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domenica 29 ottobre 2023

L’ENIGMA DEL “MIRACOLO” CINESE E LA NECESSITA’ DI RIDEFINIRE IL CONCETTO DI SOCIALISMO  



1.  L’intuizione di Arrighi. 


Nel secondo volume di Guerra e rivoluzione (1) intitolato “Elogio dei socialismi imperfetti”, mi occupo ampiamente del caso Cina (Cap. I) e delle rivoluzioni bolivariane in America Latina (Cap. III). Qui torno esclusivamente sulla questione cinese, perché un'analisi comparativa con altre esperienze, passate e attuali, richiederebbe molto più spazio. Dal titolo appena citato è evidente quale sia il mio giudizio nei confronti delle esperienze trattate in quelle pagine: contrariamente alla maggioranza degli intellettuali marxisti occidentali, per tacere degli autori genericamente “di sinistra”, i quali blaterano di capitalismo di stato o, nella migliore delle ipotesi, di tentativi più o meno riusciti di emancipazione dal dominio neocoloniale, ritengo che si tratti di rivoluzioni antimperialiste che hanno imboccato la strada della transizione al socialismo. 


Attenendomi alla sola Cina, questo giudizio si fonda su una serie di dati di fatto di cui mi limito a elencare qui di seguito i più significativi: anche dopo le riforme degli anni Settanta, i settori strategici dell’economia (sia in campo industriale che in campo finanziario) sono rimasti sotto il controllo politico dello stato/partito; l’agricoltura è stata (parzialmente) liberalizzata ma non privatizzata; gli investimenti stranieri vengono utilizzati per accelerare lo sviluppo tecnologico e scientifico oltre che economico, senza permettere che influiscano sugli equilibri generali del sistema; gli investimenti diretti all’estero sono finalizzati a favorire lo sviluppo dei Paesi beneficiari e non a sottoporli al ricatto dell’economia del debito (una logica opposta a quella degli investimenti occidentali); i tentativi della borghesia nazionale di trasformare il proprio potere economico in potere politico vengono stroncati; lo straordinario successo economico, che in una prima fase ha imposto pesanti sacrifici alle classi lavoratrici, è stato successivamente utilizzato per riscattare centinaia di milioni di cittadini dalla povertà assoluta, elevare i salari operai e i redditi contadini, migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse e spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni; infine questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si è accompagnato – come auspicato dalle élite occidentali – ad una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, ma ha mantenuto la barra del timone verso l’obiettivo di realizzare nuove forme di democrazia popolare (2). 


L’elenco di argomenti appena addotti – nella nota qui sopra trovate le fonti principali da cui ho tratto ispirazione - non basterebbe di per sé a giustificare il mio giudizio sulla natura dell’esperimento cinese: a determinarlo, in effetti, è stato soprattutto il capolavoro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino (3). Nelle prime pagine Arrighi esorta a “prendere più sul serio la sociologia economica dell’economia”. Di conseguenza, il suo approccio all’analisi del mondo contemporaneo segue la via tracciata da autori come Fernand Braudel e Karl Polanyi, i quali hanno spostato il piano dell’analisi del capitalismo dall’economia “pura” alla sociologia, alla storia e all’antropologia culturale. Ma soprattutto Arrighi sovverte l'interpretazione “canonica” delle teorie di Adam Smith: costui, scrive, non fu solo l’apologeta del mercato autoregolantesi, ma anche colui che auspicò l’esistenza di uno Stato forte, senza il quale non si danno le condizioni di esistenza del mercato. La sua idea di fondo era che i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo. Questo è uno dei motivi per cui Smith ammirava la Cina. Nel 1776 scriveva infatti che la Cina era più ricca di qualsiasi Paese europeo grazie al carattere “stazionario” della sua economia, cioè grazie al fatto che, pur non essendo mossa dalla spinta all’accumulazione illimitata,  aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica; ma soprattutto Smith definiva “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, contrapponendolo allo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero, a suo avviso meno favorevole all’interesse nazionale.


Partendo da questa contrapposizione, Arrighi critica la tesi marxista che vede nello sviluppo capitalistico il modello da cui il mondo intero dovrà passare, prima di riuscire a liberarsene. Se si accetta tale tesi, lo sviluppo che Smith definisce “naturale” non può sopravvivere in un mondo in cui  si sia diffuso lo sviluppo “innaturale” delle nazioni capitalistiche europee. Marx era infatti convinto che il mondo intero fosse destinato ad appiattirsi sul modo di produzione capitalistico: ogni altra formazione sociale era destinata a “sciogliersi” non appena fosse entrata in contatto con il mercato capitalistico. L’irresistibile potenza distruttiva della via “innaturale” (per usare la terminologia di Smith) era frutto  dell’intensa competizione fra nazioni europee che aveva generato un mix unico di capitalismo, industrialismo e militarismo, unitamente a una superiorità tecnologica destinati ad annientare la resistenza delle altre nazioni. Eppure, scrive Arrighi, l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato: esistono culture, tradizioni, modelli di relazioni sociali, forme di vita non solo hanno resistito ma, sfruttando la crisi del modello neoliberale, hanno generato modelli di sviluppo alternativi a quello dominante, fondati sul mercato ma non capitalistici, di cui la Cina rappresenta l’esempio più significativo. 


L’analisi di Arrighi parte da lontano, evocando alcune costanti che hanno caratterizzato la storia millenaria della Cina. Ricorda che l’Oriente asiatico è stato l’avanguardia dello sviluppo mondiale per due millenni  e che solo il fulmineo sviluppo della potenza tecnologico-militare europea ha oscurato questo primato.  Solo nel XIX secolo la rivoluzione industriale occidentale sembrò avere ragione della “rivoluzione industriosa” orientale, concetto con cui Arrighi si riferisce alla struttura istituzionale dominante in Asia  che, mentre era deficitaria in tema di innovazioni su larga scala, investimenti in capitale fisso e traffici di lunga distanza, favoriva tecnologie ad alta intensità di lavoro, privilegiando le risorse umane rispetto alle risorse materiali. Arrighi ricorda poi che fra le principali formazioni politiche dell’Oriente asiatico non si registrarono guerre degne di nota, né tentativi di dare vita a imperi d’oltremare dal Seicento agli inizi del Novecento. Negli stessi anni, lo scenario europeo è invece caratterizzato dalla continua competizione militare fra le varie nazioni e dalla tendenza generalizzata all’espansione geografica. Nel secolo XVIII lo stato nazione cinese esisteva da tempo immemorabile e, sotto le dinastie Ming e Qing, aveva sviluppato un immenso mercato interno. I Ming diedero la precedenza al mercato interno, arrivando a inibire quello esterno, e i Qing, oltre ad accentuare tale strategia, impegnarono tutte le risorse nel consolidamento di relazioni pacifiche con i confinanti e, nello sforzo di integrare una economia nazionale basata sull’agricoltura, promossero la ridistribuzione delle terre sottratte ai grandi proprietari. Queste politiche generarono prosperità e crescita demografica, ma impedirono ai cinesi di percepire il pericolo che incombeva da Occidente.  Eppure non sarà la superiorità economica del modello occidentale a mettere in ginocchio la Cina: in barba alle previsioni di Marx ed Engels, secondo cui le merci occidentali a buon mercato sarebbero state “l’artiglieria pesante con cui la borghesia europea avrebbe abbattuto le muraglie cinesi”, i mercanti inglesi scoprirono di non poter battere la concorrenza di quelli cinesi. Per sfondare in Cina gli occidentali dovettero ricorrere alla violenza, scatenando le due guerre dell’oppio. Dopodiché seguì un secolo di umiliazioni per una Cina esposta a ogni genere di vessazioni non solo da parte dei “barbari” occidentali ma anche del Giappone, fino all’invasione da parte di quest’ultimo che anticipò di qualche anno lo scoppio della Seconda guerra mondiale.  


Quali fattori hanno favorito l’ascesa della Cina che dalla rivoluzione del 1949 è riuscita a issarsi al ruolo di competitor nei confronti di un impero Usa in declino? Arrighi retrodata l’inizio del processo agli anni della grande rivolta dei popoli asiatici e africani contro l’Occidente nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, caratterizzati dalla nascita di un  fronte ampio di nazioni ex coloniali – i “non allineati” della conferenza di Bandung (1955) – che si allearono per rivendicare un nuovo ordine economico internazionale. Le loro velleità vennero stroncate dalla controffensiva finanziaria degli Usa, ma, ancorché sconfitta, quella sollevazione non lasciò le cose com’erano prima. In particolare, creò le basi per l’ascesa della potenza collettiva di un arcipelago asiatico (del quale, prima della Cina, facevano parte  il Giappone e le cosiddette Tigri asiatiche) che si propose in tempi relativamente brevi come “officina del mondo” e fonte di enormi riserve di liquidità. Come ha potuto la Cina, pur inserendosi per ultima in tale concerto, diventare il capofila di questa sfida all’Occidente? Per spiegare il miracolo, Arrighi respinge l’idea secondo cui  sarebbe fondato sulla conversione del partito comunista e dello Stato cinesi al credo neoliberale: la verità, sostiene, è piuttosto che a determinarlo è stato il fatto che, scartando le shock terapy confezionate dal Washington Consensus per “risanare” le economie dell’ex Unione sovietica e dei suoi satelliti, Deng  ha imboccato una via riformista inspirata a un rigoroso gradualismo. 







A far decollare l’economia, è stata la decisione di imporre alle aziende statali di farsi concorrenza e di accettare la concorrenza delle aziende straniere e delle nuove aziende a partecipazione privata e di comunità. Né minore importanza nella formazione dell’immenso mercato interno cinese ha avuto la scelta di consentire (dal 1983) ai residenti delle aree rurali la possibilità di svolgere attività di trasporto e commercio anche a grande distanza. Infine Arrighi sfata due luoghi comuni: quello secondo cui la Cina sarebbe divenuta la fabbrica del mondo grazie al basso costo della sua forza lavoro, e quello secondo cui sarebbe stata favorita dall’enorme flusso di investimenti stranieri nelle Zone Speciali istituite dopo le riforme del 78. Ad attirare i capitali esteri, precisa, non è stato tanto il basso costo della forza lavoro quanto l’alta qualità di quest’ultima in termini di salute, livelli di istruzione e ampi margini di autonomia, tutte caratteristiche ereditate dall’era maoista. Quanto agli investimenti stranieri: più delle multinazionali occidentali, che mal tolleravano i vincoli legislativi imposti dallo Stato cinese, a trainarli furono soprattutto i cinesi della diaspora. Infine gli investimenti occidentali si sono dovuti avvalere della mediazione di “sensali” locali, così la lingua, le usanze e le reti sociali locali hanno contributo a proteggere l’economia cinese da eccessivi livelli di condizionamento da parte del capitale straniero. 


Tutto ciò si spiega, argomenta Arrighi, solo accettando che possa esistere uno sviluppo di mercato non di tipo capitalistico. Che è poi quello che i cinesi chiamano socialismo con caratteristiche cinesi, socialismo di mercato (o con mercato, secondo altri autori). È chiaro che questa, dal punto di vista dei marxisti ortodossi, è una eresia. Ma in Adam Smith a Pechino Arrighi suggerisce  un vero e proprio cambio di paradigma. Seguendo Braudel e Polanyi, prende commiato dalla prospettiva globalista di un mondo livellato dal processo di accumulazione capitalistico per mettere in luce la gigantesca novità che ci consegna la storia: un Paese di un miliardo e mezzo di persone che ha saputo compiere il miracolo di ibridare: 1) una millenaria tradizione storica capace di generare una forma di ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene della comunità; 2) la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata dall’ideologia marxista-leninista; 3) un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito. 


Dalla lettura del libro di Arrighi si esce con la sensazione che il giudizio sulla natura dell’economia e della società cinesi rimanga in qualche modo sospeso: posto che definirlo capitalismo di stato ed etichettare la Cina come una nuova potenza imperialista è una palese idiozia, resta il dilemma: è un Paese socialista o si tratta di una formazione sociale di tipo nuovo? Il dilemma non viene sciolto nemmeno da Vladimiro Giacché in scritti (4) in cui evidenzia le differenze fra il socialismo int stile cinese e la visione marxiana che ha ispirato i partiti comunisti novecenteschi. Giacché prende le mosse dalla Critica al Programma di Gotha Marx e dall’ Anti Duhring di Engels. In quest’ultimo lavoro si affermava chiaramente che il socialismo non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. In poche parole: quelle che più tardi verranno descritte come caratteristiche del comunismo realizzato, vengono qui già attribuite al socialismo in quanto prima fase del comunismo. Né ciò verrà messo in discussione dal partito bolscevico negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917. Fino al 1919/20 Lenin pensava ancora che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la sua sostituzione totale con la distribuzione organizzata secondo un piano, ma negli anni 1921-23, Lenin criticò le tesi  di coloro che sostenevano che si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo senza un periodo di transizione, dopodiché finì per ammettere che tale fase di transizione sarebbe stata lunga e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. 


Tornando alla Cina, Giacché ha dunque ragione di affermare che “se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non può considerarsi tale né la Cina di Mao, né tantomeno quella di Deng e dei successori”. Dopodiché ricorda che Lenin, in un discorso del 1918 ebbe a dire: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. Posto che non si vede perché si debba negare ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare a loro volta il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese, Giacché ribadisce che ciò non scioglie il dubbio: la Cina è un Paese in transizione verso il socialismo o verso un modello inedito di formazione sociale? 


Non ho la presunzione di pensare che bastino a sciogliere il dubbio le critiche ad alcuni dogmi del marxismo occidentale che avanzo nel primo volume del già citato Guerra e rivoluzione, a partire dal fatto che le rivoluzioni socialiste si sono rivelate storicamente possibili solo in Paesi economicamente arretrati in lotta contro l’imperialismo. A tutte le tesi fin qui esposte, i marxisti ortodossi potrebbero replicare che l’affermazione del carattere socialista dell’esperienza cinese si riduce a un atto di fede, basato su argomentazioni di tipo ideologico-politico e antropologico-culturale, ma privo di sostanza sul piano socio-economico. A meno che non si riesca a dimostrare che alcune categorie fondamentali del marxismo, a partire da concetti fondanti come quelli di modo di produzione e di legge del valore, debbano essere riformulati. Ciò è esattamente quanto tentano di fare Alberto Gabriele ed Elias Jabbour nel libro (5) che intendo discutere nel prossimo paragrafo. 



Modi di produzione/legge del valore/socialismo 


Nel mio “Elogio dei socialismi imperfetti” affermavo: 1) che Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela, Bolivia ecc. sono da considerare Paesi socialisti anche se si tratta di economie miste in cui permangono proprietà privata e scambi monetari; 2) che tale giudizio è fondato in primo luogo sulla espressa volontà politica dei rispettivi governi di realizzare il socialismo; 3) che, in particolare nel caso della Cina, tale volontà si estrinseca attraverso il rigoroso controllo dello stato/partito sui settori strategici dell’industria e della finanza; 4) che tutti questi Paesi sono impegnati nel miglioramento del benessere delle classi lavoratrici; 5) che tutti questi Paesi sono uniti nella lotta contro l’imperialismo occidentale capeggiato dagli Stati Uniti. E’ evidente che questi argomenti non soddisfano i requisiti “classici” che la teoria marxista richiede perché un Paese sia dichiarato socialista; ed è altrettanto evidente che questa visione, contrariamente a quanto affermato da Marx ed Engels, non considera il socialismo come una breve fase di transizione verso il comunismo ma come un modo di produzione a sé stante, in cui permangono le classi e il conflitto di classe, per cui il suo approdo al comunismo – da considerare un obiettivo di lunghissimo periodo da depurare dai connotati messianici di “paradiso in terra” (6) – non è un approdo “destinale” ma una possibilità legata all’esito dei conflitti sociali in questione. Questa visione trova riscontro nel succitato libro di Alberto Gabriele ed Elias Jabbour, i quali partono da una ridefinizione del concetto di socialismo che comporta un ripensamento critico di alcune categorie fondamentali del marxismo. 


Secondo Gabriele e Jabbour non esistono allo stato attuale Paesi che rispecchino modelli di ”puro” o pieno socialismo; esistono piuttosto Paesi definibili come “socialistic” o “socialist- oriented” (7). Definiamo socialist oriented, scrivono, le economie nazionali che soddisfano due condizioni: a) sono governate da forze politiche che rivendicano ufficialmente e credibilmente di essere impegnate nello sviluppo di un sistema socioeconomico socialista; b) possono ragionevolmente definirsi tali per essere avanzate in apprezzabile misura in direzione della costruzione del socialismo. Il grado di orientamento in senso socialistico è direttamente correlato con obiettivi quali la riduzione della disuguaglianza, la soddisfazione universale dei bisogni di base, la sostenibilità ambientale, ecc. Come si vede la proprietà di “essere socialista” è qui definita in senso non meno “debole” di quello indicato dal sottoscritto (vedi sopra), al punto che, in un altro passaggio, si riduce al rispetto di modalità di distribuzione dei redditi e della ricchezza nettamente più egualitarie di quelle in auge nei Paesi capitalisti (un’economia mista come quella degli anni Sessanta in Italia non era troppo lontana da soddisfare tale requisito). Infine Gabriele e Jabbour affermano che il socialismo come modo di produzione è radicato solo in certe aree del Sud ed è ancora nella sua infanzia (di fatto considerano “socialist oriented” solo Cina, Vietnam e Laos, mentre tacciono sui socialismi latinoamericani). Tuttavia sorge immediatamente un interrogativo: in che misura è possibile utilizzare in questo contesto il concetto di modo di produzione?





La categoria marxiana di modo di produzione è complessa e presuppone l’esistenza di una serie di fattori altamente specifici (il modo di produzione capitalista non è definito solo dalla produzione di merci ma anche da precise figure sociali - borghesia e proletariato, o meglio capitale e lavoro – nonché dalle relazioni di produzione e scambio che le interconnettono, ecc.). Gabriele e Jabbour ricordano che, inteso nel suo senso più astratto, il modo in produzione è un sistema dotato di coerenza interna e leggi di autoconservazione e movimento (per inciso annotano che il concetto è compatibile con quello di sistema elaborato dalla teoria dei sistemi, e io aggiungerei con quello di struttura elaborato dallo strutturalismo, si pensi alla lettura althusseriana di Marx). Tuttavia si tratta appunto di un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente determinate, possono aderire in misura significativamente diversa (con il termine formazione socioeconomica, Gabriele e Jabbour definiscono un sistema dotato di un certo grado di consistenza e stabilità interne che predomina storicamente in un dato luogo identificato da coordinate spaziotemporali). 


Ora – ed è qui che il discorso comincia a discostarsi dal marxismo “classico” – laddove Marx ipotizzava che il modo di produzione capitalistico, già tendenzialmente dominante in Europa ai suoi tempi, fosse destinato a diffondersi a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non fosse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il primato di un determinato modo di produzione può essere, in differenti contesti nazionali, assoluto o relativo. Gli Stati Uniti rappresentano un chiaro esempio di supremazia assoluta del modo di produzione capitalistico, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere in relazioni che presentano relazioni di rivalità e/o di simbiosi (8), così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro. 


Questo pluralismo dei modi di produzione - riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove oltre a formazioni socioeconomiche socialist oriented esistono forme produttive e relazioni sociali di tipo precapitalistico (9) – non vieta di riconoscere che il modo di produzione dominante a livello mondiale resta il capitalismo, al tempo stesso non vieta di affermare che, laddove esso convive con altri modi di produzione, non è possibile stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo - il che vale soprattutto laddove è in atto un processo di transizione, a meno di non assumere una visione teleologica della storia umana (10). In particolare, sostengono Gabriele e Jabbour, occorre prendere atto che il modo di produzione capitalista, ancorché tuttora dominante, lo è in misura minore del passato, in quanto il processo di globalizzazione ha offerto ai Paesi socialist-oriented l’opportunità di integrarsi nell’economia mondiale e di competere con i paesi capitalisti senza rinunciare al proprio progetto di transizione al socialismo. Infine, per definire la convivenza fra diversi modi di produzione a livello mondiale, Gabriele e Jabbour ricorrono al termine Meta Modo di Produzione che connota un sistema globale il cui minimino comun denominatore consiste nelle seguenti caratteristiche: produzione di merci e rapporti di produzione e scambio, vigenza della legge del valore e del processo di estrazione del plusvalore, coesistenza fra un macrosettore produttivo e un macrosettore improduttivo. 


Per poter affermare che queste caratteristiche – che Marx considera specifiche del modo di produzione capitalistico – sono compatibili con il processo di transizione al socialismo, Gabriele e Jabbour le sottopongono a un “indebolimento” semantico. Vediamo come. Posto che tutto il valore economico nelle società umane – capitaliste o socialiste - è generato in ultima istanza dal lavoro (11),  Gabriele e Jabbour affermano che l’esistenza del plusvalore non è di per sé indice di sfruttamento di classe né determina il grado di giustizia di una certa società. In quanto relazione sociale, scrivono, lo sfruttamento dev’essere considerato come una categoria sociologica che implica un giudizio etico-politico, nella misura in cui si tratta del frutto dell’asimmetria di potere fra capitalisti e lavoratori. L’appropriazione privata del surplus sociale, sostengono, non è un fatto meramente economico, ma va reinterpretato come un fenomeno sociale olistico prodotto dalla estrema disparità fra individui appartenenti a differenti classi sociali. In un certo senso si potrebbe dire che propongono di invertire la relazione dialettica: non è l’appropriazione privata del surplus a produrre la disuguaglianza di classe ma è la disuguaglianza di potere fra le classi a generare le condizioni per l’appropriazione privata. 


Se la legge del valore e le interazioni di mercato mantengono il loro ruolo anche in una formazione sociale in transizione verso il socialismo è evidente che quest’ultima dev’essere concepita come un contesto in cui le categorie in questione subiscono un progressivo depotenziamento. Una volta accantonata l’idea cara a Trotsky e ad altri teorici marxisti che nega la possibilità della costruzione del socialismo in un solo Paese, e della conseguente affermazione secondo cui la rivoluzione socialista può essere solo mondiale, ciò fa sì che il concetto di attuabilità del socialismo debba essere necessariamente formulata in termini meno ambiziosi e descritta come un processo di lunga durata in cui permangono i conflitti sociali. Ma soprattutto implica l’abbandono dell’opposizione dicotomica fra formazioni sociali socialiste o non socialiste (di qui l’adozione del termine socialist oriented, vedi sopra). 


Oltre alle differenze elencate in apertura di questo paragrafo, esiste un altro criterio che consente di distinguere fra formazioni sociali capitalistiche e socialist-oriented, vale a dire il diverso rapporto che viene instaurato fra i macrosettori produttivo e improduttivo. Gabriele e Jabbour non ignorano la complessità dei problemi associati alla distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo, uno dei quali consiste nel decidere come considerare quelle attività lavorative che non appartengono direttamente alla sfera della produzione. Il processo di terziarizzazione che ha caratterizzato i Paesi a capitalismo avanzato negli ultimi decenni potrebbe indurre a far considerare come improduttivi un’elevata percentuale dei lavoratori delle imprese private dei Paesi in questione, ma ciò contrasta con il criterio stabilito da Marx nel Capitolo VI Inedito del Capitale (12) in base al quale tutte le attività – siano esse agricole, industriali, terziarie, materiali immateriali, ecc. - che generano plusvalore per i capitalisti sono produttive. Il capitalismo risolve il problema del macrosettore improduttivo privatizzandolo progressivamente ed integrandolo nel macrosettore produttivo di plusvalore (da tale punto di vista si potrebbe dire che in un Paese ad elevato tasso di terziarizzazione e di privatizzazione come gli Stati Uniti non esistono lavori improduttivi). Nei Paesi socialist-oriented la questione è più complicata: dal punto di vista dell’utilità sociale è ovvio che i servizi pubblici sono attività produttive, ma dal momento che  essi operano in un sistema in cui sussistono la legge del valore e il mercato, è altrettanto ovvio che, per migliorare il benessere generale, queste attività devono essere gestite dallo stato e al di fuori del mercato, quindi non producono direttamente surplus e devono essere finanziate dalle attività direttamente produttive. Per concludere: nel socialismo (sia pure inteso nel senso debole qui suggerito) la socializzazione della produzione elimina lo sfruttamento attraverso un doppio dispositivo: da un lato, viene ridotta drasticamente, se non eliminata, l’appropriazione privata del surplus; dall’altro lato il surplus non sparisce ma viene collettivizzato e investito sia per favorire lo viluppo economico, scientifico e tecnologico, sia per finanziare il macrosettore “improduttivo” (ma produttivo di utilità e benessere sociali) dei servizi. 


Con altre parole: secondo la visione sin qui esposta, la sfida del socialismo inteso come modo di produzione sui generis consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni dell’economia. Per ottenere tale risultato si sono imboccate due vie: la via sovietica caratterizzata dalla pianificazione centralizzata dell’economia, che oggi si può dire estinta, anche se Cuba può essere in parte considerata un residuo di tale modello (ma sono in atto riforme per indirizzarla su un’altra strada), e la via delle economie socialiste di mercato come Cina, Vietnam e Laos (personalmente aggiungerei all’elenco alcuni Paesi latinoamericani). Come si è qua e là anticipato, queste ultime sono caratterizzate: a) dal fatto che il meccanismo dei prezzi di mercato e la legge del valore sono la forma prevalente di regolazione (almeno nel breve medio termine); b) dal fatto che il ruolo diretto e indiretto dello Stato e il suo controllo sull’economia sono qualitativamente e quantitativamente assai superiori rispetto ai Paesi capitalisti; c) dal fatto che il governo rivendica come obiettivo a lungo termine la realizzazione del socialismo.


Non ho qui lo spazio di ragionare sui motivi del fallimento della prima via, mi limito a mettere in luce come Gabriele e Jabbour lo attribuiscono in primo luogo alla sottovalutazione della permanenza della legge del valore, il che ha generato errori sempre più gravi di programmazione e inefficienze: le soluzioni ultracentralizzate della governance economica si sono rivelate insostenibili, anche a causa dell’impossibilità di disporre dell’immane quantità di dati e informazioni necessarie a gestire l’enorme complessità dei processi di produzione e distribuzione di un grande Paese (problema che nemmeno le nuove, potenti tecnologie di elaborazione dei dati sono in grado di risolvere). Nel prossimo paragrafo descriveremo come la Cina abbia preso atto della necessità di abbandonare la prima via e imboccare progressivamente la seconda e cercheremo di capire perché, anche se l’esperienza cinese è associata a fattori storico-culturali unici per cui non può essere assunta a modello, Gabriele e Jabbour la ritengono di portata tale da imporre un ripensamento e aggiornamento del concetto di socialismo.



Cosa insegna la via cinese 


Prima del processo riformista avviato da Deng negli anni Settanta la Cina aveva seguito, negli anni Cinquanta e nella prima parte degli anni Sessanta (almeno fino alla rottura con l’URSS e al ritiro degli esperti russi), il modello sovietico: collettivizzazione forzata delle campagne attraverso la costituzione delle Comuni agricole (processo che non comportò la necessità di dure repressioni perché in Cina non esistevano i kulaki), concentrazione delle risorse nel settore dell’industria pesante e tentativo di costruire un sistema di pianificazione centralizzato (a tale proposito Gabriele e Jabbour ribadiscono la critica rivolta alla pianificazione di tipo sovietico: la scarsa attenzione alla legge del valore nella determinazione di prezzi e salari crea problemi e inefficienze di ogni tipo). Pur contrastato da una parte del partito (13) Mao impone di insistere su questa via lanciando prima il Grande Balzo in avanti e, dopo il suo fallimento, la Rivoluzione Culturale contro la direzione del PCC che reclamava una svolta. 


Gabriele e Jabbour richiamano l’attenzione sul fatto che le riforme iniziano dal settore agricolo dove viene applicato il principio liberalizzazione senza privatizzazione. Mentre la linea di Mao imponeva ai contadini di sopportare il peso dell’accumulazione forzata del settore industriale, lo smantellamento delle Comuni e il ritorno all’impresa individuale come unità produttiva di base (praticamente è  un ritorno alla produzione mercantile semplice bastata su una miriade di piccoli appezzamenti familiari, un modo di produzione antico di millenni) rilancia l’alleanza fra operai e contadini. Questi ultimi non sono solo la grande base di massa che aveva consentito al partito di vincere la guerra contro in giapponesi e il Kuomintang, ma possono rappresentare,  secondo l’intuizione di Deng, un fattore decisivo per le nuove strategie di sviluppo. Il nuovo sistema agricolo prevede che si stipulino contratti fra lo Stato e i contadini, costoro devono versare una quota del surplus al primo, ma possono vendere il resto sui mercati locali (in una fase successiva verrà loro concesso di venderlo anche su mercati distanti). Nel contempo vengono effettuati investimenti in Ricerca e Sviluppo che favoriscono il rapido progresso tecnologico del settore. L’insieme di queste innovazioni determina un formidabile incremento della produttività agricola il che, tenuto conto del numero degli addetti del settore assai maggiore che in altri Paesi, rappresenta un potente volano per lo sviluppo dell’intera economia.


Nella prima fase delle riforme (fino agli anni Novanta) lo smantellamento delle Comuni offre un importante contributo al decollo anche da un altro punto di vista. Seguendo le direttive di Mao, le Comuni avevano sviluppato una serie di infrastrutture industriali (per esempio piccole acciaierie)  per rendersi autonome e fungere da isole di resistenza economica, oltre che politico-militare, in caso di invasione (Mao dava per scontato che gli Stati Uniti avrebbero prima o poi attaccato la Cina). Queste infrastrutture vengono ereditate da piccole e medie imprese di villaggio (con diverse forme di proprietà: cooperative, municipali, in qualche caso private) che negli anni Ottanta e Novanta, prima di essere messe in crisi dalla crescita del settore privato o integrate nel settore statale, vivono un vero e proprio boom, dimostrandosi competitive non solo sul mercato interno ma anche su quello internazionale.


Se ci spostiamo dal piano delle riforme agricole e del proliferare più o meno spontaneo di migliaia di piccole e medie imprese al piano delle grandi imprese industriali e della finanza vediamo come i media e gli “esperti” occidentali intonino un coro unanime: il “miracolo” cinese si spiega con il fatto che il Paese si è convertito al capitalismo pur restando sotto il governo totalitario dello stato/partito, ergo è solo questione di tempo prima che esplodano crisi industriali e finanziarie simili a quelle che scuotono i mercati occidentali e che il regime comunista si sfaldi, aprendo la strada alla trasformazione del Paese in senso liberal-democratico. Ma Gabriele e Jabbour raccontano una storia diversa. L’abbandono del modello sovietico di pianificazione centralizzata non è affatto coinciso con la fine della pianificazione. L’ascesa del mercato a meccanismo regolatore del sistema economico non si è associata a processi di deregulation di stile occidentale, al contrario: il mercato stesso è plasmato in larga misura dallo Stato e la pianificazione non è morta ma si è fatta flessibile, articolandosi per settori e progetti. 


Le linee guida che governano l’azione del partito impongono che venga rispettato il principio della prevalenza della proprietà statale e respinta l’ideologia “mercatista” occidentale: Mao è morto ma non è morto lo slogan che recita “la politica deve dirigere tutto”. Così, se è vero che le imprese pubbliche sono oggi in numero inferiore che in passato e concorrono per una quota relativamente minore al prodotto globale, è altresì vero che sono più grandi, tecnologicamente avanzate e che le loro performance in termici di efficienza e redditività sono superiori a quelle delle imprese private. Questo risultato si è ottenuto anche applicando il principio “tenere le grandi mollare le piccole”; dando maggiore autonomia ai manager; consentendo la vendita dei prodotti a prezzi più alti di quelli fissati dal piano; esponendo progressivamente le imprese pubbliche alla concorrenza, sia sul piano interno che su quello internazionale. L’avverbio progressivamente è cruciale: la riforma ha seguito ritmi prudenti per evitare contraccolpi su occupazione e salari (i trenta milioni di posti di lavoro tagliati in seguito ai processi di ristrutturazione sono stati reintegrati in tempi brevissimi (14), inconcepibili per un’economia occidentale). 


L’uso cinese della globalizzazione (finché gli Stati Uniti si sono resi conto che quella che avevano promosso come l’arma finale per estendere il proprio dominio sul mondo si stava rivelando un boomerang,  e hanno avviato una strategia di “sganciamento” dell’Occidente dal mercato cinese e di contenimento nei confronti dei suoi prodotti) ha consentito di integrare il Paese nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza arrendersi alle pressioni (interne e internazionali) dei fondamentalisti del mercato. Ciò è stato possibile solo grazie all’assoluto controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una relativa autonomia dall’egemonia del dollaro. Naturalmente, scrivono Gabriele e Jabbour, l’inserimento sella Cina nel meta modo di produzione mondiale (vedi sopra) a dominanza capitalista non consente di realizzare una totale sovranità monetaria, tuttavia, grazie alle enormi dimensioni della propria economia, al progressivo spostamento del motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni, e all’appena citato controllo politico sul sistema finanziario, è stato possibile contenere l’impatto della crisi delle tigri asiatiche del 1997 e della crisi finanziaria globale del 2007-2008. Questo in barba agli annunci di imminenti catastrofi da parte delle cassandre degli istituti finanziari occidentali, i quali, rilanciano le loro fosche previsioni mettendo in luce i rischi associati alla “bolla” di un mercato azionario e di un mercato immobiliare caratterizzato da tensioni speculative ed elevata mobilità, e scommettono sul rafforzamento della classe capitalistica locale, sulle pressioni interne per ulteriori liberalizzazioni e sui conflitti sociali generati dall’aumento della disuguaglianza economica e sociale. Eppure Gabriele e Jabbour sono convinti che anche questa sfida potrà essere vinta grazie alla solidità e all’efficenza dei nuovi strumenti istituzionali di pianificazione creati nell’era delle riforme: dalle creazione di grandi banche statali per lo sviluppo, alla nascita di agenzie come l’NDRC (National Development and Reform Commission) (15) e il SASAC (State Asset Supervision and Administration Commission) (16). 


Deng Xiaoping



Se il processo di riforma è andato avanti a lungo in modo relativamente caotico, per tentativi ed errori, esso  sta progressivamente assumendo forme, principi e valori sempre più definiti e consolidati come la distinzione (a partire dal 2006) dell’industria cinese in tre settori: industrie chiave (difesa, elettricità, petrolio e gas, trasporti, aviazione e ferrovie) sotto totale controllo statale; industrie pilastro (auto, chimica, acciaio, costruzioni, elettronica, macchinario, metalli non ferrosi, prospezioni geotecniche) a controllo pubblico relativamente forte; industrie normali (agricoltura, farmaceutica, turismo, servizi professionali, commercio e manifattura) dove il controllo pubblico è marginale. Infine la leadership di Xi Jinping è coincisa con un forte rilancio delle ambizioni di trasformazione in senso socialista del Paese, sancita dal rafforzamento del controllo capillare del Partito sulle imprese (sia pubbliche che private) e sulle istituzioni economiche, dalla lotta alla corruzione e dal varo di politiche redistributive a favore delle classi lavoratrici finanziate anche attraverso l’inasprimento dei prelievi fiscali sui profitti d’impresa. 


Come ribadito più volte in precedenza il processo cinese, che ha visto la transizione da un modello socialista a pianificazione centralizzata all’attuale esperimento di economia socialista di mercato, è associato a fattori storici, geografici e culturali unici per cui non può essere assunta come un modello esportabile in altri contesti. In questo le analisi di Gabriele e Jabbour convergono con il punto di vista di Arrighi (vedi primo paragrafo) anche se i rispettivi punti di vista si distinguono sotto vari aspetti (prevalentemente politico-economico il primo, prevalentemente storico-culturale il secondo). Convergono anche, mi pare di poter affermare, nell’indicare come l’insegnamento più generalizzabile dell’esperienza cinese la necessità di assumere un approccio “braudeliano” (cioè orientato a una visone di lunga durata) al problema della transizione fra modi di produzione. Se per Marx ed Engels il comunismo era un obiettivo realizzabile già nel loro tempo storico, a coronamento di un breve processo di transizione socialista (per cui il socialismo non può nemmeno essere definito come un modo di produzione a sé stante); se Lenin, messo di fronte alle enormi difficoltà della transizione, varò la NEP (che sotto molti aspetti presenta significative analogie con lo spirito delle riforme cinesi degli anni Settanta), polemizzando con la sinistra bolscevica che chiedeva l’abolizione immediata dei rapporti monetari di scambio; dall’esperienza cinese ereditiamo una nuova consapevolezza in merito al fatto che il passaggio dalla regolazione dell’economia attraverso il mercato a forme avanzate di pianificazione dev’essere necessariamente lenta e progressiva e può realizzarsi solo ad un certo grado di maturazione della trasformazione del modo di produzione. 


Quanto alla transizione al comunismo, che non è oggetto di discussione nei testi che ho preso in esame in questo articolo, mi limito qui a ribadire a quanto ho scritto altrove (17): sono convinto che la descrizione marxiana del comunismo risenta di un evidente influsso profetico- religioso (ancorché laicizzato) per cui ci viene presentata come una sorta di “paradiso in terra” -  vedasi la visione quasi mistica che ne propone Ernst Bloch (18) – un’immagine che, in contrasto con la visione dialettica dello stesso Marx, si presenta come una sorta di fine della storia (anche se Marx parla di fine dell preistoria) in cui tutti i conflitti trovano soluzione. Sono dunque convinto che, seguendo la lezione dell’ultimo Lukacs (19), il comunismo non andrebbe considerato un modo di produzione storicamente realizzabile, ma piuttosto un principio regolativo, una prospettiva utopica o un’ideologia intesa in senso positivo, cioè una potenza materiale capace di fungere da motore del cambiamento.  



 

Note


(1) C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Milano, Meltemi 2023.


(2) Per raccogliere queste e altre informazioni ho utilizzato, fra gli altri, i seguenti lavori: G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, In AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020;  V. Giacché (a cura di) Economia della rivoluzione (raccolta di testi di Lenin), il Saggiatore, Milano 2017; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019; R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.


(3) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 (da poco ristampato dall’editore Mimesis).


(4) Vedi, tra gli altri, i già citati L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, ed  Economia della rivoluzione, il Saggiatore, Milano 2017


(5) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London-New York 2022.


(6) Vedi,  in proposito, le critiche avanzate in miei lavori recenti al messianesimo di Ernst Bloch (cfr. Il principio speranza,3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019).


(7) Ho preferito lasciare questi neologismi inglesi piuttosto che tradurli, nel timore di allontanarmi dall'intenzione originaria degli autori.


(8) Sia Lenin che Mao caratterizzarono in questo secondo modo (convivenza di diversi modi di produzione) le situazioni dei rispettivi Paesi nel momento delle rivoluzioni russa e cinese.


(9) Di grande interesse, a tale proposito, è il dibattito fra i marxisti latinoamericani sul potenziale ruolo rivoluzionario delle forme di produzione precapitalistiche delle comunità indigene andine. Rifiutato dai marxisti ortodossi, che le considerano “residui” da superare per accelerare l’approdo a forme capitalistiche mature, più favorevoli a un prospettiva di trasformazione socialista, tale ruolo è stato viceversa valorizzato prima dal peruviano José Carlos Mariategui (cfr. Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici,Einaudi, Torino 1972) poi dall’ex vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera (Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015), infine da diversi esponenti della teologia della liberazione come Enrique Dussel (L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009). Ho a mia volta affrontato il tema nel secondo capitolo del secondo volume di Guerra e rivoluzione (op. cit.) e in un saggio sulla rivoluzione ecuadoriana (Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013). In questo dibattito ricorre il riferimento alla svolta compiuta da Marx nell’ultimo decennio di vita, allorché, dialogando con i narodniki russi, non escluse la possibilità di un passaggio diretto al socialismo di forme comunitarie precapitalistiche.


(10) La più radicale critica dell’interpretazione di Marx come teorico dell’esistenza di una finalità immanente alla storia è contenuta nella Ontologia sociale (4. voll. Meltemi, Milano 2023) di G. Lukacs.


(11) Sempre Lukacs (op. cit.) è autore di una trattazione filosofica che pone il lavoro a fondamento dell’intera ontologia umana, prima e oltre l’uso capitalistico del lavoro (o meglio della forza lavoro) come fonte di ogni valore economico.


(12) Cfr. K. Marx, Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969.


(13) D. Bertozzi (vedi Cina popolare, op. cit.) descrive lo scontro di Mao, iniziato negli anni Cinquanta e proseguito fino alla sua morte,  con la “destra” del PCC che fin dai primi anni della rivoluzione avrebbe voluto imboccare la via di una NEP in salsa cinese.


(14) David Harvey (ancorché poco indulgente nei confronti del regime cinese) esprime la propria stupefatta ammirazione per questa incredibile impresa nel suo The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.


(15) Lo NDRC, spiegano Gabriele e Jabbour, formula e implementa le strategie per l’economia e lo sviluppo nazionali coordinando le principali operazioni economiche, sottomette annualmente il piano al congresso del Popolo; alloca i vari fondi governativi, gli investimenti, coordina i progetti locali e fissa gli standard tecnologici.


(16) Nato nel 2003, il SASAC, che dipende direttamente dal Consiglio di Stato, ha sostituito nove ministeri che in precedenza mediavano fra governo centrale e imprese pubbliche assorbendone i compiti.


(17) Cfr. Guerra e rivoluzione, op. cit.; vedi anche Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(18) Cfr. Il principio speranza, op. cit.


(19) Cfr. Ontologia dell’essere sociale, op. cit.


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