Lettori fissi

lunedì 1 marzo 2021

LUCI E OMBRE DI UN SOGNO NEOGIACOBINO

L’assalto al cielo mancato di Podemos


Il libro di Francesco Campolongo e Loris Caruso, Podemos e il populismo di sinistra. dalla protesta al governo (appena uscito per i tipi di Meltemi), è un buon viatico alla comprensione di un fenomeno politico che, agli occhi di molti militanti delle sinistre radicali europee (e anche, mi sembra di poter dire, agli occhi dei due autori) è probabilmente l’unico esempio di esperimento riuscito di populismo di sinistra nel Vecchio Continente. Come i lettori scopriranno, il mio parere è meno ottimista, ma di questo più avanti. Il lavoro di Campolongo e Caruso è un ibrido in cui convivono le caratteristiche del reportage (ospita una robusta massa di dati, notizie e informazioni), della ricerca accademica (molti i riferimenti scientifici, che ritroviamo nella ricca bibliografia finale) e della discussione teorica politicamente impegnata. Per estrarne gli spunti che considero utili all’approfondimento del tema, articolerò la mia esposizione in due parti: nella prima, mi limiterò a sintetizzare il racconto delle origini, della storia e dell’evoluzione di Podemos contenuto nei capitoli dal secondo al settimo compresi; nella seconda discuterò le tesi interpretative degli autori esposte nel primo ottavo e nono capitolo (anche se qualche annotazione critica verrà anticipata nella prima parte, attraverso brevi incisi). Ho scelto questa soluzione perché si presta a evidenziare come l’accurata descrizione del fenomeno Podemos offertaci da Campolongo e Caruso si presti a diverse interpretazioni.


I. Capitoli 2-7. Ovvero: tutto quello che vorreste sapere su Podemos

La nascita ufficiale di Podemos è il 17 gennaio 2014, ma gli incubatori che la hanno preparata, fornendone la “materia prima” diversi anni prima, sono quattro: l’ambiente universitario (in particolare l’Università Complutense di Madrid) da cui provengono tutti i fondatori, una Web Tv che produce La Tuerka (La Vite), un talk show settimanale di successo, i movimenti sociali del 2011-2013 (15M e Mareas) e i rapporti dei fondatori con i populismi latinoamericani di sinistra. La provenienza ideologica è variegata: l’associazione studentesca Contrapoder, di orientamento post operaista/neo autonomo che si inspira al modello italiano delle Tute Bianche (che il leader Pablo Iglesias conosce da vicino, essendosi laureato in Italia dove ha frequentato quegli ambienti politici), militanti comunisti e della sinistra radicale insoddisfatti delle proprie organizzazioni e militanti dei movimenti sociali. Il tema dell’influenza dei modelli latino americani verrà trattato nella seconda parte, dove spiegherò che, a mio avviso, tale influenza è mediata soprattutto dalle teorie dell’argentino Laclau (inspirate dai movimenti peronisti), mentre l’unico Paese “bolivariano” con cui si possano evidenziare concrete analogie è l’Ecuador di Correa (i casi boliviano e venezuelano sono diversi).

Campolongo e Caruso insistono sul ruolo strategico de La Tuerka, sottolineando come Podemos sia stato "il primo partito della sinistra radicale ad avere assunto lo spazio mediatico come contesto che implica un alto grado di professionalizzazione". Prima di formalizzare la propria esistenza, i fondatori parleranno addirittura del progetto di una “televisione-partito” (definizione che al sottoscritto suscita sinistre memorie della conversione in partito della Mediaset). Sarà il successo come protagonista di talk show a fare di Iglesias il leader indiscusso di Podemos, tuttavia, precisano gli autori, se è vero che senza tv Podemos non sarebbe mai potuta nascere, è altrettanto vero che senza il movimento del 15M – che garantisce alla Web Tv un pubblico di massa – Iglesias non sarebbe diventato una star mediatica. Al tempo stesso, è un errore descrivere Podemos come una proiezione politico organizzativa del 15M. Questo movimento presentava infatti caratteri dichiaratamente antipolitici, rifiutando qualsiasi tipo di rappresentanza politicamente organizzata delle proprie istanze, mentre i fondatori di Podemos sono al contrario convinti fautori della “autonomia del politico”: si propongono infatti di costruire, dall’alto e “a tavolino”, una macchina da guerra capace di utilizzare il fermento sociale come carburante di un progetto che sia al tempo stesso maggioritario e di rottura (e questo mi fa scattare un'altra sgradevole associazione: quella con la ossimorica definizione di “maggioranza di lotta e di governo” in uso per i populismi nostrani). Ecco perché il soggetto di riferimento di Podemos (soprattutto nella fase iniziale, più marcatamente populista) non sono le classi popolari ma i cittadini.



Il fatto che la prassi politica di Podemos sia fondata prevalentemente, se non esclusivamente, sulla comunicazione mediatica, si riflette nello scarso impegno diretto sul fronte dell’organizzazione di momenti di mobilitazione (con la significativa eccezione della Marcia del Cambiamento, cui hanno partecipato 300.000 persone). In effetti, tutte le energie del nucleo fondatore sono concentrate sull’obiettivo prioritario di vincere le elezioni politiche per andare al governo (obiettivo che si spera di realizzare già nel 2015), quindi si lavora a costruire una macchina elettorale di cui  si montano i pezzi in funzione (e nel corso) delle scadenze elettorali (da qui la battuta “ci siamo allacciati le scarpe correndo”).  Nelle numerose tornate elettorali spagnole dell’ultimo lustro (dovute all’impossibilità di definire una maggioranza di governo)  i risultati oscilleranno dall’8,4% delle europee del 2014, al 12,9% delle ultime politiche, toccando il massimo nelle politiche del 2016, allorché Podemos supera di poco il 20%. 

A mano a mano che diviene chiaro che il progetto di conquistare da solo la maggioranza è irrealistico, Podemos accetta l’idea di stringere alleanze con altre forze politiche. Così, dopo uno scontro interno fra Pablo Iglesias e l’altro big di Podemos, Inigo Errejon (da sempre favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe) nasce la coalizione con IU (Izquierda Unida). Al tempo stesso, si evita di enfatizzare i contrasti con il Psoe, in vista di un possibile accordo futuro (che si realizzerà solo in tempi recenti) e si insiste nell’accreditare l’immagine di una “rivoluzione tranquilla”, per non spaventare l’elettorato moderato. Dal 2016 in avanti, Iglesias parla esplicitamente di fine del ciclo populista e della necessità di passare “dalla guerra di movimento alla guerra di posizione” (Campolongo e Caruso danno credito a questa svolta “gramsciana”, mentre io, come spiegherò più avanti, nutro fondati dubbi in merito), restituisce al partito connotati esplicitamente di sinistra e riconosce la necessità di affondare radici nel sociale. 

Inigo Errejon

Negli ultimi quattro anni Podemos ha dovuto affrontare due sfide inedite che gli sono costate care: da un lato, lo scoppio della questione catalana (in cui sostiene la difficile posizione: no all’indipendenza, sì a una riforma costituzionale che sancisca la natura plurinazionale e federale dello Stato spagnolo, per cui si troverà presa in mezzo dallo scontro fra nazionalismi contrapposti), dall’altro, l’emergenza di una destra neofranchista che, con la lista di Vox,  raggiunge risultati elettorali a doppia cifra (il che la spingerà a cercare con più insistenza, anche al costo di compromessi, l’alleanza con il Psoe, onde evitare la vittoria delle destre). In questo contesto si sviluppa un estenuante tira e molla con il Psoe (alla cui guida si è nel frattempo reinsediato Sanchez, restituendo al partito una certa caratterizzazione “di sinistra”), che dura a lungo perché il Psoe non vuole “compromettersi” con Podemos, tanto che preferirebbe addirittura allearsi con Ciudadanos (formazione populista con posizioni di destra, sia pure moderate). L’attuale coalizione nasce nel momento in cui Sanchez capisce di non avere alternative, pena regalare il governo alle destre, per cui accetta finalmente l’abbraccio con Podemos, cui concede però solo tre ministeri (di cui due marginali, con poche competenze e scarsa capacità di spesa, annotano Campolongo e Caruso). A seguito della decisione di andare al governo con Sanchez, Podemos deve subire la scissione della sinistra anticapitalista (Errejon era già uscito da destra, dando vita a una propria formazione politica). Dopo questa sintetica cronistoria, seguirò gli autori nella loro ricostruzione: 1) del discorso politico e programmatico del partito; 2) della sua struttura organizzativa; 3) della composizione socio culturale del suo elettorato (tralasciando per motivi di spazio il tema delle strategie comunicative adottate nel corso delle varie campagne elettorali).

Il discorso politico (la “narrazione”) di Podemos evolve nel corso delle due fasi appena descritte, anche se Campolongo e Caruso sottolineano che la sua struttura retorica - fondata sull’opposizione bipolare gente/casta, basso/alto, democrazia/oligarchia, maggioranza/élite, cambiamento/continuità – resta sostanzialmente immutata. La fase populista si ispira rigorosamente al modello teorico di Laclau (ne discuterò nella seconda parte): si tratta di aggregare una serie di domande sociali diffuse ma frammentarie, individuandone un minimo comun denominatore da definire grazie un nucleo simbolico essenziale, nucleo da costruire attraverso il ruolo del leader e le campagne mediatiche. L’obiettivo è ottenere un consenso trasversale sganciato da specifici settori sociali in base a un modello che la sociologia politica definirebbe “partito pigliatutto”. In questa fase Podemos cerca di sbarazzarsi di ogni connotato che lo qualifichi come una nuova formazione “di sinistra”: Iglesias afferma per esempio di voler conquistare anche i voti del Partido Popular, perché “il Paese è pieno di gente decente che vuole il cambiamento e il potere non ha paura della sinistra ma della gente” (sulle implicazione dell’uso del termine gente al posto di popolo tornerò più avanti).

La “gente” in  questione è fatta di giovani, studenti, lavoratori dipendenti autonomi e precari, pensionati, commercianti, piccoli e medi imprenditori, professionisti, artigiani. È la retorica del 99% inaugurata da Occupy Wall Street, per cui non resta fuori nessuno, ad eccezione della casta dei poderosos, dei potenti “che comandano senza presentarsi alle elezioni”, e dei politici che ne rappresentano gli interessi. La narrazione si riappropria di parole chiave come nazione, patria, sovranità, libertà e democrazia (intesa come necessità di ripristinare la matrice originaria della democrazia spagnola, vale a dire i principi sanciti dalla Costituzione del 78, stravolti dalle élite oligarchiche che hanno usurpato il potere). Da notare però che il patriottismo di Podemos (ritagliato sul modello delle rivoluzioni latinoamericane), al pari della rivendicazione della sovranità nazionale e popolare, non arrivano a mettere in questione l’appartenenza all’Unione Europea, restando nei binari dell’europeismo “critico”.

A partire dal 2016, dall’alleanza con IU e dall’affermazione di Iglesias che sancisce la fine della fase populista, il linguaggio subisce una torsione in senso anticapitalista. Si abbandona il termine casta che viene sostituito dal termine trama (un concetto coniato da Manolo Monereo che sintetizza il complesso intreccio fra oligarchie economiche, politiche e mediatiche). Inoltre si passa da un discorso che presenta Podemos come candidato a riparare i guasti della crisi e delle politiche neoliberiste e a colpire la corruzione, più che a inseguire trasformazioni rivoluzionarie, alla definizione di un programma politico che, se non rivoluzionario, è assimilabile a quello di una socialdemocrazia radicale: transizione energetica e nuovo modello produttivo, reindustrializzazione, finanziamenti per la modernizzazione tecnologica, riforma fiscale, costituzione di una banca nazionale interamente pubblica, abolizione dell’articolo costituzionale che sancisce l’obbligo della parità di bilancio. Un programma radicale che continua tuttavia a essere affiancato da una retorica rassicurante che rappresenta Podemos come una forza responsabile e matura, pronta ad assumere ruoli di governo.

Sul piano organizzativo è interessante notare – anche se gli autori non sottolineano tale aspetto – come Podemos, fatte salve le differenze ideologiche, presenti notevoli somiglianze con l’M5S. Pur ereditando dalle sinistre “partecipative” un’ideologia orizzontalista e antigerarchica, la prassi organizzativa di Podemos è di tutt’altro tenore: la forte centralizzazione della leadership resta una costante lungo tutta la storia del partito, mentre l’articolazione territoriale, basata sui circoli, non ha mai svolto un ruolo determinante. In questo senso, mi pare esitano evidenti analogie sia con le “fabbriche di Niki” (che furono accantonate dopo avere contribuito al trionfo elettorale di Vendola) sia con i Meetup grillini (progressivamente scomparsi dall’orizzonte della vita politica dell’M5S). In altre parole, Podemos è un caso tipico di partito leggero e verticale, un modello comune nella fase di personalizzazione e mediatizzazione della politica che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Per iscriversi basta inviare una mail e una copia del documento di identità. Questa scarsa impegnatività ha fatto sì che gli iscritti sfiorino oggi il mezzo milione; si tratta di persone che non sono né attivisti né militanti, per cui rappresentano una fetta di elettorato piuttosto che una “base” classica (Campolongo e Caruso li definiscono “una base estroflessa”, che entra in contatto con i vertici attraverso i media, cioè con una relazione di tipo top down, piuttosto che partecipando alla vita del partito). 

Quanto ai militanti, quelli che una volta venivano definiti quadri intermedi, va detto che costoro hanno ben poche opportunità di “pesare”, visto che i circoli non dispongono di strumenti con cui contribuire alle decisioni interne, le quali vengono prese (o meglio ratificate) attraverso consultazioni basate sulla dimensione comunicativa. Dimensione che attualmente poggia sulla piattaforma Plaza Podemos (un equivalente della piattaforma Rousseau dell’M5S, di cui riproduce la sproporzione fra le centinaia di migliaia di iscritti e le poche migliaia di votanti). L’organo sovrano del partito è l’Assemblea cittadina che elegge gli organi esecutivi, cioè il segretario e il Consiglio cittadino (81 membri). Quest’ultimo nomina a sua volta – su proposta del segretario – un esecutivo di 10-15 membri, che è il gruppo dirigente reale. Malgrado i propositi di democratizzazione enunciati nel corso dell’Assemblea di Vistalegre 2 (2016), questa struttura verticistica non ha subito a tutt’oggi sostanziali modifiche.

Anche la composizione socioculturale dell’elettorato è simile a quella della sinistra radicale (non solo spagnola ma di tutto il mondo occidentale): Podemos offre rappresentanza soprattutto alle esigenze e ai valori delle classi medie colte e in particolare dei loro strati giovanili. Ed è, anche, un partito che raccoglie consenso nei centri urbani assai più che in provincia. Benché Campolongo e Caruso non enfatizzino queste caratteristiche (che sono un fenomeno comune a tutto il mondo occidentale, come hanno messo in luce molti ricercatori  – fra cui Thomas Piketty (1) – e che certificano una inversione sociologica fra elettorati di destra e sinistra) i dati che loro stessi snocciolano parlano da soli: il partito è votato soprattutto da studenti e lavoratori qualificati (con prevalenza degli appartenenti alla “classe creativa”) mentre pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta costantemente indietro rispetto al Psoe. Nel 2016 risulta il più votato nelle classi medio alte e si piazza al secondo posto nella classe media; nel 2019 ottiene il 16,4% dei voti delle classi medio alte e il 14,4% di quelli della nuova classe media; il livello di consenso si abbassa in maniera direttamente proporzionale al livello di istruzione e al calare del numero di abitanti delle città in cui si vota. Per dirla in breve: l’esperimento populista, cioè il progetto originario di costruire una maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale si può dire fallito. Si può invece sostenere che l’obiettivo di dare vita a una sinistra radicale capace di operare efficacemente nel mutato contesto economico, politico, sociale e culturale in cui ci troviamo a vivere dopo decenni di controrivoluzione liberista sia riuscito? A questa domanda io e gli autori diamo risposte diverse, come vado ora a spiegare .


Capitoli 1, 8 e 9. Ovvero: se il nuovo somiglia al vecchio 

Parto da una premessa che mi accomuna ai due autori: se per populismo intendiamo una serie di fenomeni quali la polarizzazione manichea fra quelli di sotto e quelli di sopra, la personalizzazione della leadership, la centralità della comunicazione (e in particolare della comunicazione mediatica), le strutture partitiche leggere, la semplificazione del linguaggio ecc. allora occorre ammettere che populista non è oggi questo o quel partito, né tantomeno una particolare ideologia politica, bensì il campo politico nel suo complesso, che è venuto assumendo tali caratteristiche a seguito delle profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali dell’ultimo mezzo secolo. Nei miei ultimi lavori (2) ho cercato di andare oltre questo livello fenomenico superficiale, avanzando la tesi che il populismo sia la forma che assume il conflitto sociale e politico in un’epoca in cui le classi sociali hanno subito un processo di destrutturazione identitaria. Il passo successivo consiste nel domandarsi se esista un populismo di sinistra e come lo si possa caratterizzare. 

Campolongo e Caruso ricordano che il concetto è emerso in riferimento ai movimenti latinoamericani degli ultimi decenni, il che è corretto dal punto di vista terminologico ma non basta, dal momento che quei movimenti presentano caratteristiche diverse. Dal mio punto di vista, la discriminante decisiva consiste nel capire se esista un progetto rivoluzionario che – lucidamente e consapevolmente – si proponga di attraversare/utilizzare la forma populista del conflitto per proiettarlo verso obiettivi più avanzati, comunque li si voglia definire (post neoliberismo, socialdemocrazia radicale, socialismo). E’ questo il caso di Podemos? Mi pare che Campolongo e Caruso propendano per il sì, e la svolta del 2016, allorché Iglesias dichiara esaurita la fase populista e enuncia obiettivi programmatici più avanzati, sembrerebbe confortarne il giudizio. Io ritengo invece che, malgrado quella svolta, Podemos sia rimasto impigliato in una logica che gli ha impedito di compiere il salto di qualità. Cercherò ora di spiegare perché.

I danni collaterali del comunicazionismo 

Il medium è il messaggio, recitava McLuhan (3), una formula che è stata spesso liquidata come un paradosso vagamente criptico e provocatorio, dal quale si è raramente tentato di estrarre il reale significato. Semplificando drasticamente, si può affermare che il grande studioso canadese voleva dire che le tecnologie di comunicazione non sono “strumenti” neutri che veicolano i contenuti desiderati da chi li maneggia ma, al contrario, condizionano pesantemente, non solo la forma dei messaggi, bensì i loro stessi contenuti. Assumere lo spazio mediatico come terreno strategico della propria prassi politica, al punto di autodefinirsi (vedi sopra) un partito-televisione, è una scelta che ha precise implicazioni a svariati livelli. In primo luogo, vuol dire dare per scontata la dimensione di campagna elettorale permanente che, come osservano Campolongo e Caruso, è strutturalmente associata a una sfera pubblica ipermediatizzata. Questa dimensione non si lascia “usare”, impone scelte precise a chi ne accetta le regole: progressiva atrofia della capacità (e persino della volontà) di elaborare un pensiero strategico; le elezioni come orizzonte prevalente, se non esclusivo, della propria azione politica; deficit organizzativo (se non si investe nei circoli non è tanto e solo frutto di un’ideologia verticistica, ma la conseguenza del fatto che essi sono meno funzionali dei canali mediatici allo scopo di influenzare gli orientamenti dell’elettorato);  il deficit in questione impedisce di acquisire una conoscenza concreta e reale dei soggetti sociali e dei territori, per cui il “gentismo” smette di essere una tattica di comunicazione per ottenere il consenso più ampio possibile, e diventa progressivamente l’unico modo in cui si immagina e ci si rappresenta il proprio referente sociale. Se si evita di enfatizzare la contrapposizione di classe, andando in cerca di forme di identificazione più ampie, non è tanto e solo perché si ritiene che oggi le linee di frattura siano altre, come la contrapposizione fra “i vinti e i vincitori della globalizzazione”, ma perché non si dispone di adeguati strumenti di indagine teorica ed empirica per analizzare la nuova composizione di classe, che la sparizione delle tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale ha reso letteralmente invisibile.

Gramsci a testa in giù

Campolongo e Caruso definiscono gramsciana la cultura politica di Podemos. Dissento. Il pensiero cui essa fa riferimento è quello di un Gramsci “rivisitato” dai dipartimenti di cultural studies e gender studies delle università occidentali (ma anche dagli atenei degli altri continenti in cui si coltivano i post colonial studies) ai quali si deve una vulgata che ha trasformato il fondatore del Partito Comunista Italiano in un soggetto immaginario che avrebbe avuto poco da spartire con il marxismo (per tacere del leninismo). Questa arbitraria trasfigurazione si basa soprattutto sui concetti di egemonia e di senso comune: nelle pagine che Gramsci dedica alla lotta controegemonica per la conquista del senso comune si è infatti voluto vedere, non un riequilibrio fra i concetti di struttura e sovrastruttura, che le versioni meccaniciste del marxismo interpretano nel senso di un determinismo assoluto della prima sulla seconda, bensì il rovesciamento totale del loro rapporto gerarchico. Del resto, per introdurre il principio di autonomia del politico nella cassetta degli attrezzi della teoria marxista, non si era dovuto attendere Gramsci, il quale, non a caso, definì la Rivoluzione d’Ottobre come una rivoluzione contro il Capitale, riferendosi alla “eresia” di Lenin che aveva rinnegato la teoria (prevalente nella II Internazionale) in base alla quale la rivoluzione socialista è possibile solo nei Paesi a capitalismo avanzato, rimpiazzandola con il principio di attacco all’anello più debole della catena, cioè alle condizioni di estrema debolezza di un sistema politico, istituzionale e culturale e non solo di crisi socioeconomica. Quanto al mito di un Marx “economicista”, determinista e cieco nei confronti del peso delle ideologie nel processo storico, questa idiozia è stata definitamente liquidata da un gigante del marxismo come Gyorgy Lukacs (4).


Tornando a Podemos, va precisato che, se Gramsci è diventato un punto di riferimento teorico, lo si deve soprattutto alla rilettura che ne ha fatto il filosofo argentino Ernesto Laclau che, come già ricordato, è l’ispiratore del progetto originario di Podemos. E la visione di Laclau, dopo il suo abbandono del marxismo, è appunto fondata sui paradigmi del pensiero strutturalista e poststrutturalista di cui sopra (cioè sulla “svolta linguistica” delle scienze sociali). Podemos non ha mai avuto uno stato maggiore teorico di peso: Iglesias è un animale politico e uno straordinario comunicatore, non una mente teorica, diversamente da Inigo Errejon, Monedero e Manolo Monereo. Gli ultimi due si sono lateralizzati in fasi diverse della vita del partito (per inciso, Monereo è il solo che avrebbe potuto indurre una vera svolta gramsciana nella cultura di Podemos, ma ha pagato lo scotto di essersi opposto al patto di governo con il Psoe), viceversa Errejon, prima di allontanarsi, ha indubbiamente giocato un ruolo importante come trait d’union fra le teorie di Laclau e la prassi del partito. Per completare questo inciso dovrò compiere altri tre passi: rimarcare la distanza fra i concetti di Laclau e Gramsci, anche laddove apparentemente coincidono; mettere in luce l’arretramento che la visione di Errejon rappresenta rispetto allo stesso Laclau; ridimensionare l’enfasi sulla somiglianza fra movimenti latinoamericani e Podemos. 

Laclau parla di catena equivalenziale, riferendosi alle domande che diversi gruppi sociali rivolgono a un sistema incapace di dare loro risposta e alla possibilità che queste domande possano trovare un minimo comun denominatore, aggregandosi attorno a nucleo simbolico comune, cioè a una domanda che divenga egemone rispetto a tutte le altre, finendo per rappresentarle tutte. La natura di classe dei soggetti che esprimono tali domande è irrilevante (anzi: mettere l’accento sul loro carattere di parte sarebbe di ostacolo alla costruzione del popolo come soggetto politico unitario) e l’egemonia in questione ha un carattere puramente retorico discorsivo. Nulla di simile in Gramsci, che parla semmai di costruzione di un blocco sociale in cui le identità di classe sono decisive (nel senso che la direzione politica del blocco spetta al proletariato e alle sue organizzazioni, che possono accettare mediazioni e compromessi con altre classi, ma senza rinunciare mai ai propri obiettivi strategici) e che, pur concependo a sua volta il contropotere egemonico come lotta per il senso comune, concepisce la retorica nazional popolare come strumento al servizio degli interessi di classe. Detto in altre parole: Gramsci appartiene, piaccia o no, al campo marxista, mentre Laclau appartiene al campo linguistico-strutturale. Naturalmente è sempre possibile “trapiantare” singoli concetti da un campo all’altro, ma solo al prezzo di svuotarli del significato originario. Ciò detto, ho sempre affermato (5) che a Laclau vanno riconosciuti due meriti importanti: 1) l’avere definito il “momento populista” come espressione di una domanda di democrazia radicale rivolta a sistemi politici che non possono più esaudirla; 2) l’avere definito il popolo come il prodotto di una costruzione politica, e non come un’entità fondata su sangue suolo e tradizioni consolidate. 

Secondo passo. Errejon, in  sintonia con l’evoluzione del pensiero di Chantal Mouffe successiva alla morte di Laclau (6) – Errejon e Mouffe sono non a caso legati da un rapporto di e amicizia e stima reciproca (7) -, ha impresso al discorso di Laclau una torsione che ne ha neutralizza il potenziale antisistemico. Se Laclau pensava che gli attuali sistemi liberali non sono in grado di offrire risposta alle domande di democrazia radicale, per cui la contraddizione fra popolo ed élite è antagonista, il duo Errejon Mouffe rivendica viceversa la possibilità di restaurare un contesto liberal democratico in cui queste domande possono trovare risposta. Ne discende che la contraddizione fra popolo ed élite non è più di carattere antagonistico bensì agonistico. Il che alimenta il dubbio che le continue rassicurazioni con cui Podemos rigetta l’accusa di essere una forza antisistema non siano un semplice espediente tattico (vedi più avanti l’accusa rivolta alle élite di essere i “veri” sovversivi).

Laclau e Mouffe


Infine (terzo passo) vengo ai legami con le rivoluzioni bolivariane (che la destra ha sistematicamente sfruttato per accusare Podemos di essere al servizio dei regimi socialisti latinoamericani). Posto che è indubbio che molti dirigenti di Podemos abbiano svolto il ruolo di consulenti per quei governi, esiste un solo Paese con cui possano essere stabilite sostanziali analogie, ed è l’Ecuador di Raphael Correa (8). Come è avvenuto per Podemos, il progetto della Revolucion Ciudadana (vedi più avanti il paragrafo sul “cittadinismo”) è concepito a tavolino da un gruppo di docenti universitari (che lavorano alla Flacso di Quito). Costoro convincono un personaggio pubblico già noto e popolare (Correa è un economista che aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, ed è persona dotata di grande talento comunicativo) a presentarsi alle elezioni presidenziali. Correa vince al primo colpo (ciò che anche Podemos, come si è visto, si era illuso di poter fare). E come Podemos non nasce come prolungamento organizzativo del 15M, allo stesso modo Correa costruisce una sua macchina elettorale che non si lega né ai tradizionali partiti di sinistra, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani. Anzi, con questi soggetti, una volta conquistato il potere, avrà conflitti frequenti e anche duri, accusandoli di essere portatori di interessi “corporativi” (cioè di classe o comunque di parte) e di sabotare la realizzazione del bene collettivo. 

Raphael Correa


Del tutto diverso, per fare un controesempio, il percorso della rivoluzione boliviana, che ha assunto fin dall’inizio una chiara connotazione socialista e di classe, ancorché atipica, nel senso che in questo caso l’identità etnica e di classe coincidono in larga misura (il 70% della popolazione è di origine india e rappresenta la quasi totalità della classe contadina e una quota maggioritaria della classe operaia e del sottoproletariato urbano). L’ex vicepresidente Alvaro G. Linera nei suoi libri (9) ha descritto queste particolarissime condizioni argomentando, fra l’altro, che le comunità originarie indigene (che non conoscono proprietà privata e incarnano una sorta di comunismo primitivo) nella misura in cui lottano contro i tentativi di colonizzazione da parte del mercato, rappresentano a tutti gli effetti una classe antagonistica nei confronti del capitale. Ai loro movimenti è spettata l’egemonia (simboleggiata dall’elezione di Evo Morales, leader dei cocaleros e primo presidente indio della storia) sul processo rivoluzionario – egemonia che non si è esercitata attraverso la comunicazione mediatica bensì attraverso i loro consigli di autogestione democratica (cabildos), che hanno organizzato anche le lotte degli altri soggetti sociali coinvolti nel movimento. Mi pare di poter concludere dicendo che, oggi come oggi, Gramsci (e Mariategui, che è stato l’araldo del suo pensiero in America Latina) sono più di casa a La Paz che a Madrid.


I margini di ambivalenza sono esauriti  

Nell’ultima parte del libro gli autori avanzano due ipotesi teoriche con cui tentano di inquadrare l’esperienza di Podemos, e più in generale il fenomeno dei populismi di sinistra, in una prospettiva storica più ampia. La prima si fonda sul presupposto in base al quale il tratto determinante dell’attuale dinamica politica economica e sociale dei paesi occidentali sarebbe l’ambivalenza. Mi sono già misurato criticamente (10) con questa categoria in lavori in cui ho polemizzato con l’analisi post operaista degli effetti socioeconomici delle nuove tecnologie digitali: gli autori appartenenti a quel campo teorico, mentre ammettono che la rivoluzione digitale – dopo avere generato illusioni in merito al suo possibile impulso a processi di democratizzazione dell’economia e della politica – ha finito al contrario per favorire concentrazione monopolistica, decentramento produttivo, maggiore sfruttamento e precarizzazione della forza lavoro, sostengono tuttavia che le tecnologie in questione conservano ampi margini di ambivalenza, nel senso che lascerebbero tuttora aperta la possibilità di sviluppi democratizzanti. 

Campolongo e Caruso estendono questo punto di vista alludendo all’opposizione fra un “polo regressivo oligarchico” e un “polo partecipativo mobilitante”. Il primo coincide con la realtà che tutti abbiamo sotto gli occhi: da un lato, un sistema politico “postdemocratico”, che riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni rappresentative mentre rafforza il potere dell’esecutivo, e neutralizza la capacità dei cittadini di contribuire alla formazione delle decisioni politiche; dall’altro lato, i processi di finanziarizzazione e globalizzazione economica che hanno concentrato risorse e potere decisionale nelle mani di un ristrettissimo gruppo di persone. Il secondo polo, scrivono, va in direzione apparentemente (qui l’avverbio è decisivo!) opposta, nel senso che si diffonde una retorica sempre più pervasiva che inneggia alla orizzontalità, alla partecipazione dal basso e alla democrazia diretta, nonché alla disintermediazione dei rapporti fra vertici e base attraverso l’uso della Rete (cavallo di battaglia dell’M5S) e che contrappone la società civile e i movimenti sociali ai partiti tradizionali - per inciso, ricordo che uno dei massimi teorici di questa “democrazia del controllo”, che subentrerebbe alla lotta per il potere, è Pierre Rosanvallon (11). 

Campolongo e Caruso ammettono (al pari dei teorici post operaisti) che il dispositivo oligarchico ha gioco facile nell’integrare queste istanze, sfruttandone le retoriche e le pratiche orizzontaliste per indebolire ulteriormente le assemblee legislative e per neutralizzare la negoziazione fra le parti sociali e i rispettivi interessi contrapposti. E tuttavia (ancora al pari dei teorici post operaisti) sostengono che fra i due poli ci sarebbe anche contraddizione - e fin qui posso essere d’accordo - e, sia pure in misura limitata, incompatibilità - e qui il disaccordo è radicale. Personalmente ritengo infatti che, come hanno ampiamente dimostrato i lavori di Boltanski e Chiapello (12) e di Dardot e Laval (13) il dispositivo della ragione liberale (14) sia riuscito a incorporare senza residui, e a rendere totalmente funzionali ai propri obiettivi economici e politici, queste spinte “libertarie” che potremmo definire come una sorta di onda lunga del 68 e dei successivi movimenti sociali (per essere onesti, gli stessi Campolongo e Caruso riconoscono che le forme di azione collettiva che agiscono secondo questa linea di ambivalenza sono sempre a rischio di essere riassorbite, nella misura in cui il primo polo è sempre egemonico). 

Uno dei tratti distintivi di queste convulsioni libertarie è il “cittadinismo”. Infatti i movimenti come il 15M, le Mareas, Occupy Wall Street o i gilet gialli eleggono il cittadino a soggetto privilegiato delle proprie rivendicazioni “antisistema” (o meglio antipolitiche e antipartitiche, nel senso che in nessuno di questi casi il bersaglio sono i rapporti sociali di produzione). Ma il cittadinismo, che in Italia ha trovato la sua espressione massima nel M5S prima che il movimento divenisse forza di governo, è un tratto condiviso, come si è visto, anche dalla retorica di Podemos, tratto che non mi pare sia stato superato nemmeno dopo la svolta di sinistra. Il che ci conduce alla seconda ipotesi teorica di Campolongo e Caruso. 


Neogiacobini o neoborghesi?

I due autori propongono una periodizzazione storica articolata su tre cicli. Il primo va dalla Rivoluzione del 1789 (in realtà viene fatto partire qualche decennio prima) alla Comune di Parigi (1871), ed è caratterizzato dalla rivendicazione della sovranità popolare e dalla “frattura democratica”; inoltre dà origine all’idea di nazione democratica, che include le idee del riconoscimento dei diritti umani e della partecipazione politica di tutti i cittadini ed è fondata sulle categorie del cittadino, della nazione, del popolo e della volontà generale. Il secondo va dal 1871 al 1980, ed è caratterizzato dalla frattura di classe, oltre ad assumere come valore fondante la rivendicazione di uguaglianza. Quello che va dal 1980 ad oggi sarebbe dunque il regno dell’ambivalenza di cui sopra, dell’opposizione fra polo oligarchico e polo partecipativo, ma soprattutto sarebbe caratterizzato dal ritorno della frattura democratica. Visto da questa prospettiva l’esperimento politico di Podemos assumerebbe una coloritura “neogiacobina”. I giacobini, scrivono Campolongo e Caruso, hanno inventato il modello germinale del partito di massa ma, al tempo stesso, si opponevano alla parzialità, alle fazioni che dividono il popolo e alla politicizzazione degli interessi particolari. Podemos, dopo una fase populista/giacobina, ha recuperato le sue radici di sinistra senza rinnegare del tutto la fase precedente, approdando quindi a quello che gli autori definiscono un “discorso di classe senza classe”: la  lotta per difendere gli interessi delle classi subalterne passa dal ritorno ai fondamenti stessi della democrazia, mentre le élite vengono accusate di essere i “veri” sovversivi, cioè coloro che vogliono sovvertire l’ordine democratico “originario”. 

Premesso che considero opinabile e arbitraria la periodizzazione storica appena descritta, e premesso che non condivido il giudizio implicitamente positivo degli autori su questo approdo del tormentato percorso evolutivo di Podemos, ritengo tuttavia che la loro ipotesi contenga un nucleo di verità che abbozzerò brevemente qui di seguito, riservandomi di tornare sul tema in altra sede. L’evoluzione del sistema capitalistico successiva alla controrivoluzione liberista ha determinato la progressiva marginalizzazione delle borghesie tradizionali – relegate in posizioni subalterne tanto in campo economico che politico - da parte di un’oligarchia internazionale che controlla finanza, settori industriali di punta, media, università, ruoli istituzionali strategici, ecc. ecco perché non mi pare azzardata l’ipotesi che tutti i movimenti populisti contemporanei siano espressione di – o almeno siano egemonizzati da – quei settori di borghesia che hanno subito processi di emarginazione e indebolimento. Le loro differenti coloriture ideologiche rispecchiano gli interessi, i bisogni e le aspettative di differenti strati delle classi in questione (differenze relative sia ai livelli di reddito che a quelli culturali: per es. imprenditori versus professionisti ecc.) Ritengo che il giudizio sia applicabile anche alle cosiddette sinistre radicali e, a giudicare dalla composizione socioculturale del suo elettorato (vedi sopra), anche a Podemos. Le lotte della borghesia sette/ottocentesca erano lotte progressive che proiettavano una classe emergente alla conquista del potere, quelle delle borghesie di oggi sono lotte di retroguardia, tentativi dei pronipoti ed eredi di quella tradizione rivoluzionaria di conservare un minimo peso decisionale in un sistema che le sta inesorabilmente esautorando. Giacobini e neogiacobini possono forse condividere le rivendicazioni di democrazia e sovranità popolare, ma la democrazia di cui parlano non è la stessa: quella originaria era reale (almeno per gli appartenenti a una certa classe), quella attuale è un miraggio, nella misura in cui il divorzio fra liberalismo e democrazia, come argomenta Streeck (15) è ormai irreversibile. Il primo ha vinto, la seconda è morta e sepolta e può essere rimpiazzata solo da forme politiche del tutto nuove. 

Qual è il ruolo delle classi subalterne in tale contesto? Nei paesi occidentali è oggi azzerato, nella misura in cui decenni di ristrutturazione capitalistica, di smantellamento delle loro organizzazioni sindacali e politiche, di destrutturazione identitaria, le hanno rese letteralmente invisibili. La rabbia e la frustrazione che accumulano si esprimono attraverso comportamenti elettorali schizofrenici e/o attraverso l’adesione a movimenti populisti di destra (soprattutto) e di sinistra (meno) in cui restano costantemente sotto l’egemonia del ribellismo borghese di cui sopra, in cui fungono cioè da massa di manovra di quelli che Gramsci definirebbe tentativi di rivoluzione passiva. Il fatto che siano invisibili, tuttavia, non vuol dire che non esistano più. Il compito prioritario di un populismo di sinistra dovrebbe essere precisamente quello di renderle nuovamente visibili, creando gli strumenti culturali e organizzativi perché possano a ridare voce ai loro interessi di parte, invece di venire mobilitati per inesistenti “interessi generali”. 

La svolta del 2016 aveva alimentato anche in me l’illusione che Podemos potesse svolgere tale ruolo. Mi sbagliavo. E non perché il programma di Podemos è quello di una socialdemocrazia radicale (al contrario trovo che questo sia l’unico aspetto positivo, visto che quegli obiettivi sono i soli praticabili dato l’attuale rapporto di forze), ma perché il suo discorso politico continua a mischiare la retorica “cittadinista” con l’eredità libertaria e orizzontalista dei movimenti post sessantottini (femminismo, diritti civili e individuali, ecc.), un discorso che appare tagliato su misura per la media borghesia colta e creativa mentre suona estraneo, se non ostile, alle orecchie degli invisibili. Per tacere della scelta di ritrovarsi incastrati in un governo che ribadisce in ogni occasione la propria fedeltà europeista e atlantica, il che non è problema di poco conto, visto che l’Occidente è impegnato in una nuova guerra fredda contro Russia, Cina e tutti i Paesi socialisti (compresi i governi bolivariani che hanno inspirato la nascita di Podemos).


Postilla su redistribuzione e riconoscimento

Oltre a Laclau, un altro nume tutelare della cultura di Podemos è la filosofa femminista americana Nancy Fraser. A questa autrice va riconosciuto il merito di aver offerto un originale contributo alla critica marxista dell’economia capitalistica, e di avere preso le distanze dalle correnti mainstream del femminismo che si sono alleate al liberalismo. Questa alleanza, che ha generato quel neoliberismo “progressista” che è in larga misura responsabile del rigetto delle classi subalterne nei confronti delle sinistre, le quali ne hanno fatto il proprio marchio distintivo, è il prodotto della transizione dal femminismo della prima ondata – che aveva esteso la critica del capitalismo dalla sfera produttiva a quella riproduttiva – al femminismo della seconda ondata, che si è lasciato trascinare nell’orbita delle politiche identitarie, e ciò proprio nel momento in cui il neoliberismo dichiarava guerra all’uguaglianza sociale; di qui un esito tragicamente ironico. <<Invece di approdare a un paradigma più ampio e ricco, che abbracciasse sia la ridistribuzione che il riconoscimento, le femministe abbandonarono un paradigma monco per un altro, dall’economicismo al culturalismo>> (16). 

La questione cui voglio accennare in questa postilla, senza avere la pretesa di sviscerarne le complesse implicazioni, si riferisce a quel “paradigma più ricco, capace di abbracciare sia la ridistribuzione che il riconoscimento” cui allude la Fraser. Ciò che intende emerge dai suoi confronti con autori come Axel Honneth e Rahel Jaeggi (17), dai quali si evince che Fraser, pur criticando le posizioni ideologiche del femminismo “emancipazionista”, rifiuta di ammettere che il capitalismo contemporaneo non ha più alcun legame con la cultura patriarcale e che, al contrario, è nel suo interesse sbarazzarsi quanto prima di questo residuo del passato, promuovendo il più rapidamente possibile l’integrazione delle donne nel sistema, sia femminilizzando il lavoro, sia elevando il maggior numero possibile di donne a ruoli direttivi in economia, in politica e nella società. Ecco perché sostiene la necessità di “bilanciare” il peso fra istanze di riconoscimento e istanze di ridistribuzione. Il guaio è che questo messaggio non suona alle orecchie delle sinistre radicali come un invito a recuperare attenzione per quelle lotte sociali che da anni hanno espunto dalla propria lista di priorità, suona invece come un invito a premere ancor più l’acceleratore sul fronte delle lotte per il riconoscimento dei diritti individuali e dei gruppi portatori delle più disparate identità culturali, sessuali, ecc. Mi pare che Podemos non faccia in questo senso eccezione (basti pensare alla grottesca esibizione di politically correctness che ha dettato il cambiamento del nome del partito in Unidas Podemos). Non mi sembra quindi tanto paradossale il fatto che il partito, malgrado la sua professione di fede femminista, raccolga scarsi consensi fra le donne che appartengono ai ceti inferiori e meno scolarizzati. Credo si spieghi con qualcosa di simile alla diffidenza che induce le donne dei movimenti indigenisti boliviani a definire señorial il femminismo delle “sorelle” bianche che appartengono alla media borghesia creola.


Note

(1) Cfr. T. Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020.

(2) Vedi, in particolare, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.

(3) Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1967.

(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dall’essere sociale, Pgreco, Milano 2012 (4 voll.).

(5) Cfr. opp. citt

(6) Laclau e Mouffe erano notoriamente legati da uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione, oltre che coautori di varie opere. Ma gli scritti recenti della Mouffe (cfr. For a Left Populism, Verso, London-New York 2018) introducono significative novità rispetto al pensiero di Laclau.

(7) Cfr. I. Errejon, C. Mouffe, Construir Pueblo, Icaria, Barcellona 2016.

(8) Sulla Revolucion Ciudadana di Correa cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaca Book, Milano 2014.

(9) Cfr. A. G. Linera, La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros, Buenos Aires 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.

10) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011 e Utopie letali, Jaca Book, Milano 2013. 

(11) Cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013. 

(12) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(13) P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2017.

(14) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2019.

(15) W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013. 

(16) Cfr. N. Fraser, Fortunes of feminism, p. 4 dell’edizione elettronica (traduzione mia).

(17) Cfr. N. Fraser. A. Honneth, Ridistribuzione o riconoscimento? Meltemi, Milano 2007; vedi anche N. Fraser, R. Jaeggi, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

   


     

     


mercoledì 24 febbraio 2021


 

ESISTONO SCENARI ALTERNATIVI ALLO STATO DI COSE PRESENTE? DIECI AUTORI CERCANO DI RISPONDERE 

 

Qui di seguito anticipo la mia Introduzione al volume collettaneo "Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro", che sarà in libreria il prossimo 11 marzo per i tipi di Meltemi.    

Introduzione

di Carlo Formenti

Il progetto di questo libro è nato nell’autunno del 2019 da uno scambio di idee fra Pierluigi Fagan, Piero Pagliani e il sottoscritto. Fagan ci ha segnalato La grande regressione, un volume collettaneo del 2017 a cura di Heinrich Geiselberger (pubblicato in italiano da Feltrinelli) che raccoglieva 14 interventi di vari autori (fra cui Arjun Appadurai, Zygmunt Bauman, Nancy Fraser, Bruno Latour e Slavoj Zizek) invitati a fare il punto sullo “stato del mondo” dopo le crisi che lo hanno investito dall’inizio del nuovo millennio. Per quanto interessante, questa rassegna ha un limite: tutti i contributi analizzano da diversi punti di vista la crisi, ma senza prospettare possibili vie d’uscita, quasi gli autori si limitassero a ripetere il detto di Gramsci che recita “il vecchio muore ma il nuovo non può ancora nascere”. Perciò ci siamo chiesti perché non compiere un passo ulteriore, immaginando possibili scenari alternativi allo stato di cose presente, senza scadere in sterili esercizi di futurologia. Dopodiché abbiamo iniziato a cercare interlocutori disposti a condividere il rischio dell’impresa.

Tradurre quella suggestione nel prodotto editoriale che avete in mano non è stato compito banale. La pandemia del Covid19 ha reso più complicato trovare compagni di avventura e distribuirci gli argomenti da affrontare, ma soprattutto ha rallentato lo scambio di idee e informazioni nel corso della stesura dei contributi, obbligandoci a interagire esclusivamente attraverso i canali virtuali. Devo dire che, anche considerati questi intralci, il risultato è andato aldilà delle mie previsioni, nel senso che, dai dieci scritti che vi apprestate a leggere, mi pare emerga un quadro abbastanza coerente delle tendenze di fondo che potrebbero caratterizzare i prossimi decenni. Ovviamente non mi azzardo a sostenere che qui troverete un’anticipazione veritiera e attendibile di ciò che ci aspetta. Prevedere il futuro è impresa al limite dell’impossibile e, visto che è difficile che chi ci prova non nutra – magari inconsapevolmente - idee precise in merito all’auspicabilità di certi sviluppi rispetto ad altri, è inevitabile che, per quanto ci si sforzi di restare nei limiti di un’analisi rigorosa della realtà e dei potenziali sviluppi che essa sembra contenere, non si potrà evitare di proiettare, in maggiore o minore misura, i propri desideri sull’oggetto dell‘indagine. 

Ciò premesso, non è un caso se questo volume trova collocazione nella collana “Visioni eretiche”, che chi scrive dirige da qualche anno per l’editore Meltemi. Non solo perché cinque degli “eretici” qui raccolti (Manolo Monereo, Onofrio Romano, Alessandro Visalli e Andrea Zhok, oltre al sottoscritto) vi hanno da poco pubblicato alcuni loro lavori, ma anche perché il pensiero degli altri cinque (Pierluigi Fagan, Carlo Galli, Piero Pagliani, Raffaele Sciortino e Alessandro Somma) non è meno lontano dal pensiero unico che da anni imperversa nelle aule universitarie, sui media e nelle élite politico-culturali del nostro come di altri Paesi occidentali. Il che non implica che i discorsi che troverete qui appartengano a un’unica area ideologica, né tanto meno che siano omologabili a un unico approccio teorico, metodologico o disciplinare. Anzi, è proprio perché sono espressione di punti di vista diversi (fra gli autori vi sono filosofi, sociologi, costituzionalisti, logici, politologi, dirigenti politici, esperti di geopolitica) che sorprende il relativo tasso di coerenza del quadro previsionale cui accennavo poco sopra. 

Prima di avere in mano tutti i manoscritti avevo immaginato – sulla base degli argomenti che mi erano stati anticipati - di distribuire il materiale in tre sezioni tematiche (socioeconomica, sociopolitica e geopolitica) ma, una volta che ho potuto disporre dell’intero pacchetto, mi sono reso conto che la maggior parte dei contributi avevano un approccio trasversale, per cui risultava difficile costringerli in quella griglia. Ho quindi preferito ordinare gli articoli in un’unica sequenza, seguendo l’ordine alfabetico degli autori. Per offrire una chiave di lettura unitaria dell’opera, questa Introduzione è stata costruita in modo da evidenziare i cinque fili rossi che, a mio parere, attraversano in diversa misura tutti i contributi: crisi della globalizzazione neoliberista; scenari geopolitici; impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa populista; verso un mondo post neoliberale; prospettive socialiste per il secolo XXI. Infine, nei passaggi in cui rilancio idee e concetti di uno o più autori, ne segnalo fra parentesi i nomi. In questo modo il lettore può scegliere a quali articoli dare la precedenza (è raro che si legga un volume collettaneo tutto di seguito, seguendo pedissequamente la sequenza dei testi).    

1. Crisi della globalizzazione neoliberista
Mi pare si possa affermare che nei vari articoli questo thread tematico viene affrontato da tre punti di vista: a) natura eminentemente politica del regime neoliberista, da analizzare come esito di un consapevole progetto di attacco capitalistico ai rapporti di forza delle classi subalterne; b) critica radicale dell’idea secondo cui il ruolo degli stati nazione sarebbe superato dalla internazionalizzazione dei flussi di capitali, merci e persone; c) incidenza della crisi pandemica su un processo di de globalizzazione già in atto.

a) il sistema neoliberale nato dalla rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta è studiato per “affamare la bestia”, per ostacolare l’accesso delle classi subalterne a fonti di reddito garantite attraverso una serie di dispositivi di precarizzazione: i singoli devono essere obbligati a scegliere i propri fini e a procurarsi da soli le risorse per realizzarli, mentre ogni interferenza politica che impedisca o mitighi tale costrizione viene condannata come un abuso, una “deresponsabilizzazione” (Romano). L’intervento statale viene ammesso esclusivamente in casi di grave crisi finanziaria (o economico sanitaria: vedi pandemia in corso) e deve rigorosamente limitarsi ad agire come sostegno collaterale al funzionamento dei mercati competitivi (Zhok). Lo stato è chiamato a tradurre in leggi proprie le leggi del mercato e a utilizzare la concorrenza come strumento di direzione politica delle condotte umane (Somma). Qualsiasi scostamento dalla “normalità” capitalistica è percepito come destabilizzante, come una falla che apre la strada all’ideologia “statalista” rischiando di essere foriera di sviluppi socialisti. La costruzione europea svolge alla perfezione tale compito di sorveglianza/repressione di ogni tentativo di deviazione dalla normalità capitalistica,   spoliticizzando il mercato e neutralizzando il conflitto sociale. In questo senso, la Ue è la realizzazione del sogno di Hayek (1), che auspicava l’avvento di una federazione fra stati come strumento per abbattere tutti gli ostacoli alla libera circolazione dei fattori produttivi, sottraendo alle organizzazioni dei lavoratori il potere di controllare l’offerta dei loro servizi (Somma). Un sogno che certificava la consapevolezza, da parte di questo nume tutelare del pensiero liberale, del fatto che la dimensione nazionale sta alla base del conflitto di classe.

b) La dimensione nazionale non sta solo alla base del conflitto di classe, definisce anche quale posizione una certa sezione delle classi dominanti occupa nei confronti delle altre. Il capitale necessita infatti di quadri giuridici in cui muoversi, ma non è in grado di definirli autonomamente, tale compito spetta allo stato che stipula accordi più o meno favorevoli con gli altri stati secondo la sua potenza, per cui la potenza del capitale sarà proporzionale alla potenza dello stato di origine (Romano). La dimensione spaziale, in barba alla narrazione ideologica che la dà per liquidata grazie alla sua neutralizzazione da parte delle tecnologie di trasporto e di comunicazione, resta ineludibile (Galli). Il campo dei flussi (di capitali, merci e persone) non può emanciparsi se non in misura limitata dal campo dei luoghi (stati, nazioni, sistemi politici) con il quale è costretto a fare i conti perché esso non è solo un limite ma è anche condizione imprescindibile per il processo di accumulazione capitalistica (Pagliani). Potere del Denaro e Potere del Territorio si intrecciano in un rapporto che è fatto al tempo stesso di collaborazione e conflitto e che scandisce le diverse fasi di sviluppo del sistema capitalistico. È per questo che il concetto astratto (il modello idealtipico) di modo di produzione andrebbe rimpiazzato con analisi storiche concrete capaci di distinguere fra epoche e nazioni in cui prevale la logica territoriale ed epoche e nazioni in cui prevale la logica dei flussi, anche se in ciascuna fase storica tende a imporsi la logica sistemica della potenza di volta in volta egemone (Pagliani) (2). 

c) Il quarantennale ciclo neoliberista che ha visto la bilancia pendere a favore del Potere del Denaro a spese del Potere del Territorio, della logica dei flussi rispetto alla logica dei luoghi, è una delle cause fondamentali, se non la causa fondamentale, che ha innescato, dopo la crisi finanziaria del 2008, la crisi pandemica attualmente in corso, nella misura in cui ha favorito un’elevata mobilità di merci e persone, formidabili addensamenti di popolazione (incremento demografico e urbanizzazione) e fenomeni di zoonosi dovuti alle aree sempre più vaste di contatto fra umani e specie animali esotiche (Zhok). Ora la pandemia sembra in grado di alimentare un trend di de-globalizzazione che, tuttavia, era già in atto da tempo, come segnalato dal fatto che il volume degli scambi globali quanto a merci era in costante declino da almeno dieci anni (Zhok, Fagan). Al tempo stesso questa inversione di tendenza non è di per sé in grado di infliggere un colpo mortale alla logica neoliberista, soprattutto perché il freno alla globalizzazione si esercita in modo asimmetrico (meno sui capitali, in misura relativa sulle merci, severo sulle persone) e tende così ad aumentare il potere della finanza sull’economia reale (Zhok). Il che acuisce ulteriormente le contraddizioni sistemiche, già inasprite sia dalla crisi dei “settori spugna” a basso valore aggiunto ed elevato tasso di sfruttamento (spettacolo, turismo, ristorazione, accoglienza, ecc.) che avevano assorbito parte della disoccupazione creata dalla concentrazione monopolistica nei settori strategici (a partire dall’economia digitale cui la crisi pandemica offre un’ulteriore occasione di espansione), sia dalla nuova polarizzazione centro/periferia, che tende ad assumere una configurazione a pelle di leopardo, sia dal fatto che l’inarrestabile processo di urbanizzazione dei decenni precedenti appare sempre più insostenibile (Visalli).

2) Scenari geopolitici
La riflessione geopolitica è presente, sia pure con pesi differenti, in tutti i contributi del libro. Senza pretendere di riassumere in poche righe la complessità delle argomentazioni sviluppate dai vari autori, credo sia possibile evidenziare gli elementi di convergenza che elenco qui di seguito: 

a) Mi pare che in queste pagine ritorni una visione “classica” della geopolitica che, archiviate le interpretazioni “ideologiche” del “grande gioco” figlie della guerra fredda (che torna oggi di attualità dopo la breve parentesi monocratica di incontrastato dominio imperiale nordamericano), cioè le interpretazioni ispirate da un immaginario “scontro di civiltà” fra ideologie universaliste, viene ricondotta al confronto fra attori plurali portatori di interessi geoeconomici e geopolitici in conflitto reciproco (Galli). In alcuni articoli (Galli, Monereo) la dinamica di questo confronto viene analizzata evocando il concetto di Grande Stato. Gli effetti del formidabile processo di concentrazione di risorse finanziarie, tecnologiche, industriali, scientifiche e militari innescato da decenni di globalizzazione fanno sì che solo gli Stati di grandi dimensioni spaziali e demografiche (attualmente Stati Uniti, Cina e Russia, cui in futuro potrebbero aggiungersi India, Brasile e alcuni Stati africani) siano in grado di esercitare contropotere nei confronti sia delle megaimprese transnazionali sia dei propri competitor politici. Accanto a questi colossi gravitano le medie potenze, gli Stati “rentier” e gli Stati falliti (Galli) e fra costoro solo le prime hanno un limitato margine di manovra autonomo. L’Unione Europea non  può essere considerata alla pari degli altri grandi. Non perché priva di sufficienti risorse economiche ma perché, non essendo un  soggetto sovrano, non ha capacità unitaria di individuare i propri interessi strategici, per cui è esposta al rischio che i suoi membri cadano sotto l’egemonia dell’uno o l’altro Grande Stato (Galli) (Monereo dà anche un’interpretazione “regionale” del concetto di Grande Stato, attribuendo tale ruolo a Francia e Germania in contrapposizione agli altri membri dell’Unione). 

b) Un secondo elemento comune consiste nel dare per scontato che gli Stati Uniti, anche ove riuscissero a riproporsi come guida di un’ampia coalizione occidentale, non sono più in grado di esercitare un potere globale incontrastato (Visalli, Galli, Fagan). Nessuno mette in discussione il fatto che gli Stati Uniti dispongano tuttora di una schiacciante superiorità militare e di formidabili risorse industriali e finanziarie, ma tutti sembrano concordi nell’affermare che la loro capacità “non  certo di dominare ma almeno di controllare il mondo si fanno sempre più scarse” (Fagan). Con l’emergenza di nuovi colossi nel gruppo dei Paesi in via di sviluppo (BRICS ma non solo) è l’intera geostoria in cui si ambienta la geopolitica ad apparire terremotata. Il baricentro del mondo si sposta a Oriente (come certifica il colossale accordo commerciale fra Cina, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia e altri Paesi annunciato nei giorni in cui scrivo queste righe, che “pesa” per il 30% del volume mondiale degli scambi mentre esclude gli Stati Uniti). Né si può escludere che questo nuovo baricentro possa convertirsi da asiatico in afroasiatico (Fagan). Questo perché cresce a ritmi rapidissimi la penetrazione di Cina, Giappone e Corea del Sud sui mercati africani, instaurando rapporti che vengono percepiti come meno coloniali rispetto a quelli con le potenze occidentali e che, soprattutto, invece di frenare lo sviluppo dei Paesi africani depredandone le risorse e oberandoli di debiti, tendono a creare le condizioni per l’emergenza di nuove potenze anche in quell’area continentale.  

c) Più variegate sono le diagnosi in merito all’emergenza o meno di un polo egemone alternativo rispetto al declinante (sia pure in senso relativo) impero statunitense. Da un lato, c’è chi, pur individuando nella Cina la nuova potenza egemone, aggiunge come ciò appaia oggi solo una possibilità, che non esclude quella del protrarsi di una convulsa e caotica fase multipolare, con i relativi rischi di perdita di controllo e di catastrofici eventi bellici (Visalli). Altri sottolineano che tale rischio è associato all’incapacità degli Stati Uniti di accettare e gestire il proprio declino relativo e al loro tentativo di compattare l’occidente contro il resto del mondo (Fagan).  Altri ancora negano del tutto la possibilità di un passaggio di consegne egemonico, paventando una fase multipolare che, frammentando ciò che è ancora – sia pure più debolmente – unito, rischierebbe di precipitare nel caos il sistema capitalistico mondiale prima che sia possibile innescare un processo di transizione socialista (Sciortino).

3. Impasse delle sinistre ed esaurimento dell’alternativa populista  
a) Ragionando sulla declinante capacità delle sinistre di rappresentare gli interessi delle classi subalterne (e conseguentemente di egemonizzarne il consenso), molti contributi si concentrano sulle cause culturali di tale incapacità che affondano le radici nella mancata comprensione dei grandi mutamenti economici e sociopolitici in corso dagli anni Settanta del Novecento. Un’incomprensione che si è tradotta, da un lato, nella conversione ai principi e valori del neoliberismo, dall’altro, nella riproposizione di dogmi teorici che la nuova realtà rende anacronistici. In particolare, le sinistre sembrano avere assunto come un dato di fatto scontato e irreversibile l’unità di un mondo globale unificato dall’economia, senza rendersi conto che, come dimostra la crisi della globalizzazione dell’ultimo decennio, questa unità è stata soprattutto una narrazione ideologica, tesa a legittimare l’idea della sostituibilità della politica da parte di economia, tecnica e diritto (Galli). Contro la visione irenica dell’economia come portatrice di unità e di pace fra i popoli, oltre che di benessere e prosperità universali, e contro un’ideologia “internazionalista” che ha smarrito gli originali connotati di classe per appiattirsi sul cosmopolitismo borghese, si sostiene che nel mondo a venire l’economico non potrà più essere l’ordinatore, e che tale ruolo dovrà essere necessariamente restituito alla politica (Fagan, Galli). 

b) Alla critica della conversione neoliberale delle sinistre socialdemocratiche si affianca la critica del retaggio libertario, antistatalista e antipolitico dei movimenti sociali eredi del 68. Pur nella loro apparente radicalità rispetto alle sinistre tradizionali, questi movimenti hanno a loro volta contribuito a recidere i legami con gli interessi, i bisogni e la cultura delle classi subalterne, favorendo la proliferazione di istanze di riconoscimento (da tradurre in diritti individuali e civili) in capo a soggetti privi di connotazioni di classe (strati generazionali, minoranze etniche, religiose e sessuali, ecc.). Un’evoluzione che ha prodotto un dirottamento delle energie dalla lotta per il potere (considerato un fattore di per sé negativo) all’impegno per condizionarne le scelte senza mettere in discussione il sistema (Formenti)

c) La durezza della crisi provocata dal regime neoliberale crea le condizioni di un nuovo “momento Polanyi” (3) , vale a dire della reazione della società alla colonizzazione capitalista di tutti i rapporti sociali. La resistenza dei vincoli comunitari alla omogeneizzazione mercantile, tuttavia, può avere caratteri reazionari, conservatori o emancipatori (Pagliani), può cioè spalancare le porte a una “rivoluzione passiva”, per citare il concetto con il quale Gramsci definiva i sommovimenti in cui le classi subalterne restano sotto l’egemonia di forze conservatrici, lottando per obiettivi in conflitto con i loro stessi interessi. La diagnosi comune a molti contributi è che ciò sia avvenuto con l’emergere dei movimenti populisti nell’ultimo decennio del Duemila. Definito da alcuni forma spuria della lotta di classe in assenza di una leadership rivoluzionaria (Formenti), da altri  sostituto funzionale della lotta di classe a carattere reattivo (Sciortino), da altri ancora “contenitori dell’ira” incapaci di convertirsi in contenitori di potere (Visalli), questo fenomeno sembra prossimo a giungere ad esaurimento tanto nelle sue forme di destra quanto in quelle di sinistra. Le prime, invece di rappresentare i reali conflitti sociali, sono andate in cerca di nemici esterni al popolo (le caste, gli immigrati, ecc.) e, nella misura in cui non incarnano il risentimento per il regime neoliberale, bensì per le sue promesse tradite, finiranno inevitabilmente per venire riassorbite nella logica del sistema (Visalli). Le seconde (delle quali Podemos rappresenta un esempio paradigmatico), dopo essere inizialmente riuscite ad incarnare l’aspettativa di una radicale alternativa sistemica, tendono (e sempre più tenderanno) a ricompattarsi in un fronte unito contro le destre guidato dalle formazioni liberali “di sinistra” (Formenti). 

4. Verso un mondo post neoliberale? 
Il titolo di questa raccolta, “Dopo il neo liberalismo”, potrebbe suggerire l’impressione che gli autori condividano una visione teleologica del processo storico, che ritengano che la fine del liberalismo sia una necessità immanente a tale processo.  Non è così. La visione che emerge da questa “indagine collettiva sul futuro”, per citare il nostro sottotitolo, è un’altra: siamo tutti convinti che il regime nato dalla controrivoluzione neoliberale sia insostenibile e che quindi il futuro ci riservi mutamenti economici, politici e sociali radicali, ma siamo altrettanto consapevoli che la natura di tali mutamenti è in larga misura indeterminata, dal momento che dipende da fattori complessi e contingenti. Al tempo stesso riteniamo che sia importante sforzarsi di capire, se il vecchio muore, da dove nascerà il nuovo, quali strumenti esistono per superare l’equilibrio sistemico neoliberale (Visalli). Parlare di strumenti significa alludere a un progetto politico, dunque a un campo di indagine in cui il confine fra previsione e auspicio si assottiglia, per cui le previsioni appaiono necessariamente condizionate dal verificarsi di  certe condizioni. 

a) Se sarà possibile restituire centralità al “costituzionalismo sociale” nato dal compromesso storico del secondo dopoguerra e al suo potenziale emancipativo, questo costituzionalismo resistente alla normalità capitalistica potrebbe agire da presupposto di un radicale mutamento di sistema (così Somma, che ragiona soprattutto sulla Costituzione italiana, mentre Monereo estende il ragionamento a tutte le costituzioni nate dal superamento di regimi fascisti). Il passo decisivo consentito da tale svolta consisterebbe nel restituire spazio strategico al conflitto economico, cioè alla possibilità di plasmare l’ordine economico in base alla contrapposizione capitale/lavoro e più in generale fra interessi in conflitto (Somma) (il che comporterebbe, per inciso, abolire le “riforme” costituzionali imposteci dalla Ue e finalizzate appunto alla neutralizzazione del conflitto economico sociale). Questa riaffermata centralità del conflitto consentirebbe, fra l’altro, di evocare un concetto non meramente formale della sovranità popolare, estendendolo fino a comprendere la contrapposizione governanti/governati e attribuendo al popolo la titolarità della potestà di governo costituente e costituita (Somma, ma vedi Galli sul rapporto fra potere costituito e potere costituente). 

b) Altrettanto importante sarebbe riuscire a sfruttare la gestione politica della pandemia, sottraendola alla dimensione di “eccezionalità” attribuitale dai regimi neo liberali, per dimostrare come la circolazione molecolare permanente possa essere interrotta sulla base di una decisione politica collettiva (Romano). Di fronte alla crisi che ne ha inceppato i meccanismi, il regime neo liberale cerca di guadagnare tempo senza cambiare logica, respinge l’idea che lo sviluppo economico debba essere riportato sotto il controllo intenzionale da parte della politica per evitare che rappresenti una minaccia permanente per la vita umana (Zhok), sostenendo che ciò vorrebbe dire instaurare una dittatura (non si può bloccare del tutto la circolazione del virus senza mettere a rischio la “libertà”, cioè la libera circolazione dei fattori produttivi denaro, merci e forza lavoro). La posta in gioco nel conflitto fra queste due prospettive è altissima, perché non riguarda solo l’economia ma anche la possibilità di superare la visione che rappresenta la realtà sociale come il prodotto accidentale della miriade delle volontà singole, di superare cioè l’antropologia individualista come fondamento della civiltà liberale in quanto unità di politica, cultura e mercato (Romano). 

c) Se sarà infine possibile, preso atto dell’assenza di un soggetto politico in grado di orientare l’inevitabile processo di trasformazione in corso verso esiti emancipatori piuttosto che regressivi, mettere mano alla sua costruzione a partire dalla definizione dei soggetti sociali da coinvolgere/mobilitare in tale impresa. Una delle zavorre concettuali che pesano maggiormente sulla capacità dei movimenti di ispirazione marxista di svolgere un ruolo significativo nella direzione delle lotte sociali nei Paesi occidentali, è l’ostinazione con cui si impegnano a identificare un soggetto sociale “oggettivamente” rivoluzionario. Riduzione del peso numerico e politico del proletariato industriale (falcidiato dai processi di terziarizzazione del lavoro, dalle ristrutturazioni tecnologiche, dal decentramento della produzione verso i Paesi in via di sviluppo), disarticolazione del corpo di classe che l’offensiva neo liberale è riuscita a dividere contrapponendo strati generazionali, uomini e donne, autoctoni e immigrati, garantiti e precari, lavoro pubblico e lavoro privato, hanno innescato una sterile ricerca di possibili “avanguardie” da individuare attraverso improbabili analisi sociologiche. Analisi in cui è mancata sia la consapevolezza del peso del conflitto centri/periferie nelle nuove lotte sociali (vedi il caso dei gilet gialli), sia un’adeguata attenzione alla complessa articolazione delle classi intermedie, caratterizzata dalla progressiva separazione fra strati superiori, integrati nel blocco sociale egemone sul piano economico, sociale e culturale, e strati inferiori investiti da processi di immiserimento. L’unica via d’uscita da queste contraddizioni potrà venire dalla costruzione, attraverso una lunga fase di guerra di posizione, di un inedito blocco sociale fondato sull’alleanza fra lavoro effettivamente produttivo e periferie (Visalli). Si tratta di condurre un paziente lavoro di costruzione politica di una rinnovata consapevolezza degli interessi di classe, subordinando, almeno in una prima fase, l’obiettivo delle alleanze fra classi a quello della ricomposizione del proletariato (Formenti).  

5. Prospettive socialiste per il secolo XXI 
Esistono concrete possibilità che l’eventuale evoluzione verso un mondo postneoliberale possa coincidere con una rinnovata vitalità del progetto socialista? Fino a non molti anni fa, grosso modo dalla caduta del Muro alla crisi del 2008, questa domanda sarebbe apparsa poco più di una boutade provocatoria. Lo straordinario successo della Cina, il ciclo delle rivoluzioni bolivariane in America Latina, l’ascesa di leader politici come Sanders e Corbyn, che sono riusciti a ottenere significativi livelli di consenso pur professandosi socialisti in Paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, dove la parola stessa era stata a lungo bandita, restituiscono attualità all’interrogativo. Nel libro non troverete risposte univoche, visto che,  come già spiegato nel precedente paragrafo, nessuno degli autori crede nell’esistenza di una necessità immanente al processo storico che ne determini la direzione. Troverete piuttosto dei tentativi di descrivere le condizioni che potrebbero riaprire una prospettiva socialista per il secolo XXI. Ne elenco qui di seguito quattro.

a)  Dovremo smettere di identificare società di mercato e società con mercato, accettando l’idea che socialismo non significa necessariamente nazionalizzazione senza residui (abolizione di ogni forma di proprietà privata) e pianificazione centralizzata. Polanyi, Arrighi e Samir Amin, fra gli altri, ci hanno aiutato a capire che la società di mercato è quella forma - del tutto unica e foriera di spaventosi effetti sociali – attraverso la quale il capitalismo è riuscito a plasmare la totalità delle relazioni umane in funzione delle esigenze di un processo di accumulazione illimitato. La sua diffusione planetaria è stata l’approdo di un lungo processo storico non necessitato da presunte leggi oggettive (Pagliani). Viceversa il mercato è sempre esistito prima dell’avvento del capitalismo e non vi sono motivi (se non nelle teste dei cultori di una concezione dogmatica del marxismo) per cui non possa esistere dopo la sua fine.  I programmi che hanno ispirato le rivoluzioni antiliberiste in America Latina, e che figurano nei progetti di alcune forze politiche del mondo occidentale (potenziamento del mercato interno, realizzazione della piena occupazione e incremento della quota di reddito spettante ai salari, controllo politico sui flussi di capitale e merci, riduzione della dipendenza da esportazioni e importazioni con conseguente riduzione della dipendenza dal mercato globale e accorciamento delle catene del valore, potenziamento del welfare e dei servizi sociali) (Visalli) possono sembrare espressione di una visione “riformista” compatibile con il sistema capitalista ma, per citare Rosa Luxemburg, il vero problema è se le riforme vengono considerate obiettivi fine a sé stessi o strumenti per creare le condizioni di un cambiamento rivoluzionario di sistema. Forse il momento storico è maturo per transitare dall’idea (tipica del marxismo occidentale) della rivoluzione come evento catastrofico a quella di processo continuo e progressivo (Fagan) incarnata dalla via cinese al socialismo. 

 b) Socialismo e ambientalismo dovranno necessariamente convergere in un unico progetto. La pandemia del covid 19 dovrebbe averci definitivamente convinto che l’unica prospettiva etico politica all’altezza del nostro tempo è una nuova alleanza tra paradigma ambientalista e analisi socialista (Zhok). Tuttavia la realizzazione di tale alleanza richiede un coraggioso sforzo di revisione teorica e culturale per superare i limiti intrinseci a entrambi i paradigmi che li pongono in una relazione conflittuale che potremmo definire come opposizione fra istanze anti antropocentriche da un lato e istanze umanistiche dall’altro o, se si vuole, fra progressismo e conservazione (Zhok). Nel discorso ambientalista è immanente il rischio di una “disneyzzazione” della natura, a causa del manicheismo che contrappone la natura buona all’uomo cattivo; una visione che rimuove il fatto che gli esseri umani non hanno accesso a un punto di vista assiologico indipendente dalla loro soggettività, approdando paradossalmente all’esito di antropomorfizzare la natura che vorrebbe salvare. Viceversa, il discorso socialista appare tradizionalmente appiattito sui valori guida dell’illuminismo borghese: progressismo, modernismo, nuovismo (Zhok). Sul versante della cultura socialista la trasformazione dovrebbe quindi prendere le mosse da un rifiuto del progresso inteso come crescita di potenza verso le altre nazioni, l’uomo e l’ambiente naturale (Visalli). Si tratta di mandare in soffitta quella mistica delle forze produttive – l’idea che il progresso scientifico e tecnologico sarebbe di per sé in grado di determinare la transizione dal capitalismo al socialismo – che è uno dei tratti fondamentali della cultura marxista da più di un secolo (Formenti). Affidare alla politica il ruolo di decidere cosa, come e quanto produrre implica abbandonare la spinta alla valorizzazione economica illimitata, anche se ispirata a criteri di giustizia e uguaglianza (Romano). La crescita illimitata è un obiettivo non negoziabile in un’ottica liberal capitalista, ma anche in un’ottica socialista tradizionale. Tuttavia è fondamentale comprendere che rinunciare a tale imperativo non significa aderire necessariamente a un piano di decrescita, a uno stato stazionario, bensì subordinare la crescita al bene comune e sottoporla a controllo e limitazione da parte della politica (Zhok).

c) Occorre scommettere sul fatto che la Cina continui a riuscire nell’impresa di differenziarsi dal resto del mondo sul piano dei valori politici e ideologici pur adottando i meccanismi del sistema capitalistico (Galli), che continui cioè – per usare la formula dell’ultimo Arrighi (4) - ad usare il mercato per liberare dalla povertà i propri cittadini, senza cedere ai capitalisti la direzione politica del Paese. A questa condizionalità occorre aggiungerne un’altra che la sovradetermina: dobbiamo scommettere sul fatto che la lotta di classe in Cina riesca a impedire che il Paese regredisca a un regime capitalista, non solo sul piano delle forme economiche, ma anche su quello delle forme politiche. La possibilità che questa contraddizione fra universalismo del mercato e particolarismo del soggetto politico (Galli) possa reggere sul lungo periodo, accompagnando un lento periodo di transizione verso il socialismo, è ammessa da due autori marxisti che provengono dalla tradizione delle teorie della dipendenza (Visalli), come Arrighi e Samir Amin. Questo punto di vista resta tuttavia eretico rispetto al mainstream del marxismo occidentale che, nella misura in cui continua a pensare che la struttura economica sovradetermini necessariamente la sovrastruttura politica, dà per acquisita la restaurazione del capitalismo in Cina a partire dalle riforme di Deng Siao Ping. Nel libro il lettore troverà una variegata gamma di punti di vista sull’enigma cinese, che si estendono fra due posizioni polarmente contrapposte. Da una parte, il modello cinese viene preso a spunto (assieme alle rivoluzioni bolivariane) per superare l’ingenua visione utopistica del socialismo come un mondo pacificato, emancipato da ogni tipo di conflitto sociale, cui si contrappone l’idea di un “socialismo possibile”, nel quale permangono disuguaglianze e conflitti sociali, sia pure di natura e intensità diverse da quelli della società capitalistica (Formenti). Dall’altra si attribuisce natura inequivocabilmente capitalista al sistema cinese, riconoscendo al tempo stesso l’esistenza al suo interno di una dialettica fra classi lavoratrici e stato che configura una sorta di via orientale alla socialdemocrazia (Sciortino). Mi pare viceversa condivisa da tutti l’importanza del ruolo della Cina, se non come modello alternativo di sistema, almeno come potente contrappeso all’egemonia statunitense.  

d) Dovremo riuscire a elaborare una visione alternativa di democrazia. Che la “democrazia reale” (per usare una definizione di Colin Crouch (5), cioè la liberal democrazia in auge in tutti i Paesi occidentali, sia in fase di avanzato degrado è un dato di fatto riconosciuto anche da molti esponenti delle élite politiche e accademiche. Si parla comunemente di post democrazia, di democrazia oligarchica, di democrazia limitata (Monereo) in riferimento a fenomeni come il ridimensionamento del potere legislativo nei confronti del potere esecutivo, la crisi dei partiti politici, la personalizzazione e mediatizzazione del ruolo dei leader, la “gentrificazione” delle funzioni rappresentative (più della metà dei deputati e senatori nordamericani appartengono alla élite dei super ricchi), la riduzione della partecipazione popolare al voto, l’esorbitante peso delle lobby finanziarie e industriali sulle decisioni politiche (vedi il fenomeno delle “porte girevoli” con ex esponenti politici cooptati nel top management di grandi imprese private e viceversa) e l’elenco potrebbe proseguire. Malgrado tutto ciò, si continua a sostenere che questo sistema, benché corrotto, ingiusto e inefficiente, continua a essere il minore dei mali possibili ove paragonato ai regimi totalitari che vigono in Cina e in altri Paesi (i media occidentali inseriscono nell’elenco anche nazioni i cui governi sono andati al potere a seguito di processi elettorali assolutamente regolari: vedi il caso del Venezuela e della Bolivia, dove il popolo ha da poco confermato la propria fiducia al partito “totalitario” che era stato rovesciato da un golpe di destra). Ma è vero che non esistono alternative? La Costituzione italiana, attraverso gli articoli che affermano la necessità di promuovere l’uguaglianza sostanziale e non solo formale fra i cittadini, ha non a caso ispirato la riflessione togliattiana sulla “democrazia progressiva” come ordine politico alternativo a quello di matrice liberale. E’ la ragione per cui il capitalismo mondiale punta il dito contro il carattere “criptosocialista” della nostra Carta, e che ha indotto i nostri governanti a mettere ripetutamente mano a “riforme” costituzionali per adattarla ai principi ordoliberali che ispirano le istituzioni europee. La parola d’ordine per rovesciare questo stato di cose è staccare una volta per tutte la forma democrazia dalla forma mercato, prendendo atto, come invita a fare Wolfgang Streeck (6), che il loro divorzio, al pari di quello fra democrazia e liberalismo, è fatto compiuto. La democrazia in quanto accesso delle classi popolari alla possibilità di partecipare realmente al processo di decisione politica è stata una breve parentesi che ha interrotto, nel secondo dopoguerra, una lunga storia di democrazia puramente formale. Per riconquistarla occorre cominciare a pensarla come processo di democratizzazione, come  programma di lotta (Monereo).       

Note
1 Von Hayek, F., la via della schiavitù, Feltrinelli, Milano 2011.
2 Qui la riflessione di Pagliani si muove nel solco tracciato da Giovanni Arrighi (cfr. Il lungo secolo XX, Feltrinelli, Milano 2008)
3 Polani, K., la grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
4 Arrighi, G., Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.
5 Crouch, C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003. 
6 Streeck, W., Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
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sabato 20 febbraio 2021

L'EUROCENTRISMO "FUNZIONALE" DI MARX ED ENGELS 

Paradossi e contraddizioni del concetto di modo di produzione asiatico

  
Marx e Vera Zasulich 
 

Mi scuso con i lettori, ma la mia insufficiente conoscenza delle funzioni del template di questa piattaforma mi ha impedito di inserire le traslitterazioni corrette dei nomi di persone e istituzioni russe per cui queste parole risultano malamente "italianizzate"    

Le accuse di eurocentrismo ai due autori del Manifesto del Partito Comunista nonché fondatori del socialismo scientifico non sono nuove. Una delle requisitorie più dure in tal senso si deve al sudafricano Hosea Jaffe, esponente delle correnti marxiste più attente alle lotte di liberazione dei popoli coloniali ed ex coloniali; costui, in un saggio intitolato Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (Jaca Book, Milano 2007) arriva ad affibbiare ad Engels l’epiteto di euro-razzista e di social-sciovinista tedesco, citandone alcune frasi (che oggi farebbero effettivamente rizzare i capelli sulla testa a ogni militante di sinistra) contenute in scritti sulla guerra degli Stati Uniti contro il Messico, sulla conquista francese dell’Algeria e sulla colonizzazione italiana dell’Eritrea. Il suo giudizio è meno severo nei confronti di Marx, in quanto ritiene che i suoi scivoloni eurocentrici – comunque meno plateali di quelli di Engels - siano riscattati dal suo fondamentale contributo all’analisi del ruolo del colonialismo nel processo di accumulazione capitalistica. 

Con Onofrio Romano, nel libro Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi marxisti da archiviare (DeriveApprodi 2019), che contiene la trascrizione di una nostra lunga conversazione, ho rilanciato – sia pure in forma meno virulenta – critiche analoghe, estendendole all’insieme della cultura marxista occidentale e riproponendo l’opposizione fra marxismo occidentale e marxismo orientale teorizzata da Domenico Losurdo (Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017). In questo articolo torno a ragionare sull’argomento a partire dalla recente rilettura di India, Cina, Russia (Il Saggiatore, Milano 1960). Si tratta di un’antologia (curata da Bruno Maffi, che ne fu anche il traduttore) che raccoglie una serie di brevi testi di Marx ed Engels: articoli di Marx apparsi (perlopiù anonimi) sul “New York Daily Tribune”, relativi alla politica inglese in India e alle guerre dell’oppio contro la Cina; scambi epistolari fra Marx, Engels e altri (fra cui la celeberrima lettera di Marx a Vera Zasulich), e una serie di interventi di Engels sulla situazione politico-sociale in Russia (molti dei quali successivi alla morte di Marx). Lo straordinario interesse di questo volume consiste nel fatto che consente di approfondire il concetto di “modo di produzione asiatico” che compare nel Capitale e in altre opere fondamentali. Per discutere questi materiali seguirò un percorso in tre tappe: 1) descrizione delle posizioni eurocentriche e filo occidentali e loro giustificazione teorica; 2) esposizione critica del concetto di modo di produzione asiatico; 3) paradossi e contraddizioni di tale concetto alla luce degli sviluppi storici successivi al periodo analizzato negli scritti in questione.

1) I passaggi che lasciano trapelare la convinzione della costituiva superiorità della civiltà occidentale su quelle asiatiche abbondano, per cui mi limiterò a citare quelle che più mi hanno colpito. Riferendosi alle comunità agricole dei villaggi indiani, Marx parla di <<vita priva di dignità, stagnante, vegetativa>>, mentre altrove si azzarda ad affermare che <<la società indiana non ha storia o, quanto meno, storia conosciuta>>. Parlando poi dell’impatto dell’invasione inglese sulla società indiana, sottolinea che tutte le invasioni barbariche precedenti (a giudicare dal lascito culturale delle dinastie Mogul nel Nord Ovest indiano certi invasori non erano poi così barbari!) non ne hanno modificato la struttura in quanto sono state assimilate dalla cultura locale, viceversa quella degli inglesi, <<i primi conquistatori superiori>> ebbe effetti rivoluzionari. Infatti la concorrenza dei prodotti della manifattura capitalistica <<ha distrutto queste piccole comunità semibarbare e semicivili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto>>.  Marx è perfettamente consapevole della natura criminale di tale conquista, sia per le vittime causate dalle guerre coloniali, sia per i milioni di morti provocati dalla miseria associata alla “rivoluzione” di cui sopra (sono noti i passaggi del Capitale in cui si accenna alle pianure indiane imbiancate dalle ossa dei tessitori indiani ridotti alla fame dalla concorrenza della metropoli inglese) e ovviamente non la giustifica sul piano morale, bensì perché <<qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, esso fu (…) lo strumento inconscio della storia>>, nella misura in cui ha gettato le basi materiali della società occidentale in Asia (è in questo senso che si giustifica l'appellativo di "funzionale" che attribuisco all'eurocentrismo di Marx ed Engels nel titolo). 


Passando agli articoli sulla guerra dell’oppio la musica cambia di poco. Vi risparmio i passaggi in cui anche la millenaria civiltà cinese (che solo poco più d’un secolo prima appariva più avanzata sul piano economico, e per certi versi anche su quello tecnologico, di quella occidentale: vedi le analisi di Adam Smith in merito, riprese da Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008) viene definita semibarbara (mentre viene liquidato come un sintomo di grettezza provinciale l’abitudine cinese di chiamare barbari gli invasori occidentali!). Dopodiché anche le cannoniere inglesi che costrinsero il Celeste Impero ad aprire i suoi porti all’importazione di oppio da parte di avventurieri protetti dalla bandiera inglese, vengono insignite del ruolo di strumenti inconsci della storia, nel senso che è stato necessario <<ubriacare (con l’oppio) tutto un popolo prima di poterlo scuotere da un abbrutimento millenario>>. In quanto al fallimento dei tentativi di far penetrare i prodotti inglesi nel mercato cinese, replicando la colonizzazione commerciale riuscita in India, vedremo più avanti come Marx ne analizza le cause, ragionando sul concetto di modo di produzione asiatico, non senza avere prima segnalato che il nostro si lascia scappare la seguente battuta sulla <<tenace opposizione dell’ignoranza, dell’impazienza e dei preconcetti orientali>>.  


Gli articoli e le lettere sulla Russia, sezione in cui è più presente Engels, si inseriscono in una cornice diversa (e anche mutevole, nel senso che da una posizione fortemente “russofoba” - motivata dal ruolo di gendarme europeo svolto dallo zarismo, in prima fila nella repressione di tutti i moti rivoluzionari della prima metà del secolo XIX - i due fondatori del moderno pensiero rivoluzionario sviluppano, a mano a mano che crescono i conflitti di classe e i fermenti populisti in Russia, una crescente aspettativa per una possibile rivoluzione russa, che sperano possa contagiare l’Europa occidentale risvegliandone i sopiti istinti combattivi delle classi lavoratrici). E tuttavia, pur nelle differenze fra il lontano Oriente e un Paese assai più vicino all’Europa, si sottolinea che le masse contadine della Russia presentano caratteri strutturalmente simili – e regressivi – a quelle orientali: <<Da secoli, scrive Engels, la gran massa del popolo russo, formata da contadini, vegetava da una generazione all’altra in una specie di letargo privo di storia e il solo mutamento che interrompesse questo grigiore erano rivolte isolate e infruttuose>>. Prima di passare all’analisi del concetto di modo di produzione asiatico, vale la pena di fare alcune prime considerazioni su quanto sin qui esposto. 


In primo luogo credo si possa affermare che la definizione di barbare e semicivili riferito alle millenarie civiltà indiana e cinese, si spiega solo con una profonda ignoranza della loro lunga storia e della loro raffinata cultura. Ignoranza parzialmente giustificata dall’ancora insufficiente sviluppo della ricerca storica sulle nazioni extraeuropee e dal fatto che l’antropologia culturale aveva appena iniziato a muovere i primi passi. Penso tuttavia che, anche se avessero potuto disporre di fonti più ricche e aggiornate in materia, Marx ed Engels non avrebbero cambiato il loro giudizio sulla superiorità occidentale. Giudizio che in Engels (come documenta ampiamente Hosea Jaffe nel libro sopra citato) non era forse del tutto privo di pregiudizi razziali (quali il riferimento al presunto carattere di un popolo),  ma che in entrambi si fondava sostanzialmente sulla superiorità occidentale rispetto al livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto (macchine, mezzi di trasporto, conoscenze tecnico scientifiche, armi, ecc.). Coerentemente con le tesi esposte nel Manifesto, la missione “civilizzatrice” del capitalismo occidentale viene associata alla sua capacità di rimuovere tutti gli ostacoli sociali, politici, economici e culturali allo sviluppo delle forze produttive, concepito come indispensabile base materiale per la transizione a un superiore stadio di civiltà. Quanto alla definizione di "popoli senza storia" ritengo vada messa in relazione con la tesi marxiana secondo cui la “vera” storia dell’umanità inizierà solo con il comunismo, tutto quanto lo precede è preistoria, compreso il capitalismo che, tuttavia, ha la funzione – e quindi il “merito” oggettivo, ancorché inconsapevole – di creare le condizioni per la fuoruscita dalla preistoria (anche se, come  vedremo più avanti, in Marx esistono contrappesi che bilanciano almeno in parte questa visione unilateralmente “economicista”).  

2) Facciamo un passo indietro e torniamo alle ragioni per cui, secondo Marx, le speranze inglesi di penetrare nel mercato cinese sono andate deluse. <<Come si spiega, scrive Marx, l’incapacità del sistema industriale più avanzato del mondo di battere sul prezzo le stoffe tessute dai più rozzi e primitivi telai a mano?>>.  Con la combinazione, risponde, fra agricoltura minuta e  industria domestica: in ogni casa colonica cinese c’è un telaio, per cui il piccolo coltivatore non è solo contadino ma contadino e artigiano ad un tempo. Produce i suoi abiti letteralmente per nulla in quanto la sua attività (e quella dell’intera famiglia) non richiede né extralavoro né tempo straordinario. Ma questa combinazione fra industria agricola e industria manifatturiera è tipica anche dell’India (la facilità con cui i colonizzatori hanno potuto distruggerla è dovuta alla violenza esercitata dopo avere acquisito il controllo dell’intero Paese, impresa impossibile da attuare in Cina, data la sua estensione territoriale e la capacità di resistenza del suo Stato). Secondo Marx ed Engels, questa combinazione è riscontrabile nell’intera area di diffusione dei popoli indoeuropei (non solo in Oriente, ma anche nelle popolazioni russe, germaniche e celtiche). Tale elemento non è tuttavia sufficiente a caratterizzare il modo di produzione asiatico: è infatti necessario associarvi il “dispotismo orientale”, struttura politica di cui <<queste idilliache comunità di villaggio sono sempre state la solida base>>. A sua volta, il dispotismo orientale è frutto delle caratteristiche geografiche e demografiche dei grandi Paesi orientali: le comunità di villaggio necessitano di un uso comune ed economico dell’acqua, necessità che, in Occidente <<spinse a forme di volontaria associazione l’iniziativa privata>>, mentre in Oriente le superfici  troppo estese imposero la necessità dell’intervento di un potere politico centrale, <<di qui la funzione economica devoluta a tutti i governi asiatici di provvedere alle opere pubbliche>>. 

In Russia questa forma socioeconomica ha assunto forme parzialmente diverse perché, dopo la relativamente tardiva unificazione del Paese, si è sviluppata una peculiare forma di feudalesimo in cui la servitù della gleba conviveva con comunità contadine di villaggio (obscina) simili a quelle orientali. In nessuna delle tre varianti prese in esame esisteva proprietà privata della terra (in Cina l’imperatore era proprietario dell’intero suolo nazionale, che veniva concesso in usufrutto alle comunità di villaggio). Nemmeno in Russia, dove il suolo veniva periodicamente distribuito ai vari capi famiglia, ognuno dei quali coltivava in proprio l’appezzamento ricevuto. Ora è proprio nella discussione sul caso russo che emergono quei contrappesi a una visione determinista dell’evoluzione socioeconomica cui accennavo in precedenza. 

A innescare la discussione sono gli effetti dell’emancipazione dei contadini dai vincoli feudali che il governo zarista sancisce con la riforma del 1861. Riforma – trappola perché i contadini così “liberati” divengono bersaglio di pesanti imposizioni fiscali, si vedono affidare le terre meno fertili (le altre vanno ai nobili) e, una volta integrati nell’economia monetaria, cadono nelle mani di speculatori e strozzini (spesso gli stessi contadini più ricchi, primo nucleo di quella classe di kulaki che dopo la rivoluzione verranno spazzati via dalla collettivizzazione forzata voluta da Stalin). Inizia così un confronto serrato fra i populisti, i quali sostenevano che in Russia esistevano le premesse di una transizione diretta al socialismo, evitando di passare attraverso una fase di sviluppo capitalistico, dal momento che le comunità di villaggio erano “naturalmente” socialiste, e le nascenti formazioni socialdemocratiche che, al contrario, ritenevano che l’obscina fosse fatalmente condannata a essere spazzata via dalla nascente economia capitalistica e rinviavano la rivoluzione socialista ad una fase successiva al compimento della rivoluzione borghese e allo sviluppo della grande industria che avrebbe generato a un’ampia classe proletaria. 

Vera Zasulich, una rivoluzionaria che aveva aderito all’ala socialdemocratica, scrive a Marx chiedendo conforto in merito alla giustezza  della loro tesi. Il problema intriga Marx al punto che, per rispondere, gli occorrono mesi di riflessioni ( l’antologia rende conto di questo travaglio pubblicando, assieme al testo definitivo della lettera di risposta, le bozze di alcune stesure precedenti). Il documento è interessantissimo, in quanto ne emergono un sostanziale ripensamento di precedenti formulazioni, al punto che, a mio avviso, se ne può trarre spunto per una falsificazione del concetto stesso di modo di produzione asiatico. Vediamo perché. Pur ribadendo che in assenza di rotture rivoluzionarie – sia in Russia che in Occidente – il destino delle comunità di villaggio appare segnato, Marx scrive che il processo innescato dalla riforma del 61 contiene molti elementi di ambiguità che lasciano aperte due soluzioni: forse l’elemento di proprietà privata finirà per prevalere sull’elemento di proprietà collettiva, ma potrebbe ancora succedere il contrario: <<Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili, ove prevalesse la seconda essa potrebbe appropriarsi delle conquiste positive del sistema capitalistico senza passare per le sue forche caudine>>. 
Le successive interpretazioni “ortodosse” di questo  passaggio insistono sulla condizionalità: ciò potrebbe succedere sotto la stretta condizione che intervenga un evento rivoluzionario. Così Engels tornerà anni dopo sul punto precisando che, se è vero che il predominio di forme cooperative nella classe contadina russa dimostra la presenza di un forte istinto associativo in questo popolo, <<non prova affatto la sua capacità, grazie a quest’istinto, di spiccare il salto direttamente a un ordine socialista>>, aggiunge che <<queste forme potranno sollevarsi su un piano più alto se si dimostreranno capaci di evolvere in modo che i contadini coltivino la terra non più singolarmente ma in comune>>, infine conclude ribadendo che <<ciò può avvenire unicamente se, prima della decomposizione della proprietà comunale russa, nell’Occidente europeo trionfi una rivoluzione proletaria che fornisca i presupposti materiali di questo trapasso>>. 


Personalmente credo invece che nel possibilismo della lettera di Marx si intraveda, al di là dei vincoli di condizionalità ribaditi con forza da Engels, un importante elemento di “flessibilizzazione” della visione economicista e determinista che prevale negli altri testi di questa antologia. Questo elemento emerge con ancora maggiore evidenza nella replica di Marx all’economista Zukovskij che aveva attaccato le tesi del Capitale : << (Zukowski) sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria teorico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto>>. Per spiegare cosa intende, Marx ricorre all’esempio del destino dei piccoli contadini liberi a Roma che coltivavano ognuno per conto proprio il loro pezzetto di terra: dopo essere stati espropriati, questi proletari romani non divennero salariati ma plebaglia fannullona, mentre accanto a essi si sviluppava il modo di produzione schiavistico, non quello capitalistico, quindi conclude icasticamente :<<eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambiti storici affatto diversi produssero risultati del tutto diversi>>. 

Basterebbe quest’unica frase per smontare il valore euristico del concetto di modo di produzione asiatico che, in effetti, si riduce allo stabilire una relazione di analogia fra culture, forme e metodi produttivi, rapporti sociali e politici di Paesi con storie assai diverse (ammessa e non concessa l’esistenza di una comune radice indoeuropea delle economie di villaggio fondate sulla proprietà in comune della terra, i secolari processi evolutivi che essa avrebbe subito in diversi contesti storico culturali avrebbero generato realtà assai diverse).  Non si tratta insomma di un concetto storicamente (e quindi scientificamente, posto che per Marx l’unica vera scienza sociale è la storia) rigoroso, fondato su una serie di astrazioni concrete, paragonabile a quello di modo di produzione capitalistico. Ciò posto, anche la visione di un processo unitario e lineare che dovrebbe superare i limiti intrinseci a questo supposto processo di produzione asiatico e, grazie ai colpi infertigli dal processo di colonizzazione e occidentalizzazione, trascinarlo verso il comune destino mondiale della transizione al socialismo, va a farsi benedire. Così come va a farsi benedire la tesi della “superiorità” della civiltà capitalistica occidentale nei confronti delle grandi culture asiatiche da essa aggredite.   

3) Nikolaj Cernisevskij, definito nel Poscritto di Engels alla seconda edizione del Capitale “un grande scienziato e critico russo”,  scriveva in una delle sue opere, citata dallo stesso Engels. <<Nell’Europa occidentale, l’introduzione di un ordine sociale migliore è resa difficile dall’allargamento senza confini dei diritti della persona singola…Non è facile rinunziare nemmeno a una piccola parte di ciò che si è abituati a godere; e, nell’Europa occidentale, l’individuo si è abituato alla mancanza di limiti ai suoi diritti privati.. Solo una dura esperienza e lunghe meditazioni insegnano l’utilità e l’inevitabilità di concessioni reciproche: ora, in Occidente, un ordine economico migliore è legato a sacrifici e, quindi, trova difficoltà a realizzarsi appunto perché contrasta le abitudini del cittadino francese e inglese>>. Ma, <<ciò che laggiù è utopia, da noi esiste come realtà…Le abitudini la cui introduzione nella vita del popolo sembra agli Inglesi e ai Francesi tanto penosa, in Russia esistono già come dato di fatto nella vita popolare…L’ordine di cose verso il quale, per una via lunga e difficile, cammina l’Occidente, da noi esiste già nei vigorosi costumi popolari della vita contadina…Noi vediamo quali tristi conseguenze abbia prodotto nell’Europa occidentale il tramonto della proprietà comune della terra, e come riesca difficile ai suoi popoli richiamare in vita ciò che è morto>>. Posto che l’attacco di questo periodo appare di folgorante attualità, anticipando di un secolo abbondante le riflessioni dei critici contemporanei dell’ideologia consumistica e liberale, ciò che più colpisce è in che misura questa visione profetica abbia saputo descrivere un futuro in cui, a fare le rivoluzioni socialiste, non sono stati i Paesi capitalistici più avanzati bensì le periferie del mondo con composizione sociale prevalentemente contadina, sia pure sotto la direzione di partiti  comunisti che organizzavano nuclei di classe operaia in formazione. È avvenuto cioè l’esatto contrario di quanto auspicava Engels commentando il brano appena citato, esprimendo la speranza che una rivolta antizarista delle masse contadine immiserite dalla riforma del 1861 potesse risvegliare l’assopito spirito battagliero di un proletariato occidentale “imborghesito”, e che la conseguente rivoluzione socialista potesse accorrere in soccorso dei contadini russi per aiutarli a “saltare” la fase capitalista e approdare a loro volta direttamente al socialismo. 

La rivoluzione è effettivamente scoppiata in Russia (nel 1905 e nel 1917) prima che in altri Paesi europei (dove non è avvenuta o è fallita, come in Germania e Ungheria). È vero che, nel frattempo, la Russia aveva intrapreso un certo sviluppo industriale e le strutture comunitarie delle campagne si erano quasi del tutto dissolte, tuttavia le condizioni socioeconomiche russe apparivano ancora talmente arretrate rispetto a quelle dell’Europa occidentale da ispirare a Gramsci la famosa frase secondo cui Lenin aveva fatto una rivoluzione “contro il Capitale”, rimpiazzando il principio dell’attacco nel punto più alto delle forze produttive con quello dell’attacco all’anello più debole della catena. Di più: come osserva in un bel libro lo storico Pierpaolo Poggio (L’obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia,  Jaca Book, Milano 1976), l’imprinting culturale della tradizione comunitaria delle campagne, di cui erano portatori gli operai inurbati di origine contadina (cioè la maggioranza della classe operaia russa a quei tempi), è stato un fattore decisivo nel plasmare le forme di autorganizzazione proletaria, nel senso che i soviet erano strutturati secondo il modello del mir il consiglio democratico che governava le comuni agricole. 

Se passiamo alla rivoluzione cinese del 1949, questo imprinting appare ancora più forte. Non solo perché l’Esercito Popolare di Liberazione che ebbe ragione sia degli invasori giapponesi che del Kuomintang era composto in larghissima maggioranza di contadini, ma soprattutto perché l’intero sviluppo della rivoluzione, dalle origini ai giorni nostri, appare fortemente influenzato da questa matrice socioculturale. Nel contesto cinese, il tanto disprezzato modo di produzione asiatico si è rivelato un arma formidabile sotto svariati punti di vista: il suo spirito comunitario e anti individualista ha permeato di sé l’intera società cinese; dopo il fallimento degli esperimenti maoisti del Grande Balzo in Avanti e delle Comuni (con il tentativo di procedere alla collettivizzazione forzata delle campagne) si è tornati ad adottare modelli di funzionamento simili a quelli descritti poco sopra per l’obscina: la terra appartiene allo Stato che la lascia in usufrutto alle comunità di villaggio, e queste le distribuiscono alle famiglie che sono responsabili della sua messa a frutto, un “ritorno al passato” che – unitamente alla disponibilità di tecnologie moderne – ha consentito un colossale aumento di produttività (i contadini cinesi nutrono il 30% della popolazione mondiale con il 20% delle terre coltivabili); il buon funzionamento di questa agricoltura “in  stile cinese”  ha a sua volta accompagnato e favorito gli straordinari ritmi di crescita di un sistema industriale misto (imprese statali e imprese private) per cui si può sostenere (come ho fatto in alcuni lavori recenti) che, invece di lasciarsi colonizzare dal modo di produzione capitalista, la società e l’economia cinesi sono riuscite a usarlo per strappare centinaia di milioni di persone alla povertà, senza mai allentare il controllo del partito comunista sullo Stato. 

Concludo citando un ultimo esempio, quello della rivoluzione boliviana. In America Latina i partiti comunisti “ortodossi” hanno sempre classificato le comunità agricole indigene come un “residuo feudale”, o addirittura come una variante locale del modo di produzione asiatico, ignorando le abissali differenze di queste forme di vita tradizionali sia dal feudalesimo europeo, sia dai dispotismi orientali (gli stessi imperi Inca, Aztechi e Maya presentavano caratteristiche assai diverse). Di qui un’impostazione sindacale classica delle lotte contadine e la rivendicazione di una riforma agraria basata sulla ridistribuzione delle terre dei latifondisti ai singoli contadini invece che alle comunità agricole, il che avrebbe comportato la sostituzione della proprietà comune (in realtà queste culture ignorano l’idea stessa di proprietà in quanto ritengono che siano gli uomini ad appartenere alla Madre Terra e non viceversa) con la proprietà privata. Questa strategia ha sempre generato disastri, finché, a partire dagli anni Novanta, si è determinata una svolta etnicista dei movimenti contadini indigeni, i quali hanno iniziato a rivendicare i propri diritti di cittadini senza rinunciare alla propria identità storica culturale e socio economica. Analizzando la rivoluzione boliviana Alvaro G. Linera (cfr. La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros 2013; vedi anche Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015) descrive il ruolo rivoluzionario e anticapitalista che questo movimento è riuscito a svolgere al punto da  assumere un ruolo egemonico nei confronti delle lotte di altri strati sociali. Cito qui di seguito quanto ho scritto in merito in uno dei miei ultimi libri (Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019).


<< Le cause della rivoluzione vengono ben spiegate da Álvaro G. Linera: il processo di ristrutturazione neoliberista, accantonate le strategie di modernizzazione che puntavano alla sostituzione delle tradizionali forme produttive urbane e agricole, si fonda su un nuovo ordine imprenditoriale che agisce da anello di congiunzione fra il flusso finanziario globale e le reti locali dell’economia informale, fondate su lavoro a domicilio e comunità familiari; un modello di accumulazione ibrido che unifica in forma gerarchizzata strutture produttive tradizionali tramite complessi meccanismi di subordinazione di reti produttive domestiche, comunitarie, artigiane, contadine e microimprenditoriali. La classe operaia cresce di numero ma è frammentata e precarizzata. Viceversa la comunità contadina, pur parzialmente inglobata nelle relazioni di mercato, non subisce processi di stratificazione sociale radicali ed irreversibili, conservando al proprio interno relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. La comunità campesindia è un’entità sociale fatta di vincoli tecnologici, circolazione di beni e persone, trasmissioni ereditarie, gestione collettiva di conoscenze e risorse. Linera identifica in questa forma-comunità che resiste attivamente ai processi di subordinazione una vera e propria classe antagonista. A corroborare questa tesi contribuisce il fatto che questi soggetti tradizionali riescono a costruire organismi di democrazia diretta e partecipativa capaci di unificare e mobilitare altri strati sociali. Nasce così un potere politico comunale sovraregionale fondato su nodi (cabildos) che sfida il governo, occupando il territorio e sottraendolo al controllo di prefetti, sindaci e polizia. I Cabildos funzionano come organismi pubblici di interscambio di idee e argomenti da cui nulla è escluso, sono spazi di uguaglianza politica, opinione pubblica e democrazia deliberativa; sono spazi sovrani in quanto non obbediscono a nessuna forza esterna>>. 

Si potrebbe dire che, mentre i soviet erano proiezioni della memoria contadina di un recente passato storico su nuove forme di lotta operaia, quanto appena citato fornisce un esempio di conversione diretta di strutture precapitalistiche in strumenti di lotta adeguati alla lotta di classe in un contesto capitalista. In  sintesi: non esiste un percorso unidirezionale, e univocamente sovradeterminato da fattori economici, che conduca dal passato precapitalista al futuro socialista transitando dalle forche caudine del capitalismo, esiste un intrico di strade in cui contraddizioni nuove ed antiche si intrecciano, generando la possibilità di diverse soluzioni alternative. Si tratta di esplorare tali possibilità senza pregiudizi dogmatici. Se è vero, come sostiene Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi 1974), che il capitalismo non è l’esito inevitabile di ferree leggi storico economiche, bensì una mutazione anomala rispetto a tutte le forme di vita precedenti (l’unica che abbia eletto il mercato a modello della totalità dei rapporti sociali), allora deve essere possibile trovare più di una via d’uscita da questo incubo.  


     

lunedì 15 febbraio 2021


 

LA PEDAGOGIA ECONOMETRICA, OVVERO COME CRESCERE UNA GENERAZIONE DI BALILLA NEOLIBERALI  

di Emanuele Dell’Atti

Anche se la notizia del prolungamento dell’anno scolastico non è ufficiale, il dibattito che ha scatenato è reale, come reale è la retorica che lo sottende. Una retorica intrisa di luoghi comuni e veicolata da una radicata ideologia che considera la scuola – e in generale tutto ciò che non produce profitti ma è solo una voce di spesa nei bilanci – non una risorsa da potenziare, ma un problema da risolvere. Ma, al netto del dibattito corrente, per inquadrare tutto quel che appare come un fenomeno episodico o una sortita dell’ultima ora, occorre guardare a quanto sta accadendo al mondo della scuola da almeno vent’anni. Ci si accorgerà che, ogniqualvolta si parli di politiche scolastiche come “esigenza prioritaria” del paese, c'è sempre da temere: sotto, infatti, non c'è mai uno spirito di rilancio autentico e disinteressato della scuola come “tempio della formazione” e una riqualificazione dei docenti come vettori di “saperi infunzionali”, ma sempre interessi ed esigenze di altra natura. 

La conferma giunge con la nomina a ministro dell’istruzione di Patrizio Bianchi, in perfetta continuità con le politiche delle “riforme” che, attraverso l’ossessivo mantra delle “competenze”, della “autonomia” e del “capitale umano”, hanno letteralmente trasfigurato la scuola italiana. Il ministro da poco insediatosi, infatti, nel suo ultimo libro-programma intitolato Nello specchio della scuola. Quale futuro per l’Italia (Il Mulino 2020), denota, a partire dal suo approccio econometrico, un perfetto isomorfismo senza resti con la logica imprenditoriale e neoliberale che considera la scuola come un “investimento nel capitale umano”, e proclama una decisa territorializzazione della formazione attraverso i cosiddetti “patti di comunità” e lo slogan del “territorio educante”. Bianchi, insomma, in sintonia con la stagione “riformatrice” che si staglia all’orizzonte con l’arrivo del nuovo governo, si presenta come un perfetto amplificatore di quanto, fino ad oggi, ha travolto, sfigurandola, la scuola italiana. Con l’augurio che questa non si riveli come una profezia autoavverantesi, il suo modello di scuola come luogo di preparazione alla flessibilità del mercato, quindi l’insistenza sulla “didattica per competenze” e i modelli di apprendimento cooperativo (di cui ne sono emblemi il celebre cooperative learning e la famigerata flipped classroom), non lascia ben sperare. 

La scuola, infatti, nella logica neoliberale di cui il nuovo governo e il neoministro sono portatori, deve farsi luogo, non di acquisizione e rielaborazione critica dei saperi, ma di “addestramento” alla risoluzione “flessibile” dei problemi: solo così – per i guru della pedagogia econometrica – si possono produrre lavoratori capaci di adattamento alle esigenze sempre cangianti del mercato del lavoro, portatori di skills trasversali, in grado di implementare un’attitudine a lavorare in team in modo efficiente. Unico fine: la competitività. L’origine di questa visione funzionalista della scuola è da ricercarsi nel “Libro bianco su istruzione e formazione” della Commissione europea del 1995, attuazione del precedente – ed eloquente – “Crescita, Competitività, Occupazione” dell’allora presidente Jaques Delors. Un armamentario di indicazioni che, dietro il pretesto dell’innovazione, nascondeva quella logica che, di lì in avanti, avrebbe informato qualsiasi “riforma” scolastica (in Europa e in Italia) nel segno dello snellimento delle discipline, delle rimodulazioni orarie e dello svecchiamento delle metodologie didattiche. Con quale obiettivo? Rendere l’istruzione un momento propedeutico della produzione di valore economico. A partire da questo documento fondativo e fino a giungere alle recenti “Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento” adottate dal Consiglio UE nel 2018, la scuola italiana, attraverso le varie (contro)riforme susseguitesi (spesso, come è noto, appendici di politiche di bilancio), ha compiuto gradualmente il suo suicidio: da luogo “infunzionale” della cultura e della formazione, a veicolo dell’ideologia produttivistica della competizione.

Per questo ogni ondata di interesse mediatico per la scuola si risolve nella riproposizione di luoghi comuni: si rivernicia la figura del “docente facilitatore”, si ribadisce l’abbandono delle conoscenze a vantaggio delle “competenze” (concetto didatticamente ed epistemologicamente indefinito), si valorizza la scuola del territorio e del mercato e, date le circostanze, la scuola digitale. E persino quando si celebra la scuola come luogo di formazione del cittadino di domani, non tarda mai a manifestarsi l’intenzione funzionale che vi è dietro. Si pensi alla recentissima riproposizione dell’insegnamento dell’Educazione civica. Cosa buona e giusta, se solo non fosse considerata – anziché come momento generativo di consapevolezza storico-politica e di rilancio della natura "programmatica" della nostra Costituzione – come mero addestramento, quale di fatto si rivela, alle pratiche di gestione dell’esistente: cittadinanza digitale, ambientalismo manieristico, pluralismo culturale di vetrina, con l’obiettivo di produrre “cittadini competenti” – cioè capaci di stare al loro posto – e dove vige una confusione normativa inverosimile. Ogni docente, infatti, in modo improvvisato e pressoché scoordinato, “cede” delle ore curricolari per dedicarle a temi stabiliti dall’alto, binari entro cui irreggimentare il testo costituzionale e, in una certa misura, disinnescarne gli obiettivi politici e programmatici. L’importante è che quelle “ore” vengano registrate.



Tutto, infatti, nella scuola di oggi, si quantifica e si rendiconta, e tutto deve essere funzionale ad altro che non sia il “sapere per il sapere”. Ogni materia scolastica, infatti, non può permettersi il lusso di “non servire” a niente: deve produrre competenze verificabili nell’alunno. Questa ossessione, che nasce nell’ambito dell’insegnamento delle lingue straniere e delle materie tecniche, vorrebbe mettere l’allievo di fronte a dei “compiti di realtà”. Fatti, non parole, con una “spendibilità” immediata. Questo modello ha letteralmente colonizzato il mondo della scuola. I nuovi guru della didattica, infatti, non hanno tardato a generalizzarlo ed estenderlo a tutte le discipline. Le materie scolastiche, fatte di nozioni polverose e astratte, si rinnoverebbero e finalmente “servirebbero” a qualcosa. Così, le discipline scientifiche, specie se con forte componente tecnica, sono state cooptate con relativa facilità in questa logica. Ma lo stesso destino sta travolgendo quelle discipline per loro natura “infunzionali”, cioè la letteratura, la storia, la filosofia, l’arte, le lingue antiche. Anche da queste, infatti, si può “estrarre valore”, basta reinserirle nella cornice giusta: letteratura, storia e arte generano abilità comunicative e “fanno cultura”, la filosofia potenzia il ragionamento flessibile e la competenza argomentativa, le lingue antiche sviluppano la capacità di problem solving. Insomma: più ne sai, più possibilità di successo avrai nel mercato del lavoro. Ecco che l’osannata didattica per competenze – presentata come attraente innovazione agli studenti e proposta come obbligo di aggiornamento professionale ai docenti pigroni e vetusti – si rivela per la sua vera natura: la didattica per la competizione.

La scuola va svecchiata, certo. Occorre una maggiore e capillare diffusione delle tecnologie informatiche e una più adeguata preparazione dei docenti ad usarle. È giusto sperimentare modelli didattici meno trasmissivi e più cooperativi. Ma non dimentichiamo che questi sono “mezzi”, non “fini”. Non dimentichiamo che il ruolo dei docenti, il loro senso, non è mai stato né mai potrà essere, quello di istruire gli alunni all’uso delle tecnologie, quello di rendere leggeri e facilmente fruibili i contenuti, per accompagnare gli studenti nel mercato del lavoro. Attraverso i docenti transitano quei saperi che poi devono essere metabolizzati dai discenti, i quali cercano e creano il loro metodo di studio, di ricerca, di lavoro. La scuola dovrebbe favorire queste condizioni. Al contrario, inseguendo ossessivamente il “saper fare”, le “competenze”, i saperi liofilizzati, la rendicontazione permanente, la quantificazione esasperata, la scuola ha finito per essere lo specchio delle logiche produttive, mutuando goffamente dal mercato lessico e metodo. 

Ogni anno, inoltre, da almeno vent’anni, crescono ipertroficamente le incombenze burocratiche e di rendicontazione per i docenti, sempre meno incentivati ad insegnare e sempre più motivati o, semplicemente, obbligati, a redigere carte. I contenuti e le conoscenze disciplinari, vecchi retaggi di una formazione trapassata, devono fare posto a metodi user-friendly, attraenti e “leggeri”, che facciano vedere immediatamente l’utilità e la spendibilità del sapere. In questo contesto, l'ultima cosa che può trovare spazio è la sostanza dell'insegnamento e la profondità dei contenuti, ritenuti come polverose reliquie del passato. Ebbene, il nuovo ministro dell’istruzione non sembra che abbia intenzione di invertire questa tendenza in atto. Anzi, sembra che voglia potenziarla. Basti pensare al bizzarro modello – espresso immancabilmente nella neolingua anglo-liberale – del coollaborative problem solving skills, di cui egli è fiero fautore. 

  C’è una pesante matrice ideologica dietro questa deriva. La scuola, infatti, ha ormai adottato senza riserve il lessico di una più vasta “progettazione sociale”, per dirla con Ferruccio Rossi-Landi, la quale instrada su delle rotaie ideologiche schemi e modelli di comportamento linguistico-comunicativo indisponibili ad una analisi meta-riflessiva, al punto che – come scriveva il filosofo e semiotico italiano – non sappiamo più cosa facciamo quando parliamo e non sappiamo più perché parliamo come parliamo, in quanto “lavoratori” inconsapevoli di un processo di produzione linguistica che ci obbliga a vedere il mondo in determinate maniere. Immaginare di poter invertire la rotta con semplici e contingenti indirizzi normativi, pertanto, appare come una pia illusione. Occorrerebbe, infatti, svincolare la formazione scolastica dal modello economico entro cui siamo immersi, impresa che richiederebbe un’intenzionalità politica radicalmente alternativa. I docenti, inoltre, divisi e frammentati da decenni di erosione del loro ruolo e delle loro prerogative, sono incapaci di reagire a questa deriva, soprattutto perché privi di una sponda politica e sindacale realmente alternativa all’ideo-logica dominante. Inoltre, anni di narrazioni tese a sminuire, se non a denigrare, gli insegnanti, descritti come enti parassitari (vedi il sempreverde mito delle ferie di tre mesi), hanno contrapposto il corpo docente ad altre categorie professionali, in particolare quella dei knowledge workers autonomi, ormai incapaci di vedere che fanno parte dello stesso ceto medio impoverito. Un’inversione di marcia, al momento, non è nell’agenda di nessuna delle forze politiche in campo, contrapposte su singole issues, ma omogenee nell’accettazione acritica – e spesso nell’esaltazione – di questo stato di cose. Si veda l’appoggio unanime al governo Draghi, ammantato di tecnicità “neutrale” ma, di fatto, espressione massima della forma sociale che ci ha condotti fin qua.  È da qui, dunque, che occorrerebbe ripartire. Dalla creazione di una forza politica portatrice di una nuova visione antropologica e sociale, una forza che possa riprendere in mano il conflitto e riaprire la partita.







DODICI PROVOCAZIONI PER UN RINNOVAMENTO DEL MARXISMO Premessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politic...

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