Lettori fissi

martedì 12 marzo 2024

LIBERE DI VENDERE IL PROPRIO CORPO A PEZZI







Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in  28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.  


A snocciolare questi dati è la svedese Kajsa Ekis Ekman  autrice di un libro (Essere ed essere comprate. Prostituzione, maternità surrogata e identità divisa) appena uscito per i tipi di Meltemi che, oltre a documentare la cruda realtà appena evidenziata, demolisce gli argomenti con i quali quella che potremmo definire la santa alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne (compresa parte del movimento femminista) si batte per legittimare la prostituzione e maternità surrogata nei Paesi dove già sono legalizzate e per promuoverne la legalizzazione dove sono proibite.



Prostitute? No, lavoratrici sessuali


La tesi di fondo di liberali di destra e sinistre postmoderne (socialisti, verdi e femministe) che si battono per la legalizzazione è che la prostituzione è un lavoro come tutti gli altri. La vendita di servizi sessuali (sic.) non viola alcun diritto; al contrario si tratta di un diritto in sé, cioè del “diritto” di vendere il proprio corpo. I veri problemi sono altri: lo status lavorativo, la sindacalizzazione, retribuzioni adeguate, autodeterminazione, sicurezza sanitaria, ecc. Secondo questa narrazione il mondo della prostituzione non mette di fronte donne e uomini bensì venditori e clienti, per cui i proprietari di bordelli (privati o pubblici laddove esiste regolazione statale) diventano imprenditori e fornitori di servizi.   


Le sinistre postmoderne contribuiscono alla narrazione costruendo l'immagine della lavoratrice sessuale come persona forte e indipendente, che sa quello che fa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre i teorici queer la esaltano in quanto soggetto che trasgredisce le norme, abbatte i confini e mette in discussione i ruoli di genere. Fra questi agit prop della “puttana eroica” Ekman cita, fra gli altri, gli attivisti del COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics) un gruppo americano fondato da una fazione liberale del movimento  hippie. Tutta questa gente svolge, consapevolmente o meno, il lavoro sporco per un ordine neoliberale ben felice di sgombrare il campo dall'idea della prostituta come vittima, perché ammettere l'esistenza di vittime implica riconoscere la necessità di una società giusta e di una rete di assistenza sociale, eliminare il concetto significa viceversa legittimare lo status quo, le divisioni di classe e la disuguaglianza di genere: se non ci sono  vittime non ci possono essere carnefici. 


Accademici, giornalisti e critici impegnati nel costruire questa immagine eufemistica e glorificata della lavoratrice sessuale, si danno da fare per "dare voce" alle interessate e si eleggono a rappresentanti dei loro interessi, bisogni e punti di vista, identificandosi con loro anche se, commenta sarcastica Ekman, nessuno di questi soggetti si è mai prostituito, così come certi eroi da salotto inneggiano alla guerra senza avere mai visto il fronte.  Che dire dei sindacati? Posto che in generale l'argomento della sindacalizzazione cattura il favore degli ambienti sindacali tradizionali e di certa sinistra, i cosiddetti sindacati delle lavoratrici del sesso, come l'autrice ha potuto constatare intervistandone vari esponenti, sono specchietti per le allodole creati per intercettare finanziamenti: gli iscritti, se e quando esistono, sono pochissimi, spesso di tratta di uomini e trans, a volte addirittura di papponi e maîtresse. 


In poche parole le narrazioni appena evocate svolgono il ruolo di infiocchettare il mondo della prostituzione con immagini mutuate dal mondo delle escort d’alto bordo dei Paesi occidentali, mentre calano un velo di ignoranza su una realtà fatta di violenza, sopraffazione, disperazione che coinvolge milioni di persone e attinge livelli inimmaginabili nel Terzo mondo e in alcuni Paesi ex socialisti. 



Tratta di bambini? No immacolata concezione 


La maternità surrogata è un'industria legale in crescita negli Usa, Ucraina, Inghilterra, India, Ungheria, Corea del Sud, Israele, Olanda, Sudafrica ma il primato spetta all'India. Sul mercato di  questo grande paese le cose funzionano così: gli ovuli di donne bianche vengono inseminati con lo sperma di uomini bianchi e l’ovulo viene impiantato nel ventre di donne indiane; i bambini non mostreranno traccia della donna che li ha partoriti, non porteranno il suo nome né la conosceranno; dopo il parto le donne firmano un contratto di rinuncia al bimbo e ricevono fra i 2500 e i 6500 dollari; i clienti sono tipicamente americani, europei, australiani, giapponesi o indiani benestanti, coppie etero, gay, lesbiche e uomini single. Cosa impedisce di considerare tutto ciò come una forma estesa di prostituzione, con l'unica differenza che viene venduto l’utero invece della vagina? Per eludere questa domanda, vengono mobilitate due narrazioni complementari: da destra si esalta il sacrificio della madre surrogata che si spende per fare la felicità di una unione sterile; da sinistra si celebra la pratica “trasgressiva” che rovescia lo stereotipo della famiglia tradizionale.   


Dopo avere premesso che la gravidanza in questione non è una "vera" maternità, bensì un servizio e  che, stipulando un contratto, la madre surrogata conferma il proprio status di persona dotata di libero arbitrio individuale (persona è chi possiede il proprio corpo!), gli apologeti liberali indorano la pillola presentando la madre surrogata come un’anima gentile, una fata madrina che aiuta i clienti a ottenere ciò che vogliono. I più arditi si spingono a scomodare la tradizione ebraico cristiana per "angelicare" il mercimonio citando la serva Agar che portò in grembo il figlio di Sara e Abramo o il sacrificio della vergine Maria che portò in grembo il figlio del Signore. Ma appena le argomentazioni si fanno più prosaiche vengono alla luce le contraddizioni. La maternità surrogata è un servizio come un altro? Ma qual è il prodotto? Un bambino, che diviene così paragonabile a un’auto o a un cellulare. Una copia stabile alto borghese, si dice, non darà forse al bambino la migliore educazione possibile e una vita migliore di quella che potrebbe offrirgli una miserabile madre biologica? Con il calcolo economico si riaffaccia insomma lo spettro della tratta di minori.


Ma c'è sempre la possibilità di mobilitare gli argomenti di sinistra. Per i teorici queer e gli attivisti RGBTQ la maternità surrogata, come la prostituzione, è una pratica trasgressiva che sfida modelli conservatori e obsoleti; è la storia femminista di donne che si ribellano alla maternità tradizionale  riscattando altre donne dall’inferno associato dall'impossibilità di avere figli. C'è persino chi (tale Kutte Jonsson citata dalla Ekman) paragona la lotta per la legalizzazione della maternità surrogata a quelle degli anni 70 per il salario al lavoro domestico,  sostenendo che le donne non devono essere private dell’opportunità di usare il proprio corpo in cambio di un pagamento, per cui la maternità surrogata sarebbe, al tempo stesso, un diritto e una richiesta di emancipazione. 


In poche parole: l'alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne funziona benissimo anche in questo caso ma, prima di entrare nel merito delle riflessioni teoriche con cui Ekman sostanzia il suo atto d’accusa, vale la pena di dimostrare quali mostri riesca a partorire questa unità di amorosi intenti fra destre e sinistre.  Ecco perché, nel prossimo paragrafo, ho raccolto un elenco delle citazioni dalle argomentazioni degli apologeti di prostituzione e maternità surrogata che più mi hanno colpito leggendo il libro della Ekman.



Kajsa Ekis Ekman



Fior da fiore liberal femminista


"Queste donne (le prostitute) prendono il comando sugli uomini e agiscono secondo strategie di potere" (Petra Ostergren).  


"Ogni tipologia non convenzionale di sesso è rivoluzionaria" (Gayle Rubin, antropologa americana).


La sociologa Lara Augustin definisce le vittime della tratta di esseri umani "Lavoratrici sessuali migranti".


A proposito della prostituzione minorile in Tailandia l'antropologa sociale Heather Montgomery scrive: "non credo che i modelli psicologici occidentali possano essere applicati ai bambini di altri paesi e risultare ancora utili" (cioè i bambini thailandesi si divertono un mondo nei bordelli per pedofili?).


"Vendere il proprio corpo è un diritto umano" (Jenness). 


"I papponi non sono necessariamente il nemico, possono essere necessari alla protezione delle lavoratrici sessuali visto che la polizia non riesce a farlo" (Ana Lopes, sindacalista).


"La maternità surrogata dissolve l’idea “naturale” di maternità, di paternità e di cosa sia una famiglia" (Torbjorn Tannsjo, filosofo)


"Il divieto (della maternità surrogata) è la prova che abbiamo una visione biologica eteronormativa e orientata alla coppia della genitorialità" (Soren Juvas, attivista per la legalizzazione). 


"Anche le differenze di classe  e di razza sono messe da parte quando si tratta di infertilità" (Hélena Ragoné, ricercatrice; cioè: al committente bianco non fa schifo far crescere il proprio figlio nel grembo di una donna di colore povera).


"Ci sono dei vantaggi nell’essere sfruttati soprattutto quando si vive in totale miseria" (Wilkinson, filosofo inglese).


"Ciò che viene venduto è un pacchetto di diritti genitoriali non il bambino" (Wilkinson, filosofo inglese).


"La maternità surrogata non è vendita di bambini ma piuttosto costruisce famiglie attraverso il mercato" (Elly Teman, antropologa).



Reificazione


Le narrazioni che perorano la causa della legalizzazione, scrive Ekman, tracciano un confine netto fra bene e male. Dalla parte del bene mettono: la prostituta ribattezzata lavoratrice sessuale, il sesso libertario, il libero arbitrio, il diritto a disporre del proprio corpo, i diritti dei gruppi oppressi, i gay, l’economia di mercato, il progresso,  la trasgressione, ecc. Dalla parte del male: le femministe e gli attivisti politici paleo marxisti, la moralità, l’ipocrisia, la stigmatizzazione del diverso, l’essenzialismo, il controllo statale, ecc.  L’autrice è tuttavia costretta ad ammettere che anche le femministe che non appartengono all’ala liberal-progressista del movimento si lasciano ricattare da questa polarizzazione infatti, per non essere dipinte come megere moraliste e bacucche patriarcali, preferiscono tacere o allinearsi alla narrazione mainstream. 


La trappola concettuale che impedisce alle femministe di prendere le distanze dalle narrazioni dell’ala liberal progressista del movimento è l'ingombrante eredità ideologica che si portano dietro dal 68, sintetizzata dallo slogan il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio. Slogan che, tanto nel caso della prostituzione quanto in quello della maternità surrogata, si ritorce contro le intenzioni di coloro che lo hanno coniato. Esso viene infatti utilizzato per legittimare un’altra asserzione: vendo una parte del mio corpo non il mio io. Il guaio è, commenta Ekman, che la vagina e l’utero sono legati a una persona per cui, nel momento in cui dico che vendo certe parti del mio corpo, rimuovo il fatto che nessuno possiede il proprio corpo perché tutti noi siamo i nostri corpi. Se la vagina e l’utero sono cose, la prostituta e la madre surrogata sono fatte di due parti: il soggetto che vende e l’oggetto venduto e la libertà del primo implica la schiavitù del secondo.  


Per descrivere gli effetti psicologici di questo sdoppiamento, Ekman analizza le modalità di distanziamento che la prostituta, a partire dal momento in cui stipula un accordo con il cliente, è indotta a mettere in atto nei confronti del proprio corpo, nonché delle proprie sensazioni ed emozioni. Si tratta di una serie di pratiche di autodifesa che generano disagi e turbe psichiche e, alla lunga, possono causare veri e propri sdoppiamenti di personalità. 


Il quartiere delle luci rosse ad Amsterdam



Per approfondire il tema l’autrice chiama in causa il concetto di estraniazione in Lukács (1) e quello di mercificazione in Marx. Per Lukács il concetto di reificazione descrive quell’aspetto della società capitalistica in ragione del quale gli oggetti appaiono dotati di vita propria a fronte di soggetti ridotti all’impotenza. Da un lato abbiamo l’individuo “liberato” dalla relazione immediata e diretta con la terra, i mezzi di produzione e i mezzi di sostentamento; dall’altro la sua forza lavoro, che assume la forma di merce, cioè di una cosa che egli possiede ed è indotto a vendere per potersi riprodurre. Questa relazione imprime la sua struttura all’intera coscienza umana: qualità e capacità non si connettono più all’unità organica della persona ma appaiono come cose che uno possiede ed esteriorizza al pari degli oggetti del mondo esterno.  


Dal canto suo Marx, premesso che il capitalismo per durare deve costantemente cercare nuove aree di  mercificazione, scrive che la mercificazione nasconde sempre la relazione sociale fra due parti. Nel caso della prostituzione, ma anche in quello della maternità surrogata commenta Ekman, ciò va inteso in senso letterale: la relazione è cancellata mentre resta solo la merce. Infine, per dimostrare ulteriormente la congruità delle categorie marxiane rispetto ai fenomeni sociali che analizza, scrive che la maternità surrogata potrebbe essere considerata come un caso particolare del tentativo di regolare il rapporto tra proletariato e classi superiori attraverso un contratto che consenta di mistificarlo come un rapporto fra “pari”. 



L’eredità (sviata?) del 68. Considerazioni conclusive


Fin qui, fin quando cioè il discorso si mantiene sul terreno della denuncia e della critica filosofico culturale delle tesi di liberali e sinistre postmoderne, le argomentazioni della Ekman mi paiono impeccabili. Viceversa, quando la polemica si sposta sul terreno ideologico-politico, compaiono alcune aporie. La prima si manifesta allorché l’autrice cerca di dare una motivazione psicologica alla conversione delle sinistre all’ideologia liberale. Nel momento in cui il capitalismo conquista una incontrastata egemonia globale, scrive, parti della sinistra “reagirono mascherando come un trionfo la sconfitta”. Così la ricerca di ciò che è provocatorio, ribelle e sovversivo si sposta dall’esterno all’interno del sistema, fino a teorizzare (Ekman non li cita, ma qui le teorie di Negri e altri autori postoperaisti che blaterano di “comunismo del capitale” ci stanno a pennello) che l’ordine esistente è già di per sé sovversivo e/o a riconoscere in ogni manifestazione di insofferenza sociale, anche nelle più conservatrici e reazionarie, nuclei di resistenza e contropotere. La descrizione fenomenica è perfetta ma siamo sicuri che i motivi della svolta siano di ordine psicologico, una sorta di reazione autoconsolatoria per non sprofondare nella depressione?


La tesi mi pare debole, e ancora più debole mi pare il modo in cui Ekman descrive l’ impatto dei movimenti libertari e anti autoritari del 68 sui sistemi di potere politici, economici, accademici e mediatici, i quali, scrive, “hanno dovuto ridefinirsi per giustificare la loro esistenza”. Così, dal momento che l’autorità non poteva più essere considerata come una cosa buona in sé e per sé né potendola più presentare come un dato “di natura”, l’unico modo per legittimare il potere sarebbe diventato quello di negarlo, o almeno eufemizzarlo. Da qui nasce la simbiosi fra destra neoliberale e sinistra postmoderna in ragione della quale capitalisti woke (2), media, intellettuali e politici fanno a gara per costruirsi un’immagine di diverso, dissidente o emarginato. 


A una lettura superficiale potrebbe sembrare che la tesi di Ekman converga con quelle di Boltanski e Chiapello (3) e/o con quelle della filosofa femminista Nancy Fraser (4). Ciò è parzialmente vero nel caso della seconda, ma non lo è nel caso dei primi. Infatti costoro non sostengono che il neo capitalismo si sarebbe adeguato all’ideologia, ai principi e ai valori dei movimenti anti autoritari, sostengono assai più correttamente che l’ideologia, i principi e i valori di quei movimenti erano di per sé funzionali alle esigenze di autoriforma di un capitalismo in rapida trasformazione sul piano economico (finanziarizzazione) tecnologico (informatizzazione) e socioculturale (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali). 


Una trasformazione che esigeva metodi e modelli organizzativi del tutto nuovi di gestione della forza lavoro qualificata, compatibili con le aspirazioni di quella classe media in formazione che nel 68 si era ribellata contro i vecchi dispositivi di potere politico, accademico e familiare. Esauritosi il ciclo di lotte operaie con le quali questi strati avevano brevemente condiviso obiettivi e parole d’ordine, costoro sono transitati dalla “critica sociale” alla “critica artistica” (5) rompendo il blocco sociale con i lavoratori manuali e arruolandosi nell’esercito neocapitalista che, per estendere il processo di mercificazione alla totalità delle relazioni sociali, esigeva che si facesse piazza pulita di tutto il vecchiume borghese (famiglia e costumi sessuali tradizionali compresi). Milioni di appartenenti alle classi medie “riflessive” erano pronti a marciare sotto le bandiere della libertà e dell'emancipazione individuali e ad aiutare il capitale a realizzare l’obiettivo descritto da Marx nel Manifesto: abbattere ogni barriera fisica, morale, ideologica, culturale che limita le opportunità di profitto. 


Nancy Fraser



Lo scoglio che impedisce anche alle femministe anticapitaliste come Ekman e Fraser di cogliere a fondo le radici di questa transizione storica, consiste nel fatto che non riescono a prendere atto che nel vecchiume borghese di cui il neocapitalismo ha bisogno di sbarazzarsi c’è anche quel paternalismo che continuano invece a  rappresentare come il bersaglio principale. Queste autrici sono così costrette a fare salti mortali per dimostrare l’esistenza di un rapporto organico, strutturale, fra capitalismo e patriarcato (6). Ciò è del tutto evidente nel caso della maternità surrogata. Ekman parla di un nuovo tipo di mito patriarcale della creazione, nel senso che il padre non è l’uomo che genera un figlio ma colui che lo compra, e aggiunge che la maternità surrogata può essere vista come una forma estesa di prostituzione dal momento che qualcuno (spesso un uomo aggiunge) paga per usufruire del corpo della donna. Infine scrive che, da parte dei sostenitori della legalizzazione, il legane biologico del padre non viene messo in discussione: lui non viene accusato di difendere la biologia o la famiglia nucleare, la critica è rivolta solo a lei. Sono argomentazioni forzate, per non dire speciose. Qui è infatti evidente che è piuttosto la Ekman che cerca di attirare l’attenzione sul padre, rimuovendo il fatto che il desiderio di avere figli, nella stragrande maggioranza dei casi (fatta eccezione per le coppie omosex), vede come protagonista principale la metà femminile della coppia. Non è certo un caso se (vedi sopra) gli argomenti dei fan maschili della legalizzazione sono perlopiù economici, mentre quelli delle fan femminili (che sono larga maggioranza, a giudicare dalle citazioni scelte della stessa Ekman) esaltano il desiderio femminile di maternità che “sovverte” le regole della famiglia tradizionale. E’ la narrazione femminista che associa le donne che si ribellano alla maternità tradizionale alla sofferenza di non avere figli cui la maternità surrogata pone rimedio. E’ la storia di un desiderio che viene trasfigurato in bisogno perché lo si possa infine spacciare per un “diritto umano” che solo il mercato riesce a soddisfare (7). Mi pare ovvio che qui non è questione di dominio patriarcale bensì di dominio di classe e razziale, un dominio che le “leggi” del mercato capitalistico consentono a coppie benestanti bianche (donne e uomini) di esercitare a spese di donne povere e di colore.


Ovviamente mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive. Ciò detto, muovendo da questo punto di vita unilaterale si finisce per distogliere l’attenzione dalla forma specifica che il fenomeno della prostituzione assume nella società capitalistica. Una società che disintegra i legami comunitari e familiari, trasformando uomini e donne delle classi inferiori in atomi condannati alla povertà e alla solitudine, e generando quella miseria sessuale generalizzata di cui la prostituzione, con il suo corredo di violenza di genere, è uno dei corollari. 


Ma la questione è più generale. Il rapporto fra il modo di produzione capitalistico e i residui antropologici, sociali e culturali delle società precapitalistiche è complesso, nel senso che il capitalismo sfrutta i residui in questione finché può metterli al servizio dell’accumulazione (vedi l’uso della schiavitù nell’America ottocentesca) mentre se ne sbarazza non appena entrano in conflitto con la sua vocazione di dispositivo di sovversione permanente di tutte le forme e relazioni sociali. Il salto di qualità associato ai fenomeni sopra elencati (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali, ecc.) è incompatibile con il permanere di strutture familiari di tipo patriarcale. Il capitale ha bisogno di spezzare queste strutture individualizzando e atomizzando la forza lavoro, uomini e donne, per renderla più ricattabile; ha bisogno di fare piazza pulita dei valori “machisti” dell’operaio tradizionale femminilizzandolo, spezzandone la combattività, l’orgoglio professionale (le donne della classe media hanno competenze che le rendono molto più adatte alla produzione terziarizzata). 


La propaganda politicamente corretta (8) che media, intellettuali e politici spandono a piene mani è l’arma letale destinata triturare ogni residuo di ideologia patriarcale. Il fatto che le donne continuino a percepire stipendi in media più bassi, a occupare meno posti di responsabilità, ecc. non ha niente a che fare con il patriarcato: è il sistema usato dal capitale per dividere e mettere in concorrenza i lavoratori dei due sessi (la femminilizzazione del lavoro non è un fattore di equiparazione delle donne ai maschi, bensì di equiparazione dei maschi alle donne, è un gioco al ribasso). Ovviamente questo non toglie nulla allo straordinario contributo che il libro di Kajsa Ekis Ekman offre alla lotta contro due fenomeni disgustosi come la riduzione del corpo femminile a oggetto di piacere e a macchina riproduttiva. Nè toglie nulla alla sua denuncia della complicità delle sinistre postmoderne nei confronti del progetto neoliberale di mercificazione totale di ogni tipo di relazione umana. Queste mie glosse finali vogliono solo essere uno stimolo critico alla comprensione della sovradeterminazione di tutte forme di vita precapitaliste da parte del mercato.


NOTE


(1) Ekman si riferisce in particolare al Lukács di Storia e coscienza di classe (Tasco, Milano 1997) mentre non sembra conoscere l’opera “definitiva” del filosofo ungherese, quella Ontologia dell’essere sociale (4 voll. Meltemi, Milano 2023) che le sarebbe forse servita a superare alcune limitazioni presenti nella sua analisi filosofico politica (vedi l'ultima parte di questo articolo).


(2) Del fenomeno del cosiddetto capitalismo woke (vedi C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi, Milano 2023), vale a dire dei capitalisti “progressisti” che applicano i principi del politically correct alla gestione delle proprie imprese, mi sono occupato qualche mese fa su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html.


(3) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello,  Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


(4) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, New York 2013; vedi anche (con R. Jaeggi), Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.


(5)  Boltanski, Chiapello definiscono critica artistica la cultura anti autoritaria, libertaria, anti sessista dell’ala intellettuale e studentesca dei movimenti del 68, distinguendola dalla critica sociale del movimento operaio.


(6) Tipica in questo senso l’analisi teorica di Nancy Fraser. La sua riflessione integra nel concetto di crisi capitalistica quello di “crisi della cura”. Sposta cioè le contraddizioni principali del sistema all’esterno del modo di produzione e delle relazioni di mercato, o meglio le disloca al confine fra produzione e riproduzione.  Questo approccio, pur presentando certe analogie con le tesi di autori come Polanyi, Luxemburg, Laclau e altri, se ne distingue in quanto, da un lato sostiene che fin dall’inizio la società capitalistica ha separato il lavoro di riproduzione sociale, esterno all’economia, dal lavoro di produzione economica, dall’altro lato afferma che le attività non economiche rappresentano una precondizione dell’esistenza stessa del sistema economico. Perciò, dal momento che la tendenza capitalistica all’accumulazione illimitata destabilizza i processi di riproduzione sociale, è sul confine che separa produzione e riproduzione che nasce una crisi della cura di intensità inedita. Questa crisi è lo scenario che genera le condizioni della convergenza fra emancipazione femminile e mercificazione del lavoro riproduttivo, convergenza che è il terreno di coltura di quel “neoliberismo progressista” al quale il femminismo mainstream fornisce giustificazione ideologica. Fraser, pur duramente critica nei confronti di questo femminismo neoliberale, si incarta tuttavia nel tentativo di mettere sullo stesso piano giustizia distributiva e giustizia del riconoscimento ma, poiché si tratta di due discorsi che incarnano paradigmi teorici diversi, l’aspirazione a “riequilibrarli” si risolve inevitabilmente nell’egemonia dell’uno sull’altro. Ergo: anche la Fraser finisce per cadere a sua volta preda dell’approccio postmodernista, il che è inevitabile non appena si parte dal presupposto secondo cui le rivendicazioni di riconoscimento avrebbero, non meno delle rivendicazioni di giustizia distributiva, ragioni strutturali, in quanto le stratificazioni interne alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza risponderebbero a una precisa necessità del modo di produzione capitalistico. Contestando questa visione in un dialogo con la Fraser, Rahel Jaeggi (vedi nota 4) afferma che, da una analisi teorica di ispirazione marxista, non si evince alcun motivo strutturale per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza: “E se il capitalismo, si chiede, mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dell’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?”. Di fronte a questa obiezione Fraser è indotta ad ammettere che l’ipotesi è “logicamente possibile”, dopodiché cerca di cavarsela dicendo che la si può tuttavia escludere “per tutti gli scopi pratici”. Il punto è che il femminismo non può ammettere che sessismo e razzismo non sono di per sé strutturalmente necessari per il modo di produzione capitalistico, in quanto rischierebbe di apparire una lotta di retroguardia contro certi arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano. In poche parole: il grumo concettuale che penalizza le analisi di tutte le intellettuali femministe è quello della presunta necessità strutturale della discriminazione di genere ai fini della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico; un inciampo che rende loro impossibile emanciparsi del tutto dall’egemonia liberale.


7) Questo slittamento lungo l’asse desiderio-bisogno- diritto è stato il nodo che ha alimentato le critiche che il sottoscritto, assieme a Onofrio Romano e altri amici, ha sollevato nei confronti delle tesi sostenute da Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza, Roma-Bari 2012).


8) Sul carattere violento, autoritario e antidemocratico della cultura politicamente corretta cfr. J. Friedman,  Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018. 


 






 

giovedì 7 marzo 2024

IL MARX "VERDE" DI KOHEI SAITO






Mi sono già occupato delle tesi del marxista giapponese Kohei Saito nella prima puntata dell'articolo "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html). In quell'occasione avevo discusso un suo libro dal titolo Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022). Poco dopo, l'editore Fazi ha dato alle stampe l'edizione italiana di un testo precedente, L'ecosocialismo di Karl Marx (Karl Marx's Ecosocialism), un saggio che ha avuto uno strepitoso successo in Giappone (mezzo milione di copie!) e che, grazie alle sue tesi provocatorie, presumo ne avrà altrettanto a livello mondiale. Ho quindi ritenuto opportuno dedicargli questo secondo intervento nel quale, da un lato, ribadisco le perplessità formulate nel primo, dall'altro tento di approfondire alcuni dei temi affrontati da Saito che mi sono parsi tutt'altro che privi di interesse.  


Saito mette le mani avanti, riconoscendo che, se ci si limita a considerare la produzione marxiana "canonica", sembrano più che fondate le critiche rivoltagli sia dagli ecologisti che da coloro che lo accusano di eurocentrismo (1): il filosofo di Treviri, il che vale a maggior ragione per Engels, aveva ancora, infatti, una visione unilateralmente ottimistica della funzione storica del capitalismo, al quale riconosceva il merito di avere accelerato, non solo il progresso economico, ma anche quello civile dell'umanità, contribuendo a emanciparla dai vincoli sociali e ideologici che impastoiavano il mondo precapitalista. Dalla lettura di opere come il Manifesto emerge un Marx “produttivista”, entusiasta dello sviluppo delle forze produttive innescato dalla crescita dell'economia capitalistica, persino disposto a perdonare i crimini del colonialismo nella misura in  “risvegliavano” dal sonno millenario le statiche civiltà orientali. Un punto di vista sostanzialmente condiviso dal successivo movimento marxista.


Saito ha l’indubbio merito di avere messo in discussione questa lettura, dimostrando come nelle opere della maturità (soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 60 dell’Ottocento) la visione di Marx si sia progressivamente allontanata da questa concezione unilateralmente ottimistica del potenziale emancipatorio del capitalismo. Posto che il filosofo giapponese non è l’unico ad avere messo in luce come nel lavoro teorico di Marx si intreccino diversi “regimi narrativi” (2), l’originalità (ma al tempo stesso l’azzardo) della sua tesi consiste nel rintracciare in un uno di questi  regimi narrativi una vera e propria svolta, in ragione della quale Marx sarebbe arrivato a considerare le “crisi ecologiche” come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Il rischio di anacronismo è chiaro, non solo e non tanto perché il paradigma ecologico era a quei tempi di là da venire, ma anche perché i riferimenti in tal senso che possono essere rintracciati nel Capitale (3) non sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’economia complessiva dell’opera maggiore. Eppure Saito nega che Marx abbia trattato il tema ecologico solo in modo sporadico e marginale. Vediamo su quali basi documentali.


La fonte primaria del suo ragionamento sono i quaderni di estratti, citazioni, commenti di lettura accumulati da Marx nel corso della sua esistenza. Non solo i già noti Quaderni di Parigi e Quaderni di Londra, ma l’enorme mole di inediti venuta via via alla luce con la pubblicazione (tuttora incompiuta) dei MEGA, un terzo dei quali sono stati redatti negli ultimi 15 anni di vita dell’autore. Questi estratti, sostiene Saito, non sono meno importanti dei testi “canonici”, in quanto documentano una serie di aspetti che nelle opere principali vengono accennati ma non approfonditi. Questa tesi poggia in particolare sul fatto che il secondo e il terzo volume del Capitale sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi, dopo che Engels ne aveva rivisto e assemblato le stesure provvisorie. Secondo Saito, il “ritardo” accumulato da Marx nella stesura definitiva dell’opera fondamentale, va messo in relazione con i ripensamenti maturati negli ultimi anni di vita, ripensamenti che si rispecchiano negli appunti dei quaderni, i quali ci aiutano a comprendere cosa avrebbe scritto Marx se fosse riuscito a portare a termine la versione definitiva del Capitale. E’ evidente che questo approccio sottende l’esistenza di una divaricazione fra l’intenzione originaria di Marx e l’interpretazione che ne diede Engels redigendo la versione “ufficiale” dell’opera. Tuttavia non è questo il tema che qui mi interessa per cui, prima di entrare nel merito degli aspetti del lavoro di Saito che ritengo più interessanti, preferisco richiamare l’attenzione su due punti: il primo è la sua rilettura dei Quaderni economico filosofici, in quanto è un buon esempio dell’approccio che il nostro adotta laddove tenta di “mixare” un testo “ufficiale” con gli appunti coevi dei quaderni; il secondo riguarda le fonti scientifiche che avrebbero  suo avviso influenzato la svolta “ecologista” dell’ultimo Marx.


I Manoscritti economico filosofici, secondo Saito, non andrebbero letti come un’opera indipendente bensì come una parte degli appunti di studio di Marx raccolti nei Quaderni di Parigi. Questo approccio consente a suo avviso di superare la sterile contrapposizione fra marxisti “umanisti” e marxisti ”scientisti”. Com’è noto, i primi rivalutano il pensiero del “giovane Marx”, impegnato nella critica della sinistra hegeliana, per affermare  la centralità del concetto di lavoro alienato (4) in polemica con le interpretazioni materialistico-meccaniche del suo pensiero; i secondi (vedi, fra gli altri, Althusser) sostengono al contrario che, dopo L’ideologia tedesca, Marx avrebbe completamente abbandonato lo schema antropologico- hegeliano del 1844 per orientarsi verso una problematica “scientifica” (cioè verso la critica dell’economia politica, senza più indulgere a civetterie con la dialettica hegeliana). Ma in questo modo, argomenta Saito, i primi sottovalutano i successivi sviluppi del pensiero economico di Marx, mentre i secondi ignorano che è proprio la critica marxiana alla filosofia giovane-hegeliana che consente di cogliere il vero punto di partenza della sua critica dell’economia politica. Per superare il dualismo fra analisi sociologica e analisi filosofica, scrive Saito, occorre capire che, fin dall’inizio, Marx ha studiato l’economia politica analizzando le forme sociali delle categorie economiche e, nel contempo, ha studiato la filosofia e le scienze naturali per acquisire la base scientifica necessaria ad analizzare le qualità materiali della realtà. In tal senso non esiste dunque una sostanziale cesura fra il “giovane” Marx e il Marx “maturo”, e i quaderni (sia quelli giovanili che quelli dell’ultimo quindicennio di vita) vanno riletti in stretta connessione con la formazione della sua critica dell’economia politica e non come un grandioso progetto materialista di spiegazione dell’universo (il riferimento critico alla engelsiana dialettica della natura è qui implicito).


un ritratto del giovane Marx



I quaderni dell’ultimo Marx, si riferiscono alle opere di studiosi come il chimico Justus von Liebig,  l'economista Henry Carey e il fisico Carl Fraas, tutti impegnati, ancorché a partire da punti di vista diversi e a volte divergenti, a denunciare il rischio dell’esaurimento dei suoli provocato dall’agricoltura di rapina praticata da proprietari terrieri e imprenditori agricoli esclusivamente preoccupati di ottenere il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Non ho qui lo spazio, né lo ritengo indispensabile, per descrivere nei dettagli le loro teorie. Basti ricordare che, per Liebig, la questione di fondo era la mancata reintegrazione delle sostanze nutritive dovuta al supersfruttamento dei suoli, laddove Fraas attribuiva maggior peso all’influenza del clima, in particolare alle mutazioni climatiche indotte dalla deforestazione selvaggia, ma giungeva alle stesse conclusioni. Ad attirare l’attenzione di Marx, sostiene Saito, fu soprattutto la settima edizione (1862) della “Chimica organica applicata all’agricoltura e alla fisiologia” di Justus von Liebig. Le tesi del chimico tedesco lo indussero infatti a riconsiderare la tesi (condivisa da Engels) secondo cui la fertilità del suolo può essere accresciuta all’infinito con il concorso del capitale, del lavoro e della scienza. Ma Saito insiste soprattutto sul fatto che l’interesse di Marx per questo lavoro, come per quelli di Carey e Fraas, non era meramente scientifico-naturalistico bensì di tipo squisitamente economico. Marx, ragionando sulle teorie di Ricardo sulla rendita fondiaria, ne condivideva l’analisi del meccanismo di tale categoria economica, ma ne rigettava la tesi sulla legge dei rendimenti decrescenti, nella misura in cui essa, da un lato avrebbe legittimato la teoria di Malthus, dall’altro avrebbe indotto ad ammettere che anche una futura società socialista sarebbe stata inevitabilmente minacciata dal problema dell’insufficienza dei mezzi di produzione. 


Viceversa le opere dei tre autori appena citati consentivano, secondo Marx, di indagare le cause dei rendimenti decrescenti non come manifestazione “assoluta” (trans storica) dei limiti naturali all’aumento della produttività, bensì come causa specificamente moderna (capitalistica) del fenomeno. Le loro opere, che Marx definiva “inconsapevolmente socialiste”, mettevano infatti in luce che il miglioramento del suolo operato dal capitalismo non mira a una produzione sostenibile nel lungo periodo ma all’utile monetario immediato, per cui investe capitale e lavoro solo nelle terre più redditizie, che finiscono così per esaurirsi, mentre le altre vengono lasciate incolte. Inoltre Liebig puntava il dito contro lo squilibrio fra città e campagna generato dall’industrialismo moderno (squilibrio che interrompe il ciclo delle sostanze nutritive, nella misura in cui gli scarti organici della città non tornano alla terra sotto forma di concime ma vanno dispersi nell’ambiente). Senza contare che questo antagonismo fra centri e periferie si manifesta su scala mondiale sotto forma di rapina delle risorse naturali e della forza lavoro dei paesi periferici. 


In poche parole, Marx usa le analisi scientifiche di autori come Liebig, Carey e Fraas, per dimostrare che un'economia di mercato è incapace di realizzare una gestione razionale della terra come condizione di esistenza e riproduzione delle generazioni umane che si susseguono, e per affermare la necessità di un’agricoltura non mediata dal valore. Basta tutto ciò per avvalorare la tesi di Saito sulla presunta  svolta “ecologista” (pur mettendo fra parentesi l’anacronismo associato all’uso di tale termine) dell’ultimo Marx, svolta che non sarebbe stata incorporata negli ultimi due volumi del Capitale solo perché la morte gli avrebbe impedito di portarli a compimento? Gli ecologisti obietterebbero che Saito non riesce a dimostrare che Marx abbia preso seriamente in considerazione la questione della scarsità delle risorse naturali, dal momento che pensa che il problema esista solo nel capitalismo mentre verrà superato nel socialismo attraverso il ibero sviluppo della produttività. Per capire se, come e in che misura, Saito riesca a fronteggiare tale obiezione, nella seconda parte dell’articolo discuterò il modo in cui egli affronta due temi: la questione del processo lavorativo come ricambio organico uomo-natura, e la visione marxiana del rapporto uomo-natura nella società socialista.



* * *


Saito parte dal presupposto che, per cogliere il contributo di Marx alla problematica ecologica, occorra partire dal rapporto fra quest’ultima e la categoria marxiana di reificazione, il che implica spostare l’attenzione della critica dell’economia politica dalle forme sociali ed economiche alle dimensioni materiali del mondo. Il concetto di materiale (stoff), argomenta, è una categoria centrale del progetto critico di Marx, tanto è vero che nel Capitale e altrove si ribadisce a più riprese 1) che la produzione umana non può ignorare la proprietà e le forze naturali; 2) che il lavoro non può creare sostanze naturali ma può solo modificarne la forma, il che implica 3) che le forme economiche non possono esistere senza la base materiale. Le teorie postmoderniste che si concentrano su categorie quali “lavoratori della conoscenza”, “lavoro immateriale” ecc. (5), e che descrivono la società tardo capitalista come un mondo economico, sociale e culturale disincarnato, integralmente riconducibile alle leggi dell’informazione, del linguaggio, della semiotica, non colgono il fatto che gli esseri umani non possono trascendere la natura, con la quale realizzano da sempre, e continueranno a realizzare finché esisteranno come specie, una unità mediata dal lavoro.


Tutto ciò emerge chiaramente nelle parti del Primo libro del Capitale in cui Marx analizza il lavoro in generale, cioè l’aspetto trans storico e universale della produzione umana. La specificità del lavoro umano è il suo carattere teleologico di attività che persegue un fine consapevole (vedi la nota metafora dell’ape e dell’architetto, con la quale Marx illustra la differenza fra l’attività umana e quelle di tutte le altre specie animali). Tale specificità, su cui l’ultimo Lukács ha costruito una parte significativa delle sue riflessioni (6), non basta però a liquidare il sottostante carattere del lavoro come ricambio organico fra uomo natura. Marx, scrive Saito, analizza il processo lavorativo come ricambio con la natura, ossia come interazione metabolica materiale di tre momenti della produzione che hanno luogo all’interno della natura: materie prime, mezzi di produzione e attività lavorativa, il che dimostra, aggiunge, come egli conoscesse e utilizzasse il concetto di metabolismo ancor prima di avere letto i lavori di Liebig (prima cioè del 1851). 


Tuttavia i marxisti ortodossi tendono a sorvolare su queste categorie, considerando le parti del Capitale che se ne occupano come una sorta di inciso storico-antropologico, sostanzialmente marginale rispetto all’analisi marxiana della produzione capitalistica. Viceversa Saito sostiene che si tratta di concetti che non permettono solo di comprendere le condizioni naturali universali (trans storiche) della produzione umana, ma anche di indagare le loro radicali trasformazioni storiche in seguito allo sviluppo del modo di produzione moderno e della crescita delle forze produttive. 


E’ qui che nel ragionamento di Saito entrano in gioco i concetti marxiani di alienazione e reificazione. Nelle relazioni sociali pre capitalistiche esiste una unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali, mentre il processo di interscambio materiale uomo-natura assume una forma del tutto diversa non appena esso può avvenire solo sulla base della radicale scissione insita nel rapporto lavoro salariato-capitale. In precedenza, i lavori concreti divenivano immediatamente sociali malgrado la varietà dei rispettivi contenuti, nella misura in cui la loro allocazione era organizzata prima di svolgere il lavoro concreto, al contrario nelle società di mercato la distribuzione avviene a posteriori, dopo l’esecuzione del lavoro, così gli oggetti d’uso diventano merci in quanto si tratta di prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, senza alcun accordo sociale, e il loro interscambio dev’essere mediato dal mercato, cioè dal valore di scambio. E’ a questo punto che si produce quel capovolgimento per cui i rapporti sociali fra lavori privati appaiono come rapporti fra cose, ma questa, scrive Saito, non è una “illusione” (7) che nasconde l’essenza delle relazioni umane fondamentali, bensì un fenomeno oggettivo dal momento che i produttori non possono relazionarsi fra loro se non attraverso la mediazione del mercato. Detto altrimenti: il lavoro come ricambio organico uomo-natura è un’attività trans storica, ma si trasforma quando riceve una specifica funzione capitalistica come processo di valorizzazione.


Kohei Saito



Ciò significa che il metabolismo uomo-natura regredisce a fenomeno secondario eclissato dalle “leggi” dell’economia capitalistica? No risponde Saito, perché la sostanza presupposta (stoff), ancorché modificata dalle forme economiche, conserva una propria indipendenza nella realtà, l’indifferenza della determinazione economica formale non è del tutto svincolata dalle caratteristiche materiali dei suoi depositari, e le proprietà naturali materiali non possono essere integralmente sussunte sotto il capitale. E’ da questa irriducibilità della materia alla potenza manipolatoria del capitale che scaturisce la contraddizione antagonistica fra modo di produzione capitalistico e ambiente naturale, perché gli effetti distruttivi delle modifiche all’ambiente che la società capitalistica apporta a quest’ultimo, in modo consapevole e inconsapevole, non possono essere controllate. Ma soprattutto – e qui Saito si differenzia dalle posizioni dell’ecologismo ingenuo – è inutile sperare che una ipotetica “vendetta della natura” induca il capitalismo ad autoregolare i propri comportamenti. Infatti il capitale, spinto dal suo insopprimibile impulso all’accumulazione illimitata, può continuare a trarre profitto dallo sfruttamento delle ricchezze naturali a tempo indeterminato, rendendo gran parte della Terra un luogo inospitale per l’umanità, e ciò almeno finché non si verifichino condizioni tali da configurare  la possibilità di una estinzione della vita umana. In altre parole, la contraddizione si risolve solo con il superamento del modo di produzione capitalistico. Vediamo ora come Saito cerca di attribuire a Marx l’idea che quella abbiamo appena descritta fosse la contraddizione fondamentale del capitalismo, e come descrive il presunto contenuto “ecologista” della visione marxiana della futura società socialista. 


Come abbiamo visto, per sostenere la propria tesi, Saito fa riferimento agli appunti inediti di Marx  venuti alla luce con la pubblicazione dell’edizione MEGA, ai quali attribuisce il carattere di abbozzi  per una revisione del testo definitivo del Capitale, testo che avrebbe sancito un ribaltamento radicale del suo giudizio positivo in merito al potenziale emancipativo del modo di produzione capitalistico. Tuttavia il filosofo giapponese segue anche un’altra linea interpretativa, che potremmo definire come una sorta di linea rossa che, a suo avviso, congiungerebbe i testi giovanili con alcune riflessioni dell’ultimo Marx sollecitate dal dibattito fra socialdemocratici e populisti russi (8) in merito alla possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe (obscina). 


In buona sostanza, Saito sostiene che Marx non avrebbe mai abbandonato la sua intuizione del 44 relativa all’esistenza di una unità originaria tra uomo e natura nelle società precapitalistiche. Analizzando le relazioni sociali feudali, scrive Saito per esempio, Marx mette in luce come esse si fondassero sul dominio personale e politico, che dipendeva a sua volta dalla tradizione e dai costumi, e dal quale non era esente una certa quota di contenuto affettivo. Viceversa i moderni braccianti sono liberi dal dominio politico diretto, sono soggetti giuridici liberi ed eguali, il che non implica tuttavia che essi godano di una vita migliore dei servi della gleba. Dal matrimonio d’amore con la terra, commenta Saito, si passa al matrimonio d’interesse e tanto la terra quanto l’uomo decadono allo status di valori commerciali (9). Il dominio non sparisce ma al posto del dominio personale subentra un dominio impersonale e reificato. Tutta la produzione non è più diretta alla soddisfazione di bisogni personali concreti bensì alla valorizzazione del capitale, per cui si potrebbe dire che l'alienazione moderna scaturisce dal totale annientamento del lato affettivo della produzione. 


Al pari di molti marxisti “eretici” sudamericani (10), Saito è convinto che certi interventi dell’ultimo Marx, come la Critica al programma di Gotha, la polemica con il traduttore russo del Capitale e la lettera alla Zasulic, oltre ai quaderni di appunti del suo ultimo decennio di vita, siano assai più vicini all’umanesimo delle opere giovanili che al Marx “produttivista” e ammiratore del progresso tecnologico, sociale e culturale associato allo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Seguendo le tracce degli autori di scienze naturali citati in precedenza, e le loro argomentazioni in merito ai limiti naturali dell’aumento della produttività agricola, e sulla scorta di un intenso programma di ricerca antropologica basato sull’analisi delle società premoderne di autori come Morgan e altri, Marx avrebbe ripreso concetti risalenti alle sue ricerche giovanili, a partire dall’idea della necessità di ricostruire il rapporto morale dell'uomo con la terra, ancorché a un livello superiore rispetto a quello proprio delle società precapitalistiche, dopo la loro distruzione da parte  del capitalismo. Del resto la presenza, nei suoi rari accenni alle caratteristiche della società post capitalista, di formule come “appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo” e come il permanere del regno della necessità, inteso come riconoscimento del fatto che la produzione di beni materiali è fondamentale in qualsiasi società, anche nel comunismo, dimostrerebbe, secondo Saito, il fatto che per Marx la società a venire non sarà altro che un'organizzazione e una regolazione collettiva e consapevole del rapporto fra uomo e natura. 



Brevi note conclusive 


A conclusione di quanto sin qui scritto, non posso che ribadire il giudizio che avevo espresso dopo la lettura di Marx in the Anthropocene: la pur imponente mole di indizi - non di prove: uso questa distinzione mutuata dalla terminologia giudiziaria per sottolineare che una tesi radicale come la sua avrebbe avuto bisogno di argomenti più inoppugnabili – esibiti da Saito non basta a sostanziare l’idea secondo cui Marx sarebbe arrivato, negli ultimi anni di vita, a considerare l’antagonismo fra capitalismo e ambiente come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Intendiamoci: non è mia intenzione negare che nell’ultimo Marx si trovino elementi che contraddicono certe sue precedenti esternazioni nei confronti del ruolo progressivo del capitalismo (sviluppo delle forze produttive, emancipazione dai ristretti orizzonti civili e culturali delle società premoderne, ecc.), del resto ho sostenuto io stesso questa tesi in più occasioni (vedi i libri citati in nota 5) sulla scia di molti marxisti sudamericani (vedi nota10). Ma ciò non giustifica l’ipotesi che la “questione ecologica” (sempre mettendo fra parentesi l’evidente anacronismo associato all’uso di questo termine) sarebbe divenuta per lui più importante di quella del conflitto capitale/lavoro. Il che non impedisce naturalmente di utilizzare le sue analisi relative ai danni devastanti arrecati agli esseri umani e alla natura dalla ricerca illimitata di profitto, interpretandole tuttavia più correttamente come intuizioni anticipatorie e non come atti fondativi della problematica ecologista. 


Più complessa la questione relativa alla valorizzazione di certe caratteristiche delle società premoderne (assenza di proprietà privata, democrazia comunitaria, relazioni umane non alienate, ecc.) come “modello” (sia pure da replicare a un livello superiore) della futura società socialista. Anche qui non mancano a Saito alcune pezze di appoggio per sostenere la propria tesi, ma anche qui si espone al rischio di anacronismo, ma soprattutto al rischio di ignorare l’enorme mole di problemi accumulatisi in più di un secolo di tentativi concreti (non ideali!) di costruire una società socialista. 


Personalmente condivido in toto la sua sensibilità nei confronti del tema del lavoro come dimensione trans storica del ricambio organico uomo-natura, sensibilità che lo accomuna all’ultimo Lukács e gli consente di cogliere quello che è a mio avviso l’unico vero principio del materialismo radicale. Ciò detto, considero irrealistico imaginare che su tale principio si possa fondare l’ipotesi del socialismo come un “ritorno” a relazioni armoniche uomo-natura di tipo pre moderno. L’armonia in questione, se e quando potrà essere raggiunta, sarà l’esito di un lungo percorso storico costellato di mediazioni e contraddizioni. Contraddizioni di cui l’esperienza cinese rappresenta un esempio significativo: per strappare centinaia di milioni di esseri umani alla miseria lo stato-partito cinese ha dovuto imboccare la via di una industrializzazione a tappe forzate che tutto era meno che ecologicamente sostenibile, tuttavia, dopo avere ottenuto risultati strabilianti sul fronte della crescita – inattingibili sia per una società ispirata al paradigma neo liberale sia per una società ispirata al paradigma della decrescita – il socialismo con caratteristiche cinesi sta ora rettificando il tiro e investe risorse ed energie sempre più ingenti per migliorare sia il benessere degli esseri umani che gli equilibri ambientali.        




NOTE


(1) Un autore che rimprovera a Marx, ma ancor più ad Engels, di avere una visione eurocentrica della storia è Hosea Jaffe (vedi, in particolare, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995 e Abbandonare l’imperialismo, Jaka Book, Milano 2008). Restando in campo marxista, si possono trovare accenti analoghi, anche se meno radicali, in alcune opere di Samir Amin. Personalmente mi sono occupato del tema in un post dedicato alla raccolta di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano 1960); vedi “L’eurocentrismo ‘funzionale’ di Marx ed Engels” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html


(2) Dobbiamo l’analisi più convincente e raffinata dell’esistenza di differenti regimi narrativi nell’opera di Marx a Costanzo Preve: cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(3) Saito esibisce numerose citazioni del Capitale a sostegno delle proprie tesi in Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022), ne ho a mia volta rilanciate alcune nel post "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog, (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html).


(4) Nei testi giovanili, scrive Saito, Marx distingue quattro diversi tipi di alienazione: 1) il prodotto del lavoro si manifesta ai lavoratori come un oggetto estraneo con un potere indipendente dai produttori 2) ciò avviene perché le attività dei produttori appartengono ad altri con conseguente perdita di sé (il lavoro si riduce a mero mezzo per la propria sussistenza; 3) da 1 e 2 deriva che i lavoro alienato aliena all’uomo il genere (nel senso cioè che nega la libera creatività umana che può produrre qualcosa di indipendente dai bisogni fisici); da 1 2 e 3 deriva infine 4) dallo straniarsi dell’uomo dall’uomo emerge una antagonistica e atomistica competizione per la sopravvivenza. Evidentemente tutto ciò può essere superato solo superando la proprietà privata.


(5) Cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. La polemica contro la retorica dell’immateriale degli autori postmodernisti è stato uno dei leitmotiv di tutti i miei lavori recenti: cfr. in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011; Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013; Il socialismo è morto. Viva il socialismo,Meltemi, Milano 2019; Guerra e rivoluzione (2 voll.), Meltemi, Milano 2023.


(6) Cito qui di seguito ampli stralci dal primo volume di Guerra e rivoluzione laddove discuto le riflessioni dell’ultimo Lukács (cfr. Ontologia dell’essere sociale - 4 voll. - Meltemi, Milano 2023) sulla categoria marxiana del lavoro: “Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukács, può essere colto solo se si capisce che, per lui, il lavoro è la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni sono presenti in forma embrionale. Per Marx, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico, ma è “ l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. È perciò che il lavoro è il modello di ogni prassi sociale, e solo tenendone conto si giustifica  la definizione del marxismo come “filosofia della prassi”. Ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, Lukács scrive che “in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica”, e subito dopo aggiunge: “ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’‘economismo’ ”. Il lavoro, tuttavia, non può essere considerato isolatamente, perché, se è vero che la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono dal lavoro, è altrettanto vero che tutte le categorie in questione non nascono “in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”. Questo passaggio rispecchia l’impegno di Lukács nel separare il materialismo dialettico da quello meccanicistico. Infatti, se si assume che nel lavoro “la coscienza diviene qualcosa di diverso del semplice adattarsi animale all’ambiente, diviene cioè un’entità in grado di compiere trasformazioni nella natura che altrimenti, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”, occorre parimenti ammettere che la coscienza non può essere considerata un epifenomeno. (...) 

Per Lukács , mentre ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, al tempo stesso non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro in quanto ricambio organico fra uomo e natura (…). Porre la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura a fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, è una scelta che comporta conseguenze impegnative sul piano filosofico, politico e ideologico. In primo luogo, implica riconoscere la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta, in quanto essa è l’unica che occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per poterlo ridurre, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro lato, a fonte del valore di scambio. Ciò viene rimosso da quelle interpretazioni del pensiero marxiano che mirano a  svalorizzarne gli elementi “metafisici”, contrapponendovi la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica, sviluppate dal Marx “maturo”. 

Come si vede, e come apparirà ancora più chiaro nel proseguo dell’articolo, l'approccio di Saito è chiaramente debitore del contributo filosofico di  Lukács.


(7) Qui Saito si allinea a Gramsci e Lukács nella misura in cui rifiuta la concezione dell’ideologia come “falsa coscienza”. L’incapacità di riconoscere la realtà materiale dei rapporti sociali dietro le “fantasmagorie” della merce non è frutto di “illusione”, ma è un fattore costituivo, materiale dell’egemonia delle classi dominanti.


(8) In merito a tale dibattito vedi quanto ho scritto nel post citato alla nota (1). vedi anche P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.


(9) Qui è riconoscibile il debito di Saito nei confronti di Karl Polanyi (La grande Trasformazione, Einaudi, Torino 1974) autore che Saito evoca più volte anche nel libro citato in nota (3).


(10) Basti pensare ad autori come J. C. Mariategui (Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972; E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009; A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015.


  



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