Lettori fissi

giovedì 20 maggio 2021

CINQUE BUONE RAGIONI PER ESSERE COMUNISTI 

(E NON DI SINISTRA) 


In coda a un  dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di  di seguito.    





Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo  

Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano 1) la forsennata guerra fredda che Usa e Ue stanno scatenando contro il “pericolo giallo”, 2) la paura che li sta costringendo a riscoprire keynesismo e statalismo per recuperare il consenso delle classi subalterne, martoriate da decenni di neoliberismo e dagli effetti delle crisi che questo sistema criminale ha innescato. Ma non c’è solo la Cina: oggi l’America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e ora il Cile che rialza la testa a mezzo secolo dal golpe di Pinochet) è di nuovo in lotta contro il neoliberalismo e gli Stati Uniti faticano a controllare il loro “cortile di casa”. 





Perché il comunismo è un’ideologia diversa (e incompatibile) con quella di una sinistra che si è meritata l’odio delle classi popolari. 

L’equivoco della identificazione fra comunismo e sinistra è nato all’inizio degli anni Settanta, quando gli strati piccolo borghesi che si riconoscevano nel movimento studentesco e nei gruppetti extraparlamentari innalzarono la bandiera dell’alleanza operai/studenti, rilanciando parole d’ordine e obiettivi del movimenti rivoluzionari del Novecento in modo astratto e libresco, usandoli come una maschera estetizzante dei loro reali obiettivi, che si riducevano a una rivoluzione dei costumi, e all’emancipazione dalle forme più arcaiche di controllo gerarchico (paternalismo famigliare, clientelismo politico, corporazioni professionali, gerarchie generazionali, ecc.), ormai superate dallo stesso sviluppo capitalistico che richiedeva una radicale modernizzazione culturale. Dissolta la spinta delle lotte operaie, stroncate dalla crisi e della ristrutturazione capitalistiche (e tradite dalle loro organizzazioni tradizionali, che in quegli anni decisero di allinearsi alle politiche neoliberiste in economia e neoliberali in politica (promuovendo il compromesso al ribasso con i padroni in fabbrica e dissociandosi dai Paesi socialisti per schierarsi a fianco del blocco occidentale e del suo braccio militare, la Nato), quegli strati piccolo borghesi sono tornati a svolgere il loro ruolo di agenti e funzionari del regime capitalistico. Hanno dato vita a movimenti (come il femminismo e l’ambientalismo) che rivendicavano riforme fondate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo sociale e del tutto compatibili con il processo di modernizzazione di un sistema mai messo in discussione e hanno rinunciato completamente a porsi il problema della conquista del potere politico (di qui il rifiuto fobico nei confronti dello stato, identificato come il male assoluto, e del socialismo, condannato in quanto regime “autoritario”). Questa deriva è proseguita fino ai giorni nostri, toccando vertici deliranti con l’instaurazione della cultura autoritaria e violenta del politicamente corretto adottata, dalle sinistre di governo assieme a un’ideologia femminista ormai totalmente integrata nella cultura neoliberale. Questa deriva, assieme al fatto che queste sinistre hanno approvato leggi antipopolari - come l’abolizione dell’articolo 18 - ha fatto sì che oggi il popolo dei Paesi occidentali odi le sinistre, come dimostrano le analisi dei flussi elettorali che vedono i centri gentrificati votare a sinistra e le periferie proletarie votare a destra o astenersi. L’equivoco degli anni Settanta è stato brevemente richiamato in  vita da populismi di sinistra come Syriza, Podemos, la sinistra americana di Sanders, France Insoumise (l’Italia ha prodotto solo l’aborto dell’M5S che non è nemmeno riuscito ad accreditarsi come una nuova sinistra alternativa al PD, sia pure ultramoderata). Questi movimenti, che pure erano inizialmente sembrati in grado di smarcarsi dall’immagine deteriorata delle sinistre tradizionali, e di interpretare il ruolo di rappresentanti delle spontanee ribellioni popolari contro le politiche neoliberali, sono falliti a causa: 1) del mancato radicamento sociale, avendo assunto la forma di partiti “leggeri” fondati sulla comunicazione e sul tentativo di catturare un’opinione pubblica trasversale; 2) della scelta di fare propria la cultura politicamente corretta delle sinistre (Podemos è arrivato a qualificarsi come partito femminista – Unidas Podemos – piuttosto che come partito di classe); 3) dall’essersi alleati in posizione subordinata con le vecchie sinistre in funzione “antifascista” (anche quando tale minaccia appariva frutto della propaganda del regime neoliberale più che rappresentare un rischio reale); 4) dal fatto che, fin dalle origini, i loro quadri appartenevano perlopiù a strati sociali piccolo borghesi come era avvenuto negli anni Settanta (anche se oggi si tratta di gruppi che presentano una composizione professionale diversa, legata soprattutto alle modificazioni indotte dalle nuove tecnologie). Tutto ciò ha fatto sì che abbiano seguito rapidamente lo stesso destino delle sinistre tradizionali, guadagnandosi il rigetto delle classi popolari che si erano brevemente illuse di trovare una nuova rappresentanza per i propri interessi. In conclusione: oggi sinistra è sinonimo di liberalismo di sinistra, per cui chi si dichiara (non a parole, ma perché sinceramente intenzionato a rappresentare gli interessi delle classi subalterne e la speranza di un radicale cambiamento di civiltà, e non solo del modo di produzione) comunista non può, né deve, avere più alcunché da spartire con queste sinistre.  


Perché comunismo vuol dire dare priorità agli interessi, ai bisogni e ai valori comunitari rispetto agli interessi, ai bisogni e ai valori individuali

La propaganda anticomunista batte ossessivamente sul tasto della libertà e dei diritti individuali. Ma la presunta “universalità” dei diritti dell’individuo (borghese), come già annotava Marx, si riduce di fatto alla tutela dei diritti dell’uomo proprietario. Il diritto “uguale” fra soggetti astratti si rovescia nel diritto disuguale fra soggetti concreti, visto che solo un’infima minoranza di quest’ultimi dispone delle risorse necessarie per far valere i propri diritti, mentre per tutti gli altri questi si riducono a pure affermazioni di principio (non a caso la nostra Costituzione – tanto odiata dai liberal liberisti – afferma la necessità di garantire le condizioni per la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale fra i cittadini). Oltre che dell’individuo proprietario, il diritto borghese si premura di tutelare i diritti dell’individuo consumatore: il diritto del consumatore si afferma a danno dei diritti del lavoratore (costretto ad accettare salari bassi e ritmi di lavoro infernali per contenere il costo delle merci). Certo il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli – e contro se stesso. Senza dimenticare che, in nome dei diritti del consumatore (occidentale!) si perpetrano crimini tanto ai danni dell’ambiente, quanto dei popoli schiavizzati dei Paesi poveri. E ancora: in nome del desiderio (trasformato in diritto) individuale di avere figli delle coppie gay, si legittima l’infame pratica dell’utero in affitto che riduce donne in difficoltà a ridursi a “contenitori” di bambini (a loro volta ridotti a “prodotto”) per conto terzi. E a legittimare la mercificazione del corpo femminile è, paradossalmente, proprio il movimento femminista (o almeno la sua componente neoliberale, oggi mainstream) che, del resto, da tempo ha assunto questa prospettiva, nella misura in cui considera il corpo come una sorta di oggetto, una “proprietà” (vedi sopra) individuale. Al posto degli interessi dell’individuo proprietario e consumatore, il comunismo difende gli interessi, il benessere e la sicurezza dell’individuo produttore in quanto parte organica della collettività (l’individuo non vive nel vuoto: è il prodotto di molteplici determinazioni sociali) impegnata a riprodurre se stessa e a garantire il prevalere del bene comune. Quanto diversi siano gli effetti di queste due visioni del mondo, lo abbiamo potuto misurare grazie alla differenza nella gestione della pandemia da parte della Cina rispetto a quella del mondo occidentale: da un lato, il diritto alla salute e alla sicurezza del popolo intero, dall’altro il diritto al profitto delle Big Pharma che ha richiesto, assieme allo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici voluto dai governi neoliberali, il tributo di milioni di morti. Ma noi occidentali siamo liberi…di crepare.


Perché il comunismo è internazionalista e non cosmopolita 

Che la globalizzazione sia stata frutto di una legge economica “oggettiva”  è una mistificazione liberal-liberista fatta propria dalla sinistra. Una narrazione che nasconde come dietro il processo di internazionalizzazione dei capitali si celi la “guerra di classe dall’alto” che il capitalismo ha avviato a partire dalla dagli anni Settanta del secolo scorso. L’esercito di questa  guerra sono state le grandi imprese transnazionali, armate della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò significhi la fine dello stato nazione è un’idiozia, perché  le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi stati di origine. La globalizzazione è un processo politico sostenuto e accompagnato dagli stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale, e l’obiettivo della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo stato, vuole costruire uno stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro lo stato nazione va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo di spezzare il legame fra stato e democrazia. Così il tradizionale nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra. L’ondata populista non è stata tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto della reazione popolare  agli effetti della globalizzazione. Ma la crisi della globalizzazione ha gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo, che hanno reagito etichettando come fasciste le idee “sovraniste”. Così la parola patria oggi incute terrore negli eredi di una cultura politica che, fino agli anni Settanta, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state rivoluzioni nazional-popolari. Le sinistre hanno adottato un internazionalismo che somiglia all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Viceversa per i comunisti la difesa della sovranità nazionale è un fattore imprescindibile: la patria è sinonimo di res publica, di una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. I comunisti sono consapevoli che la lotta di classe non si svolge solo all’interno dei singoli Paesi, è anche lotta fra popoli oppresse e nazioni dominanti, e questa verità non vale oggi solo per i rapporti fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche per quelli fra Paesi del Nord e del Sud Europa, per i quali la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada per riacquistare il controllo politico sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. Ecco perché i comunisti non possono che essere contro  questa Europa, contro questo mostruoso esperimento politico che mira a mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek, l’uomo che sognava di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. La Ue funziona come una sorta di polizia economica che sfrutta l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare appunto i conflitti sociali. Il sistema dei trattati è una costituzione materiale che  agisce come una costituzione senza stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che,

contrariamente al liberismo classico, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro!). Per i Paesi del Sud Europa, l’ingresso nella Ue ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Una relazione asimmetrica che è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dalle nostre élite: i vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, la hanno voluta per promuovere, con la scusa del “vincolo esterno”, le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane. Ecco perché i comunisti dei Paesi euromediterranei dovrebbero adottare il principio del  delinking (sganciamento) teorizzato da Samir Amin: solo riconquistando la sovranità nazionale sarà possibile ridare spazio al conflitto redistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e ri-nazionalizzando i servizi pubblici, e adottare politiche fiscali progressive. 







Perché il comunismo non è antistatalista, ma mira a far sì che le classi subalterne si facciano stato

Il rifiuto delle sinistre nei confronti della nazione va di pari passo con il rifiuto nei confronti dello stato. Il ripudio dell’esperienza storica del socialismo, e l’ideologia “orizzontalista” comune a  tutte le componenti della sinistra radicale, fanno sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque un nemico, per cui il concetto di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, e alla volontà di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello stato borghese subentra una sorta di “democrazia dell’opinione” che diffida del potere ma non aspira a governare, non mira ad abolire il capitalismo bensì ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, mentre dà per scontato che un partito rivoluzionario che pretenda di essere avanguardia politica dei movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Insomma: siamo di fronte a un’ideologia che potremmo sintetizzare con la formula “cambiare il mondo a partire dal basso, (o addirittura a partire da sé!) senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo” (purtroppo la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi). Contro questa visione va rivendicata la necessità di conquistare il potere, o meglio, per dirla con Gramsci, di guidare le classi subalterne a farsi stato - stato che non va abolito in quanto tale, ma del quale occorre abolire il carattere di classe. 


Post Scriptum

Due parole sul perché ho scelto di schierarmi con Il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo piuttosto che con un altro dei tanti partiti e movimenti italiani che si dichiarano tali. In primo luogo perché, attraverso un serrato confronto che ho avuto con questi compagni dopo avere concluso la mia esperienza nei gruppi sovranisti di sinistra, ho verificato che sono quelli con cui ho maggiori affinità su una serie di temi che considero discriminanti, poi perché sono di gran lunga i più lontani da quella cultura di sinistra della quale ho appena finito di descrivere le caratteristiche che mi inducono a valutarla come un avversario politico. Caratteristiche che, viceversa, hanno contaminato fino a snaturarne le origini una formazione come Rifondazione Comunista. Probabilmente esistono altre forze politiche che in futuro potranno contribuire alla rinascita di un forte partito comunista nel nostro Paese, ma non penso che la mia scelta sia in contraddizione con l'imnpegno di superare le ragioni che ancora ci dividono.           


lunedì 17 maggio 2021

 COME E PERCHE' IL NEOLIBERALISMO

HA INGHIOTTITO (E DIGERITO) IL FEMMINISMO


Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie (1), ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano. La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo - termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) - va inteso nel senso corrente di falsa coscienza). 

Per sostenere quanto appena affermato, non mi avvarrò della produzione letteraria delle correnti mainstream del femminismo, anche perché, nel loro caso, la tesi di cui sopra suona scontata, ma prenderò in esame tre autrici - Silvia Federici, Nancy Fraser e Catherine Rottenberg – le quali, sia pure in diversa misura e con approcci differenti, rivendicano tuttora un punto di vista marxista, perlomeno su alcuni temi, e si pongono criticamente nei confronti del femminismo neoliberista. Una scelta che consente di rendere ancora più evidente 1) che, nella misura in cui il femminismo si pone come paradigma autonomo e “alla pari” con il paradigma marxista, finisce per produrre discorsi eclettici che con il marxismo poco o nulla hanno a che fare; 2) che, malgrado l’atteggiamento critico nei confronti del femminismo neoliberale, anche un certo femminismo socialista finisce di fatto per convergere con quest’ultimo, subendone l’egemonia su una serie di questioni che hanno un peso strategico nei rapporti di forza fra capitale e lavoro. 

Parto da Silvia Federici, autrice che in un saggio di qualche anno fa (2) avevo citato come un esempio, ancorché contraddittorio, di resistenza del femminismo marxista nei confronti dell’egemonia neoliberale, riferendomi soprattutto al libro Il punto zero della rivoluzione (3). Con l’uscita di Genere e Capitale (4) mi pare che questo equivoco sia da considerarsi sciolto. Infatti basta leggere il primo capitolo (“Marxismo, femminismo e patriarcato del salario”) per capire che la “lettura femminista di Marx” cui allude il sottotitolo ha poco a che fare con Marx. In primo luogo, perché marxismo e femminismo sono presentati come due “movimenti teorico politici” che vengono messi sullo stesso piano. Peccato che il marxismo abbia prodotto sconvolgimenti storici (dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Rivoluzione Cinese, per citare solo i due casi più clamorosi) che hanno cambiato la vita di miliardi di esseri umani  (uomini e donne) mentre il femminismo finora ha prodotto esclusivamente campagne di opinione che riguardano solo Stati Uniti ed Europa e solo una parte – appartenente alle classi medio elevate - della popolazione femminile di questa minoranza dell’umanità, la quale continua però a considerarsi la sola che conti; e ha contribuito a cambiare, non i rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati (che nei decenni del boom femminista sono drasticamente peggiorati a danno dei secondi, anche se di ciò non intendo attribuire la responsabilità al femminismo) ma la retorica del discorso politico dominante (retorica che, grazie alle reazioni di rigetto generate dai deliri del politicamente corretto, ha gettato milioni di proletari – uomini e donne – nelle braccia dei populisti di destra). 

Di più: Federici parla della “difficoltà del femminismo socialista di integrare il marxismo nel femminismo”, dal che si deduce che femminismo e marxismo, in realtà, non vengono affatto messi sullo stesso piano, bensì si dà per scontata la superiorità del primo (altrimenti si parlerebbe semmai della difficoltà di integrare il femminismo nel marxismo). Il che presuppone a sua volta la convinzione che la contraddizione capitale lavoro vada ricompresa, sussunta (aufhebung per dirla con Hegel) nella contraddizione di genere. Infatti Federici, partendo dalla giusta considerazione che le divisioni di genere e di razza svolgono un ruolo importante nella costruzione delle gerarchie del lavoro (questione che Marx aveva perfettamente presente) arriva a sostenere (contro David Harvey, il quale considera contingenti e non logicamente necessari questi fattori) che il capitalismo sarebbe strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Un’affermazione che si regge esclusivamente se riferita al colonialismo, la cui necessità strutturale – in senso marxiano! – è stata ampiamente dimostrata (5). 





Il punto è – questione cruciale su cui dovremo tornare – che qui il termine “strutturalmente” non è usato nella sua accezione marxiana (che Federici, al pari delle autrici di cui ci occuperemo fra poco, liquida come “economicista”) bensì nel significato che gli viene comunemente attribuito dopo la svolta “culturalista” delle scienze sociali. In altre parole, i suoi riferimenti teorici sono – più che Marx – Foucault, Antonio Negri e gli altri maestri della contaminazione fra marxismo e filosofie postmoderne, come certificato dalla sua rivendicazione di appartenenza a quella corrente culturale antistatalista e “benecomunista” che assume come modello di società alternativa al capitalismo, non il socialismo, bensì quei rapporti comunitari “che ridefiniscono il concetto marxiano di socialismo”. Per farla breve: la “difficoltà” di integrare il marxismo nel femminismo di cui parla Federici rispecchia la assoluta impossibilità di integrare due ordini di discorso che c’entrano fra loro come i proverbiali cavoli a merenda.

Veniamo a Nancy Fraser. Il mio atteggiamento nei confronti di questa autrice ha subito una evoluzione simile a quella appena descritta a proposito di Silvia Federici. In diversi miei lavori (6) avevo descritto il suo discorso come il più solido e attendibile baluardo contro la marea neoliberista che il femminismo socialista sia ad oggi riuscito ad erigere. Tale giudizio si fondava in particolare su Fortune of Feminism (7), e su una serie di articoli in cui aveva condotto una critica serrata del femminismo mainstream e della sua piena integrazione nel fronte del “progressismo neoliberale”. È per questo motivo che ho voluto ospitare la traduzione del suo dialogo con la sociologa svizzera Rahel Jaeggi – Capitalismo (8) – nella collana Meltemi “Visioni eretiche”, da me diretta. Rileggendo a distanza di un anno l’edizione italiana di quel testo (che avevo letto solo in parte nella versione inglese) ho avuto la sensazione che la sua posizione marxista – peraltro già ibridata con inserti post strutturalisti – si sia fatta meno chiara e salda di quanto non fosse in passato. Una sensazione corroborata dalla lunga e articolata recensione che Alessandro Visalli (9) ha dedicato al libro in questione sul suo blog. 

Parto dalle ragioni per cui considero tuttora utile il contributo della Fraser. In primo luogo, perché, al contrario di Silvia Federici, non solo non condivide la critica femminista allo statalismo welfarista, ma anzi considera tale critica funzionale all’attacco neoliberista che, a partire dagli anni Ottanta, ha distrutto i rapporti di forza dei lavoratori (e delle lavoratrici), eliminando le protezioni e le garanzie – frutto di secolari lotte di classeche consentivano di resistere alle pressioni padronali su livelli salariali e condizioni di vita, e creando condizioni favorevoli ai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro. Considera parimenti controproducente il modo in cui il femminismo ha criticato il cosiddetto “salario familiare” (cioè il reddito garantito dal solo componente maschile della coppia) nella misura in cui ha di fatto legittimato quel capitalismo flessibile che, attraverso l’arruolamento in massa di forza lavoro femminile nel processo produttivo, è riuscito a mettere in competizione lavoratori e lavoratrici abbassando il salario per tutti (invece di elevare quello femminile al livello di quello maschile) e facendo sì che ora si debba lavorare in due per guadagnare ciò che prima guadagnava uno. Sostiene inoltre che la presa di distanza delle femministe dall’economismo marxista (che sostanzia le critiche alle politiche redistributive del movimento operaio di cui sopra) hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca. Infine, oltre a esprimere scetticismo nei confronti della cultura della politicizzazione del personale, rovescia il punto di vista della Federici, parlando di integrazione del femminismo nel marxismo e non viceversa.


Nancy Fraser



Tuttavia è esattamente quest’ultimo il nodo che fa problema: questa integrazione, infatti, dal suo punto di vista significa integrare nel paradigma marxista le “intuizioni” postcoloniali, post strutturaliste, ecologiste ecc. che stanno alla base del “femminismo della seconda ondata”. In altre parole, si tratterebbe di conciliare “giustizia distributiva” e “giustizia del riconoscimento” (10), perché se è vero che i movimenti concentrati sul riconoscimento delle varie identità di gruppo hanno finito per trascurare la dimensione della distribuzione, è altrettanto vero, sostiene Fraser, che i movimenti dei lavoratori concentrati sulle rivendicazioni salariali hanno costantemente trascurato la dimensione del riconoscimento identitario. Il punto è che questa aspirazione a “riequilibrare” i due ordini di discorso finisce – dal momento che essi non rispecchiano due approcci ideologici, bensì , come chiarito sopra, due paradigmi – per risolversi necessariamente nell’affermazione egemonica di uno dei due rispetto all’altro e, anche nel caso della Fraser, come cercherò di mostrare riprendendo le osservazioni di Visalli, il paradigma che finisce per prevalere è quello femminista, in barba alle sue professioni di marxismo. 

La pietra d’inciampo, come per la Federici, sta nella stratificazione interna alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza (cui si sono aggiunte quelle evocate dalla cultura LGBTQ), stratificazione che giustificherebbe l’esigenza di integrare rivendicazioni di giustizia di riconoscimento e rivendicazioni di giustizia distributiva, in quanto si presume che questa stratificazione avrebbe motivi strutturali (vedi sopra le considerazioni in merito all’ambiguità di tale concetto), sarebbe cioè una necessità per la auto conservazione del modo di produzione capitalistico. Ora a contestare questa affermazione è, nel dialogo sopra citato, Rahel Jaeggi – che marxista non è ma, in quanto allieva della scuola di Francoforte, possiede una raffinata padronanza del pensiero dialettico – la quale rinfaccia alla Fraser che, dalla sua argomentazione teorica, non si evince alcun motivo per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza, e aggiunge che, ciò posto, l’ordine di genere e di razza descrive semplicemente i modi empirici in cui espropriazione e sfruttamento sono stati storicamente organizzati (che è poi esattamente quanto sostiene Harvey – vedi sopra). Cito letteralmente qui di seguito la sua argomentazione:  

tu dici che il capitalismo separa la storia in primo piano, quella della produzione di merci, da quella

sullo sfondo, quella dell’espropriazione e della riproduzione sociale. Dici anche che il sessismo ed il

razzismo sono intrinseci al capitalismo fintanto che esso assegna le funzioni della storia sullo sfondo

a popolazioni appositamente designate, che di conseguenza saranno razzializzate e femminilizzate.

Ma lasci aperta un’altra possibilità. E se il capitalismo non richiedesse questa seconda

condizione? E se mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in

quelle dimore nascoste dall’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già

richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Non è uno scenario possibile? E se lo

fosse, il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?

Ebbene, come giustamente sottolinea Visalli nella sua recensione, di fronte a questa obiezione Fraser appare palesemente in difficoltà, nel senso che è indotta ad ammettere che l’ipotesi della Jaeggi è “logicamente possibile”, ma poi se la cava aggiungendo che la si può escludere “per tutti gli scopi pratici”. Ora è pur vero che la storia della cultura femminista è ricca di disinvolte alzate di spalle nei confronti delle pretese di rigore logico della filosofia “maschile” - do you remember Sputiamo su Hegel? (11) -, ma è altrettanto vero che, per un’autrice che si richiama al marxismo, doversi aggrappare ad un’argomentazione puramente empirica (argomentazione che, per inciso, appare sempre più debole anche sul piano fattuale, a fronte d’una cultura imprenditoriale che esalta le differenze di genere, età, razza e gusti sessuali (12) come vantaggi competitivi per la moderna forza lavoro, in particolare per i suoi strati medio elevati), non è certamente il massimo. E tuttavia non ha alternative perché, se dovesse ammettere che sessismo e razzismo non sono necessità organiche per il modo di produzione capitalistico, ma sono derubricabili a permanenze residue, l’intera parabola femminista si ridurrebbe a una lotta di retroguardia contro tali arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano (che non sono certamente le élite dominanti liberal progressiste, le quali, al contrario, hanno fatto della retorica femminista uno dei loro tratti caratterizzanti). Per dare un minimo di consistenza alle presunte radici strutturali su cui si fonderebbe la necessità capitalistica di mantenere l’oppressione di genere, Fraser deve imbarcarsi in un complicato ragionamento sul ruolo economico – deponendo quindi le armi del femminismo “culturalista” e recuperando quelle dell’economismo marxista – del processo riproduttivo. Ma anche qui, come vedremo più avanti, inciampa in difficoltà e contraddizioni irrisolvibili. Prima di occuparmene, tuttavia, discuterò le tesi che Catherine Rottenberg avanza nel suo L’ascesa del femminismo neoliberale (13). 

Al libro della Rottenberg dedicherò più spazio perché, trattandosi di un’autrice che appartiene a una generazione successiva a quella di Federici e Fraser, e non collocandosi  nel campo del femminismo marxista e socialista, ma piuttosto in quello della cultura post coloniale, post strutturalista e foucaultiana, è più vicina – benché lo critichi – al femminismo neoliberale e, almeno sotto certi aspetti, lo considera un fenomeno positivo con cui le femministe “ortodosse” dovrebbero confrontarsi, senza rinunciare al dialogo. Sono caratteristiche che ben si prestano a evidenziare come tutte queste varianti del femminismo – apparentemente in conflitto reciproco – siano in realtà strettamente interconnesse, e come il tanto vituperato femminismo neoliberale non abbia fatto altro che sviluppare – banalizzandoli e popolarizzandoli - tendenze e presupposti teorico politici già presenti nelle correnti più radicali e culturalmente “rigorose” del movimento.   

Rottenberg descrive i tratti distintivi del neoliberalismo in modo non dissimile da quello di molti autori marxisti (14). In particolare sottolinea che: 1) mentre il liberalismo classico si fondava sulla separazione fra sfera pubblica e sfera privata, il neoliberalismo tende a erodere il confine fra tali sfere nella misura in cui “esporta” la razionalità economica in tutti gli ambiti della vita, riducendo le persone a “capitale umano”; 2) il neoliberalismo produce soggetti imprenditorializzati (diventa imprenditore di te stesso!) orientati a “investire” su di sé e resi responsabili del proprio benessere (la cura di sé come terapeutizzazione del soggetto, che è chiamato a “imparare a essere felice” e a occuparsi del proprio stato emotivo); 3) il neoliberalismo produce soggetti radicalmente individualizzati che competono gli uni con gli altri per “ottimizzare” il proprio capitale umano e organizzare la propria vita in base al calcolo razionale del rapporto costi/benefici. 

Dopodiché si passa a descrivere il modo in cui il neoliberalismo ha riconfigurato il femminismo a sua immagine a somiglianza. In primo luogo, la Rottenberg cerca di spiegare perché il neoliberalismo aveva “bisogno” del femminismo per risolvere le sue contraddizioni interne (il che ci riporta al tentativo di definire un rapporto di necessità strutturale fra capitale e funzione riproduttiva femminile). Se è vero che per il neoliberalismo tutte le persone – donne e uomini - non sono altro che capitale umano, cioè unità produttive neutre, sembrerebbe trovare conferma l’obiezione critica della Jaeggi a Fraser (vedi sopra), ma Rottenberg se la cava dicendo che per riprodursi il capitalismo ha bisogno che le donne generino figli, cioè futuri lavoratori. Ora, posto che questa esigenza non è specifica del modo di produzione capitalistico, ma di tutte le forme sociali che lo precedono (e di quelle che auspicabilmente lo seguiranno), è evidente che il problema del processo riproduttivo non può essere appiattito sulla biologia (con la conseguenza, per inciso, di ri-naturalizzare la differenza di genere) ma implica tematiche più ampie (ci torneremo più avanti). Ma passiamo al modo in cui Rottenberg descrive l’uso capitalistico (neoliberale) del femminismo. 

Analizzando una serie di esempi tratti dalla copiosa produzione letteraria di donne in carriera (di sinistra, ma anche di destra, compresa una certa Ivanka Trump!), Rottenberg evidenzia il filo rosso che le attraversa: il leitmotiv di questi scritti – che echeggiano la straboccante produzione editoriale di manuali di self help – è la descrizione del modo in cui si può conciliare successo personale e un’appagante vita familiare. Ovviamente, a disturbare la sensibilità femminista “classica” dell’autrice, è il fatto che in questi testi si danno per scontati, oltre alle aspirazioni professionali, relazioni eterosessuali e desiderio di maternità (anche se le si potrebbe obiettare che la visione di un felice equilibrio lavoro- famiglia sarebbe perfettamente condivisibile anche da una coppia omosessuale con figli nati attraverso la pratica dell’utero in affitto). Un altro aspetto che viene messo in luce è l’enfasi sulla necessità di coltivare e cambiare se stesse (ma tutto questo non vi richiama alla mente le pratiche di autoscoscienza? Niente di nuovo sotto il sole, almeno da questo punto di vista...). 

Dopodiché Rottenberg batte insistentemente su un altro tasto: il classico slogan il personale è politico, che mirava a riconfigurare il privato come parte del pubblico, viene rovesciato, nel senso che questo nuovo femminismo mira piuttosto a riconfigurare il pubblico in relazione alle esigenze e ai bisogni del privato (promuovendo condizioni che, in azienda come in società, siano più favorevoli all’equilibrio lavoro-famiglia di cui sopra). L’annotazione è interessante, in quanto consente di evidenziare come questo “rovesciamento” era in realtà già immanente alla versione originaria dello slogan: affermare che il personale è politico vuol dire infatti dare il via a quell’erosione del confine fra le due sfere che verrà sfruttato dall’ideologia neoliberale per creare una dimensione dove tutto – a partire dalla politica – è personalizzato, dove la sfera pubblica - vedi in proposito quanto scritto da Richard Sennett (15) – è letteralmente neutralizzata. La politicizzazione del personale si rovescia così nella spoliticizzazione di tutti i rapporti sociali – pubblici e privati, sempre più reciprocamente confusi – che da ora in avanti potrà e dovrà essere combattuta solo riaffermando con decisione il principio secondo cui il politico non è personale.  

Ma torniamo alla critiche al femminismo neoliberale. Rottenberg sottolinea giustamente come questa ideologia incarni le esigenze, gli interessi e i bisogni una minoranza privilegiata di donne bianche appartenenti alle classi medio elevate. Per raggiungere l’auspicato equilibrio lavoro-famiglia, questi soggetti decentrano il lavoro di cura a donne che appartengono a classi sociali – e a etnie – “inferiori” il che produce un curioso paradosso: in questo modo si realizza, sia pure con modalità impreviste e imprevedibili, la famosa rivendicazione del salario al lavoro domestico, e tuttavia ciò non coincide con il passaggio verso la liberazione, bensì rappresenta la via attraverso la quale si è prodotta una nuova discriminazione di classe e e di razza tutta interna al genere. Rottenberg scrive, a tale proposito, che il privilegio dell’1% delle donne si basa sullo sfruttamento del 99%. Ma questa affermazione è contestabile da due distinti punti di vista: in primo luogo, non è per nulla vero che si tratta dell’1%, visto che quella minoranza di privilegiate non è fatta solo da manager, politiche, attrici, pop star, campionesse sportive, influencer, ecc. ma è fatta di milioni di appartenenti alle classi medio alte che, nei decenni scorsi, hanno potuto usufruire – grazie alla finanziarizzazione dell’economia – di parte dei sovraprofitti realizzati delle élite dominanti; secondariamente la maggioranza degli sfruttati non è fatta solo di donne, perché se è vero che il lavoro di cura mercenario è in larghissima misura femminile, è altrettanto vero che i soldi con cui viene pagato vengono dallo sfruttamento di milioni di proletari – donne e uomini, gente di colore e bianchi poveri. 

Infine Rottenberg mette in luce come il femminismo neoliberista fornisca argomenti politici per sostenere la “superiorità” della civiltà occidentale, che viene contrapposta a tutte le altre nella misura in cui è la sola a riconoscere – e a garantire – la parità effettiva uomo-donna. E, ciò che è più grave, questo femminismo viene impugnato come arma propagandistica per giustificare gli interventi dell’imperialismo occidentale (americano in primis) nei Paesi a maggioranza musulmana, in quanto funzionali a tutelare i diritti delle donne di quei Paesi (poco male se migliaia di donne pagano con la vita quelle “ingerenze umanitarie”).

A conclusione di questa requisitoria ci si potrebbe aspettare la messa al bando del femminismo neoliberale in nome dei principi del “vero” femminismo. Invece no. Per Rottenberg occorre riconoscere che, malgrado i molti demeriti (che però non devono alimentare atteggiamenti “colpevolizzanti”, per cui critica la durezza della posizione assunta dalla Fraser su questo argomento), il femminismo neoliberale non è privo di meriti. In primo luogo, scrive, dopo un’era “post femminista” in cui il femminismo sembrava essere sparito dall’orizzonte delle culture occidentali, nella misura in cui si dava per scontato che la parità di genere era stata sostanzialmente raggiunta, questa nuova ondata, malgrado la sua “arretratezza” culturale e politica, ha contribuito a diffondere la consapevolezza che le discriminazioni di genere esistono ancora, con il risultato che aumenta continuamente il numero delle giovani donne che si dichiarano femministe e, anche se esse non ne traggono le dovute conseguenze politiche, ciò fa sì che il femminismo sia divenuto accettabile (ma sarebbe meglio dire egemone, perlomeno negli Stati Uniti e non solo) in misura mai vista in precedenza.  Attribuisce qualche merito persino a Ivanka Trump, la quale, descrivendo la sua esperienza di lavoro di cura in termini asetticamente manageriali, avrebbe dato un contributo nello smontare l’idea dell’esistenza di un naturale istinto di cura femminile. Insomma: tracciare un confine (16) fra il “vero” femminismo e il femminismo neoliberale è impossibile, ma soprattutto sarebbe politicamente controproducente. 


Ivanka Trump



Questo atteggiamento “ecumenico” sembrerebbe estendersi oltre i confini di genere, nella misura in cui l’autrice di cui mi sto occupando sostiene di inspirare la propria visione politica al pensiero di Judith Butler, notoriamente in contrasto con  quella ortodossia femminista che trascura le altre dimensioni del conflitto politico e sociale a favore del solo conflitto di genere (17). In particolare, Rottenberg fa propria la categoria di precarietà, che, secondo Judith Butler (18), sarebbe il trait d’union che consentirebbe di aggregare in un blocco antisistema individui, gruppi e popolazioni che, di per sé, non solo avrebbero poco da spartire gli uni con gli altri, ma sarebbero portatori di interessi potenzialmente conflittuali. In quanto portatori di un comune status precario – che la Butler, e Rottenberg con lei, non riconduce a fattori economici – donne, LGBTQ, poveri, minoranze etniche e religiose, ecc. potrebbero confluire in un fronte unitario, se non unito, di resistenza. Ritroviamo qui il rifiuto dell’economismo di matrice marxista, al quale si contrappone una visione culturalista del conflitto sociale, per cui le ragioni della giustizia di riconoscimento vengono inevitabilmente anteposte a quelle della giustizia distributiva (innescando radicali effetti di rigetto nei confronti delle sinistre liberal da parte delle classi subalterne). Troviamo, anche, un approccio che somiglia al concetto di “catena equivalenziale” elaborato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (19), secondo cui un “popolo” si costruisce come sommatoria di rivendicazioni eterogenee che hanno come comun denominatore il fatto di non trovare risposta da parte delle élite dominanti (anche in questo caso le soggettività in gioco sono definite sul piano simbolico e non in relazione all’appartenenza di classe). 


Judith Butler
Judith Butler



La differenza con il discorso populista di Laclau-Mouffe, sembrerebbe essere che, mentre quest’ultimo presuppone un momento di “verticalizzazione” della catena equivalenziale, si pone cioè il problema di quale soggetto individuale (leader) o collettivo (movimento) debba svolgere un ruolo egemonico all’interno della catena, la visione di Butler-Rottenberg parrebbe rigorosamente “orizzontalista” (il che lo accomuna ai discorsi di Federici e Fraser che assumono a loro volta quale modello il movimento Occupy Wall Street e la sua proiezione elettorale nella sinistra democratica di Bernie Sanders, Ocasio Cortez e altri). Apparentemente, perché il ruolo egemonico, in questo "popolo" che si autoattribuisce l'estensione del 99%, laddove si riduce a una quota ideologizzata – e quindi minoritaria - di ceto medio riflessivo, spetta senza dubbio al movimento femminista, che può illudersi di esercitarlo proprio grazie al confluire nelle sue fila del femminismo neoliberale e delle sue propaggini ideologiche (MeTo, politicamente corretto, quote rosa, discorso mainstream di media e politici di regime, ecc.). Un illusione maggioritaria che funziona, da un  lato, rimuovendo il tema del conflitto di classe, che viene riformulato/neutralizzato come conflitto interno al genere (ricomponibile sulla base di una “sorellanza” universale che vede tutte le donne contrapposte in blocco a tutti i maschi - contrapposizione che è vista come la sola, “vera” contraddizione antagonista), dall’altro lato, alimentando il mito di una presunta superiorità morale del genere femminile - mito che una intellettuale femminista come Jessa Crispin (20) ha avuto il coraggio di sfatare. 

Il grumo concettuale in cui tutti questi nodi vengono al pettine è quello della centralità del lavoro riproduttivo che, per tutte queste autrici, si fonderebbe sulla presunta necessità strutturale dell’oppressione di genere ai fini della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Concludo quindi copiaincollando qui di seguito la riflessione critica che Alessandro Visalli ha dedicato a tale tema nella sopracitata recensione a un libro di Nancy Fraser 

E proprio in questo punto viene inserito il focus tematico femminista della riproduzione, intesa in

modo molto largo come tutte quelle forme che “producono e mantengono legami sociali”, e

consistono nella ‘tutela’, nel ‘lavoro affettivo’, nella formazione di soggetti umani come esseri

incarnati e come esseri sociali. Qualcosa che forma il loro habitus e la loro sostanza socio-etica

nella quale si muovono. Si tratta, cioè, del lavoro di socializzazione dei giovani, della costruzione di

comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti

di valore che sostengono la cooperazione sociale. Il punto è che, parla la Fraser, “nelle società

capitaliste molta (anche se non tutta) quest’attività continua al di fuori del mercato – nelle famiglie,

nei quartieri, nelle associazioni della società civile e in una serie di istituzioni pubbliche, tra cui

scuole e centri di assistenza all’infanzia e agli anziani”.

In questa formulazione così ampia si tratta di una presa di posizione indiscutibilmente corretta. Ma,

se pure alcune di queste attività indispensabili e non mercatizzate (non mercatizzabili) sono

comparativamente svolte in misura maggiore da donne, nessuna è specificamente ed esclusivamente

femminile. Non solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro affettivo’,

formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e producono significati, disposizioni

affettive e orizzonti di valore. Non solo le donne sostengono la cooperazione sociale.

Ma, e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo

fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le donne. Ovviamente lo fanno sia le

donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo fanno diversamente. Rivendico, in altre parole, anche

come padre oltre che come essere sociale e buon amico, parte responsabile di una comunità umana,

la mia capacità, pur non essendo donna, di produrre e mantenere legami sociali, di amare e essere

capace di tutela dei più deboli e dei vicini e parenti, di contribuire per la mia parte a formare

soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali. Rivendico la mia capacità di

comprendere e rispettare l’habitus nel quale viviamo e la sua sostanza socio-etica. Di essere parte

della socializzazione dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la cooperazione

sociale.

Ma torniamo al testo. In genere il femminismo per “riproduzione” intende strettamente

l’allevamento dei nuovi esseri umani come forza lavoro (per cui, schematicamente, se non ci

fossero le madri a tutta evidenza non ci sarebbero i figli, non crescerebbero, e dunque non ci

potrebbero essere lavoratori). Una funzione che nella prospettiva tradizionale del cosiddetto “salario

familiare” è femminilizzata. Se fosse tutto qui il femminismo sarebbe una battaglia di

retroguardia, in quanto le condizioni di riproduzione sociale per l’accumulazione lo hanno superato

da tempo. Come abbiamo visto è tramontato come modello normativo e socialmente dominante con

l’insorgere dell’accumulazione flessibile nella quale si è passati ai due salari e quindi alla

ripartizione del lavoro su entrambi i ruoli. La Fraser propone perciò una versione molto allargata

del termine, quella sopra schematizzata, al fine di rendere ancora possibile la critica femminista in

un mondo nel quale in linea di principio tutti lavorano (se pure male). Un mondo nel quale sembra

si sia riprodotta quella condizione denunciata da Angela Davis in Donne, razza e classe per la

quale donne e uomini erano del tutto equivalenti, in tutti i lavori, perché visti dai padroni di schiavi

dei paesi del sud solo come forza lavoro.

Da una parte la ‘riproduzione’ sociale comprende ora in senso larghissimo la creazione,

socializzazione e soggettivazione degli esseri umani, in tutti i loro aspetti. Quindi “anche la

realizzazione e il rifacimento della cultura, delle varie aree dell’intersoggettività in cui gli esseri

umani sono inseriti – le solidarietà, i significati sociali e gli orizzonti di valore nei quali e attraverso

i quali vivono e respirano”. Dall’altra resta appannaggio femminile. In pratica, detto in altro modo,

per la visione sessista della nostra le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza

lavoro.


Che altro aggiungere? A mò di conclusione mi pare di poter dire che, se esiste ancora un femminismo socialista, l’unico modo che ha per “salvarsi l’anima”, e soprattutto per non affogare nella palude del femminismo neoliberale, consiste, per dirla con Marx, nel rimettere il mondo con i piedi in terra, vale a dire nel ristabilire l’ordine gerarchico fra conflitto di classe e conflitto di genere, restituendo al primo il carattere di contraddizione strutturale – in senso marxiano, che non vuol dire affatto economista, nella misura in cui incorpora fattori etici, antropologici e storici – di tipo antagonista, e al secondo il carattere di contraddizione interna alla classe degli sfruttati, da ricomporre ai fini della lotta contro il nemico comune. Preciso infine che ricomporre non significa ignorare la radicalità dei problemi: affermare che sessismo, razzismo, omofobia sono elementi residuali, che giocano ormai un ruolo secondario – se non addirittura negativo - per la conservazione del dispositivo di dominio liberal liberista, non significa affermare che si tratta di questioni trascurabili, né che non vadano combattuti con la massima decisione, significa semplicemente che metterli in cima alla lista degli obiettivi politici – o peggio eleggerli a unici obiettivi – vuol dire consegnarsi nelle mani del nemico di classe.  


Note


(1) Come ho cercato di chiarire nelle Glosse alla Ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs - pubblicate su questo blog - per una visione marxista lontana dal materialismo volgare, l'ideologia non è sinonimo di falsa coscienza, ma rappresenta piuttosto un fattore costitutivo dell’identità stessa – in senso materiale e non puramente ideale - di un soggetto sociale storicamente determinato. 

(2) Cfr.  C. Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016. 

(3) Cfr. S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, ombre corte, Verona 2014.

(4) Cfr. S. Federici, Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.

(5) Vedi, in particolare, A. Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020.

(6) Cfr. La variante…, op. cit.; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.  

(7) N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, London-New York 2015.

(8) N. Fraser, R. Jaeggi,  Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(9) http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html 

(10) Cfr. N. Fraser, a. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, Milano 2020.

(11) Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974.

(12) La promozione della diversità come fattore di vantaggio competitivo per la nuova forza lavoro, in particolare per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, è un tratto distintivo dei settori capitalistici più avanzati, in particolare per l’industria high tech e le Internet Company. Vedi in proposito il concetto di “classe creativa” in R. Florida (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

(13) C. Rottenberg, L’ascesa del femminismo neoliberale, ombre corte, Verona 2021.

(14)  La descrizione più approfondita della costruzione del nuovo soggetto lavorativo da parte del neoliberalismo si deve probabilmente a P. Dardot, C. Laval,  La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

(15) R, Sennett, Il declino dell’uomo pubblico,  Bruno Mondadori, Milano 2006. 

(16) A proposito del rifiuto fobico di tracciare confini simbolici, tipico delle culture postmoderniste cfr. F. Furedi, I confini contano, Meltemi, Milano 2021.

(17) La Butler ingaggiò a tale proposito una durissima polemica con le femministe tedesche – che arrivò ad accusare senza mezzi termini di razzismo - in merito all’episodio di Colonia, allorché nella notta di Capodanno, migliaia di immigrati musulmani invasero il centro della città importunando le donne. Ho commentato quella polemica ne Il socialismo è morto, op. cit.      

(18) Cfr. J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Milano 2004; vedi anche L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017.

(19) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; vedi anche C. Mouffe, For a left Populism, Verso, London-New York 2018.

(20) Cfr. J. Crispin, Why I’m nit a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017.




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