Lettori fissi

venerdì 5 febbraio 2021


 DAL GRUPPO GRAMSCI ALL'AUTONOMIA OPERAIA:

UN PERCORSO TUTT'ALTRO CHE LINEARE (II)

Nella prima puntata Piero Pagliani ha già colto alcuni degli snodi essenziali che consentono di decodificare quel mix di elementi di continuità e di discontinuità che caratterizzò la transizione dal primo al secondo Rosso e la (parziale) confluenza dei militanti del Gruppo Gramsci nell’Autonomia. Credo valga tuttavia la pena di compiere un ulteriore sforzo di approfondimento, non tanto per soddisfare le curiosità storiografiche degli appassionati di quella convulsa stagione della lotta di classe (né tantomeno per appagare le smanie memorialistiche del sottoscritto, che di quella stagione fu uno dei tanti protagonisti), ma perché penso che molti dei problemi teorici e delle sfide politiche che ci troviamo oggi di fronte fossero già contenuti – almeno in nuce – in quegli eventi. 

Gli autori che hanno introdotto la pubblicazione della prima tranche dei materiali di “Rosso” su “Machina” richiamano giustamente l’attenzione sulle differenti scelte organizzative effettuate da Gruppo Gramsci e proto Autonomia per strutturare l’intervento politico in fabbrica. In effetti, i CPO (collettivi politici operai) e le Assemblee Autonome non rispecchiavano solo diverse opzioni “tecniche”. I primi erano concepiti come un’articolazione politica destinata a operare all’interno dei consigli dei delegati, la struttura sindacale di base subentrata alle vecchie Commissioni Interne per estendere la base di rappresentanza democratica al di là degli iscritti alle organizzazioni sindacali. Attribuendo a quelle inedite strutture sindacali un potenziale di auto organizzazione paragonabile (nei limiti dettati dai differenti contesti storici) ai consigli operai di inizio Novecento, il Gruppo Gramsci concepiva l’intervento al loro interno come un obiettivo prioritario di cui i CPO erano gli strumenti organizzativi (il modello era quello dell’intervento di fabbrica dell’Ordine Nuovo nel Biennio Rosso). Viceversa i compagni provenienti dall’esperienza di Potere Operaio avevano scelto come terreno elettivo d'intervento le Assemblee Autonome, in quanto totalmente indipendenti dai sindacati “ufficiali” (consideravano infatti i consigli dei delegati un espediente tattico della burocrazia sindacale per “intrappolare” la spontanea carica antagonistica delle lotte operaie).

In altre parole: da un lato, il modello teorico era il modo in cui Gramsci aveva concepito il rapporto fra momento politico e momento sindacale: non “cinghia di trasmissione” dall’alto verso il basso, ma egemonia del momento politico emergente dall’autonomo sviluppo di coscienza antagonista da parte delle avanguardie di fabbrica, attraverso un continuo scambio dialettico fra mondo della produzione e insieme dei rapporti politici e sociali. Dall’altro lato, una concezione che affondava le radici nell’analisi teorica inaugurata dai “Quaderni Rossi”, centrata sulla tesi secondo cui la nuova classe operaia, in ragione delle profonde trasformazioni che l’organizzazione del lavoro della grande fabbrica fordista aveva indotto nella sua composizione (non solo tecnica ma anche culturale) sarebbe stata in grado di sviluppare spontaneamente livelli di coscienza antagonista, senza dover ricorrere a mediazioni politiche né tanto meno sindacali.  La classe operaia non aveva più bisogno di un partito (o di qualsiasi altra organizzazione “esterna”) perché era lei stessa il partito. Malgrado queste differenze non di poco conto, la condivisione di concreti obiettivi di lotta ha favorito forme di collaborazione reciproca, fino allo scioglimento del Gruppo Gramsci che ha rimescolato le carte.  

Vale la pena di ricordare alcune caratteristiche del momento storico in cui maturò (nel dicembre del 1973) quello scioglimento, che seguiva di pochi mesi quello di Potere Operaio e anticipava di tre anni quello di Lotta Continua. I contratti del 1973 erano stati l’ultimo sussulto di vitalità di quell’operaio massa che, dai Quaderni Rossi all’inizio dei Settanta, aveva incarnato il paradigma teorico operaista. Dopodiché le lotte di fabbrica vennero progressivamente spegnendosi fino al tragico atto finale della marcia dei quarantamila quadri Fiat nel 1980. Crisi petrolifera, crisi fiscale dello Stato, decentramento produttivo e ristrutturazione tecnologica hanno disarticolato il corpo di classe, ma soprattutto hanno posto fine alla breve stagione dell’alleanza fra movimento operaio, movimento studentesco e “nuovi movimenti” nati dalla progressiva trasformazione socioculturale di quest’ultimo, generando la definitiva e irreversibile separazione fra “critica sociale” e “critica artistica” analizzata da Boltanski e Chiapello (su questo tornerò più avanti). 



Con l’allontanamento di Giovanni Arrighi dal gruppo di compagni che avevano partecipato  all’esperienza del Gruppo Gramsci, l’egemonia teorico culturale della componente proveniente da Potere Operaio (ala negriana) divenne pressoché assoluta. Del resto, come ha osservato Piero Pagliani nella prima puntata, il loro discorso teorico era di gran lunga quello più vicino all’ortodossia marxiana (da non confondersi con l’ortodossia marxista del PCI), nel senso che ha rappresentato il più argomentato e coerente tentativo di descrivere la totalità dei conflitti sociali e politici della tarda modernità a partire dalla relazione capitale/lavoro. Infatti, senza lasciarsi inculcare dubbi né indurre a ripensamenti dalla dispersione della fabbrica fordista, ha mantenuto la centralità di tale relazione “spostandola” dalla produzione alla riproduzione e alla circolazione, anticipando temi – come la finanziarizzazione, la terziarizzazione del lavoro, la colonizzazione dei  mondi vitali esterni al processo diretto di produzione di valore, ecc. – che la sociologia e l’economia accademiche avrebbero scoperto assai più tardi. Era un impianto teorico affascinante (“elegante” per usare un termine caro ai filosofi della scienza). Per inciso, anche chi scrive (benché si fosse allontanato da tempo dalla militanza attiva in Autonomia) vi apportò un contributo pubblicando un libro (Fine del valore d’uso, 1980) in cui analizzava la capacità di “cattura” del valore economico generato dai processi di riproduzione sociale da parte delle nuove tecnologie informatiche. Quell’impianto, neo o post operaista, rimasto sostanzialmente immutato fino ai nostri giorni, ha consentito di inventare una serie di soggetti (operaio sociale, knowledge workers, moltitudini, ecc.) che sono stati via via investiti del ruolo di sostituti dell’operaio massa come avanguardie della lotta antagonista contro il capitale, e come incarnazioni dell’autonoma capacità di autovalorizzazione della forza lavoro.

A questo punto, è venuto il momento di chiarire quale sia stato il contributo degli ex militanti del Gruppo Gramsci alla seconda fase della vita di “Rosso”. Malgrado il venir meno dell’apporto teorico di Arrighi, tale contributo fu infatti tutt’altro che trascurabile, né si ridusse a fornire “manovalanza” al progetto di Autonomia. La base di coloro che decisero di continuare l’esperienza di “Rosso” era prevalentemente studentesca e proletaria, ma con caratteristiche peculiari. In particolare: 1) la presenza del Gruppo nel movimento studentesco universitario si era venuta ridimensionando fino quasi a sparire, viceversa era cresciuta la componente degli studenti medi, per cui l’attenzione si era spostata dai temi della proletarizzazione della forza lavoro qualificata in formazione a quelli della lotta all’autoritarismo nella scuola, in famiglia e nella società, della liberazione sessuale e più in generale di quella dei costumi; 2) l’influenza del nascente movimento femminista era forte sia fra chi veniva da Potere Operaio sia fra coloro che venivano dal Gramsci, ma mentre le compagne di PO si concentravano sui temi del rapporto fra conflitto di classe e conflitto di genere (lotta per il salario al lavoro domestico ecc.), quelle del Gramsci erano più interessate ai temi dell’emancipazione individuale (il personale è politico) attraverso la pratica dell’autocoscienza; 3) la componente proletaria, parallelamente al rifluire delle lotte di fabbrica, si era progressivamente giovanilizzata arruolando ragazzi provenienti dall’Hinterland e dalle periferie che in fabbrica non erano mai stati, ne erano stati espulsi o preferivano non entrarci se non saltuariamente e per brevi periodi  (su questa componente lo slogan post operaista del “rifiuto del lavoro” esercitava ovviamente un forte appeal). 

Il mix appena descritto generava una cultura libertaria, insofferente nei confronti di qualsiasi relazione gerarchica e di ogni forma di rigido inquadramento organizzativo. La critica nei confronti dei partiti e dei sindacati tradizionali assumeva di conseguenza coloriture antropologiche, ancor prima che politiche. Le ideologie antistataliste e antipolitiche che sono divenute carattere distintivo dei movimenti post sessantottini affondano le radici in questa fase storica. Ovviamente, i ragazzi e le ragazze del Gramsci non erano un’eccezione da questo punto di vista: basti pensare ai raduni di massa nel corso dei festival del Parco Lambro organizzati dalla rivista "Re Nudo", versioni in salsa italiana di quella grande celebrazione dello “sballo” e dell’esibizione disinibita della sessualità che era stata Woodstock. La loro specificità consisteva piuttosto nel fatto che quella cultura si è sposata con le velleità “insurrezionaliste” provenienti dalla tradizione di Potere Operaio. Nobilitate dall’inquadramento in categorie teoriche come proletariato giovanile e operaio sociale, queste pulsioni ribelliste erano esaltate come la forma specifica del conflitto fra capitale e lavoro in un fase in cui lo sviluppo e lo sfruttamento capitalistici erano fuorusciti dalla fabbrica per investire il complesso delle relazioni sociali. Il capitalismo, si argomentava, aveva spinto lo sviluppo delle forze produttive a un livello tale da poter garantire a tutti di poter vivere senza scambiare il proprio tempo di vita con un salario miserabile (il rifiuto del “pauperismo” della cultura comunista tradizionale, incarnato in quegli anni dall’elogio berlingueriano dell’austerità, si esprimeva in assalti ai supermercati nel corso dei quali si preferiva asportare beni di lusso piuttosto che beni di prima necessità, o negli sfondamenti dei servizi d’ordine dei concerti al grido “la musica non si paga”).   



Naturalmente sarebbe errato sostenere che si trattasse di fenomeni marginali, dimenticando che hanno coinvolto centinaia di migliaia giovani donne e uomini. Basti pensare al movimento del 77 che però, non a caso, restò confinato a Bologna e Roma, mentre non ebbe seguito nei grandi centri industriali del Nord. Questo perché la frattura fra “critica sociale” e “critica artistica” a quel punto si era consumata: la classe operaia schiacciata dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica era fuori gioco e lo sarebbe rimasta fino ad oggi, mentre le classi medie sognavano un’improbabile insurrezione che, decenni dopo, assume tratti tragicomici, tragici per i costi umani in termini di morti, anni di carcere, vite stroncate dalle droghe, ecc., comici per la patetica disorganizzazione di minoranze lanciate allo sbaraglio contro l’apparato repressivo dello Stato, per tacere dei compiacimenti estetici a la beau geste di sapore dannunziano (<<Immediatamente sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna>>. Copyright Toni Negri). 

Quei deliri avventuristi non si sono più ripetuti, anche perché, dopo l’ondata repressiva della fine dei Settanta, e soprattutto dopo la controrivoluzione liberista degli Ottanta, le “avanguardie” raccolte attorno a “Rosso” e altri gruppi hanno perso la capacità di mobilitare un blocco sociale che nel frattempo si era sfaldato: verso l’alto con la cooptazione dei militanti di origine medio borghese arruolati nelle imprese, nei media , nell’università e nelle istituzioni con il compito di “tradurre” il linguaggio dei movimenti nel lessico politicamente corretto delle élite liberali “progressiste” (vedi ancora Boltanski e Chiapello), verso il basso con l’integrazione dei militanti di estrazione proletaria o piccolo borghese nelle nuove filiere del valore del capitale post fordista. Eppure la grande narrazione post operaista, trasferitasi nei campus universitari di mezzo mondo e indossate le vesti paludate della italian theory, non ha cessato di inseguire le sue chimere. Chimere che, come già detto, sono il frutto di un paradossale eccesso di ortodossia, dell’assoluta fedeltà a categorie marxiane come general intellect, sviluppo delle forze produttive quale premessa della transizione al comunismo, ma soprattutto al concetto di tendenza, una categoria che legge l’intero sviluppo storico come un processo lineare, necessario e immanente al rapporto sociale e al modo di produzione capitalistici e che, nei suoi esiti più paradossali (ma coerenti) annuncia l’avvento del “comunismo del capitale”, una sorta di auto-conversione hegeliana del capitalismo nel suo contrario. Per citare Pagliani a mo’ di conclusione: <<lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l'importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli>>.  


 








 


domenica 31 gennaio 2021


 DAL GRUPPO GRAMSCI ALL'AUTONOMIA OPERAIA: UN PERCORSO TUTT'ALTRO CHE LINEARE (I)

di Piero Pagliani 

Introducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista "Rosso" sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell'Autonomia non sia nata dal filone "classico" dell'operaismo che si è dipanato da "Quaderni Rossi" a "Contropiano", bensì da un'altra componente "eretica" delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell'area marxista leninista "ortodossa", la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta - dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale -  due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo "continuista" del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un'adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono - non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato - al tragico epilogo della storia dell'Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti) 

Giustamente la prefazione di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita alla raccolta del quindicinale “Rosso”, sottolinea il paradosso che la «più celebre rivista dell’Autonomia [operaia]» non era il frutto della tradizione operaista italiana che faceva capo a “Quaderni rossi” o a “Contropiano”, ma nasceva da una particolarissima esperienza politica, quella del Gruppo Gramsci,   a cui avevano dato vita “transfughi” dal marxismo-leninismo dogmatico italiano e del Movimento Studentesco milanese. In realtà il paradosso si risolve se si considera che il Gruppo Gramsci originario non si travasò nella sua interezza nell'Autonomia. In particolare, questo passaggio non fu compiuto da alcuni dei suoi esponenti di spicco, tra i quali vanno citati Romano Madera, Giovanni Arrighi e Carlo Formenti (Arrighi si allontanò fra fine 73 inizio 74, Madera e Formenti non molto tempo dopo) Per capire la distanza tra l'operaismo, o meglio il tardo operaismo, che muoveva l'Autonomia e animava “Rosso” e l'elaborazione teorica e politica dei militanti appena citati, occorre immergersi, scontando brevità e schematismi, nel crogiolo da cui uscirono quelle esperienze.

Seguendo Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo. Mimesis, 2014), possiamo in prima istanza classificare il Sessantotto studentesco nella categoria di “bohème” ovvero di “critica artistica al capitalismo”. A dispetto del nome, la critica artistica ha sempre avuto delle motivazioni materiali. Nel nostro caso il fermento studentesco e giovanile era esploso sul crinale tra il “ventennio d'oro” di sviluppo capitalistico occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta e l'inizio della crisi del sistema egemonico statunitense che aveva favorito quel ventennio di sviluppo materiale, che in Italia aveva preso il nome di “boom economico” e che si era imposto con la vittoria alleata nella Seconda Guerra Mondiale. Crisi tuttora in corso. Insomma, si ereditavano promesse e possibilità mentre si sperimentavano le prime chiusure e le prime difficoltà. In relazione agli studenti, il Movimento Studentesco della Statale di Milano classificava questa congiuntura col concetto di “proletarizzazione dei ceti medi”.

Questa crisi, maturata alla fine degli anni Sessanta, si conclamò col Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del Ferragosto del 1971, dopo il quale nel giro di meno di un decennio il sistema fordista-keynesiano sviluppatosi per e nella ricostruzione postbellica dei singoli Stati e del mercato mondiale dovette cedere, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, alla triade liberalizzazione-globalizzazione-finanziarizzazione. Su questo crinale tra sviluppo e crisi la bohème sessantottina cercò di saldarsi a un movimento operaio in grande fermento, forte sui luoghi di lavoro perché sospinto dallo sviluppo precedente e forte politicamente perché organizzato materialmente e ideologicamente dalla straordinaria esperienza  comunista e socialista. Ma la fusione tra le istanze studentesche e quelle operaie avvenne solo molto parzialmente nella realtà, mentre occupò il proscenio soprattutto nelle teorie rivoluzionarie di alcune tendenze della sinistra extraparlamentare. Tra esse, in Italia, l’operaismo a mio avviso costituì l’unica possibile lettura moderna dell’ortodossia marxista. Era, in altre parole, la forma più alta che la classicità marxista riuscì ad esprimere in quel periodo di profonda transizione. Una lettura quindi al contempo moderna e ortodossa. Moderna perché registrava, a volte efficacemente, le trasformazioni della società e della “composizione di classe” dovute al passaggio storico sopra accennato e perché alcuni suoi esponenti intuirono con precisione l’incedere della finanziarizzazione nel processo di accumulazione[1]. Ortodossa perché inseriva i risultati di quelle analisi in schemi esclusivamente legati alla contrapposizione capitale-lavoro. Ma al di là del fatto che il pensiero di Marx non si presta in realtà a un’ortodossia, un solo ingrediente non è sufficiente a spiegare la crisi e le sue dinamiche. Nemmeno un ingrediente centrale come la natura di classe del rapporto sociale capitalistico e del modo di produzione costruito su di esso. 

Se è vero, e io ne sono convinto, che la crisi sistemica affonda effettivamente le sue radici nella natura di classe del rapporto sociale e del modo di produzione capitalistici, tuttavia, lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l'importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli. E' qui che possiamo individuare la distanza tra l'analisi della crisi in Arrighi, basata su una complessa elaborazione di tutti gli ingredienti appena elencati, e la visione operaista, incentrata sul rapporto capitale-lavoro e sul tentativo di identificare il soggetto rivoluzionario nei meandri delle radicali trasformazioni delle società capitalistiche. Come accennato, il pensiero operaista si era reso conto con un anticipo sorprendente sul resto dei teorici di sinistra che il capitalismo occidentale stava scivolando sempre più profondamente nella finanziarizzazione. Lo aveva fatto spesso con lucidità, ma aveva riportato questo fenomeno all'assunto costitutivo dell'operaismo stesso: la finanziarizzazione era la risposta del capitale alla crescente pressione della classe operaia e richiedeva l’individuazione delle nuove modalità di composizione e di autorganizzazione della classe che avrebbe fatto superare la crisi con la rottura anticapitalistica. 


Il soggetto rivoluzionario in questa ricerca sarebbe stato identificato prima nell'operaio massa, poi nell'operaio sociale, infine nelle moltitudini desideranti. Una trasformazione coerente con la lettura delle trasformazioni del capitalismo: inizialmente quello delle concentrazioni multinazionali e dell’organizzazione gerarchica fordista, poi quello diffuso del “piccolo è bello”, delle delocalizzazioni e dell’organizzazione “a rete”, più in là quello della New Economy, vista come segnale di una nuova “società della conoscenza” permessa dall’internettizzazione globale e non come enorme bolla borsistica, quello della globalizzazione, vista come realizzazione delle “profezie” di Marx e non come un altro nome per “egemonia degli Stati Uniti”, come dichiarato senza peli sulla lingua da Henry Kissinger[2] e quello della finanziarizzazione, interpretata come “capitalismo immateriale”, ovvero come una nuova fase del capitalismo e non come sbocco obbligato della sovraccumulazione. Se paragoniamo queste analisi con quelle di Giovanni Arrighi che affondano nella Storia, nel tentativo di capire ciò che persiste e ciò che muta nel suo divenire, nel connettere elementi di natura diversa (geografia, organizzazioni d'impresa, organizzazioni statali, organizzazioni sociali, tecnologie, risorse, modalità di pensiero, eccetera) possiamo dire che l’analisi operaista è stata una raffinata analisi del concetto di capitale non delle società capitalistiche realmente esistenti. Un’analisi in cui spesso una bohème  accademica radicale rappresentava il mondo e se stessa. Similmente, la riflessione di Romano Madera sulla possibilità stessa dell'esserci di un soggetto rivoluzionario depositario della capacità di negare la negazione, di ribaltare il ribaltamento della reificazione (si veda il suo Identità e feticismo, Moizzi, 1977) si svolgeva su un piano molto differente dall'adattamento sociologico del soggetto alle successive condizioni e trasformazioni del capitalismo. L'affascinante moderna ortodossia marxista dell'Operaismo ha ostacolato la comprensione delle nuove modalità di composizione di classe e delle loro conseguenze politiche in un'epoca, quella odierna, dove in basso si è dissolto, almeno in Occidente, il Quarto Stato e non si è ancora ricostituito un nuovo Terzo Stato laddove, in alto, il progredire tecnologico del capitalismo sta andando di pari passo al suo regredire a forme di neo-signoria. Difficoltà che non permette di comprendere oggi, ad esempio, la “variante populista” (Formenti).  

Nel “Rosso” post Gruppo Gramsci finirono per sovrapporsi due dimensioni politiche, analitiche ed esistenziali molto differenti una dall'altra: la controcultura tipica della bohème (in cui emergevano i rapporti di genere e interpersonali in senso ampio) e gli schemi marxisti più ortodossi. Un esito interessante, in sé, e non sorprendente: in fin dei conti era la post-modernità che agiva sulla classicità rivoluzionaria. L'esito veramente sorprendente si è visto solo molto più in là, dopo la Belle Époque reaganiana-clintoniana quando la correttezza politica ha decisamente preso il posto della correttezza sociale nascondendo/giustificando la lotta di classe dall'alto e la ripresa delle aggressioni imperialistiche. Un esito non previsto né da chi seguì “Rosso” dopo il 1973, né da noi che ce ne allontanammo. Tuttavia un esito che da qualcuno era stato previsto: Pier Paolo Pasolini. Più precisamente non era una profezia, ma la consapevolezza di un metodo che Pasolini, mentre intorno a “Rosso” ci si aggregava e ci si divideva, vedeva già all'opera: «Il ciclo è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria» [3].

[1] Mi riferisco specialmente al “gruppo sulla moneta” raccolto attorno alla rivista “Primo Maggio” il cui lavoro in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Bologna con Moneta e crisi: Marx corrispondente della “New York Daily Tribune”, 1856-57. “Primo Maggio”, n. 1, settembre 1973, pp. 1-15. Ampliato in S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Crisi e organizzazione operaia. Feltrinelli, Milano, 1974. Ancora di interesse sono i “Saggi sulla moneta” nel Quaderno di Primo Maggio N. 2.
[2] Si veda Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Impero, era stato scritto quasi contemporaneamente a Il lungo XX secolo e mentre quest'ultimo metteva in guardia, in piena ubriacatura da globalizzazione e new economy, dalla prossime sequenze di crisi economiche e di guerre, il primo descriveva un mondo ormai appiattito e privo di stati-nazione, una condizione concettualmente teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari col termine “spazio liscio” in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 1997). 
[3] Pier Paolo Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In Scritti corsari, Garzanti, 1975, pag. 13.

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