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mercoledì 8 giugno 2022

    LA STRANA STORIA DI PUTZI





Il pianista di Hitler è un curioso libro di Thomas Snégaroff, noto giornalista francese, che, a metà fra la biografia e il romanzo storico, ricostruisce la vita di Ernst Hanfstaengl, più noto con il soprannome di Putzi (ometto in dialetto bavarese) affibbiatogli da una domestica quando aveva due anni e rimastogli appiccicato malgrado il, o forse a causa del, grottesco contrasto con la sua statura da adulto (era alto due metri). Figlio di un’americana e un tedesco (entrambi di famiglie altolocate) quest’uomo ha avuto accesso alle alte sfere di entrambi i mondi: è stato amico di Hitler e Göring, ma anche di Roosvelt, ha conosciuto Churchill e Jung – che lo ha avuto brevemente in  cura – e ha frequentato star della cultura come Djuna Barnes e Leni von Riefensthal. 

Nato nel 1887, ha inseguito per tutta la vita – fino alla Seconda guerra mondiale – il sogno di favorire un’alleanza fra Stati Uniti e Germania in funzione antisovietica. Considerato dai più un esponente di spicco – ancorché non di prima fila – del regime nazista, mentre altri hanno dato credito alla sua rivendicazione di essersi strenuamente impegnato per “moderare” Hitler, sottraendolo all’influenza delle “anime nere” Rosenberg e Goebbels, ha sfruttato il fatto di essere fuggito a Londra, dopo essere caduto in disgrazia alla fine degli anni Trenta, per ottenere la riabilitazione, evitando così di finire processato dai tribunali alleati. Snégaroff si destreggia fra una enorme mole di materiali (gli archivi di Ernst Hanfstaengl conservati alla Biblioteca di Monaco, la sua autobiografia e un’ampia bibliografia sul personaggio e più in generale sui rapporti fra Stati Uniti e Germania in quegli anni), cercando di capire se Putzi sia stato un mostro abile nel camuffarsi da agnello oppure un ingenuo che si era lasciato affascinare da Hitler per poi pentirsi, riempendo con la fantasia i buchi irrisolti dalla ricerca documentale.  

Il titolo di Feltrinelli (che è lo stesso dell’edizione inglese, mentre quello di Gallimard è Putzi) rischia di essere depistante. Hanfstaengl non era un artista, semmai un mercante d’arte (per conto dell’impresa paterna, dove però ha sempre occupato un ruolo secondario, all’ombra del fratello maggiore); soprattutto non era un pianista di professione, anche se suonava divinamente il piano. A giustificare il titolo è il fatto che, nei primi anni Venti, il suo incontro con Hitler si consuma all’insegna di una sorta di fascinazione reciproca: Putzi è sedotto dall’oratoria del futuro Führer, quest’ultimo è estasiato dalle sue esecuzioni della musica di Wagner. 

Ciò posto, la ricostruzione di Snégaroff lascia pochi margini di dubbio: Hanfstaengl è stato un nazista della prima ora, entusiasta e convinto, che, nel corso del tempo, ha anche svolto ruoli di una certa importanza, come la gestione dell’immagine internazionale del regime (finché Goebbels non ha avocato a sé il controllo totale della comunicazione e della propaganda) soprattutto contribuendo ad eufemizzare la violenza del regime nei confronti di ebrei e oppositori e a catturare la simpatia di politici, intellettuali e artisti anglosassoni (sempre nella speranza di creare le condizioni per un’alleanza fra Usa e Terzo Reich). Pur con qualche momento di smarrimento (dopo la notte dei lunghi coltelli e le feroci epurazioni nei confronti delle SA, teme di poter finire a sua volta nella lista dei proscritti), la sua fedeltà nei confronti del Führer  non viene intaccata nemmeno quando costui lo emargina progressivamente, revocandogli amicizia, fiducia e incarichi. Finché, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, i gerarchi gli giocano un feroce scherzo, facendogli credere che dovrà paracadutarsi in Spagna per svolgere attività di propaganda per conto di Franco che sta combattendo contro l’esercito repubblicano e, dopo averlo fatto salire in aereo, simulano il suo lancio in una zona dove sono in corso feroci battaglie (la sua vigliaccheria fisica era nota). Temendo che lo scherzo sia il preludio della sua liquidazione, ripara a Londra e non tornerà se non a guerra finita (eppure anche in esilio non cessa di perorare la causa della Germania nazista presso gli angloamericani). 

Ernst Hanfstaengl


Secondo Snégaroff, la “conversione” antinazista (più che antihitleriana) di Putzi è tardiva, opportunistica e finalizzata non pagare dazio. Né il personaggio ha mai messo seriamente in discussione il proprio razzismo (anche se il suo antisemitismo non ha mai toccato livelli tali da giustificare la Shoà) né, tanto meno, il suo feroce anticomunismo. Tutto questo non sarebbe degno di particolare attenzione – un episodio marginale legato a un personaggio altrettanto marginale nei terribili decenni segnati dal nazifascismo – se non fosse che dal libro emergono prove evidenti e inconfutabili del vasto consenso e delle diffuse simpatie di cui il regime e l’ideologia nazista hanno goduto da parte delle élite angloamericane. Non si tratta solo di casi isolati ancorché clamorosi (Pound, Disney, Ford, re Edoardo VIII, ecc.): dalle frequentazioni e dalle memorie di Putzi emerge un’ampia rete di politici, giornalisti, diplomatici, intellettuali, artisti che guardava con favore a un regime che prometteva di annientare una volta per tutte la minaccia bolscevica. Emerge, anche, quanto fossero diffusi, tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti, sia l’antisemitismo che il razzismo in generale. Del resto è noto che Hitler trasse ispirazione dal massacro delle popolazioni amerindie e dalla segregazione dei neri americani per le sue elaborazioni “teoriche”.

L’orrore per l’Olocausto, coltivato assiduamente da media e politici occidentali, è sempre stato sospetto, in quanto finalizzato a rovesciarne l’intera responsabilità sul regime nazista e ad alimentare la narrazione della sua “unicità” e “alienità” rispetto alla cultura occidentale, rimuovendo le radici sotterranee del mito della supremazia bianca che legano Stati Uniti, Inghilterra e Germania, giustificandone le pulsioni imperiali nei confronti delle razze “inferiori”. Riconoscere l’esistenza di questo filo rosso aiuta a capire la naturalezza con cui l’Occidente sembra oggi accettare (ed esaltare) il ruolo dell’estrema destra ucraina in funzione antirussa (la fobia anticomunista sembra avere lasciato il posto  una versione aggiornata  del vecchio sogno hitleriano di sottomettere il popolo slavo). Concludo dicendo che questa mia lettura del libro di  Snégaroff è del tutto soggettiva: gli spunti che l’autore offre in questa direzione sono (almeno apparentemente) involontari. 


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