute (in definitiva, un po' in ogni settore, gli studi seri servono proprio a questo). 

Cosa sta succedendo allora all'impero statunitense?

Cerchiamo di rispondere intanto a un'altra domanda: Kabul è stata veramente una nuova Saigon? I Talebani sono veramente i nuovi Vietcong?

So che anche qui farò infuriare alcuni, ma ripeto ancora una volta: no, non è così. Nonostante certe suggestive analogie iconografiche (gli elicotteri che si danno alla fuga) Kabul non è Saigon e i Talebani non sono i Vietcong. Le modalità di evacuazione degli USA da Kabul hanno poco a che vedere con la fuga precipitosa da Saigon, a parte qualche fermo immagine (ad esempio, gli agenti segreti statunitensi e dei Paesi Nato in quei giorni entravano e uscivano da Kabul liberamente). E i Talebani non sono né i Vietcong né il Partito Comunista vietnamita, non lo sono per ideologia e non lo sono per le modalità con cui hanno riconquistato l'Afghanistan. E in questo giudizio non interviene il fatto che la mia simpatia per i Talebani sia simile a quella che ho per la Santa Inquisizione.

Una forza retrograda e reazionaria, nel migliore dei casi – ed è ancora da vedere se il caso qui in discussione è uno di essi – può temporaneamente essere di ostacolo all'imperialismo (come sapeva anche Lenin, proprio a proposito dell'Afghanistan e del suo “emiro reazionario”), ma nel medio periodo, nemmeno in quello lungo, farà scelte di campo che con l'antimperialismo non c'entreranno niente. E' una questione di progetto. A meno che con “antimperialismo” si qualifichi uno scontro geopolitico e basta. Si ricordi che l'imperialismo storicamente si è basato su forze reazionarie locali.

Degli accordi con Washington frutto di una negoziazione di sei anni (tre segreti e tre ufficiali) abbiamo già parlato [12]. Possiamo aggiungere che i maggiori leader talebani attuali erano tutti in prigione e sono stati liberati dagli USA proprio per condurre quei negoziati.

Il punto centrale del discorso è che gli USA in Afghanistan non sono stati sconfitti. I 2.400 morti statunitensi in 20 anni non sono i 58.000 nei 10 anni di coinvolgimento pesante in Vietnam (dalla famosa escalation alla sconfitta). 

Ciò che forse più accomuna il “momento Saigon” al “momento Kabul” è una profonda crisi sistemica  che gli USA e l'Occidente non sanno più gestire e che oggi si associa alla possibilità di due Potenze, Cina e Russia, di contrapporsi in modo diretto sia militarmente sia economicamente alla superpotenza americana (persino l'Iran lo può fare: si pensi agli attacchi missilistici dell'8 gennaio 2020 contro le basi statunitensi in Iraq seguiti all'assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, ai quali gli USA non hanno risposto per il semplice motivo che non potevano farlo senza finire in un disastro – fu una scelta saggia ma obbligata).

E quindi qui sta il punto cruciale, su cui occorrerà ritornare in modo specifico: gli Usa non sono sconfitti, gli USA si stanno esaurendo. Questa sarà, a mio avviso, la dinamica della fine dell'impero statunitense. Certo, in linea teorica può succedere che gli USA vengano sconfitti in modo drammatico in un conflitto periferico o semi-periferico suscitato da quelli che Paul Craig Roberts, ex sottosegretario al Tesoro di Reagan, definisce “the crazy freaks in Washington” (misti repubblicani e democratici), ma la Russia e la Cina sanno perfettamente che se è vero che occorre bastonare il cane che affoga, è meglio anche essere molto prudenti con la tigre ferita e daranno poche possibilità ai crazy freaks di scatenare la loro pazzia.

Vediamo alcuni fatti “culturali” (cioè non relativi al cuore della crisi sistemica) che spiegano le difficoltà statunitensi.


Fatto 1. Gli Usa sono nel pieno del fenomeno detto di “sovradimensionamento strategico” che è  stato un elemento chiave costante nel crollo degli imperi: per mantenere le stesse posizioni devo ampliare sempre più il campo di intervento [13]. È un paradosso che io chiamo paradosso di Alice (che doveva correre sempre più velocemente per rimanere almeno ferma), che si combina con la crisi economica, con la conseguente finanziarizzazione che non è altro che la costruzione di un immane colosso dai piedi di argilla pronto a crollare, e con l'emergere di potenti competitor internazionali che non fanno crollare il colosso d'argilla in parte perché ne rimarrebbero coinvolti economicamente, ma più che altro perché temono le conseguenze telluriche politiche e militari di un tale crollo, se fosse subitaneo e incontrollato.

Qualche osservatore rintronato, volendo applicare agli altri gli schemi mentali e politici americani, sostiene che la Russia vorrebbe che il Rublo sostituisse in Dollaro come valuta internazionale e la Cina il suo Yuan. Scemenza. Russia e Cina non hanno assolutamente voglia di sostituire gli USA come guardiani del mondo né vogliono che la loro valuta nazionale diventi la moneta di scambio internazionale. Stanno ben vedendo come sta andando a finire in America e non vogliono ripetere gli stessi errori [14].


Fatto 2. Il sovradimensionamento strategico fa sì che gli “interessi nazionali” siano spinti, sia geograficamente sia idealmente, in periferie sempre più lontane. Il risultato è combattere guerre con soldati che non capiscono assolutamente perché vanno ad ammazzare e a morire chissà dove e con dietro una nazione che fa altrettanto. Soldati che si trovano, vuoi in Afghanistan, vuoi in Iraq, vuoi in Somalia o altrove nel mondo, solo perché la loro alternativa di vita in America era diventare poliziotti o criminali (o solo per avere la cittadinanza). Di fronte si trovano invece combattenti che, tanto per iniziare, combattono nel proprio Paese e che spesso oltre che da un motivo nazionale sono mossi da forti motivazioni ideali (che ci possano piacere è un altro discorso). Ad essi non si contrappongono combattenti statunitensi con forti motivazioni contrapposte (quelli che le hanno sono un'esigua minoranza) bensì persone che dentro di sé hanno il vuoto e la paura e spesso la cognizione dell'inutilità o a volte anche dell'immortalità di quel che fanno.

Anche per questo motivo gli Usa non vincono più una guerra dal 1945, benché abbiano costantemente tentato di replicare il clima di mobilitazione ideale della II Guerra Mondiale dando del “dittatore sanguinario” o del “nuovo Hitler” a ogni loro avversario, chiunque fosse. Al massimo possono vincere nazioni disarmate, come Panama. O, per l'appunto, far stragi di civili.


Fatto 3. Alcuni commentatori affermano che a differenza della Gran Bretagna, gli USA non hanno i mezzi culturali, le capacità politiche e le abilità diplomatiche per mantenere un impero.

Sono d'accordo, molto d'accordo, e per i motivi che seguono.

Gli Stati Uniti nascono grandi e grossi. Non sono una piccola isola con pochi abitanti che ha necessità di espandersi ma deve fare i conti con risorse limitate e che quindi mobilita abilità e intelligenza più ancora che forza militare. Come avrebbe fatto la Gran Bretagna a soggiogare per tutto quel tempo un'India con 400 milioni di abitanti usando solo 84.000 soldati britannici al massimo?

Si pensi all'ossessione britannica per la conoscenza, fin nei minimi particolari, delle regioni che occupava. Sentite ad esempio cosa dichiarava Lord Curzon, alla Camera dei Lord il 27 settembre 1909:

La nostra familiarità non solo con le lingue dei popoli dell’Est, ma anche con i loro costumi, i loro sentimenti e le loro tradizioni, la loro storia e le loro religioni, insomma la nostra capacità di comprendere ciò che può essere chiamato “il genio dell’Est”, è il solo fondamento in base al quale possiamo sperare di mantenere in futuro la posizione che ci siamo conquistata”. 

E nel 1914 alla Mansion House ribadiva che gli studi orientali non erano un lusso intellettuale bensì “un grande obbligo imperiale. E’ mia opinione che la creazione di una scuola di questo tipo a Londra [cioè di studi orientali ]debba far parte dell’indispensabile attrezzatura per il governo dell’Impero.”

E infatti questa scuola fu fondata e divenne la London University School of Oriental and African Studies.

Che altro sostiene il magnifico saggio di Edward Said “Orientalismo”? Proprio questo, cioè  l'importanza cruciale della, diciamo così, conquista cognitiva del mondo da parte britannica. La Gran Bretagna non poteva affidarsi esclusivamente o prevalentemente alla forza bruta.

Gli USA invece sì. Nascevano grandi, forti, spregiudicati (sterminio dei nativi), protetti dalla geografia e con l'obiettivo che la loro grandezza doveva contrapporsi a quella dell'Impero Britannico (visto per decenni, dopo la Guerra di Secessione che servì a sbarazzarsi delle forze filo-britanniche, come il principale avversario). 

E così, nel 1926 l'agente segreto britannico Gertrude Bell fece nascere quel Museo Nazionale di Baghdad che nel 2003 sarà saccheggiato e bruciato sotto gli occhi complici dagli statunitensi [15]. 

Basterebbe anche solo questo per dimostrare che, sì, in effetti gli USA non hanno i mezzi culturali per mantenere un impero.

E non hanno quelli diplomatici, essendo la loro diplomazia basata sulle minacce e la corruzione (le raffinatezze usate dall'agente segreto - e archeologo esperto di Vicino Oriente - Thomas Edward Lawrence nella Rivolta Araba, se le potevano solo sognare).

Non c'è partita per il povero Tony Blinken contro Wang Yi o Sergej Lavrov.



La foto choc dei fuggitivi caduti dall'aereo  




5. Il caos di Kabul e l'impossibile “afganizzazione” della guerra

Il caos che si è creato nei giorni di fine agosto all'aeroporto di Kabul è dovuto a diversi fattori. Intanto si tenga conto che a Kabul i Talebani, come si è già detto, avevano da tempo infiltrato cellule in sonno. Ma queste cellule non avevano ricevuto l'ordine di attaccare. Il problema è che il governo fantoccio, le sue forze di sicurezza e il suo esercito si sono sciolti come neve al sole a una velocità sorprendente, sì che si è creato un vuoto di potere, amministrativo e d'ordine, che a quel punto poteva essere riempito solo dai Talebani. E così è stato. E questo ha completamente spiazzato i tempi e le modalità di evacuazione previsti da Washington e dalla Nato. Tempi per altro già stretti: si pensi che l'evacuazione dell'Unione Sovietica avvenne in 18 mesi.

E qui è utile un excursus. Le forze militari addestrate ed armate dalla combriccola USA-NATO hanno il vizio di collassare. Successe dopo la “vietnamizzazione” del conflitto nel Sudest asiatico agli inizi degli anni Settanta. Ci vollero circa cinque anni, perché l'intervento statunitense e alleato era stato mastodontico, ma infine i proxy vietnamiti del Pentagono crollarono.  Invece nell'agosto del 2008 in Georgia l'esercito para-NATO (e coadiuvato da Israele) crollò in un batter d'occhio. L'impero era convinto di aver costruito in quel Paese una forza militare coriacea. Così la mandò a provocare la Russia in Ossezia del Sud, nel Caucaso. Benché in quel momento fosse sommersa da problemi, la Russia sconfisse l'escrescenza georgiana della NATO in tre giorni, fermandosi davanti alla capitale georgiana, Tbilisi, solo per convenienza politica. E qualsiasi generale NATO serio vi dirà che ogni attacco convenzionale occidentale alla Russia verrebbe fermato catastroficamente sulla linea di confine (mentre secondo uno studio di Princeton una guerra non convenzionale anche limitata - cioè solo con attacchi nucleari tattici - causerebbe in Europa più di 85 milioni di morti in soli 45 minuti). 


6. E il futuro? Si vede poco, bisogna che la nebbia si diradi

L'isteria occidentale per l'Afghanistan trainata dai media sta man mano scemando e tra poco cesserà, a  meno di eventi eclatanti. Riemergerà a tratti per un fatto di sangue, per qualche episodio di repressione brutale e di intolleranza, per qualche scontro nel Panshir, per i profughi. O magari per qualche episodio di terrorismo. Ma il ritiro dall'Afghanistan, voluto da Obama, avviato da Trump e conclusosi con Biden, è stata una decisione strategica degli USA e quindi anche in Europa calerà un sostanziale silenzio. Era ovvio che finiva così. Parimenti la “brutta figura” di Biden alla fine verrà dimenticata. C'è chi sostiene di no, ma io penso proprio di sì, tenuto conto che gli elettori statunitensi tradizionalmente non votano sulla politica estera che a loro interessa solo nei suoi risvolti ed effetti interni. Uscire dall'inutile pantano afgano era infatti una priorità di politica interna e lo è stato, per l'appunto, prima per Obama, poi per Trump e infine per Biden. Ovviamente i tempi li ha dettati il Pentagono.

Rimane da vedere come gli USA gestiranno questa congiuntura. Abbiamo visto più sopra le teste di ponte che essi mantengono in Afghanistan. Probabilmente cercheranno di esternalizzare agli UK la gestione della patata bollente che hanno cucinato e tramite gli UK alla Russia e alla Cina. Già ci sono state le avance britanniche verso queste due potenze che per ora hanno fatto orecchie da mercante.

Cina e Russia sono infatti molto guardinghe. Temono, a ragione, che il piano statunitense sia propagare il caos afgano agli stati ex sovietici, alla Russia stessa, alla regione del Xinjiang-Uiguri cinese e all'Iran. 

La Russia punta quindi a rinforzare i già stretti legami con Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran. Intense consultazioni tra questi attori si sono e si stanno svolgendo e la Russia ha già annunciato che rafforzerà la difesa di questi Paesi. Ciò che stupisce è che questo rafforzamento della Russia nella strategica Asia Centrale (così strategica che fu l'obiettivo principale degli USA dal 2000 in poi), avviene senza che Washington batta ciglio, almeno apparentemente.

I Cinesi dal canto loro immaginano che nei patti concordati con Washington si richiede che i Talebani facciano da argine in qualche modo alla Belt and Road Initiative (BRI), cioè alla nuova Via della Seta. I Cinesi però sanno aspettare e hanno dalla loro la più forte economia del mondo. Anche per loro per adesso la priorità principale è la sicurezza. 

In realtà i Talebani si sono recentemente detti entusiasti per la BRI. Ma sarà vero? E' solo una minaccia per negoziare termini migliori con gli USA? Vedremo. Io oggi non ne ho idea. Vedo solo che gli USA e l'Europa scalpitano per allacciare relazioni diplomatiche ed economiche col nuovo Emirato Islamico. Aspettano che la situazione si stabilizzi e che i dirigenti talebani assicurino almeno a parole il rispetto dei diritti delle donne, anche se non si capisce cosa ciò voglia dire. Vuol dire potersi istruire e lavorare? Poter accedere a cariche governative? Poter non indossare il burqa? Poter fare il bagno in bikini (cosa, sia detto incidentalmente, che è possibile nella Siria di al-Assad, odiatissima dall'Occidente)? Questo più che un problema afgano è un problema di dissimulazione per l'ipocrisia occidentale – vedi i languidi amori con l'ultra reazionaria Casa Saudita. Immagino quanti nelle cancellerie occidentali stanno oggi dicendo: “Come siamo stati fessi. Per due decenni abbiamo detto che occupavamo l'Afghanistan per difendere i diritti delle donne e la democrazia. Ce ne siamo andati via facendo infuriare in Occidente e mettendo in pericolo chi in Afghanistan ci ha creduto. E così ci siamo cuciti addosso da soli inutili ostacoli ideologici ai nostri interessi (che con la democrazia e i diritti delle donne non c'entrano nulla) [16]”.

Per finire, nessun commentatore mainstream ha citato il concomitante ritiro di sistemi di difesa contraerei americani da diversi Paesi arabi, comprendenti l'Arabia Saudita (la più interessata dal ritiro), l'Iraq, il Kuwait e la Giordania.

I motivi? Varie ipotesi. La più meccanica ma meno verosimile è per reimpiegarli contro la Cina (come se gli USA non ce ne avessero altri). Una delle più plausibili è apparecchiare la tavola per nuovi negoziati con l'Iran [17].

In questo caso avremmo l'ampliamento di uno scenario che potrebbe indicare la scelta di una strategia più accomodante da parte di Washington. Una strategia più saggia: impossibile rimanere l'unica superpotenza, si va inesorabilmente verso un mondo multipolare, cerchiamo di guadagnare le migliori posizioni in questo mondo irriconoscibile rispetto a quello uscito dalla II Guerra Mondiale. Una strategia necessariamente piena di contraddizioni, di contorcimenti, di colpi di coda e di effetti imprevisti. Ma l'unica di buon senso.

Dopo tutto, quello che ho chiamato “esaurimento” dell'impero statunitense, non significa collasso verticale degli USA. Sono pur sempre una nazione straordinariamente potente, straordinariamente grande e che occupa una posizione straordinariamente vantaggiosa in termini geopolitici (di fatto sono un'enorme isola, non avendo nemici confinanti, ed è bagnata dai due più grandi oceani commerciali del mondo). E occupa una terra straordinariamente ricca. Basti pensare al Midwest, la distesa di terre arabili contigue più vasta del mondo, solcata dai maggiori fiumi navigabili del mondo, Mississipi e Missouri. 

In una posizione meno favorevole, l'Italia continuò ad avere il maggior PIL pro capite del mondo anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, fino al 1.600, quando fu sorpassata dall'Olanda. 

Io penso che i maggiori problemi per gli USA nasceranno dai loro assetti sociali e politici interni che saranno messi a dura prova dall'esaurimento dell'egemonia globale statunitense, le grandi sacche di una  povertà che è irredimibile nel sistema socio-economico predominante e si è ampliata notevolmente con la pandemia, la frantumazione delle élite dirigenti e degli interessi dominanti che non permette linee politiche omogenee di alcun tipo. Problemi che avranno possibili conseguenze sui rapporti tra i vari Stati federati. Ma è uno scenario tutto da studiare.



Note


[1] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/08/28/bbc-nel-caos-attacco-kabul-molti-uccisi-da-truppe-usa_46b6f0d1-b1e5-4c13-9ec0-8545837331b5.html


[2] https://www.youtube.com/watch?v=nhJB2By61bQ


[3] http://acloserlookonsyria.shoutwiki.com/wiki/Abbey_Gate_massacre


[4] Una delle cose non perdonate a Julian Assange è l'avere in parte scoperchiato questi legami: https://youtu.be/vnWWgKxWvtY


[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Deobandi


[6] https://foreignpolicy.com/2020/11/16/afghanistan-khost-protection-forces-cia-us-pullout-taliban/


[7] https://thecradle.co/Article/investigations/1401

https://www.hrw.org/node/335066/printable/print


[8] https://www.cisda.it/controvento/signori-della-guerra/2243-massoud-ahmad-shan.html

https://foreignpolicy.com/2012/11/23/the-cult-of-massoud/


[9] https://www.aa.com.tr/en/world/russia-expects-peaceful-solution-to-confrontation-in-afghanistans-panjshir/2353558#. 

In realtà altre fonti sostengono che l'ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, stia discutendo coi Talebani qualche forma di autonomia per il Panshir, popolato da Tagiki. Non è fantascienza ipotizzare che i Talebani stiano chiedendo a Mossud jr. di disfarsi in compenso dell'ingerenza CIA e UK, cosa che farebbe sommo piacere anche alla Russia.


[10] https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/14672715.2014.898452?scroll=top&needAccess=true&journalCode=rcra20)


[11] L'alleanza anglosassone in Afghanistan, come in altre parti del mondo, si è macchiata di orrendi crimini. Un esempio è l'addestramento delle forze speciali australiane consistente nell'uccidere a freddo persone inermi: https://www.abc.net.au/news/2020-11-19/afghanistan-war-crimes-report-igadf-paul-brereton-released/12896234

Si veda anche il docimentario di Michael Moore “Farenheit 9/11”: 

https://www.michaelmoore.com/p/watch-fahrenheit-911-live-q-and-a


[12] Anche durante la guerra in Vietnam ci furono colloqui segreti, promossi negli USA da Kissinger, paralleli a quelli ufficiali. Ma la guerra venne decisa sul campo con l'aiuto dell'inizio della crisi sistemica (Nixon shock). La mossa di Kissinger era a tenaglia: da una parte convincere Hanoi a un compromesso, dall'altro convincere Russia e Cina a indebolire gli aiuti al Vietnam del Nord, cosa, questa, che in parte riuscì ma che non disarmò la volontà di resistenza vietnamita. Durante i negoziati gli scontri salirono persino in intensità e in ampiezza.


[13] Una esposizione delle dinamiche di questo sovradimensionamento lo si trova nel famoso studio Rebuilding America's Defenses del think tank Project for a New American Century:

(https://web.archive.org/web/20021112224032/http://www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf) mentre una sintesi pratica è esposta nella altrettanto famosa intervista di Amy Goodman al generale Wesley Clark: https://www.youtube.com/watch?v=WGkSNAHqpJM. 


[14] Errori che sono stati ampiamente previsti e studiati, vedi i lavori di Triffin e di Hudson, ad esempio. Ne ho discusso in “Al cuore della Terra e ritorno” ma un sunto di ciò che qui ci interessa si trova nella fantastica e frizzante autobiografia di Michael Hudson che ho tradotto col suo permesso e pubblicato in rete e che invito caldamente a leggere perché ne vale proprio la pena:  

https://megachip.globalist.it/pensieri-lunghi/2018/09/30/michael-hudson-vita-e-pensiero-un-autobiografia-2031514.html


[15] https://www.theguardian.com/education/2003/apr/10/highereducation.iraq


[16] La vera preoccupazione della UE sono i profughi. I governanti europei sono allarmati per alcune decine di migliaia di Afgani che dovrebbero venire in Europa, mentre l'Iran già ne ha accolti circa un milione e mezzo ai quali garantisce anche l'istruzione gratuita (probabilmente perché l'Iran è uno “stato canaglia”).


[17] https://geopoliticalfutures.com/withdrawal-from-the-middle-east/ 


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