Lettori fissi

venerdì 30 aprile 2021




    IL GRANDE GIOCO DI LENIN 



La distinzione fra marxismo orientale e occidentale, proposta dal filosofo Domenico Losurdo (1), è senza dubbio una delle più efficaci chiavi interpretative per comprendere un ampio ventaglio di fenomeni contemporanei: dal clamoroso successo della via cinese al socialismo al fallimento dei partiti comunisti occidentali, trasformatisi – salvo meritevoli eccezioni – in altrettante varianti “di sinistra” dell’ideologia liberale, che oggi esercita un’egemonia incontrastata sull’intero emisfero occidentale; dal fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute – contro le previsioni di Marx ed Engels - in Paesi industrialmente arretrati e non laddove le forze produttive erano più sviluppate, al fatto che la questione nazionale – della quale quasi il solo Lenin seppe valutare adeguatamente il peso strategico – ha finito per svolgere un ruolo più importante delle lotte del proletariato industriale delle metropoli come fattore di resistenza alle politiche imperialiste. Non intendo tornare qui sull’ampio e complesso dibattito teorico suscitato dalle tesi di Losurdo, cui ho dato a mia volta un sia pur modesto contributo (2). Voglio piuttosto sfruttare le suggestioni inspiratemi dalla lettura di un affascinante libro del giornalista inglese Peter Hopkirk (Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis editore), per mettere in luce come la storia - poco conosciuta - di eventi accaduti in Asia Centrale nei decenni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, offra una conferma empirica alla validità del punto di vista di Losurdo. 

Attingendo a documenti dei governi inglesi dell’epoca, a vecchi articoli di riviste e giornali, ma soprattutto alle memorie di alcune spie britanniche, di russi bianchi e di ex bolscevichi fuggiti dall’Unione Sovietica, Hopkirk descrive la spietata guerra che, dal 1920 alla metà degli anni Trenta, oppose – perlopiù indirettamente, appoggiando l’una o l’altra delle fazioni ed etnie locali in conflitto reciproco – inglesi e russi su un’area di migliaia di chilometri che si estende dall’Afghanistan alla Mongolia, passando per lo Xinjiang. Rievocando il Grande Gioco, che già aveva opposto la Russia zarista e l’Impero inglese, i quali si contendevano il controllo di quegli stessi territori – immortalato da Rudyard Kipling nel suo famoso romanzo Kim - Hopkirk presenta le storie che racconta come una sorta di Grande Gioco 2.0, tende cioè a descriverle come una “seconda puntata” - sostanzialmente in continuità sul piano geopolitico – con il conflitto precedente. Ciò emerge chiaramente dal sottotitolo “Il sogno di Lenin di un impero in Asia”, che allude esplicitamente a una supposta continuità fra le mire espansioniste degli zar in Asia e quelle del leader della Rivoluzione d’Ottobre. Mire alle quali gli inglesi si opposero con tanta maggiore energia in quanto, a quei tempi, rappresentavano l’avanguardia del fronte capitalista mondiale che tentava di soffocare sul nascere la minaccia bolscevica. 

È il caso si chiarire subito che il punto di vista di Hopkirk è tutt’altro che obiettivo: nella sua narrazione ai russi (o meglio ai bolscevichi, perché con i russi bianchi adotta tutt’altro atteggiamento) spetta la parte dei cattivi e agli inglesi quella dei buoni, senza se e senza ma. Così le imprese dell’agente britannico Frederick Marsham Bailey, maestro di travestimenti e astuto manipolatore di uomini, vengono descritte con lo stesso entusiasmo con cui Ian Fleming ha costruito il mito del suo eroe immaginario, James Bond. Lo stesso dicasi per Percy Thomas Etherton, incaricato di presidiare lo Xinjiang, impedendo qualsiasi cedimento del debole governo cinese alle mire egemoniche dei sovietici, o della spia al servizio dei Bianchi Pavel Nazarov. Sul fronte opposto i bolscevichi vengono viceversa descritti come bande disorganizzate, guidate da comandanti tanto feroci quanto sprovveduti, i quali, in assenza dell’appoggio della lontanissima Mosca, riescono a stento a controllare la resistenza delle tribù musulmane centroasiatiche che li considerano invasori al pari degli zaristi (Hopkirk insiste sull’atteggiamento neocoloniale dei bolscevichi, sostenendo che le spie britanniche potevano contare sul risentimento delle popolazioni autoctone nei loro confronti). Che poi gli eserciti dei “resistenti” – siano essi locali o russi bianchi – alleati degli inglesi si rivelassero ben più feroci dei bolscevichi è un dettaglio che non turba Hopkirk: lo ammette senza reticenze, ma lascia al tempo stesso capire che, per preservare gli interessi dell’Impero, tutto era lecito. 

Il "barone pazzo"



Il libro descrive l’ascesa e la caduta di una serie di signori della guerra come il barone pazzo von Ungern-Sternberg, un generale bianco rifugiatosi in Mongolia dove sperava di emulare le gesta di Gengis Kahn, del quale credeva di essere la reincarnazione, il generale Enver Pasha, fuggito dalla Turchia dopo la rivoluzione di Ataturk, inseguendo il sogno di creare un proprio impero personale unificando tutte le etnie centroasiatiche di religione islamica, e Ma Zhongying, un brigante che per poco non riuscì a conquistare lo Xinjiang. Tutti costoro vengono liquidati a mano a mano che la presa dell’Unione Sovietica su quei remoti territori si fa più salda, grazie all’arrivo di reparti scelti dell’Armata Rossa guidati dal generale Frunze, che si rendono disponibili dopo avere sbaragliato la resistenza dei Bianchi sui fronti occidentali. 


Il generale Frunze




Tuttavia, benché il racconto di queste storie sia affascinante, rivelando fatti storici noti solo agli specialisti di quel periodo e di quelle regioni, la cosa più interessante, come stiamo per vedere è un’altra. È chiaro che Lenin, e più in generale il partito bolscevico, non erano tanto sprovveduti da sognare di costruire un impero in Asia – come recita il sottotitolo del libro -, dal momento che la debolezza economica e industriale della Russia postrivoluzionaria, l’assedio da parte dell’intero concerto delle potenze occidentali, e la necessità di consolidare il regime nei suoi primi anni di vita, facevano sì che la mera sopravvivenza della neonata repubblica fosse allora l’obiettivo più ambizioso perseguibile. Ciò che faceva davvero paura a Londra, come lo stesso Hopkirk spiega, è il cambiamento degli obiettivi di politica internazionale voluto da Lenin dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa occidentale (in Germania e Ungheria, per tacere dell’avanzata fascista in Italia). Coerentemente con la sua analisi dell’Imperialismo, e con la comprensione del ruolo strategico che le lotte dei popoli coloniali avrebbero potuto svolgere per accelerare la prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale, l’attenzione di Lenin si sposta decisamente ad Oriente. Se gli imperialisti accerchiano la Russia, e se dai proletari dei loro Paesi non ci si può più aspettare un appoggio decisivo, allora non resta che contro accerchiarli, sottraendo loro il controllo e il dominio sulle colonie, dalle quali traggono le risorse per garantire l’accumulazione allargata del capitale metropolitano (e la pace sociale, ottenuta distribuendo le briciole del saccheggio coloniale alla classe operaia). 


Soldati dell'Armata Rossa in marcia




Particolarmente interessante, in tal senso, è la ricostruzione che Hopkirk fa del rapporto privilegiato che Lenin instaura con il comunista indiano Manabendra Nath Roy, uno dei pochi “cattivi” nei confronti dei quali Hopkirk non può esimersi di esprimere ammirazione per il coraggio, lo spirito di iniziativa e l’intelligenza che saprà manifestare, sia barcamenandosi nei meandri delle diverse correnti presenti nel Comintern della Terza Internazionale, sia quando sarà inviato sul campo per coordinare gli agenti comunisti infiltrati in Afghanistan e in India, con lo scopo di scatenare una rivolta contro il dominio coloniale inglese. Lenin infatti individua giustamente nell’imperialismo inglese il nemico principale e nel subcontinente indiano la sua miniera d’oro, perdendo la quale perderebbe gran parte del suo potere. Nessuna mira “imperiale” dunque, ma un brusco cambio di strategia che, secondo quanto racconta Roy nelle sue memorie - citate da Hopkirk - risultò indigesto ad altri capi bolscevichi (a Zinoviev in particolare), senza che Lenin si lasciasse tuttavia sviare. 


Borodin (al centro) in Cina




Morto Lenin e falliti i tentativi di esportare la rivoluzione in India, Roy viene progressivamente emarginato, mentre l’interesse dell’Unione Sovietica, ora guidata da Stalin, si sposta progressivamente sulla Cina. E qui Hopkirk rende omaggio al coraggio e all’abilità di un altro “cattivo”, quel Michail Borodin che fu appunto incaricato di coordinare le attività del neonato Partito Comunista Cinese. Com’è noto, l’appoggio tattico che Stalin concesse al Kuomintang guidato da Chiang Kai Shek (i comunisti erano stati invitati a entrare nel Kuomintang, agendo come ala sinistra al suo interno) si risolse in un disastro, con il massacro seguito all’insurrezione di Canton, mentre Borodin riuscì avventurosamente a fuggire e rientrare a Mosca (dove ritrovò la moglie che si riteneva fosse stata assassinata dagli sgherri di un signore della guerra cinese). 

Hopkirk conclude recitando il de profundis per il presunto sogno imperiale sovietico in Asia, ma in realtà, al netto dei tanti errori commessi, si può dire che alla lunga distanza la svolta di Lenin abbia prodotto i frutti sperati, ove si consideri che il seme trapiantato in Cina è germogliato nel trionfo del socialismo in quel grande Paese, che ha raccolto l’eredità dell’Unione Sovietica, nella misura in cui incarna il nuovo incubo che turba il sonno dell’imperialismo occidentale (che oggi ha dismesso l’Union Jack per ammantarsi della bandiera a stelle e strisce). Tornando a Losurdo, questo racconto – ancorché apologetico nei confronti dell’Occidente - ci aiuta a collocare con una certa precisione (diciamo fra il 1920 e il 1924) la data del divorzio fra marxismo occidentale e marxismo occidentale. Divorzio che – come auspicava lo stesso Losurdo - si spera possa essere sanato quanto prima con la rinascita del marxismo occidentale. 

Un ultima cosa: agli appassionati del fumetto d’autore, e in particolare delle graphic novel di Hugo Pratt, consiglio di procurarsi Lanterne Rosse, un album che contiene un’avventura di Corto Maltese ambientata negli stessi luoghi e nello stesso periodo di cui abbiamo appena parlato (nella storia compare anche, fra gli altri il barone pazzo von Ungern-Sternberg).

NOTE
(1) Cfr. D. Losurdo, Il marxismno occidentale. Come nacque, comne morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017
(2) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019. 

domenica 25 aprile 2021





METAMORFOSI DEL TAYLORISMO

Le insidie della "umanizzazione" del lavoro


L’atteggiamento dei movimenti operai di ispirazione marxista nei confronti della tecnologia è sempre stato determinato dalla convinzione che lo sviluppo delle forze produttive è di per sé -a prescindere dal suo essere prodotto del processo di accumulazione capitalistica - un fattore progressivo, nella misura in cui crea le condizioni per la transizione a una forma più avanzata di civiltà. Per questo motivo, la rivolta luddista contro l’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra dell’Ottocento - benché gli storici ne riconoscano il ruolo nella genesi di una embrionale coscienza di classe (1) – è stata generalmente classificata come una vana resistenza – eroica, ma oggettivamente conservatrice – al processo di industrializzazione, dal momento che questo avrebbe favorito la crescita numerica degli “affossatori” del modo di produzione capitalistico. Per la stessa ragione Marx, tanto nel Manifesto quanto nel Capitale, esalta la funzione “rivoluzionaria” del capitale che, nella sua irresistibile avanzata, spazza via tutte le forme economiche e sociali “arretrate” (arrivando a celebrare la missione “civilizzatrice” dell’imperialismo britannico in India (2) – pur riconoscendone i crimini). Per lo stesso motivo, infine, tanto Lenin che Gramsci diedero un giudizio positivo sulle “scoperte” di Taylor, ritenendo che i principi dell’organizzazione “scientifica” del lavoro rappresentassero un’importante innovazione di cui la classe operaia avrebbe dovuto impadronirsi, per sviluppare la produzione e avanzare più rapidamente verso il socialismo. 

Del resto, anche la variante fordista del taylorismo ha riscosso la sua quota di approvazione, nella misura in cui la si è potuta considerare uno dei fondamenti del compromesso capitale/lavoro che ha dato vita al trentennio “dorato” del secondo dopoguerra. In concomitanza con il ciclo di lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, questo atteggiamento subisce una radicale trasformazione, senza però che venga messo in discussione il dogma di fondo in merito al ruolo intrinsecamente rivoluzionario del progresso tecnologico. Pesa il fatto che si è acquisita crescente consapevolezza della durezza della condizione operaia - sofferenza mentale e fisica, ridotta qualità di vita, perdita di dignità, ecc. – associata a tale progresso, e se quest’ultimo viene ancora considerato positivamente, non è tanto perché aumenta la produttività del lavoro, quanto perché favorisce l’unità di classe – cementata dalla condivisione delle stesse esperienze da parte di centinaia di migliaia di lavoratori concentrati in grandi fabbriche, dove vengono costretti a svolgere mansioni puramente esecutive – e alimenta la volontà di lotta.

Sorvolando sull’ideologia operaista e sulla sua tesi di fondo – secondo la quale questa nuova condizione operaia attribuisce alla lotta di fabbrica un carattere direttamente politico, in quanto consapevolmente anticapitalista –, tesi di cui mi sono ampiamente occupato altrove (3), mi limito a ricordare come le sinistre radicali di quegli anni considerassero conservatrice e reazionaria la linea del sindacato tradizionale, il quale si batteva per la tutela della professionalità degli strati superiori della forza lavoro e per la riqualificazione professionale della massa dei lavoratori esecutivi. Questa politica, si argomentava, mirava a neutralizzare lo spirito ribelle dell’operaio-massa, alimentando l’illusione di poter salvare quel compromesso fordista che la crisi stava inesorabilmente spazzando via.

Nel mezzo secolo che va dalla metà degli anni Settanta ad oggi, la narrazione sul conflitto capitale/lavoro subisce una dislocazione radicale. L’impatto della ristrutturazione tecnologica delle imprese, dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia e della svolta liberal liberista delle sinistre socialdemocratiche, è talmente duro da alimentare il mito della “fine del lavoro”. Il lavoro operaio trasmigra in Cina e negli altri Paesi in via di sviluppo, si diluisce nelle catene di subappalto, ma soprattutto perde – oltre ai tradizionali strumenti organizzativi e di rappresentanza politica e sindacale – la propria identità antropologica, il proprio status socioculturale. Infatti il processo di terziarizzazione “camuffa” il lavoro industriale, il quale  – pur restando tale nella sostanza, come osserva David Harvey (4) – sembra sparire a mano a mano che si disperde nei mille rivoli della logistica, della gig economy, dell’intrattenimento, del turismo, della ristorazione, ecc., e si “imbastardisce”, mescolando ex operai industriali autoctoni, immigrati, studenti, finti lavoratori “autonomi”, ecc. Una massa individualizzata e dispersa, quasi del tutto priva di qualsiasi consapevolezza della propria comune appartenenza di classe. I nuovi soggetti della narrazione sono ora gli eredi di quegli strati di forza lavoro in formazione che, negli anni Sessanta e Settanta, avevano trasformato scuole e università in altrettante casematte della alleanza studenti/lavoratori. 

Un’alleanza effimera fra “critica sociale” e “critica artistica”, secondo l’azzeccata definizione di Boltanski e Chiapello (5), destinata a sciogliersi a mano a mano che le lotte operaie rifluiscono, fino a sparire quasi del tutto sotto i colpi di  maglio della crisi e della ristrutturazione capitalistiche. Dopodiché il conflitto sociale viene raccontato quasi esclusivamente in base ai canoni ideologici della “critica artistica”: antiautoritarismo, no al paternalismo e alle gerarchie famigliari, aziendali e politiche, riconoscimento delle differenze di genere, culturali, di orientamento sessuale ecc. Un bagaglio politico-culturale che i nuovi movimenti sociali (femminismo, pacifismo, no global, ecc.) hanno ereditato dal 68,  e che riversano nel mondo del lavoro, a mano a mano che entrano a farne parte in quanto membri di quella nuova classe media variamente definita “classe creativa”, “lavoratori della conoscenza”,  “Quinto Stato”, ecc. (6). 

Con il salto tecnologico della rivoluzione digitale - il quale, a partire dagli anni Novanta, ridisegna sia l’organizzazione del lavoro e le filosofie gestionali all’interno delle grandi imprese (non solo nelle Internet Company e nel settore High tech), sia le reti che interconnettono flussi commerciali e finanziari, produttori e consumatori (generando la figura ibrida del prosumer), metropoli e periferie, catene di subfornitura e lavoro autonomo - emerge progressivamente un nuovo paradigma che si inspira soprattutto alle teorie post operaiste. In questo nuovo modello, il ruolo di avanguardia di classe un tempo appannaggio dell’operaio massa, dell’operaio comune unskilled, viene trasferito ai “lavoratori della conoscenza” (una categoria dai confini imprecisi, al punto che si tende ad estenderli progressivamente, fino ad abbracciare l’insieme degli strati tecnico – impiegatizi, le nuove forme di lavoro autonomo e finto autonomo, o addirittura gli utenti-consumatori dei social network). 

Il ruolo virtualmente “sovversivo” di queste “moltitudini” è nuovamente associato alle opportunità generate dalla tecnologia, anche se, nel racconto, il digitale prende il posto della fabbrica fordista, e anche se ora la tecnica non è più considerata come mero fattore “oggettivo”, in grado di generare condizioni favorevoli all’unificazione della classe e ad alimentarne lo spirito e la volontà di lotta, non viene più percepita cioè come lavoro morto che domina il lavoro vivo, bensì come prodotto immediato delle inedite capacità di cooperazione sociale di una forza lavoro (7) che non ha più bisogno del capitale per innovare e aumentare la forza produttiva del lavoro sociale. Al Marx del Manifesto e del Capitale è subentrato il Marx dei Grundrisse, in particolare laddove si profetizza l’emancipazione del general intellect dal comando capitalistico, a partire dal momento in cui lo sviluppo delle forze produttive diverrà tale da non potere più essere contenuto nei confini della legge del valore-lavoro. In sintonia con questo scenario, le nuove condizioni di lavoro – che si presumono caratterizzate da accresciuti margini di autonomia, allentamento delle regole gerarchiche, lavoro di gruppo, mansioni più creative, ecc. (8) – vengono salutate come il tramonto del fordismo/taylorismo e come il prodotto dell’egemonia culturale che i nuovi movimenti avrebbero conquistato, sia nella società in generale, sia nei confronti dello stesso universo aziendale.

In Felici e sfruttati, un libro di dieci anni fa (9) ho lanciato un  primo attacco – reiterato in opere successive – a questa rappresentazione irenica della magnifiche sorti e progressive dei lavoratori della conoscenza. In quel lavoro avevo cercato di dimostrare: 1) che non esiste una classe omogenea di “lavoratori della conoscenza”, bensì un mondo del lavoro altamente differenziato e gerarchicamente stratificato in relazione alla maggiore o minore contiguità ai centri di comando capitalistico, dai quadri manageriali giù giù fino alla massa dispersa e individualizzata dei lavoratori pseudo autonomi della gig economy; 2) che questa galassia dei nuovi lavori non è unificata sul piano culturale né, tantomeno, su quello politico, per cui i suoi livelli di conflittualità nei confronti del capitale sono a dire poco scarsi (la critica alle tradizionali forme di gestione delle imprese non si estende mai al mercato e al controllo privato sui mezzi di produzione, ma si inspira, quando c’è, a una visione anarco-capitalista che combatte il monopolio in nome della libertà di iniziativa individuale e della concorrenza (10)): 3) che la cooperazione spontanea all’interno delle comunità di utenti consumatori dei network digitali assume sempre più il carattere di lavoro gratuito per i giganti della Net Economy (produzione gratuita di Big Data, che sono la materia prima del modello di business di questi ultimi); 4) che il taylorismo classico non è stato soppiantato da modelli produttivi più liberi, creativi e autonomi, bensì da una inedita forma di taylorismo digitale, che ha una capacità di controllo ancora più pervasiva – in quanto si estende dall’attività lavorativa a tutti gli ambiti della vita quotidiana – sul lavoro. Qualche anno dopo, leggendo l’edizione italiana del già citato lavoro di Boltanski e Chiapello (vedi nota 5), ho avuto conferma della fondatezza di una quinta critica che avevo formulato, relativa al fatto che la penetrazione dei modelli culturali dei movimenti sociali post sessantottini nel mondo aziendale, non è il prodotto della loro egemonia culturale, bensì della capacità di quest’ultimo di appropriarsi di strumenti ancora più sofisticati di manipolazione e controllo nei confronti della forza lavoro. È quindi con molto interesse che ho accolto la pubblicazione dell’edizione italiana del libro di Danièle Linhart (La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management neoliberale), una sociologa francese che smonta ancora più crudamente questi miti sulla “emancipazione” del lavoro, svelando come, dietro la sua presunta “umanizzazione” da parte delle nuove tecniche di gestione aziendale, si celi una realtà di autosfruttamento e servitù volontaria (11).  

Come spiega Enrico Donaggio nella Postfazione, La tesi della Linhart è che l’intera storia del rapporto fra capitale e lavoro è caratterizzato, da un lato, dallo sforzo ininterrotto del capitale per espropriare i lavoratori delle loro competenze professionali, dall’altro dal tentativo  di questi ultimi di preservarle quanto più possibile, nella misura in cui in esse riconoscono, più o meno consapevolmente, un’arma fondamentale di resistenza contro l’intensificazione dello sfruttamento: “La storia del lavoro salariato è quella di una deprofessionalizzazione sistematica dei lavoratori da parte di un management preoccupato di controllare/dominare il loro lavoro”. 





In apertura di questo scritto, citavo la lotta dei luddisti contro l’introduzione dei telai meccanici, ricordando che la loro resistenza fu giudicata, dai padri fondatori del pensiero socialista, tanto eroica quanto inutile e controproducente, in quanto si opponeva allo sviluppo delle forze produttive, il quale, a sua volta, avrebbe favorito la crescita numerica del proletariato industriale, avvicinando la possibilità di abbattere il modo di produzione capitalistico. Ho anche ricordato come questo punto di vista si sia riproposto nel corso della storia del movimento operaio, citando l’apprezzamento di Lenin e Gramsci nei confronti del taylorismo, e il loro invito a utilizzare l’organizzazione “scientifica” del lavoro per aumentare la produttività del lavoro sociale. L’ultima versione di questa narrazione è l’entusiasmo con cui Antonio Negri e altri intellettuali post operaisti (ma non solo quelli) accolgono la rivoluzione digitale, nella quale vedono addirittura le condizioni per un passaggio diretto al comunismo senza transitare dal socialismo (e senza che sia necessario conquistare il potere politico). Ora è evidente che la costante di tutti questi discorsi consiste nell’invitare implicitamente i lavoratori a sopportare i sacrifici immediati imposti dai salti tecnologici (resta inteso che parlare di tecnologia del lavoro non significa parlare solo di macchinario, computer e algoritmi ma anche, se non soprattutto, di organizzazione del lavoro, tanto nell’impresa fordista quanto in quella neo liberale) in vista di una possibile emancipazione futura. 

Posto che la fede nella concreta possibilità di tale emancipazione è sempre meno diffusa fra i lavoratori, dopo decenni di quella controrivoluzione liberale che è riuscita a sradicarla dal loro immaginario. Posto che in passato, quando era ancora diffusa, il proletariato occidentale ha avuto ripetute e tragiche esperienze che gli hanno dimostrato come le aspettative di emancipazione apparivano tanto meno credibili quanto più elevato si faceva lo sviluppo tecnologico (e il corrispondente aumento del tasso di oppressione e sfruttamento), mentre le sole rivoluzioni socialiste si sono verificate in Paesi industrialmente “arretrati”. Posto tutto ciò, è naturale che i lavoratori di oggi nutrano sentimenti di nostalgico attaccamento nei confronti di quei metodi di lavoro che consentivano di dare all’attività che si svolge la propria impronta, che offrivano la possibilità di riconoscervisi. “Rispettare l’umano al lavoro, argomenta la Linhart una volta significava rispettare il professionista e il suo punto di vista, la sua esperienza”. E ancora: “possedere un mestiere consente di non mettere in pericolo la propria persona in ogni  istante”. Fin qui il mestiere come arma di difesa individuale, ma c’è poi l’aspetto collettivo, perché i saperi, le conoscenze e le regole professionali sono un patrimonio condiviso che rimanda a riferimenti comuni e consente tanto ai singoli che ai gruppi di mettersi al riparo dalle intrusioni che vengono dall’alto. 


Frederick Taylor 



Questo patrimonio tanto individuale che collettivo è vissuto da padroni e manager come un intollerabile fattore di resistenza al proprio controllo/comando. Ecco perché quelle conoscenze e quei saperi devono lasciare il posto a regolamenti, prescrizioni e procedure formali. Ed è esattamente questo che ha fatto l’organizzazione “scientifica” del lavoro “scoperta” da Taylor. Ironizzando su questo aggettivo – dal quale anche Lenin e Gramsci si sono fatti incantare - Linhart ne svela la natura di narrazione volta a legittimare il vero obiettivo, cioè spoliticizzare la fabbrica, spegnere il conflitto di classe che vi si annida. Per questo occorreva spiegare all’operaio che il suo interesse coincide con quello padronale, che i nuovi metodi di lavoro avrebbero regalato più soldi, più tempo libero, più posti di lavoro. Intanto le sue competenze venivano trasmesse alla direzione, che diveniva così l’unico vero attore del sistema di fabbrica. Il fordismo  ha condotto a perfezione il modello: prima ha completato il processo di trasformazione del lavoratore in semplice esecutore di compiti predefiniti;  poi è uscito dalla fabbrica, sconfinando nella vita privata dell’operaio, al quale si dettano veri e propri comandamenti, imponendogli di essere sobrio e frugale, marito fedele e buon padre di famiglia; ha cominciato a interessarsi anche del suo equilibrio psicologico, inventando il movimento delle relazioni umane; ma soprattutto ha imposto il suo marchio sull’intera società, promuovendo il “circolo virtuoso” fra salari relativamente alti e consumi di massa che è stato a fondamento del “trentennio dorato” postbellico (per questo Ford, uomo di idee notoriamente conservatrici e reazionarie, venne accusato dalla destra repubblicana di essere “socialista”). 


Henry Ford



Linhart descrive come, nel corso del tempo, gli operai abbiano reagito a questo attacco sviluppando pratiche collettive “clandestine” (cioè  al di fuori del, se non addirittura in aperto contrasto con il, sistema delle procedure aziendali) per migliorare il contenuto del lavoro, per introdurvi frammenti di autonomia e si senso, ma soprattutto sentimenti di solidarietà. Sulla base di questi saperi informali, che combattono il senso di impotenza e di dipendenza totale nei confronti del management, nascono collettivi di lavoro che accumulano “micropoteri”. Chi, come il sottoscritto, abbia vissuto dall’interno del mondo del lavoro il ciclo di lotte fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, non può non ricordare come proprio questi collettivi informali siano divenuti l’ossatura su cui è venuta costruendosi l’esperienza dei consigli dei delegati di fabbrica, che ha caratterizzato la breve stagione della democratizzazione del sindacato italiano. Linhart non si occupa di questo aspetto (probabilmente perché troppo specifico della nostra storia sindacale rispetto a quella francese) ma concentra piuttosto l’attenzione sulle leggi promosse dal Partito Socialista del suo Paese negli anni Ottanta, le quali avevano l’obiettivo di “democratizzare” le imprese, valorizzando i suddetti collettivi informali di lavoro e investendoli di funzioni istituzionali di rappresentanza. La sua tesi, apparentemente paradossale, è che questo nuovo modello di democrazia formale ha contribuito a rafforzare il dominio reale delle direzioni d’impresa. La trasformazione dei collettivi informali nella pletora di gruppi di progetto, circoli di qualità, team e collettivi ad hoc, ecc. promossi dall’impresa così “democratizzata”, ne ha infatti neutralizzato il potenziale di contropotere che si basava sulla loro “segretezza”, sulla possibilità di agire in un “cono d’ombra” che li metteva al riparo dagli sguardi gerarchici, e dalla possibilità che il management li espropriasse di saperi e conoscenze volgendoli a proprio favore.

Ciò che distingue i collettivi informali dalle loro versioni istituzionalizzate è, fondamentalmente, il fatto che i primi sono espressione di identità collettive auto costituite, che incorporano un potenziale conflittuale nei confronti delle direzioni d’impresa per il solo fatto che si sottraggono al loro controllo, viceversa le seconde sono assemblaggi di persone singole messe assieme per perseguire finalità eteronome (aziendali). I “diritti” e i “riconoscimenti” che i singoli membri di queste entità artificiali ottengono dalla democratizzazione formale dell’impresa, sono beni illusori che si scambiano con l’adesione del dipendente ai valori e agli interessi dell’impresa (e con la contemporanea rinuncia ai propri interessi e valori, i quali non possono essere che collettivi). Linhart, sulle tracce di Boltanski e Chiapello, e a partire dal racconto delle sue esperienze di partecipazione a una serie di convegni e seminari sul tema del rapporto con i dipendenti, organizzati da associazioni di manager e quadri, mette in luce come a fornire la materia prima della nuova filosofia manageriale sia stata la “critica artistica” dei nuovi movimenti sociali, con il suo progressivo slittamento dalla lotta per obiettivi politici e sociali alle lotte per il riconoscimento di bisogni, desideri e diritti personali (12) (do you remember “il personale è politico”?). 





A chi individua le ragioni della sofferenza dei lavoratori di oggi nella delusione per il mancato riconoscimento economico e professionale del capitale culturale accumulato attraverso la formazione, o nell’anomia di lavori standardizzati dall’impatto omologante delle nuove tecnologie, Linhart controbatte che “il dramma del lavoro oggi non è che viene disumanizzato, ma che si giochi con gli aspetti più profondamente umani degli individui. È l’interezza della persona che si cerca di mobilitare”.  Sulle tracce di Ford, ma usando metodi assai più sofisticati e solo apparentemente meno autoritari, l’impresa neoliberale aspira a estendere il suo dominio “sulla fibra stessa dell’umano” (13). L’impresa “si prende cura” del dipendente, della sua felicità, ma, al tempo stesso, procura di fargli capire che è lui che deve farsi imprenditore della propria felicità (“la felicità è in noi stessi, essere felici dipende da ciascuno di noi, dalla nostra capacità di nutrire fiducia, di pensare positivo”). Procura soprattutto di fargli capire che la precarietà non è una cosa negativa ma un potente fattore di stimolo: spinge a lottare per affermarsi, a competere, insegna a contare sulle proprie forze, “fa crescere”. Lo stesso dicasi del cambiamento continuo: il dipendente non deve adagiarsi, scavare una nicchia in cui si senta sicuro e protetto, dev’essere obbligato ad adattarsi a un ambiente in costante evoluzione, l’idea stessa di essere “superato”, non aggiornato deve diventare un incubo fonte di terrore. La professionalità tradizionalmente intesa dev’essere rimossa, dimenticata (produrre amnesia, spiegare che tutto ciò che sapevate non serve più a nulla: così Linhart descrive la guerra aziendale contro la memoria, giustamente identificata come una pericolosa arma di resistenza), sostituita con le “competenze”, identificate con qualità come adattabilità, flessibilità, capacità di fidarsi, bisogno di mettersi alla prova, di “scoprire i propri limiti” (qualità destinate a salire nella scala degli obiettivi formativi prioritari della scuola di ogni ordine e grado, dall’asilo all’università). Cerchiamo ora di tirare le fila di quanto finora esposto.

Riassumendo,  la tesi della Linhart può essere formulata così: il taylorismo non è uno strumento contingente, limitato a una ben definita fase storica, del controllo capitalistico sul lavoro; esso incarna piuttosto un metodo, una vera e propria filosofia del dominio che attraversa l’intera storia del rapporto fra capitale e lavoro, e che consiste nello sforzo sistematico di “deprofessionalizzare” il lavoro,  di espropriare i saperi e le conoscenze dei singoli lavoratori, ma soprattutto i saperi condivisi da comunità informali e sottratte allo sguardo padronale, per trasferirle al management, che diventa così il dominus incontrastato del processo produttivo. È per questo che i lavoratori hanno sempre tentato di preservare, per quanto possibile, questo patrimonio di conoscenze collettive, in modo da proteggere le proprie identità individuali e collettive dietro lo schermo impersonale della professionalità. 

Se si condivide questo punto di vista, una prima conseguenza da trarre è che il paradigma “classico” che attribuisce agli avanzamenti tecnologici (sia che riguardino l’introduzione di nuovi macchinari, sia che si riferiscano a processi di razionalizzazione dei metodi e dell’organizzazione del lavoro) una valenza comunque progressiva (per i motivi ideologici spiegati in precedenza) dev’essere sottoposto a una seria revisione critica, nella misura in cui non tiene conto dei rapporti di forza fra capitale e lavoro che sovradeterminano il significato di tali innovazioni e che, sistematicamente, finiscono per rivelarsi strumenti di rafforzamento del controllo e del dominio del capitale sui lavoratori. Per dirla con altre parole: modernizzazione e razionalizzazione non sono valori positivi di per sé. 

Il secondo punto sollevato dalla sociologa francese riguarda i “danni collaterali” generati dalla cultura libertaria, antipolitica, orizzontalista e antigerarchica dei nuovi movimenti sociali, votata alla rivendicazione di diritti individuali più che di diritti collettivi, alla richiesta di riconoscimento delle differenze di ogni sorta, più che alla richiesta di giustizia e uguaglianza per le classi subalterne, ossessivamente concentrata sui principi e i valori della “cura” nei confronti dei singoli. Riprendendo la tesi di Boltanski e Chiapello, Linhart sostiene che questa cultura sta a fondamento del progetto di “umanizzazione” del lavoro che il management neoliberale è venuto mettendo in pratica negli ultimi decenni. Un progetto apparentemente lontano dallo spirito del taylorismo ma che, in realtà, ne condivide l’obiettivo di fondo: distruggere i saperi “segreti” che stanno a fondamento delle comunità informali dei lavoratori, o meglio, farli emergere per appropriarsene, smontando i collettivi di cui sono espressione e rimpiazzandoli con la “sollecitudine” aziendale nei confronti del singolo lavoratore, di cui si coltivano le “doti” di flessibilità, adattabilità, capacità di sopravvivere in ambienti in rapida e continua trasformazione, fiducia nella “mission” aziendale e identificazione con i suoi valori. 

Posto che entrambe le tesi mi paiono convincenti e condivisibili, credo tuttavia valga la pena di fare due precisazioni. La prima è che mi pare che l’universo aziendale da lei esplorato si riferisca soprattutto alle grandi imprese e, in particolare, alle grandi imprese che operano nei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati (pur se è vero che anche le grandi imprese del settore pubblico assumono modelli simili, se non identici). La massa dei lavoratori delle piccole e medie imprese, dei lavoratori della logistica e dei servizi tradizionali, dei lavoratori pseudo autonomi (gig economy e dintorni) e di altri settori marginali, restano esclusi o vengono sfiorati solo tangenzialmente da questo processo di “umanizzazione” (in questi luoghi controllo e dominio si inspirano spesso a modelli più tradizionali). La seconda considerazione riguarda gli effetti controintuitivi della emersione dei collettivi informali. In apertura citavo l’esempio dei consigli dei delegati di reparto degli anni Sessanta e Settanta: ebbene, è indubbio che quella esperienza, finché è servita da strumento di mobilitazione e di lotta dei lavoratori – cioè finché ha avuto valenza antagonistica, conflittuale – sia stata altamente positiva in termini di avanzamento della coscienza di classe. Che poi la si sia potuta “addomesticare” non è dovuto al fatto in  sé che i collettivi sono passati da uno statuto informale a un ruolo istituzionale, bensì alla loro spoliticizzazione, dovuta alla sconfitta del movimento operaio, piegato dalla crisi, dall’opportunismo sindacale e dall’assenza di un credibile progetto politico anticapitalistico. È chiaro che per combattere contro il dominio del capitale i collettivi operai “devono” uscire dalla clandestinità, perché solo così possono connettersi fra loro, mettersi in relazione con l’insieme della società, in una parola politicizzarsi. Dopodiché è vero che, se tutti questi passaggi vengono a mancare, ha ragione Linhart nell’affermare che la loro emersione finisce inevitabilmente per rivoltarglisi contro.                





Note

(1) Cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Penguin Books, London 1991.

(2) Cfr. C. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.

(3) Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(4) Cfr. D. Harvey, Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2021.

(5) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(6) Sul concetto di classe creativa cfr. R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003; per una critica dei concetti di lavoratori della conoscenza e di Quinto Stato, vedi quanto ho scritto in Utopie letali, op. cit.; vedi anche un mio precedente lavoro: Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(7) Si tratta di una visione che ritorna in tutti i lavori di Antonio Negri, da Impero (Rizzoli, Milano 2002) in poi. Vedi anche A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma 1998 e, dello stesso autore, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

(8) Questa immagine idilliaca è costruita sull’autorappresentazione dei protagonisti della cultura hacker e del boom delle startup californiane, nonché di comunità virtuali come Wikipedia. Cfr W. McKenzie, La classe hacker, Feltrinelli, Milano 2004. Vedi anche P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito della società dell’informazione, Feltrinelli, Milano 2001.

(9) Op. cit.

(10) Il massimo teorico dell’anarco capitalismo digitale è Yochai Benkler (La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007) ma si trovano tracce di questa concezione – ancorché meno ideologizzate – anche nell’opus magnum di Manuel Castells (L’età dell’informazione: economia, società, cultura, 3 voll. Università Bocconi Editore, Milano 2002-2003). 

(11) D. Linhart, La commedia umana del lavoro. Dal taylorismo al management digitale; Mimesis, Milano-Udine 2021. 

(12) La persona – presentata come singolarità concreta, in realtà del tutto astratta nella misura in cui viene descritta come un’entità cosmopolita, come una “cittadina del mondo” avulsa da ogni riferimento geografico, storico e sociale (di classe) – viene posta come il centro di imputazione della pletora dei “nuovi diritti” che la società tardo capitalista sforna a getto continuo, a partire dai dispositivi che connettono desideri e bisogni individuali, tecnologia e mercato. Cfr. in merito S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.  

(13) Una delle critiche più organiche e approfondite dei dispositivi grazie ai quali l’economia neoliberale produce non solo prodotti e servizi, ma gli uomini e le donne che li producono e li consumano, si trova in P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.    





   

       

       

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