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sabato 24 luglio 2021

SOCIALISMO DEI MARGINI

ITALIA MERIDIONALE E IRLANDA FRA FINE 800 E PRIMO 900  



Perché le sole rivoluzioni socialiste riuscite sono avvenute in paesi economicamente “arretrati”, sono state, per dirla con Gramsci, rivoluzioni contro Il Capitale di Marx, il quale riteneva che il socialismo si sarebbe potuto realizzare solo nei Paesi a elevato sviluppo industriale? Perché il marxismo occidentale, per dirla con Losurdo, è scivolato lungo una spirale che lo ha trascinato dal comunismo alla socialdemocrazia, fino a naufragare nella palude del liberalismo? Perché non è quasi mai riuscito a riconoscere il filo rosso che collega la lotta di classe alla lotta delle nazioni oppresse della periferia mondiale, appiattendosi su un internazionalismo astratto sempre meno distinguibile dal cosmopolitismo borghese? Il libro di Michele Cento e Roberta Ferrari (Il socialismo ai margini. Classe e nazione nel Sud Italia e in Irlanda, Rubettino editore) non ha l’ambizione di rispondere a questi tre interrogativi, ma offre preziosi spunti di riflessione per affrontarli, a partire dall’analisi storica delle lotte di classe nell’Italia Meridionale e in Irlanda fra fine Ottocento e primo Novecento. 


I. Sud Italia (dai Fasci siciliani al sindacalismo rivoluzionario campano)

La prima parte del libro è dedicata all’Italia Meridionale, con particolare attenzione al movimento siciliano dei Fasci e alla corrente sindacal-rivoluzionaria del socialismo campano. Il riferimento all’intreccio fra questione nazionale e questione sociale rinvia qui, inevitabilmente, alla trasformazione della Sicilia, e più in generale di tutto il Meridione, in colonia agricola del Nord commerciale e industriale, un processo che, sotto vari aspetti, mima quello del rapporto fra potenze coloniali e nazioni colonizzate, con la cooptazione delle élites locali in funzione di borghesie compradore (nel nostro caso degli agrari meridionali i quali, in cambio della loro collaborazione, ottengono significativi spazi di potere sul governo nazionale). 

Il tema non è qui approfondito in misura paragonabile a quella di certi lavori di Nicola Zitara (1), in compenso viene molto bene evidenziato il conflitto ideologico fra il socialismo rivoluzionario dei Fasci e il socialismo “evoluzionista” delle regioni settentrionali del Paese. Se è vero che i Fasci, a mano a mano che si sviluppano e affondano le radici nel tessuto sociale siciliano, eleggono a fondamento del loro statuto il programma socialista emerso dal Congresso di Genova del 1892, è altrettanto vero che il fatto che il primo vero moto insurrezionale di tipo socialista avvenga – come sottolineato da Benedetto Croce – nella regione meno industriale e progredita d’Italia, stride clamorosamente con la “filosofia” di un movimento sviluppatosi – perlomeno al Nord – sotto l’insegna di un marxismo intriso di positivismo evoluzionista.  

Da un lato abbiamo, invece di un movimento operaio già organizzato, “un insieme eterogeneo di braccianti e coloni, mezzadri e piccoli proprietari, operai e ferrovieri, impiegati e zolfatari” che converge sotto le bandiere dei Fasci “in nome di un comune rifiuto dello sfruttamento padronale e dell’impoverimento operato da un fisco oppressivo con le fasce più deboli della popolazione” (noto, per inciso, che la modalità di convergenza così analizzata evoca quel fenomeno che Ernesto Laclau (2) ha definito “momento populista”, riferendosi alla “catena equivalenziale” che viene saldandosi fra le rivendicazioni eterogenee di una serie di gruppi sociali nei confronti del potere politico). Gli autori descrivono questo blocco sociale come “un composto instabile che eredita dal passato l’elemento insurrezionale e spontaneo”, e sottolineano come tale elemento risulti indigeribile per un centro socialista milanese più inspirato dal positivismo lombardo che da Marx. 





Invece di prendere atto che l’avvento dei Fasci dimostra come un ritardo dell’industrializzazione non comporti l’impossibilità di indirizzare la lotta di classe verso obiettivi politicamente avanzati (come di lì a poco avrebbe confermato la rivoluzione russa del 1917, al pari di quelle successive, a partire da quella cinese), i socialisti non rinunciano al dogma secondo cui solo la maturazione delle “condizioni oggettive” può garantire un adeguato livello di sviluppo della coscienza di classe. Ecco perché, scrivono gli autori, “il Partito socialista non coglie l’essenza capitalistica dell’agricoltura siciliana e si ferma a osservarne l’involucro feudale, non realizza che il piccolo contadino e il fittavolo dipendono dal grande proprietario come il bracciante e che la loro insubordinazione ha un significato politico quantomeno analogo delle sollevazioni dei braccianti padani”. Questa mancata comprensione è la ragione della scarsa solidarietà del socialismo settentrionale nei confronti di un movimento che, anche per questo motivo, andrà incontro alla repressione e alla sconfitta, anche se sulle ceneri dei Fasci si svilupperà successivamente un socialismo agrario di impianto municipalista e cooperativista.

Lo schema si ripropone qualche anno più tardi con il conflitto fra centrale socialista settentrionale e un socialismo campano di inspirazione sindacalista rivoluzionaria. Il fascino che le idee del sindacalismo rivoluzionario esercitano nel Sud Italia, non è solo espressione della preminenza accordata al fattore economico su quello politico, ma anche del fatto che quest’ultimo viene identificato soprattutto con lo sciopero, inteso come momento culminante della coscienza di classe, oltre alla maggiore importanza attribuita alla politica agita localmente rispetto all’ossessione parlamentarista delle leadership nazionali. Gli autori citano in merito il giudizio di Gramsci, il quale vedeva nel sindacalismo la reazione spontanea delle masse contro la politica dei capi riformisti. 

L’atteggiamento di questi ultimi nei confronti delle lotte operaie meridionali attingerà particolari livelli di opportunismo, arrivando a condannare gli scioperi in quanto dannosi per le imprese più grandi e avanzate del Sud, e quindi come fattori di rallentamento del processo di modernizzazione e di creazione delle condizioni obiettive indispensabili allo sviluppo di una “vera” lotta di classe. Turati e soci si illudono di poter trovare un punto di incontro con la borghesia industriale avanzata nella comune opposizione alla reazione agraria, senza comprendere, a differenza di Labriola, che il punto di forza del liberalismo giolittiano consiste “nella capacità di saldare vecchia e nuova borghesia attorno allo Stato, alle sue politiche di spesa che premiano i grandi gruppi industriali, a un fisco che opprime il proletariato e alla protezione doganale del blocco agrario-industriale”. 


Filippo Turati



Così freneranno le lotte, scommettendo sulla mediazione con i capitalisti più “moderni” per andare a sbattere contro la resistenza, non dei piccoli imprenditori “arretrati”, bensì proprio dei rappresentanti della borghesia più avanzata (né questo basterà a far loro capire che modernità e autoritarismo non sono incompatibili, incomprensione che si rivelerà tragica nel momento in cui occorrerà fronteggiare la sfida del fascismo). Così insisteranno nella ricerca di una risposta “tecnica” al problema del mancato sviluppo meridionale, come se corruzione e clientelismo potessero venire estirpati generando più ricchezza e distribuendola a una più larga base sociale. Così infine, a causa della loro incapacità di offrire una reale alternativa politica al sindacalismo rivoluzionario, ne favoriranno la progressiva degenerazione ideologica verso posizioni nazionaliste che gli autori definiscono come una specie di “imperialismo operaio”, riferendosi tanto alle illusioni in merito alla possibilità che l’avventura colonialista in Libia potesse offrire una qualche soluzione alla questione meridionale, sia all’adozione di posizioni interventiste nei confronti della Prima guerra mondiale (i sindacalisti rivoluzionari napoletani saranno i primi, nel 1914, ad aderire con convinzione alla guerra). 



II. Irlanda. Marx, Engels, Lenin e Connolly

Nella seconda parte del libro, dedicata alla lotta di liberazione del popolo irlandese contro il dominio britannico, negli stessi anni in cui si svolgevano i conflitti  sociali nel Meridione d’Italia appena descritti,  l’intreccio fra lotta di classe e rivendicazione di indipendenza nazionale emerge con maggior forza e chiarezza. Ciò in ragione sia del diverso contesto storico e geopolitico (l’Irlanda è una vera colonia, diversamente dal Meridione d’Italia che è una “colonia interna”), sia della grande attenzione che la teoria socialista ha dedicato al caso irlandese a partire dai suoi padri fondatori.

Marx ed Engels, dopo una prima fase in cui avevano sostenuto che la liberazione del popolo irlandese dal giogo britannico sarebbe potuta avvenire solo grazie a una vittoriosa rivoluzione proletaria in Inghilterra, si resero conto che tale ipotesi andava rovesciata: dal momento che la miseria della colonia irlandese era funzionale allo sviluppo capitalistico inglese, consentendo a quest’ultimo di concedere al proletariato britannico certi privilegi,  solo la liberazione del popolo irlandese (frutto di una lotta rivolta, al tempo stesso, contro il dominio sul lavoro e il dominio sulla nazione) avrebbe potuto dischiudere la possibilità di una rivoluzione proletaria in Inghilterra. In altre parole, Marx ed Engels cominciarono a pensare che fosse necessario attaccare l’Inghilterra in Irlanda, onde infliggere un colpo al dominio imperiale che avrebbe offerto un aiuto decisivo alla classe operaia britannica. In particolare, gli autori citano una lettera del 1856 ad Engels in cui Marx scrive che, per i lavoratori inglesi, “l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimento umanitario, ma è la prima condizione della loro emancipazione sociale”.     

Questa posizione anticipa di mezzo secolo quella che Lenin, in opposizione ad altri leader rivoluzionari come la Luxemburg, avrebbe preso sulla questione delle lotte di liberazione dei Paesi coloniali, considerandoli parte integrante della lotta di classe mondiale contro le centrali del capitalismo monopolistico. Del resto, come scrivono gli autori, “l’imperialismo, il colonialismo, il nazionalismo, il socialismo sono rilevanti nel loro intrecciarsi e sovrapporsi nel corso di un processo storico che attraversa un  lungo Novecento”, e ancora oggi, come chi scrive ha sostenuto altrove (3), la capacità di cogliere il nesso fra lotta di classe nei Paesi industrialmente avanzati e lotte nazional-popolari dei Paesi periferici, resta una discriminante fondamentale per distinguere fra marxismo rivoluzionario e riformismo liberal democratico.

Ma torniamo all’Irlanda fra fine Ottocento e primo Novecento. Gli autori mettono in luce alcune caratteristiche che accomunano le lotte sociali di quel Paese a quelle del nostro Meridione: la composizione eterogenea del blocco sociale che alimenta un movimento in cui l’organizzazione sindacale tende a prevalere su quella partitica; l’emigrazione di massa che trasforma progressivamente i contadini irlandesi in una classe operaia dislocata a livello mondiale; la critica non solo nei confronti dell’Impero in quanto potere coloniale, ma anche del suo modello statale. Un elemento, quest’ultimo, che sarà alla radice della radicale incomprensione fra repubblicanesimo irlandese e “socialismo di Sua Maestà”, come gli autori definiscono il Labour inglese, evidenziandone le posizioni moderate, reticenti, per non dire francamente opportunistiche, in nome delle quali questo partito rifiuterà sistematicamente di schierarsi al fianco delle lotte del proletariato irlandese, accusandolo ripetutamente di “dividere la classe operaia” con le sue rivendicazioni nazionalistiche.  Qui il conflitto appare più radicale di quello fra socialisti rivoluzionari meridionali e social riformisti lombardi:  infatti  l’ “internazionalismo” del Labour - antesignano del cosmopolitismo borghese delle sinistre occidentali contemporanee (4) – si spinge fino ad esaltare il ruolo storico del Commonwealth britannico, identificato come una sorta di “imperialismo progressista”. Il leader laburista McDonald nel 1907 arriverà a scrivere che l’imperialismo inglese “non è del tipo aggressivo o debilitante; esso non crede alla sottomissione di altre nazionalità…in relazione alle razze a esso soggette desidera occupare la posizione di amico; di fronte ai suoi stati autonomi imperiali si pone come eguale” . 

Il Lenin irlandese, capace di opporsi a questa visione opportunista, sarà James Connolly, un leader marxista che riuscirà “a fare della questione nazionale il terreno di coltura di quel marxismo mai attecchito in Gran Bretagna”. La sua visione, radicalmente lontana da quella di quei teorici “internazionalisti” che vedono nelle lotte dei popoli coloniali una contraddizione secondaria, sposterà il centro della lotta capitalista ai margini dell’Impero, cogliendo la sostanziale identità fra causa operaia (tanto irlandese che inglese) e causa dell’Irlanda. Il socialismo non si realizza per stadi, a partire dalle metropoli industrializzate, ma cogliendo, per usare le parole di Lenin, l’anello debole della catena, il nodo in cui convergono tutte le contraddizioni generate dal dominio capitalistico. Anche Connolly, come i socialisti dell’Italia del Sud troverà più rispondenza alle sue idee nel movimento sindacale che nella forma partito (il Labour irlandese non riuscirà mai a scindere realmente il proprio destino da quello inglese, mentre un partito comunista nascerà solo nei primi anni 20, dopo la sua morte e sotto la direzione di suo figlio).   


james Connolly



L’influenza di Connolly e delle sue idee resterà forte malgrado la sconfitta dell’insurrezione del 1916 (salutata con entusiasmo da Lenin), tanto che quello irlandese sarà l’unico movimento laburista europeo a opporsi alla Prima guerra mondiale e ad accogliere favorevolmente la rivoluzione bolscevica. Rivoluzione che, al pari di quanto avvenuto durante il Biennio Rosso italiano, verrà assunta a modello durante il ciclo di lotte del 1921-22 in cui sorgeranno i soviet in molti luoghi di lavoro. Tuttavia tutto ciò non basterà a garantire la vittoria dei socialisti repubblicani contro i nazionalisti liberali. Questi ultimi riusciranno infatti ad appropriarsi dell’eredità simbolica dell’insurrezione del 1916 (pur non avendovi partecipato), e soprattutto a impedire che il punto di vista dell’unità operaia prevalesse sulle identità politiche ritagliate sulle appartenenze religiose, per cui l’esito della guerra civile sarà la definitiva separazione del Paese fra Sud cattolico e Nord protestante.  


III. Alcuni spunti per una attualizzazione   

Ho messo in luce come gli autori, nel descrivere la eterogenea composizione sociale delle forze che sono state protagoniste delle lotte descritte nelle due parti del libro, traccino uno scenario che evoca il concetto di momento populista elaborato dal filosofo argentino Ernesto Laclau. È vero che quest’ultimo analizza fenomeni politici e sociali che, anche solo per la distanza temporale che li separa da quelli analizzati da Cento e Ferrari, non possono non essere radicalmente diversi (basti pensare al peso della componente contadina, ieri decisiva oggi marginale). Tuttavia ciò non inficia l’esistenza di una interessante analogia fra i due momenti storici, che consiste soprattutto nel fatto che, date determinate condizioni (che potremmo sintetizzare nell’assenza di una dialettica democratica fra élite dominanti e classi subalterne, ieri perché l’inclusione delle masse nel sistema politico era ancora limitata, oggi perché la transizione a un sistema compiutamente post democratico (5) esclude a priori tale inclusione) la rabbia di diversi soggetti sociali – ancorché portatori di interessi diversi e a volte persino contrastanti – tende a convergere contro un sistema di dominio vissuto come il comune nemico. Se a ciò si aggiunge l’assenza di un soggetto politico organizzato in grado di incanalare la rabbia in questione in un progetto generale di cambiamento di sistema (né i socialisti italiani, né i laburisti inglesi, né il sindacalismo rivoluzionario che si opponeva a questi partiti, né tantomeno – per venire all’oggi – le attuali sinistre occidentali, appaiono in grado di impersonare tale ruolo) si crea appunto una condizione favorevole all’insorgenza del momento populista, che altrove (6) ho descritto come la forma che la lotta di classe tende ad assumere laddove non esistono le condizioni soggettive e oggettive per la transizione – per dirla con Marx – dalla classe in sé alla classe per sé, con il rischio che la lotta si risolva in quella che Gramsci definiva rivoluzione passiva. 

Un secondo aspetto che merita approfondimento è il concetto stesso di socialismo dei margini. Gli autori richiamano giustamente quelle tesi di Marx ed Engels prima, e di Lenin poi, che hanno tracciato una netta linea di demarcazione fra una visione socialista di tipo “evoluzionista”, in base alla quale la transizione al socialismo può darsi solo in condizioni di elevato sviluppo delle forze produttive, cui viene automaticamente associato un altrettanto elevato sviluppo della coscienza di classe, una visione che considera quindi il conflitto sociale fra capitale e classe operaia nelle metropoli industriali come fattore prioritario, se non esclusivo, rispetto al conflitto fra nazioni dominanti e popoli oppressi, e una visione che, al contrario, coglie la sostanziale unità dei due momenti in vista di una vittoriosa rivoluzione, al tempo stesso, anti capitalista e anti imperialista. La prima visione si dipana dal socialismo laburista esaminato nel libro di cui stiamo qui discutendo, alla Seconda Internazionale fino ad approdare alle attuali sinistre occidentali (ivi comprese le cosiddette sinistre “radicali”), accomunate dal fallimento così ben descritto da Domenico Losurdo (7). La seconda è quella che ha inspirato tutte, senza eccezione, le rivoluzioni socialiste vittoriose nell’ultimo secolo: la russa come la cinese, la vietnamita come la cubana, per finire con le recenti rivoluzioni “bolivariane” in America Latina. Le quali possono essere a buon titolo catalogate come “socialismi del margine”, sia perché avvenute in Paesi in cui la classe operaia era ancora relativamente poco sviluppata e i partiti rivoluzionari hanno potuto contare quasi esclusivamente sulle masse contadine, sia perché in ognuna di esse l’elemento nazional popolare ha svolto un ruolo determinante. 

All’ex presidente boliviano Linera dobbiamo un  importante contributo (8) alla critica della visione evoluzionista del socialismo, e alla sua concezione del rapporto fra sviluppo capitalistico e coscienza di classe. Linera è autore di una riflessione che si colloca nel filone di quel marxismo eretico latino americano che valorizza le riflessioni dell’ultimo Marx  (9)  (il Marx, per intenderci, che valutò con interesse e attenzione le tesi dei populisti russi che vedevano nelle comunità contadine del loro Paese una possibile scorciatoia verso il socialismo senza passare per le forche caudine del capitalismo). Nel passaggio alla fase finanziaria, scrive Linera, il capitale monopolistico ha esteso l’accumulazione allargata ampliando il dominio del mercato su nuovi ambiti produttivi, sociali, geografici, naturali, culturali, ecc. Una colonizzazione di nuovi mondi che David Harvey definisce “appropriazione per espropriazione” (10). Analizzando tale processo, Linera sostiene che, se da un lato il capitalismo approda alla sussunzione reale dell’intera conoscenza mondiale, dall’altro lato procede alla sussunzione formale esterna di processi di lavoro comunitari non capitalisti o precapitalisti. Queste tendenze fanno sì che, accanto alla classe operaia tradizionale, emerga un proletariato mondiale di nuovo tipo diviso in due grandi campi: 1) i lavoratori delle nuove professioni legate alla conoscenza e alla tecnologia delle metropoli; 2) le comunità  precapitalistiche ma associate al processo di accumulazione capitalistico dei Paesi periferici e semiperiferici (perlopiù contadini e in larga misura indigeni, come nel caso delle comunità andine) le quali, viceversa, pur non rispettando le caratteristiche che il marxismo dogmatico richiede affinché un soggetto sociale possa essere inquadrato nella classe operaia, sono indotte dall’aggressione del capitale nei confronti del loro stile di vita, della loro cultura e delle loro stesse condizioni di riproduzione e sopravvivenza,  a sviluppare una contraddizione antagonistica  nei confronti dell’attuale modo di produzione. Queste forze, alle quali Linera si riferisce con il termine forma comunità, nella misura in cui sono costrette a lottare  contro l’accumulazione primitiva permanente acquisiscono progressivamente una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e universalizzante di quello originario, al punto che il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane si può considerare in larga misura una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità indigene andine.

Quanto appena richiamato mi induce a concludere prendendo le distanze nei confronti di una critica che gli autori rivolgono a James Connolly nella seconda parte del libro: a loro parere, il marxista irlandese avrebbe commesso un errore mitizzando il passato e la tradizione gaelica, “identificate con un comunismo primitivo distintivo sella storia irlandese”, allo scopo di combattere gli approcci individualisti alla questione della terra, contrapponendovi una immaginaria concezione originaria di tipo non capitalistico della società irlandese. Una visione, scrivono, che “striderebbe con una concezione materialistica della storia”. Personalmente ritengo invece che questa “concezione materialistica della storia” rischi di somigliare alla visione “evoluzionista” del marxismo da loro stessi criticata. Una visione secondo cui la storia sarebbe interpretabile come una successione di fasi direzionate da una logica immanente e progressiva, che conduce necessariamente al socialismo come proprio esito finale. Sia l’ultimo Marx - vedi la famosa lettera a Vera Zasulic (11) – sia i marxisti eretici come Linera hanno giustamente rinnegato questo punto di vista. Può dardi che la tradizione gaelica cui si inspirava Connolly fosse storicamente contestabile, così come è forse opinabile la fondatezza storico-antropologica del concetto di buen vivir dei movimenti indigeni andini, resta il fatto che simili richiami alla tradizione – se integrati in una cultura anticapitalista e anti imperialista - non sono necessariamente forieri di equivoci reazionari. Né, tanto meno, sono da esorcizzare in nome di un’interpretazione univocamente “progressista” del marxismo.         



Note

(1) Cfr. N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972; vedi anche, dello stesso autore, L’unità d’Italia. Nascita di un colonia, Jaka Book, Milano 2010. 

(2) Cfr. E. Laclau, la ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008.

(3) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. In quel testo, criticando la svolta degli anni Settanta che ha visto le sinistre prendere progressivamente distanza dalle posizioni leniniste sul ruolo rivoluzionario delle lotte dei popoli coloniali, facevo riferimento ai contributi di Hosea Jaffe e Samir Amin in merito alla ridefinizione della lotta di classe in termini di scontro geopolitico fra centri e periferie. Il primo, rilanciando certe prese di posizione di Marx e Lenin in merito all’imborghesimento del proletariato europeo, addomesticato con le briciole del saccheggio coloniale perpetrato dai rispettivi Paesi di appartenenza, sostiene che l’alternativa fra capitalismo e socialismo, oggi inattuale in Occidente, potrà ripresentarsi in futuro solo se e quando la lotta antimperialista delle nazioni periferiche ne avrà creato le condizioni (cfr. H. Jaffe, Abbandonare l’imperialismo, Jaka Book, Milano 2008). Questa tesi viene rigettata come “terzomondista” dalle sinistre occidentali che la considerano anacronistica in un’epoca “postcoloniale”, nella quale il ciclo delle lotte di liberazione nazionale si è esaurito da tempo, mentre la questione della disuguaglianza fra nazioni non andrebbe considerata tanto l’effetto dello sfruttamento delle periferie da parte del centro, quanto di endogeni fattori di sottosviluppo delle periferie, ormai pienamente integrate nel mercato mondiale. Samir Amin replica sostenendo: 1) che non è vero che l’oppressione e lo sfruttamento coloniali appartengano al passato: “la crisi generale in cui il sistema capitalista è entrato negli anni Settanta ha offerto all’Occidente l’occasione per lanciare una controffensiva che mira a ‘ri-compradorizzare’ le società del terzo mondo, a subordinare il loro ulteriore sviluppo alla logica di un ridispiegamento del capitale transnazionale. Questa offensiva (…) sfrutta con successo la vulnerabilità dei tentativi di costruzione dello stato-nazione alla periferia del sistema” (S. Amin, La déconnexion, La Découverte, Paris 1986);  2) che le periferie sono sì integrate nel sistema capitalista mondiale, ma al tempo stesso sono inchiodate a un sottosviluppo che è condizione necessaria dello sviluppo dei centri. Questo avviene perché “nei centri il processo di accumulazione del capitale è guidato principalmente dalla dinamica dei rapporti sociali interni, rafforzata dalle relazioni esterne messe al suo servizio; nelle periferie il processo di accumulazione del capitale è principalmente derivato dall’evoluzione dei centri, si basa su di essa, ne è in un certo senso ‘dipendente’ ” (ivi). Per tutte queste ragioni è convinto, al pari di Hosea Jaffe, che l’analisi della lotta di classe non può essere ridotta all’opposizione borghesia/proletariato in campo economico, ma chiama in causa i temi della politica, dello stato e della nazione. Oppressione e sfruttamento non si danno solo fra le classi sociali all’interno dei singoli stati, ma anche fra nazioni, e la lotta di classe assume anche l’aspetto di conflitto fra nazioni. Infine, sull’attualità delle tesi dei teorici della scuola della dipendenza (Baran, Sweezy, Amin, Frank, Wallerstein, Arrighi, ecc.) in merito alla relazione strutturale fra sviluppo metropolitano e sottosviluppo periferico, cfr. A Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020.  


(4) Dopo la tesi sul superimperialismo, formulata da Kautsky nei primi decenni del Novecento, la più coerente e radicale rappresentazione cosmopolita del capitalismo come sistema mondiale unificato, nel quale viene a cadere qualsiasi ragione per una lotta anti-imperialista in cui convergano lotta di classe e lotta per la difesa della sovranità nazionale è contenuta nel best seller di M. Hardt e A. Negri, Impero (Rizzoli, Milano 2002). Ho volutamente utilizzato il termine best seller per sottolineare la natura letteraria di un’opera che, più che un’analisi scientifica del capitalismo contemporaneo, rappresenta una narrazione immaginaria priva di qualsiasi riferimento alla realtà di un mondo che, come abbiamo potuto verificare negli ultimi vent’anni, marcia a tappe forzate verso un nuovo ciclo di conflitti interimperialistici, rispetto al quale il ruolo degli stati-nazione in competizione reciproca (competizione strettamente intrecciata con la lotta di classe) torna a essere determinante. Vedi quanto ho scritto in merito in Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013) e ne Il socialismo è morto, op. cit.  


(5). Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

(6) Cfr. C. Formenti, la variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016.

(7) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(8) A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.

(9)  Cfr. fra gli altri, E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009. Vedi anche PP. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1976.    

(10) Cfr. D. Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018; vedi anche The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.

(11). Per un’edizione critica della lettera in questione, cfr. K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia (a cura di B. Maffi), il Saggiatore, Milano 1960.  

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