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lunedì 13 settembre 2021

 DALLA NEP DI LENIN ALLE RIFORME CINESI DEL 1978

Rita di Leo



Se Lenin avesse avuto il tempo di proseguire sulla via della Nep

La storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, dopo avere letto i tre libri di Rita di Leo: in ordine cronologico, L’esperimento profano e Cent’anni dopo. 1917-2017, usciti da Ediesse, e L’età della moneta, pubblicato dal Mulino, non ho potuto fare a meno di pormi la seguente domanda: come sarebbe cambiata la storia dell’Unione Sovietica se Lenin avesse vissuto abbastanza per proseguire l’esperimento avviato con la NEP?

Nei testi appena citati Rita di Leo ricorda in più occasioni come – dal 1918 al 1924 -  il leader bolscevico, con la sua straordinaria capacità di valutare realisticamente le possibilità associate a una situazione storica concreta, si fosse reso conto del fatto che, per usare le parole dell’autrice, “gli uomini del lavoro non erano in grado di gestire i luoghi del lavoro appena conquistati”. Di conseguenza frena con decisione sia lo spontaneismo della base operaia, sia l’estremismo di quei dirigenti del partito che pensavano fosse possibile realizzare dalla notte al giorno la transizione al socialismo (1). Nel contempo, studia una strategia che tenga conto del fatto che gli uomini del capitale, gli “esperti” che fino alla rivoluzione lo avevano gestito per conto dei padroni, una volta eliminati questi ultimi, sono i soli  disporre delle conoscenze necessarie ad assicurare il funzionamento dell’amministrazione del paese. Di conseguenza il lavoro dovrebbe “comprarne” la tecnica, la scienza dell’organizzazione, lo spirito imprenditoriale, in una parola la cultura.

In base a questa visione gli operai, in contrasto con la loro aspirazione a lavorare il meno possibile,  avrebbero dovuto rientrare nelle fabbriche – che molti avevano abbandonato - per rimetterle in funzione, mentre i tecnici, messi fra parentesi i principi dell’egualitarismo, avrebbero dovuto essere invogliati  a continuare a svolgere il proprio ruolo, concedendo loro salari elevati. Ai funzionari di partito sarebbe spettato il compito di controllare tanto i primi che i secondi. Infine ai contadini si sarebbe dovuto concedere di vendere al mercato il sovrappiù prodotto. Ovviamente, perché tutto ciò fosse possibile, occorreva anche che il governo garantisse il funzionamento della macchina amministrativa e dei relativi servizi (comunicazioni, trasporti, educazione, sanità, ecc. ). È chiaro che questo significava riconoscere che il Paese avrebbe dovuto attraversare le fasi del capitalismo industriale, perché l’idea che fosse possibile saltarle era illusoria. In breve, secondo Rita di Leo, Lenin “andava in cerca di una teoria del socialismo che non poteva essere quella classica”, e il suo programma prevedeva in buona sostanza una sorta di “uso bolscevico del capitalismo” (2). Più avanti proverò a ragionare sulla straordinaria somiglianza fra questa svolta dell’ultimo Lenin e la via delle riforme che il governo cinese ha intrapreso dopo il 1978. Per il momento mi limito a seguire l’analisi della di Leo sulla via che l’Unione Sovietica imboccò dopo la sua morte, e sulle conseguenze di lungo termine – fino al crollo dell’89 - che essa ebbe per il sistema.  





L’operaismo di Stalin

Vinta la battaglia per il controllo del partito, Stalin sceglie una strategia diversa da quella studiata dall’ultimo Lenin. Andando contro i luoghi comuni della sovietologia occidentale (anche nelle versioni “di sinistra”), secondo cui le scelte di Stalin sarebbero state inspirate dalla brama di potere e da una personalità crudele e paranoica, l’autrice ci restituisce l’immagine di uno Stalin motivato da una visione utopista e operaista. Utopista in quanto, diversamente da Lenin, è convinto che sia non solo possibile ma necessario passare alla costruzione del socialismo senza transitare da una fase capitalistica. Operaista in quanto il suo obiettivo primario è costruire nel più breve tempo possibile una nuova élite di estrazione proletaria, perché possa sostituire i vecchi quadri intellettuali, non solo quelli appartenenti al regime prerivoluzionario, ma anche gli stessi dirigenti storici del partito bolscevico. 

Alla base di questa impostazione, sostiene di Leo, ci sono anche ragioni biografiche: Stalin è il solo leader bolscevico di estrazione popolare, laddove l’intero gruppo dirigente del partito era di estrazione borghese, motivo per cui ha sempre guardato con diffidenza agli “uomini dei libri”, pensando che fosse pericoloso e sbagliato delegare a costoro il compito di dirigere il paese per conto e nel nome degli “uomini del lavoro”. Il suo punto di vista potrebbe essere sintetizzato con lo slogan lanciato decenni dopo da Mao: “la classe operaia deve dirigere tutto”. Di conseguenza, oltre a mettere in atto un gigantesco sforzo per la formazione di quadri di estrazione proletaria, si procede alla emarginazione degli intellettuali che erano stati alla guida tecnica (gli esperti borghesi) e politica (i vecchi rivoluzionari di professione) del lavoro manuale. Il partito punta ad accumulare conoscenze tecnologiche e scientifiche con le quali sostituire la cultura borghese. Inoltre, dopo che si è entrati nella fase della costruzione del socialismo, le capacità fondamentali non sono più quelle relative allo studio della società e delle sue contraddizioni, bensì quelle che servono a costruire e a far funzionare ponti e canali, fabbriche e dighe, scuole e ospedali. Mentre una quota enorme di risorse tecnologiche, scientifiche e umane va necessariamente impiegata nel difendere l’unica nazione socialista dall’assedio da parte dell’intero mondo capitalista, tutto il resto rappresenta il secondo fronte strategico del conflitto fra socialismo e capitalismo: il primo deve dimostrare di poter competere con il secondo anche sul piano dello sviluppo delle forze produttive. 

In tale contesto diventano più comprensibili, sul piano degli obiettivi se non su quello dei metodi adottati per realizzarli, fenomeni quali la dura repressione nei confronti dei kulaki ( i contadini ricchi) nel corso del processo di collettivizzazione forzata delle campagne, l’emarginazione dei vecchi intellettuali borghesi (attraverso il ricorso sistematico alla “rieducazione” nei campi di lavoro), e la persecuzione dei vecchi dirigenti bolscevichi, che agli occhi della nuova élite appaiono intellettuali “cacadubbi” che, con le loro critiche, mettono in difficoltà il governo (anche se ciò non giustifica le accuse di tradimento e collusione con il nemico esterno, con cui in molti casi si è provveduto a liquidarli). A mano a mano che i vecchi rivoluzionari di professione vengono eliminati, il loro posto viene preso dai “confezionatori di norme”, cioè dai pianificatori, i quali stabiliscono gli obiettivi e li trasmettono ai dirigenti politici che, a loro volta, li trasmettono ai dirigenti economici o amministrativi che devono farli attuare dagli esecutori finali.  

Gli effetti di questa logica si dipanano in due fasi distinte, prima e dopo la morte di Stalin. Partiamo dalla prima. La classe operaia russa, al momento della rivoluzione, era numericamente esigua, ma cresce in conseguenza del processo di industrializzazione forzata, concentrato soprattutto nel settore dell’industria pesante, determinante sia ai fini militari, sia per la creazione delle infrastrutture della nuova Russia.  In conseguenza di questo processo, i nuovi operai (contadini inurbati, ex artigiani e soldati) diventano per il partito lo strato sociale di riferimento, assai più della preesistente classe operaia (un’aristocrazia del lavoro che in diverse circostanze era entrata in conflitto con la élite bolscevica). Questa nuova classe, dalla quale vengono selezionati in quadri che dovranno gestire il potere, è fatta di operai che vogliono lavorare il meno possibile e controllare il processo di estrazione del proprio plusvalore. Nasce così una “autonomia operaia” che impone le proprie esigenze ai capi brigata e ai capi reparto che, mentre dovrebbero imporre l’esecuzione degli obiettivi del piano, si arrabattano mediando con le resistenze della base attraverso aggiustamenti ad personam. 

È per questo motivo che nel paese si sviluppano – e divaricano progressivamente gli uni dagli altri - due distinti piani di produzione: quello ufficiale descritto dagli obiettivi del piano, e quello informale, realizzato attraverso i compromessi tra coloro che devono fare eseguire le norme e coloro che devono metterle in pratica. Non ci si lasci ingannare dai successi dell’industrializzazione nei primi decenni del regime sovietico e/o dall’esaltazione degli “eroi del lavoro”, ammonisce la Di Leo: la verità è che nelle fabbriche si lavora poco e male, soprattutto perché la resistenza operaia rallenta, o addirittura impedisce, la sostituzione della forza lavoro con le macchine, per cui il lavoro di tipo artigianale resta al centro del mondo industriale. Al punto che, secondo l’autrice, negli anni Settanta, le nuove fabbriche funzionavano ancora come quelle degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. 

Nel frattempo un’altra contraddizione socioeconomica viene a sommarsi a questo scollamento fra paese ideale e paese reale: i successi dell’industrializzazione alimentano crescenti aspettative popolari in merito alla fine dello stato di eccezione e all’aumento del tenore di vita, ma queste aspettative vengono frustrate dalla strategia diseguale fra produzione di beni di consumo e produzione di mezzi di produzione, in quanto l’esigenza di proteggere l’Unione Sovietica dalla minaccia dei paesi capitalisti impone di privilegiare i secondi a spese dei primi, per cui i livelli dei consumi crescono assai lentamente, o addirittura ristagnano. 





Verso il crollo

Questi problemi, cui forse si sarebbe potuto trovare soluzione fino agli anni precedenti e immediatamente successivi alla II Guerra mondiale, si aggravano pesantemente, tano  da divenire irreversibili, dopo la morte di Stalin. Anche nell’analizzare questa ulteriore fase, Rita di Leo si discosta nettamente dai luoghi comuni della sovietologia ufficiale che impera nelle università occidentali. Non bisogna farsi ingannare dalla virulenza delle critiche ideologiche allo stalinismo successive al XX congresso del PCUS, scrive, perché, al netto delle accuse strumentali con cui si celebra la liquidazione di ciò che resta della vecchia guardia bolscevica, le nuove élite politiche – da Kruscev a Brezhnev – sono fatte di figure che, anche sul piano biografico, incarnano la promozione del proletariato a classe dirigente voluta da Stalin. Costoro aggiungono tuttavia ingredienti del tutto nuovi – e destinati a produrre effetti disastrosi – alla vecchia ricetta con cui si era fino ad allora governato il paese. 

In primo luogo, l’idea secondo cui fare politica si riduce in sostanza a realizzare il piano viene condotta alle estreme conseguenze: dal momento che la sfida con il capitalismo dev’essere vinta anche se non soprattutto sul piano economico, viene a cadere progressivamente il principio secondo cui la politica deve stare al posto di comando e, benché il partito non rinunci formalmente al primato, la macchina statale si autonomizza progressivamente dal suo controllo, come dimostra il fatto che ai funzionari viene data la possibilità di fare la propria carriera interamente nei rispettivi ambiti professionali. Ancora: il paradosso dei decenni precedenti, in ragione del quale, da un lato la paura dell’URSS aveva indotto i paesi capitalisti a coltivare il welfare e l’economia del benessere, dall’altro lato la paura del boom capitalistico e dell’accerchiamento aveva spinto l’URSS a consolidare il settore strategico-militare a scapito degli altri comparti dell’economia, si acuisce e diviene stridente a mano a mano che la corsa agli armamenti accelera (armi nucleari, missili, gara spaziale, sottomarini atomici, ecc.) e richiede risorse sempre più ingenti. 

Nel contempo le aspirazioni popolari, a mano a mano che cresce la distanza fra partito e masse (distanza occultata da una narrazione ufficiale che parla di partito e stato di tutto il popolo, di socialismo realizzato, ecc.), vengono sempre più assumendo la forma di concreti interessi individuali: “un buon lavoro, un appartamento e non una stanza in un appartamento comune, beni di consumo per la massa”, aspirazioni che il potere non traduce in programma politico. A venire incontro a queste esigenze ed aspettative di una società che sviluppa una propria vita autonoma, indipendente dalle autorità formali, è un’economia ombra fondata sulla diffusione di denaro guadagnato in nero, un’economia che ha le proprie gerarchie, le quali appaiono sempre più simili a quelle dei paesi capitalisti. Il lavoratore sovietico si distingue sempre meno dall’individuo consumatore occidentale. Negli ultimi anni del regime, scrive l’autrice, “Operai e tecnici lavoravano per gli uomini della moneta in terra sovietica. Essi erano ricomparsi perché erano più utili degli uomini del piano, rimasti intrappolati nella scelta degli anni trenta per cui il compito primario era battere il capitalismo sul suo terreno”.  Così si spiega la rapidità con la quale, dopo che Gorbachov e Eltsin hanno sottoscritto la vergognosa capitolazione di fronte al mondo capitalista, sono spuntati come funghi gli “uomini del capitale”, i quali atro non erano se non gli ex direttori dei kombinat di stato, i mediatori di affari in nero, i segretari regionali di partito, ecc. tutta gente che già da tempo aveva assunto la gestione dell’economia informale che cresceva come un cancro dietro la facciata di un paese che ancora si dichiarava socialista. 





Il tradimento dei chierici

Torniamo all’interrogativo iniziale: avrebbe potuto andare diversamente se Lenin avesse avuto il tempo di mettere in atto il suo progetto di “uso bolscevico del capitalismo”? La storia avrebbe potuto assistere, con mezzo secolo abbondante di anticipo, a un evento paragonabile al trionfo del socialismo in stile cinese? Prima di azzardare una risposta, vale la pena di esaminare un altro aspetto dell’analisi che Rita di Leo dedica all’esperimento sovietico, un aspetto che abbiamo sin qui tenuto da parte in quanto si tratta di un livello autonomo - ancorché altrettanto importante – rispetto al livello socioeconomico: mi riferisco al ruolo degli strati intellettuali in tutta la vicenda. 

Ovviamente l’analisi deve partire dal 1917. L’élite forgiata dalla rivoluzione era composta quasi esclusivamente di rivoluzionari di professione, che di Leo descrive così: “l’intellettuale che lascia il nido lo fa sospinto dall’impegno illuminista di stare combattendo per migliorare lo stato di cose presenti e cioè dal fervore morale e religioso verso gli ultimi, ma soprattutto nella certezza di aver scelto il futuro contro il passato”. Il passaggio è significativo soprattutto per l’accenno al fervore morale e religioso e per la convinzione di costruire il futuro (non solo del proletariato russo ma dell’umanità intera, è il caso di aggiungere), elementi che ritroviamo nel fervore utopistico di un filosofo come Ernst Bloch (3). Per realizzare questo sogno profetico, scrive l’autrice, i bolscevichi ricorrono a una sorta di stato di eccezione permanente e applicano rigorosamente il principio della contrapposizione amico/nemico per annientare la resistenza del nemico di classe. Il partito dei politici di professione accentra la responsabilità di tutte le istituzioni – politiche, amministrative, governative – e le sue ragioni devono prevalere su qualsiasi altra esigenza (la politica al posto di comando, per dirla con Mao). Il tutto nel quadro di una visione etico/razionale dei rapporti sociali che si oppone a quella economica. 

In questo stadio primordiale dell’esperimento si è ancora convinti che, per cambiare il mondo, basti trasferire il plusvalore dai padroni ai produttori. Già nelle primissime fasi di vita del regime, tuttavia, emergono difficoltà tali da indurre Lenin – come si è visto – a imporre una netta inversione di rotta, liquidando le concezioni “infantili” del socialismo e avviando una riflessione sulla necessità di una transizione lunga. Nelle pagine precedenti si è descritto come la guerra di classe scatenata da Stalin contro contadini ricchi, tecnici, manager, funzionari e intellettuali del vecchio regime colpisca anche molti dei politici di professione che avevano guidato la rivoluzione, sostituendoli con quadri di origine proletaria, espressione della nuova classe operaia generata dal processo di industrializzazione. Per effetto di questa svolta, lo status sociale degli strati intellettuali precipita al di sotto di quello dei lavoratori manuali, sia sul piano salariale, sia in termini di condizioni generali di vita (abitazioni, ecc.).  Ad eccezione di coloro che riescono ad emergere nella competizione per ottenere il ruolo di consulenti del potere, tutti gli altri, scrive la Di Leo,  si ritengono vittime sacrificali di un regime che considera improduttivo il loro lavoro, ed accumulano un risentimento feroce nei confronti di operai, contadini e funzionari di partito di estrazione popolare. È per questo, argomenta l’autrice, che svolgeranno un ruolo strategico, sia all’interno che all’esterno del paese, nella demonizzazione ideologica dell’esperimento sovietico. 

A mano a mano che i loro libri escono dall’URSS e iniziano a circolare nel mondo occidentale, diventano l’arma letale dell’ideologia anticomunista. Quando poi alcuni di essi riescono a uscire dal paese e divengono esuli in occidente, assurgono immediatamente agli onori della cultura e della cronaca letteraria e mediatica, raccontando esattamente gli orrori che vuole sentirsi raccontare una società borghese nei confronti della quale provano una profonda riconoscenza, nella misura in cui ha loro restituito lo status che pensano di meritare. La loro furia antisocialista contamina progressivamente quei loro omologhi occidentali che, fino a poco tempo prima, erano entusiasti sostenitori dell’URSS. Il numero dei “pentiti” aumenta rapidamente nelle fila di questi ultimi dopo il XX Congresso del PCUS e dopo la rivolta ungherese e, anche chi non si pente e resta nei ranghi delle sinistre, tende a prendere distanza dai “vizi” del potere sovietico, denunciando la trasformazione del partito in apparato di potere burocratico, la mancanza di libertà individuali e l’incapacità di garantire condizioni di vita dignitose alle masse. 

Negli anni Settanta il processo di separazione fra marxismo occidentale e marxismo orientale (4) può dirsi compiuto: mentre le destre continuano a considerare l’Unione Sovietica una potenza anticapitalistica e antiborghese, contro la quale lotteranno senza quartiere fino a ottenerne la sconfitta, le sinistre moderate parlano apertamente di fallimento dell’esperimento socialista in Russia (il PCI arriverà a dichiarare di sentirsi protetto dalla minaccia del Patto di Varsavia grazie all’adesione dell’Italia alla Nato), e le sinistre radicali rincarano la dose contrapponendo al “socialismo reale” il ”vero” socialismo, vale a dire il socialismo ideale vagheggiato dagli intellettuali utopisti del 17 (e liquidato da Lenin come estremismo, sintomo della malattia infantile del comunismo). 

Per queste sinistre libertarie, eredi del 68, il fatto stesso che il partito bolscevico si sia fatto stato equivale ad avere rinnegato l’eredità di Marx, per cui il crollo del socialismo reale nell’89 viene celebrato entusiasticamente, come un evento positivo. Salvo dover prendere atto, nel giro di pochi anni, che quell’evento ha aperto le porte, in Occidente, al trionfo del liberal liberismo e alla più tragica sconfitta del proletariato dall’800 a oggi, in Russia alla restaurazione di un capitalismo selvaggio che consente agli intellettuali di prendersi la rivincita sul lavoro produttivo, precipitandolo in fondo alla scala sociale e ricacciandolo a condizioni non molto migliori di quelle precedenti alla rivoluzione del 17. Così il tradimento dei chierici si somma alle contraddizioni interne al sistema. 


La via cinese

Ma torniamo al dubbio da cui siamo partiti. È ovvio che chiedersi se la Russia, nel caso Lenin avesse potuto sviluppare a fondo l’esperimento della Nep, avrebbe subito un’evoluzione simile a quella della Cina di oggi è un espediente retorico. Non solo perché la storia, come già ribadito, non si fa con i se e con i ma, ma anche perché i due contesti storici differiscono profondamente. La Cina del 49 non era accerchiata come la Russia dei primi anni Venti, proprio perché poteva contare sull’appoggio politico, economico e militare dell’URSS; inoltre nel suo caso la rivoluzione aveva connotati ancora più spiccatamente contadini (l’intera classe operaia cinese è stata letteralmente costruita dalle politiche economiche post rivoluzionarie); per tacere del fatto che le dimensioni demografiche, le tradizioni culturali, la collocazione geografica, la conformazione dei territori, ecc. dei due paesi sono radicalmente diverse. La vera domanda è quindi la seguente: la strategia di Lenin sarebbe servita solo ad anticipare/ accelerare la restaurazione del capitalismo in Russia come, secondo i critici di sinistra, sta avvenendo in Cina a partire dalle riforme del 78? Che poi equivale a domandarsi: la Cina di oggi è ancora un paese socialista?     

Prendo le mosse da un  dato di fatto che ho già richiamato in varie occasioni: in tutta la storia non si è mai verificata una rivoluzione socialista in un Paese industriale avanzato: in tutti i casi (Russia, Cina, Cuba, Vietnam, ecc.) si è trattato, per dirla con Gramsci, di “rivoluzioni contro il Capitale”, visto che si sono svolte in Paesi economicamente arretrati e hanno avuto come protagoniste soprattutto le masse contadine, alleate con settori di piccola borghesia urbana ed esigui nuclei di classe operaia in  formazione.  Questo, se si accetta il principio leninista secondo cui il capitalismo si attacca a partire dall’anello più debole della catena, non dovrebbe costituire un problema. Chi viceversa identifica nella classe operaia l’unico Soggetto rivoluzionario, dovrebbe riconoscere che a esercitare tale ruolo sono stati quei partiti comunisti che ne hanno incarnato il presunto “destino” storico. Trozkisti, operaisti e socialdemocratici, che non sono disponibili a riconoscerlo, negano di conseguenza il carattere socialista di queste rivoluzioni, e ne attribuiscano il presunto fallimento al fatto che sono avvenute in Paesi economicamente arretrati, e/o al fatto che sono rimaste confinate in un solo paese.  


Tuttavia non solo chi appartiene a queste correnti ideologiche nutre dubbi sulla natura del sistema cinese. Le posizioni più critiche parlano apertamente di restaurazione del capitalismo (5); altri usano il termine capitalismo di stato, ma aggiungono che il persistere del conflitto di classe all’interno del paese fa sì che il suo futuro possa evolvere in diverse direzioni (6); altri ancora preferiscono ricorrere alla definizione di economia socialista di mercato o socialismo di mercato (7); mentre Arrighi lo inquadra in una prospettiva di lungo periodo che prevede una radicale ridefinizione degli equilibri economici e  geopolitici planetari (8). 


Personalmente ho condiviso a lungo la definizione di capitalismo di stato, finché mi sono reso conto si tratta di un termine che vuol dire tutto e niente: che tipo di capitalismo? Che tipo di stato? A confermare l’ambivalenza basterebbero le parole con cui Lenin ebbe a replicare a chi criticava la Nep: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano“ (9). Ovviamente c’è chi replica che si è trattava comunque del primo passo verso la reintroduzione del capitalismo, ma le cose stanno davvero così o la questione è più complicata? 


Nel caso della Cina c’è chi ritiene che il processo degenerativo sia iniziato già alla fine degli anni Cinquanta, con la formazione di un gruppo burocratico che  avrebbe assunto il controllo sul partito per accrescere il proprio potere piuttosto che servire gli interessi del popolo. Costoro avrebbero sabotato gli sforzi di Mao per accelerare la transizione al socialismo attraverso l’istituzione delle comuni e il Grande Balzo in avanti, determinandone il fallimento. È per vincere questo ostruzionismo che Mao avrebbe lanciato la Rivoluzione culturale, ed è in seguito al fallimento di quest’ultima che, secondo questa narrativa, si sono create le condizioni per la svolta del 1978 risoltasi con la definitiva restaurazione del capitalismo. 


Che le riforme abbiano reintrodotto elementi di capitalismo in Cina è un dato di fatto: abbandono delle comuni popolari (anche se la terra è stata privatizzata solo in minima parte); autonomizzazione delle imprese di stato (con privatizzazioni di alcuni settori, soprattutto quelli dediti alla produzione di beni di consumo) nelle quali vengono introdotti criteri di gestione manageriali; decentramento e specializzazione del sistema bancario (che resta però in larga misura sotto controllo statale); allentamento del monopolio statale sul commercio estero, ma soprattutto istituzione di quelle zone speciali che hanno spalancato le porte a massicci investimenti di capitali stranieri. Né sono contestabili gli effetti sociali di tale svolta: aumento delle disuguaglianze, tagli al welfare, esodo di vaste masse contadine e loro inurbazione con pesanti conseguenze ambientali. Tutto ciò è sufficiente per parlare di fine del socialismo? Ma soprattutto: perché il sistema sovietico è crollato quasi di colpo, mentre quello cinese è asceso al rango di grande potenza mondiale? Il suo successo è dovuto alla integrazione nel sistema capitalista mondiale, o è al contrario fondato sul fatto che al suo interno permangono consistenti elementi di socialismo “in stile cinese”? 


In primo luogo, va ricordato che il “miracolo” cinese affonda le radici nell’epoca maoista, che ebbe il merito di effettuare giganteschi investimenti in irrigazioni, industria pesante, trasporti e infrastrutture, oltre a promuovere un enorme incremento dei livelli di educazione e un netto miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione. L’economia cinese era assai più dinamica di quella di altri paesi socialisti già prima della morte di Mao (11) grazie al fatto che non si è allineata al rigido centralismo sovietico, adottando forme più flessibili di pianificazione e lasciando fin dall’inizio margini di sviluppo ai settori governati dal mercato. Uno dei più clamorosi successi di questo stile di governance consiste nell’avere sempre garantito l’accesso alla terra per la vasta maggioranza delle masse contadine (parliamo tuttora di 450 milioni di persone). 





Altrettanto importante il fatto che le riforme siano state graduali e costantemente e controllate dal partito, smentendo le profezie occidentali secondo cui l’ingresso nel WTO ne avrebbe necessariamente scalzato il potere. A tutt’oggi il sistema presenta molteplici forme di proprietà: imprese statali, cooperative,  di proprietà collettiva (né pubblica né privata), imprese di città e di villaggio, mentre alcune imprese nominalmente private (come Huawei) hanno in realtà strutture che le rendono più simili a imprese statali (così come esistono imprese nominalmente statali ma di fatto private). In sintesi: ci troviamo di fronte a un continuum di forme proprietarie che difficilmente può essere inquadrato nelle categorie classiche. Naturalmente le forme proprietarie non sono l’unico criterio per decidere se un sistema sia o meno socialista. La questione di fondo consiste nel valutare se la presenza del mercato sia di per sé in grado di stabilire che un sistema non è socialista, interrogativo cui Arrighi dà una risposta negativa (10) argomentando che si possono aggiungere a volontà elementi di mercato in un sistema sociale ma, se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo. 


Assumendo lo stesso punto di vista, altri autori considerano la Cina come un paese socialista perché mantiene una potente pianificazione ancorché flessibilizzata; è dotata di un esteso sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; la terra resta in larga misura pubblica e garantisce l’accesso ai contadini; è un sistema misto con differenti forme di proprietà; tende a far crescere più rapidamente i redditi da lavoro rispetto ad altre fonti di reddito; ricerca sistematicamente la pace e rapporti equilibrati con altri popoli. Questi argomenti mi sembrano convincenti, così come mi sembra convincente il fatto che gli 850 milioni di poveri del periodo pre riforme siano scesi a 14 milioni, e che i 30 milioni di disoccupati creati dalla crisi del 2008 ha generato siano stati riassorbiti in  poco più di un anno (11). E ancora: la Cina sta rapidamente evolvendo da un modello fondato sulle esportazioni verso un sistema autocentrato, fondato sullo sviluppo della domanda interna che cresce sia grazie all’aumento dei salari , sia ai colossali piani di investimenti infrastrutturali all’interno e all’esterno del Paese (vedi il progetto della Via della Seta e la crescente penetrazione nei mercati africani e centroasxatici). Infine si avvia a divenire a ritmi accelerati un colosso nei settori dell’High Tech e della IA. 


Concludo ricordando che i comunisti cinesi insistono nell’affermare che la costruzione del socialismo va concepita come un processo secolare caratterizzato da avanzate e ritirate, del quale non è mai garantito il successo definitivo. Per capire questo punto di vista occorre tenere conto della dismisura geografica e demografica e della storia millenaria della Cina. Fattori che fanno sì che, nel suo caso, il progetto di sganciamento (delinking) dall’economia capitalista globale, proposto da Samir Amin (12), potrebbe essere qualcosa di più di un sogno utopistico. Tutto ciò fa sì che la Cina, pur non essendo un modello che noi si possa imitare, ci offra nondimeno alcuni insegnamenti fondamentali: dalla consapevolezza che il socialismo assumerà forme necessariamente diverse e peculiari nei diversi contesti geografici, storici e culturali, alla necessità di rimpiazzare il mito del comunismo come paradiso in terra con il concetto di “socialismo possibile”, cui ho accennato in lavori precedenti (13) e che mi propongo di sviluppare ulteriormente in scritti futuri. 



Postilla elettorale 

Visto che questo non è un lavoro accademico, bensì un post del mio blog, mi permetto di aggiungere questa postilla elettorale. Da quando ho accettato la proposta di presentarmi alle prossime elezioni milanesi come capolista del Partito Comunista guidato da Marco Rizzo, ho ricevuto più accuse di “rossobrunismo” di quanto già non mi capitasse dopo aver pubblicato i miei ultimi libri. Ciò dipende dal fatto che questo partito non è allineato sui luoghi comuni di quella sinistra “politicamente corretta” che considera come un museo degli orrori la storia dell’esperimento sovietico, e come un paese imperialista e totalitario la Cina comunista, mettendola sullo stesso piano degli Stati Uniti. Per parte mia ho scelto il PC proprio perché, al contrario di altre formazioni che si definiscono comuniste, rifiuta di allinearsi a questi luoghi comuni che portano acqua al mulino del pensiero unico liberale.  


Note    


(1) Cfr. V. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, edizioni Lotta Comunista, 2005.

(2) Sull’uso di rapporti di produzione di tipo capitalistico da parte di un paese socialista, vedi più avanti la parte di questo testo dedicata alle riforme cinesi. Sulla prudenza e sulla lentezza con cui avanzare sulla via del socialismo, e sulla necessità di servirsi delle conoscenze “borghesi” per ricostruire uno stato in grado di funzionare decentemente, vedi il famoso articolo di Lenin “Meglio meno ma meglio” (1923) scaricabile all’indirizzo https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm 

(3) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine 2019.

(4) Cfr. D. Losurdo Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(5) Cfr. M. Gaulard, Karl Marx à Pékin. Les recines de la crisi en Chine capitaliste, Demopolis, Paris 2014; vedi anche Minqi Li, The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, Pluto Press, London 2008. 

(6) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986. Vedi anche S. Amin, Classe et Nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015.

(7) Cfr. R. Herrera – Z. Long, La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019; vedi anche Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020

(8) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.  

(9) Citato in Gabriele, op. cit.

(10) Cfr. G. Arrighi, op. cit.

(11) Anche David Harvey, che pure non è particolarmente tenero nei confronti del regime cinese, valorizza questi dati nel suo ultimo lavoro: cfr. The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.

(12) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, op. cit.

(13) Vedi, in particolare, C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi Milano 2019; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 





 

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