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giovedì 25 luglio 2024

APORIE DELL'UTOPIA COMUNITARIA

IL MARX DI PREVE FRA HEGEL E ARISTOTELE



Premessa
 

Il secondo volume delle Opere (Inschibbolleth Editore, a cura di Alessandro Monchietto) di Costanzo Preve raccoglie due testi, il primo postumo e parzialmente incompleto (Manifesto filosofico del comunismo comunitario), il secondo (Elogio del comunitarismo) originariamente editato da Controcorrente (2006). Il tutto è preceduto da una Introduzione ("Comunità e comunismo nell’ultimo Preve") di Mimmo Porcaro, alla quale rinvio per tutti gli argomenti che non riuscirò a trattare nel presente articolo, dato che i problemi sollevati da questi due scritti sono numerosi e complessi, tanto da non poter essere esaurientemente affrontati in un articolo che deve rispettare gli standard di lunghezza che mi sono autoimposto per i materiali di questa pagina. 

Gli obiettivi che Preve si è posto in questi lavori sono a dir poco ambiziosi: si tratta, fra le altre cose, di abbozzare un bilancio storico-critico della teoria marxista e dei tentativi, condotti dai partiti comunisti novecenteschi, di metterne in atto i principi per realizzare formazioni sociali postcapitaliste; di riscattare dalla damnatio memoriae questi grandiosi esperimenti, evitando di buttare il bambino con l'acqua sporca, evitando, cioè, di liquidare quello che Preve - pur considerando la velleità di restaurare il “vero” pensiero di Marx impresa al tempo stesso vana e impossibile (1) - considera il progetto marxiano originario, vale a dire il sogno di realizzare non uno stato socialista, bensì una comunità di individui liberi ed uguali; di contestare il dogma che inchioda Marx al ruolo di filosofo “materialista”, di colui che ha “rimesso con i piedi per terra” la dialettica di Hegel, e di descriverlo invece come il punto più alto di una linea di pensiero che si dipana da Aristotele a Hegel per culminare appunto con il maestro di Treviri; di smascherare la finta polarità destra/sinistra, svelando il gioco delle parti fra due strategie politico-culturali complementari, entrambe finalizzate a conservare l’egemonia del capitale sulle classi subalterne (indicando nella sinistra, in quanto primo custode della neolingua e del codice etico “politicamente corretti”, il nemico principale); di rifondare teoricamente l'utopia comunistico-comunitaria depurandola dagli equivoci e dalle ambiguità associate ai vari comunitarismi localisti, razzisti e primitivisti; di analizzare le fondamenta teologiche – veterotestamentarie e calviniste – del sistema neoliberale di rito anglosassone, sgombrando il campo dalle chiacchiere sulle presunte radici ebraico-cristiane della modernità occidentale. Il tutto mettendo criticamente a fuoco i concetti di modernità, verità, universalità, totalità, libertà, democrazia, utopia. 

Per analizzare esaurientemente questa enorme mole di questioni, anche senza pretendere di approfondire più di tanto il modo in cui Preve le affronta, occorrerebbero centinaia di pagine. Rinunciando a priori a una simile impresa, mi limiterò ad entrare nel merito di parte delle questioni trattate, motivando perché, mentre alcune delle tesi di Preve mi paiono azzeccate, altre mi trovano in disaccordo. Prima di affrontare le critiche che Preve rivolge al comunismo reale e al “canone” marxista, e di analizzare l’alternativa comunitarista che suggerisce, mi occuperò di tre argomenti che, mentre possono apparire marginali a chi li associa alla sfera “sovrastrutturale”, considero invece dirimenti per cogliere il nucleo essenziale del lascito filosofico-politico di Costanzo Preve: mi riferisco ai fondamenti teologici della modernità capitalistica, alla presunta o reale derivazione greca della visione politica e dei principi etici marxiani e alla feroce critica dell'ideologia del politicamente corretto

Costanzo Preve



I. 
La tesi di fondo di Preve in merito al codice religioso dell’occidentalismo imperiale (o, se si preferisce, dell'imperialismo occidentale) è che esso non si fonda sulla secolarizzazione di temi ebraico-cristiani, come ossessivamente ribadito dall’ideologia veicolata da accademici, politici e giornalisti di regime, bensì sulla secolarizzazione del protestantesimo calvinista (in particolare nella variante puritana di matrice anglosassone) caratterizzato dal dogma della predestinazione, il quale si è via via esteso dalla predestinazione individuale (sancita dal successo economico) alla predestinazione del popolo anglosassone, che trova espressione compiuta nella tesi dell’eccezionalismo americano, e nella sua auto attribuita missione di diffondere il verbo della democrazia liberale e del capitalismo nel mondo intero. 

La presunta convergenza fra cristianesimo ed ebraismo è invece il prodotto dell’appiattimento del primo sul protestantesimo e della condivisione dello stesso libro sacro (la Bibbia e non i Vangeli cristiani) che accomuna protestanti ed ebrei. Essa si è dunque prodotta al prezzo di una serie di rimozioni: da quella relativa allo spirito (e all’ancoraggio sociale) del cristianesimo primitivo che, oltre a essere messianico e apocalittico, era animato da una forma di comunismo comunitario che si è prolungata nei movimenti ereticali medievali (Preve ricorda che la stessa teologia francescana era basata sui concetti di povertà e semplicità e promuoveva un’etica di tipo cenobitico-comunista); a quella dell’universalismo cristiano e del suo rifiuto del concetto razzista di popolo eletto (cristianesimo e islamismo, argomenta Preve, sono forme di universalismo religioso, laddove ebraismo e induismo sono forme di “tribalismo” religioso); infine a quella della opposizione fra onnipotenza dell’Uno e dialettica trinitaria, in base alla quale la verità (il Padre) esce da sé nel mondo (il Figlio) e torna a sé stessa (lo Spirito Santo) (2). Il protestantesimo veterotestamentario, argomenta Preve, privilegia il Padre, “divenendo così eresia individualistica ebraica”, mentre il cattolicesimo privilegia il Figlio “che corre a soccorrere le vittime dei credenti idolatri del Padre”. 

Sofisticherie teologiche prive di sostanziali implicazioni storico-politiche? Non secondo Preve, il quale ricorda che non a caso tutta la grande filosofia ebraica, da Gesù a Lukacs, passando per Spinoza e Marx, si è fondata sulla critica universalistica alla superstizione per cui ci sarebbe un solo Dio che ha scelto il suo “popolo eletto”. Purtroppo l’ancoraggio delle sinistre ebraiche al pensiero di questi maestri è venuto meno, o è stato ridotto al silenzio, a mano a mano che il sionismo ha preso il sopravvento, legittimando il ruolo dello stato colonialista e razzista di Israele. Questa radicale presa di posizione antisionista, ancorché condivisa da intellettuali di origine ebraica come Ilan Pappé (3), è una delle ragioni per cui Preve viene sistematicamente tacciato di “rossobrunismo” e antisemitismo. 

A inasprire tale scomunica contribuisce il fatto (che personalmente ritengo uno dei suoi meriti maggiori) che egli vede, in quella che definisce “religione olocaustica” (che si tratti di una religione, argomenta, lo conferma il fatto che il negazionismo venga considerato reato penale, laddove i più spericolati revisionismi storici godono di piena libertà di espressione) una delle armi più letali per legittimare l’egemonia imperiale americana. Il “balletto dei milioni di vittime”, scrive, non serve a celebrare la memoria dei crimini nazisti - opportunamente identificati con il “male assoluto”, sia per far impallidire quella dei crimini perpetrati dai regimi liberal-democratici, sia per mascherarne le comuni radici, che affondano nella modernità occidentale (4) – serve piuttosto a legittimare il dominio del nuovo centro imperiale: il complesso di colpa europeo – che tocca vertici parossistici nel caso della Germania (5) – contribuisce a tenere l’Europa sotto il tallone dell’impero a stelle e strisce, così come contribuisce legittimare i comportamenti razzisti e genocidi del sionismo contro il popolo palestinese (6).

Per farla breve: il fondamentalismo sionista-protestate è la “religione idolatrica dell’impero Usa” – religione che, dopo il crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti dell’Est Europa, è assurta al ruolo di culto universale, delegittimando l’intero Novecento in quanto “secolo delle ideologie assassine da sostituire con un secolo del libero commercio globalizzato mondiale” (7).

La costruzione occidentale della modernità – “un concetto fantasma che sostituisce e occulta il concetto di modo di produzione capitalistico”(8) – non si fonda però esclusivamente sulla religione olocaustica. Il processo è alimentato anche da una narrazione “laicista” che non si ispira a una fantomatica “ragione in generale”, bensì alla secolarizzazione illuministica della tradizione cristiana occidentale; tradizione che appare identificata con la sua variante individualistico- protestante a mano a mano che il codice della modernità anglosassone - elaborato dai vari Hobbes, Locke, Hume e Adam Smith – prevale sui codici dell’illuminismo continentale (franco-tedesco). Questi padri fondatori della ragione liberale (9) hanno gettato le basi di una teoria politica che ha legittimato il processo di individualizzazione anti-comunitaria, in assenza del quale i rapporti di produzione capitalistici non avrebbero potuto affermarsi. Questa ragione liberal democratica si fonda poi su un altro pilastro religioso della modernità occidentale: quel culto dei diritti umani che, una volta elevato a principio assoluto, è divenuto titolare tanto “del diritto militare di distruzione” quanto del diritto “giuridico-giudiziario di limitazione della sovranità di stati, nazioni e popoli”.

Il Nuovo Ordine Mondiale che si prospetta, a mano a mano che l’egemonia ideologica fondata sui pilastri appena descritti si consolida, non è caratterizzato, come argomentano certi suoi critici “di sinistra”, da un principio di esclusione, bensì da un principio di “inclusione subalterna di tutti i popoli e le nazioni del mondo in un unico modello internazionalizzato di capitalismo liberale”. Si tratta dell’ordine totalitario (10) dell’economia capitalistica, gestito da un’oligarchia che si legittima mediante referendum periodici che presuppongono l’impotenza degli oppositori” (11). 


II. 
So che l’affermazione che mi appresto a fare scandalizzerà sia i filosofi accademici (e, se fosse ancora vivo, avrebbe scandalizzato lo stesso Preve, che certo accademico non era), sia i marxisti (ortodossi e non): personalmente non ritengo rilevante stabilire se abbiano ragione i filosofi (marxisti e non) che definisco Marx materialista (sia pure precisando materialista storico, dialettico ecc.) oppure se abbia ragione l’eretico Preve, che lo considera un esponente della grande scuola idealista tedesca, assieme a Fichte ed Hegel. Lascio volentieri il giudizio alla ristretta cerchia degli esperti di hegelo-marxismo. Quanto a me, ritengo che, in quanto filosofo della prassi, Marx si collocasse al di là dell’opposizione nominalistica materialismo-idealismo, postura che ritengo di poter attribuire anche all’ultimo Lukacs della Ontologia dell’essere sociale (12). Non entrerò quindi nel merito delle parti del secondo volume delle Opere in cui Preve affronta il tema. 

Hegel



Pur confessandomi non meno ignorante in materia di filologia e storia della cultura greca classica, non mi esimerò invece dal discutere le tesi di Preve in merito al presunto debito di Marx nei confronti del pensiero greco (e in particolare di Aristotele). Questo perché, anche se non sono in grado di valutare l’attendibilità di certe interpretazioni etimologiche e di certe contestualizzazioni storiche che Preve usa a sostegno delle proprie argomentazioni, vorrei mettere in luce in che misura queste “contaminazioni” fra il pensiero di Aristotele e quello di Marx influenzino la sua visione (che discuterò criticamente nell'ultima parte di questo articolo) di come dovrebbe essere un mondo post capitalista.


Parto dalla critica radicale che Preve rivolge a tutti coloro che spacciano la cultura greca classica per la legittima antenata della modernità occidentale. La “teoria del miracolo” (secondo cui il Logos si sarebbe misteriosamente incarnato nella mente degli antichi Greci, facendone gli antesignani della libertà, della democrazia e dell’individualismo che sostanziano la modernità occidentale), scrive Preve, serve “come osceno pedigree razzista (13) per legittimare filosoficamente la presunta superiorità dell’occidentalismo contemporaneo verso tutte le altre civiltà”; laddove l’analisi comparatistica ci suggerisce che idee analoghe (si pensi al pensiero di Eraclito, Buddha, Confucio, e Zarathustra) si sono sviluppate contemporaneamente e indipendentemente le une dalle altre, smentendo la presunta “eccezionalità” della ragione greca. Quanto alla libertà individuale, Preve smantella la lettura nietzschiana, affermando che la virtù individuale dei greci poteva “essere praticata solo all’interno di un sistema di valori accettato dalla comunità”, per cui è del tutto fuorviante attribuire loro la scoperta della libertà individuale che è piuttosto “prodotto esclusivo di quattro filosofi britannici [Hobbes, Hume, Locke, Smith] cittadini del paese che ha inaugurato la produzione capitalistica sulla base dell’estremizzazione puritana del calvinismo”. 

Diverso il discorso sulla democrazia greca che, sostiene Preve, fu il prodotto di un fatto storico e sociale, vale a dire della “minaccia di insensatezza della vita individuale e sociale dovuta alla dissoluzione delle forme di vita comunitarie”, minaccia associata all’irruzione del denaro come fattore centrale nelle relazioni economiche, e al suo potere dissolutore nei confronti del legame sociale. In altre parole, la democrazia sarebbe nata come intervento correttivo sulle disuguaglianze create dall’evento in questione. Aristotele, scrive Preve, basa non a caso tutta la sua riflessione economica sulla distinzione fra economia (intesa come riproduzione dell’unità famigliare allargata) e crematistica, vale a dire l’accumulazione illimitata di ricchezza che genera la contrapposizione fra una minoranza di super ricchi e una massa di poveri. La democrazia antica, nascerebbe insomma da una soluzione razionalistica ai conflitti generati dall’impossibilità di eliminare la lotta di classe, soluzione che consiste nel limitare quest’ultima attraverso la sottomissione dei movimenti economici alla decisione politica (per inciso questa tesi di Preve è in sintonia con quella di Karl Polanyi (14) sulla non autonomia della sfera economica nelle formazioni sociali precapitalistiche).

Aristotele



È noto che una delle critiche più diffuse alla possibilità di accostare democrazia antica e democrazia moderna consiste nel fatto che nella prima vigeva il principio di esclusione nei confronti delle donne, ma soprattutto degli schiavi. Preve obietta che la visione aristotelica non rispecchiava un modo di produzione schiavistico compiuto (che sarebbe arrivato assai dopo) bensì un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. Lascio agli storici di professione il giudizio sulla correttezza di tale affermazione. Qui mi interessa mettere in luce che, secondo Preve, il modo di produzione in questione era sensibile alla smisuratezza del potere e delle ricchezze (e alla necessità di limitare/contenere tale smisuratezza in quanto fattore di corruzione e dissoluzione politica e sociale). 

È qui che si innesca quella che Preve descrive come la convergenza fra il punto di vista di Aristotele e quello di Marx: così come il primo interpreta il sentimento di una società che teme le conseguenze dell’illimitatezza provocata dal prevalere della crematistica sull’economia, il secondo condanna la smisuratezza del principio di accumulazione illimitata che governa il modo di produzione capitalistico, per cui il comunismo di Marx si basa sul concetto di bisogno (ancorché ricco) che a sua volta sta alla base del concetto di comunità solidaristica. Discuterò più avanti il fatto che Preve spinge questa convergenza fino a identificare anche la propria utopia comunistico-comunitaria con un’economia di piccoli produttori indipendenti. Così come discuterò più avanti il concetto di universalità che Preve deriva dall’esperienza della grecità classica, laddove scrive che “proprio radicalizzando la loro particolarità i greci sono stati in grado di proporre un modello universalistico”.


III.
A inchiodare l’etichetta di rossobrunismo sul pensiero di Preve ha contribuito, altrettanto se non più della durezza del suo giudizio sul sionismo, quella sul movimento femminista, e più in generale sulla cultura politica delle sinistre post sessantottine e sul canone politicamente corretto. Se l’occidentalismo imperiale fondato sulla teologia individualistico-protestante, analizzato nel primo paragrafo, rappresenta la forma “hard” dell’ideologia imperiale, l’ideologia del politicamente corretto ne incarna la forma “soft”. Le differenze fra le due sono apparenti, in quanto si tratta di varianti meramente tattiche che convergono nella finalità strategica, vale a dire assicurare il dominio dell'imperialismo occidentale sul mondo. A fornire la prova più evidente in merito è la corale convergenza delle sinistre occidentali sulla “teologia interventistica dei diritti umani” che, in buona o in mala fede, ha assicurato una copertura ideologica costante per le guerre imperiali di conquista (gli esempi degli ultimi decenni sono infiniti: per quanto riguarda l’Italia, il più clamoroso è probabilmente il coinvolgimento del centro-sinistra nell’aggressione NATO contro la Serbia, per tacere – ma questo Preve non ha fatto in tempo a metterlo in elenco - , dell’attuale vergognosa legittimazione dell’appoggio al governo golpista ucraino di estrema destra nella guerra contro la Russia). “Il principio massimo del politicamente corretto”, commenta icasticamente Preve evocando implicitamente il romanzo distopico di Orwell, “ consiste nel chiamare pace la guerra”.

Le considerazioni critiche di Preve sul politicamente corretto come “neolingua cerimoniale della comunicazione diffusa” e sulle sue velleità totalitarie – sul tentativo cioè di silenziare le voci che non vi si adeguano - non rappresentano un contributo particolarmente originale: basti citare, fra gli altri, autori come la coppia dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello (15), lo svedese Friedman (16), l’americana Nancy Fraser (17), i molti critici della cosiddetta cultura woke (18) e le riflessioni che chi scrive ha dedicato al fenomeno in diversi libri (19). Più originale – e più stimolante al tempo stesso - è il suo tentativo di distinguere una seconda dimensione ideologico culturale del politicamente corretto in cui convergono sei fattori strutturanti: l’internità all’occidentalismo americano imperiale (la sinistra post moderna, scrive, si è costituita sulla sostituzione dell'internazionalismo con un cosmopolitismo astratto che ha assunto progressivamente i tratti del globalismo americanizzato); la criminalizzazione del comunismo novecentesco; l’eternizzazione dell’antifascismo in assenza di fascismo; le religione olocaustica; la teologia interventistica dei diritti umani; la riduzione del conflitto politico a “polarità idraulica” di vasi comunicanti (destra e sinistra).

Della conversione all'occidentalismo imperiale, della religione olocaustica e della teologia interventistica dei diritti umani si è già detto. La criminalizzazione del comunismo novecentesco e l’intercambiabilità fra destra e sinistra - temi strettamente intrecciati – saranno oggetto dei prossimi paragrafi. Più problematico appare il punto relativo all’antifascismo in assenza di fascismo - punto che, anche a causa della stima che Preve manifestò per il pensatore francese della nuova destra Alain de Benoist, gli è stato ritorto contro da una sinistra inviperita dalle sue ficcanti critiche. Il sottoscritto, che pure ha in passato espresso analoghi giudizi sull’antifascismo “da parata”, è convinto che Preve avrebbe forse riformulato, o almeno approfondito, la questione in relazione all’emergere di destre europee di nuovo tipo, assai più agguerrite e pericolose dei patetici residui dei fascismi d’antan. Ciò nulla toglie al fatto che la pregiudiziale antifascista abbia svolto, e tuttora svolga, un ruolo deleterio nel legittimare le convergenze opportunistiche fra sinistre post moderne e destre neoliberali (vedasi il recente Fronte Popolare in Francia, che ha inchiodato France Insoumise all’alleanza con una destra socialista atlantista e guerrafondaia e le ha affibbiato il ruolo di utile idiota per tenere in piedi il progetto neoliberale di Macron - o di chi ne prenderà il posto).

Una considerazione a parte merita la posizione critica di Preve nei confronti del femminismo. Anche in questo caso non si tratta di argomenti particolarmente inediti o originali, tanto da essere condivisi dalle esponenti più lucide della stessa cultura femminista (20), anche se certi toni accesi sono stati sfruttati per la “rossobrunizzazione” del nostro. Il ragionamento di Preve si articola su due piani, socioeconomico e socioculturale. Per quanto riguarda il primo, Preve sostiene – a mio avviso correttamente – che il femminismo, al pari di altri movimenti politicamente corretti, è funzionale “al processo di allargamento della base sociale, economica, politica e culturale della produzione capitalistica”. Ciò è del resto ammesso dalle teoriche femministe di ispirazione neo-marxista che hanno affrontato la questione della “femminilizzazione del lavoro”, alcune delle quali (21) distinguono fra l’emancipazione di genere rivendicata dal movimento originario e le rivendicazioni di parità-mobilità verso l’alto progressivamente egemoni nelle ondate successive (“il ruolo dell’imprenditore”, commenta in merito Preve, “si apre al sesso femminile ma pretende una iniziazione che lo porti a una forma di maschilismo mimetico”). “Solo la stupidità”, conclude il nostro, “ha divulgato l’idea che il femminismo sia di sinistra, laddove la sua logica porta inesorabilmente alla rottura della solidarietà fra i sessi, all’individualismo narcisistico e alla delegittimazione della comunità [familiare ma non solo]”. Sommando tutte le riflessioni critiche concisamente riassunte in questo paragrafo, Preve arriva a concludere che “il nemico principale è oggi la cultura della degenerazione individualistico-radicale del ceto degli intellettuali ‘di sinistra’”. E con questo ha posto un’altra pietra per il monumento alla sua damnatio memoriae... 


IV.
Prima di discutere la lettura di Marx su cui Preve fonda la propria visione utopica – sappiamo (vedi nota 1) che per lui “non esiste e non può esistere un fantomatico vero Marx che si tratterebbe di scoprire”, il che non gli impedisce di rivendicare la “sua” verità su Marx – riassumerò in questo paragrafo le critiche che rivolge al marxismo in quanto costrutto ideologico e agli esperimenti storici che ha ispirato.




Il marxismo, argomenta Preve, è una successione di formazioni ideologiche, ma è innegabile che la sua forma “canonica” consista in “un codice sistematizzato da Engels e Kautsky fra il 1875 e il 1895 su committenza dei socialdemocratici tedeschi”, oggi improbabile in quanto datato e connotato da influenze positiviste, riduzioniste ed economiciste. In particolare, il fatto che in Marx vi sia inequivocabilmente un lato apologetico dello sviluppo capitalistico, ha consentito a molti suoi interpreti di “giocare Marx contro Marx”- o “oltre Marx” per dirla con Toni Negri (22). Vedi il “mantra”, ossessivamente ripetuto per più d’un secolo, in base al quale il capitalismo “è unità dialettica di emancipazione e alienazione” che, nella misura in cui coincide con l’ideologia borghese del “progresso”, ha legittimato infiniti compromessi opportunistici col nemico di classe. Vedi la lettura “stagnazionista” dell’esaurimento del ruolo storico del capitalismo in quanto motore dello sviluppo delle forze produttive, laddove, nota giustamente Preve, tale modo di produzione si è rivelato capace di uno sviluppo illimitato delle stesse, e laddove anche le crisi economiche più gravi si sono rivelate momenti di rafforzamento e non di decadenza del sistema, in assenza di una capacità soggettiva organizzata. Vedi l’illusione positivistica in merito al presunto “passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza” e all’individuazione di cosiddette “leggi” del processo storico, concetto - peraltro smentito dallo stesso Marx (23) – che ha legittimato l'obbrobrio di quel “diamat” staliniano che ha naturalizzato la storia formulando il modello “dei cinque stadi”, che non ha alcunché da spartire con una seria analisi comparativa della storia universale. Vedi il dogma che associa la possibilità della transizione al socialismo al raggiungimento di un elevato livello di sviluppo delle forze produttive, rovesciato da Lenin (l’eretico era lui, chiosa Preve, e non il “rinnegato” Kautsky che difendeva la versione canonica del marxismo) e dalla sua capacità di incarnare, come sostiene Lukacs, l'attualità della rivoluzione, cioè il fatto che nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico ogni popolo può mettere in atto una rivoluzione “senza che vi sia il bisogno di una commissione di marxisti doc che ne stabiliscano il diritto dopo valutazione del livello di sviluppo delle forze produttive”.

Preve attribuisce a Lenin un altro merito, vale a dire quello di avere relativizzato il rapporto fra classe operaia e potere politico, prendendo atto che la classe può accedere tuttalpiù a una coscienza di tipo sindacale-rivendicativo, per cui l’utopia autogestionale diretta è impraticabile. Nel prossimo paragrafo vedremo come questo omaggio a Lenin sul tema della democrazia diretta è di fatto in contraddizione con l’utopia comunitaristica di Preve. Vedremo che è altresì in contraddizione con tale utopia una tesi di Preve che, viceversa, chi scrive non solo condivide, ma ha messo al centro delle proprie riflessioni sul socialismo del secolo XXI (24): mi riferisco all’affermazione secondo cui la classe operaia “mette in atto comportamenti ribellistici di massa solo nella sua prima fase di uscita dalla condizione contadina, bracciantile e artigiana, mentre tende a integrarsi nella seconda fase di inserimento all'interno delle masse, economicizzazione del conflitto, individualizzazione consumistica”. Questa tesi è fondamentale per capire perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite si siano date in Paesi in via di sviluppo e abbiano avuto come protagoniste principali le masse contadine alleate appunto a nuclei operai di recente formazione, dopodiché vedremo come Preve non riesca a sfruttare tale intuizione per comprendere il ruolo strategico delle rivoluzioni extraeuropee per l’affermazione del socialismo mondiale.

Di tutto ciò diremo più avanti. Qui importa sottolineare come Preve consideri erroneo il tentativo di Marx di criticare il concetto hegeliano di Universale superandolo/conservandolo (aufhebung), sostituendo cioè nel ruolo di incarnazione di tale concetto la figura del funzionario dello stato borghese con quella di una classe operaia che “liberando se stessa libererà l’intera umanità”. Questo “errore” è riproposto dall’intera tradizione marxista che non ha mai smesso di eleggere la classe operaia a classe universale e “soggetto decisivo nel conseguimento della capacità di egemonia” (vedi in particolare Antonio Gramsci). Mi pare di potere affermare che, per Costanzo Preve, questo “peccato originale” del marxismo sia la causa sostanziale del fallimento dell’esperimento sovietico. Mentre reagisce con giusta indignazione al bilancio ideologico, avvallato dagli intellettuali della sinistra postmoderna (25), del Novecento “come secolo orrendo del totalitarismo”, e mentre liquida tale demonizzazione assieme al concetto di totalitarismo, in quanto “pezzi ideologici della visione del mondo dell’oligarchia capitalistica di oggi”, Preve rifiuta di condannare lo stalinismo su basi moralistiche ma ne indica, analogamente a quanto sostenuto da una studiosa di storia sovietica come Rita de Leo (26), il primo fattore di autodissoluzione nel “progetto titanico e prometeico di modificazione antropologica del comportamento umano (27)” fondato sul tentativo di realizzare “un dispotismo operaio sul resto della società”, in particolare su quelle classi medie che saranno la punta di diamante della controrivoluzione della fine del secolo scorso. Il grandioso tentativo novecentesco di ristabilire il primato della politica sull’economia fallisce anche e soprattutto a causa di questo tragico errore che impedisce lo sviluppo comunitario “di un’armonica crescita di un sapere e di un potere sociale realmente diffuso in tutti i membri della comunità stessa”; un errore che è a sua volta alla radice della impossibilità storica di far convivere comunismo e democrazia.


V.
Una volta definite – certamente in modo più articolato rispetto alla sintesi che ne ho fatta - le proprie critiche al comunismo novecentesco – rifiutandone al tempo stesso la demonizzazione -, Preve delinea il suo progetto alternativo di utopia sociale. In primo luogo, ammette esplicitamente che si tratta di una utopia e, rilanciandone l’apologia lukacsiana (28), sostiene che il termine è da intendersi positivamente perché, anche se provvisoriamente inapplicabile, “l’utopia è una sorta di ideale regolativo del comportamento umano che produce effetti concreti in un lasso di tempo a media scadenza" (condivido, anche se considero a dir poco ottimista quel “media”).

Quindi dedica ampio spazio a chiarire che la sua idea di comunitarismo non va confusa né con quella associata alle forme di localismo xenofobe se non esplicitamente razziste (occorre uscire “dal circolo vizioso del pregiudizio identitario”), né con il comunitarismo accademico di scuola anglosassone, né con i comunitarismi che tessono le lodi delle comunità organiche: le comunità primitive, argomenta, hanno il solo merito di dimostrare che la proprietà privata non è insita nella natura umana (29), e conclude seccamente che “ogni concezione del comunismo o del comunismo comunitario come ritorno della comunità primitiva è errata”. Preve ricorre al concetto di comunismo comunitario fondamentalmente per due ragioni: in primo luogo, per ribadire che esso non si oppone al comunismo, “ma si auto interpreta come una sua riforma interna alla sua storia ideale eterna” (dovremo tornare su quel “storia ideale eterna”); inoltre perché la sua tesi è che il concetto in questione è quello che meglio rispecchia l’utopia marxiana.

Si è visto sopra che Preve sostiene che non è possibile risalire al “vero” Marx ricostruendone fedelmente il pensiero; al tempo stesso ammette che in Marx non esiste una chiara definizione del comunismo, del quale il filosofo di Trevi ci spiega soprattutto che cosa non è, definendolo quasi esclusivamente in termini contrastivi al capitalismo e alle precedenti formazioni sociali, il che, commenta Preve, “non è la sua debolezza bensì la sua forza perché gli consente di sopravvivere all’obsolescenza delle sue firme storiche”. Questa doppia mossa consente a Preve di isolare una serie di concetti marxiani per poi “rimontarli” a sostegno del proprio progetto teorico. Vediamo quali. In primo luogo nega la possibilità – sostenuta in particolare da Althusser (30) – di separare la “fusione imperfetta” fra elemento utopico ed elemento “scientifico” nel pensiero marxiano, depurando il secondo dalle interferenze del primo. Poi nega che Marx possa essere considerato un pensatore rigidamente “classista” (vedi sopra) nel senso che il suo [innegabile!] classismo sarebbe stato “solo un mezzo per giungere a un fine che era appunto quello della comunità” (o meglio: “l’utopia di una sola comunità umana mondializzata”). Infine sostiene che Marx, parlando della proprietà comunista, ha in testa la proprietà individuale e non collettiva, in quanto il comunismo della libera individualità coincide con la società comunista della proprietà individuale. E qui siamo al dunque: “la mia proposta di interpretazione del comunismo comunitario di Marx” ammette Preve, “è direttamente ricavata dalla società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti della grecità classica”. Preve sembra insomma volerci dire che per Marx, come per lui, “la storia ideale eterna” del comunismo dovrà risolversi in un ritorno (ovviamente a un livello superiore) non alle società organiche precapitaliste, bensì alla società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti che ispirava il pensiero politico aristotelico. Della insostenibilità (storico-concreta, non idealtipica!) di tale utopia diremo fra poco; per ora vediamo come la tesi appena esposta si fondi sulla descrizione del comunismo comunitario propostaci da Preve.

Posto che, come si è visto, una delle cause, se non la causa prima, del fallimento dell’esperimento sovietico è stata, secondo Preve, l’incapacità di coniugare comunismo e democrazia, e posto che nella comunità, ciò che è comune non può “essere avocato a un gruppo ristretto di reggitori che prescrivono al resto della comunità il da farsi”, è evidente che una società comunistico-comunitaria dovrà istituzionalizzare la democrazia politica “intesa non tanto come principio di maggioranza, quanto come processo di estensione quantitativa e qualitativa della partecipazione dei membri della comunità”. Quindi: autogoverno politico e autogestione economica, consultazione stabile e permanente delle comunità e, più in dettaglio, “una abolizione della produzione capitalistica, una produzione fondata sull’autogestione solidale dei produttori, un mantenimento della piccola produzione mercantile con le inevitabili piccole disuguaglianze, il mantenimento degli stati nazionali per preservare eredità linguistiche e culturali e una confederazione mondiale di stati comunitari indipendenti”. In poche parole, una società basata “su un processo di democratizzazione radicale di famiglia, società civile e stato e non sulla loro abolizione”. 

È evidente che discostandosi dalla tesi marxiana dell’abolizione dello stato, Preve è guidato dalla consapevolezza che anche nel suo mondo utopico non può sparire come per incanto la polarità fra individui e comunità, ma mentre in Lukacs, come ho argomentato altrove (31), questa consapevolezza serve a evitare la trappola della “fine della storia” in quanto fine di tutti i conflitti umani, Preve scrive che la polarità in questione “può dialetticamente evolvere in un mondo di individui liberati inseriti in comunità solidali”; e ancora “il comunitarismo nella mia interpretazione è una via comunitarista all’universalizzazione e al dialogo”. E qui torna il fantasma della fine della storia, di un futuro irenico in cui tutti i contrasti si stemperano nel dialogo, in cui trionfa cioè lo spirito umano universale. L’inciampo sta appunto nel concetto previano – illuministico, occidentalista e idealista – di universale.


Lukacs




VI.
Lo scoglio su cui va a sbattere la costruzione teorica di Preve, a conferma dei limiti di ogni visione idealista, è appunto la questione dell’universale, attorno alla quale viene accumulando una serie di contraddizioni di difficile superamento dialettico. Provo a partire dalla seguente affermazione, dividendola in due parti: nella prima, Preve ci dice che titolare dell’universalità non può essere un popolo, una religione, una nazione o una cultura particolare (e infatti afferma che “l’universalismo occidentale è un universalismo falso di una arrogante tribù”). Fin qui non si può che condividere; nella seconda parte della frase, tuttavia, si dice che titolare dell’universalità può essere solo il genere umano “che, a sua volta, non è presupposto ma l’esito di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale”. Anche questa affermazione deve a sua volta essere analizzata distinguendone una prima e una seconda parte. La prima presuppone l’esistenza di una natura umana in generale, il che confligge con quanto lo stesso Preve sostiene scrivendo che “l’Uomo non esiste, ci sono soltanto uomini diversi di diverse comunità”, così come confligge con la tradizione marxista che considera l’umanità concreta come il prodotto storico di specifiche relazioni sociali e considera l’idea del capitalismo come coronamento della natura umana la base dell'ideologia capitalista (in quanto tale “natura umana” letteralmente non esiste). Eppure Marx, sostiene Preve, non la pensava così, visto che “parlava dell’uomo come ente naturale generico ed era in sintonia con l’antropologia filosofica di Aristotele” [cioè l’uomo come animale, politico, sociale e comunitario, capace di linguaggio, ragione, ecc.].

Mettendo fra parentesi l’associazione fra Marx e Aristotele, argomenti a favore della tesi appena esposta si potrebbero trovare nel Libro I del Capitale, laddove Marx analizza il concetto del lavoro in generale in quanto ricambio organico fra uomo e natura, concetto che Lukacs definisce la forma originaria e il modello di ogni prassi trasformatrice (32). Concetto che tuttavia, a mio avviso, non consente molto più che distinguere uomo dall’animale (vedi l’arcinota metafora dell’ape e dell’architetto). Infatti ancora Lukacs mette in luce come le innumerevoli varianti concrete (storiche) di tale forma originaria (ideale-astratta) del ricambio organico uomo-natura producano esseri umani diversi in diversi contesti socioeconomici e culturali.

Ma proviamo a tornare sull'ultima parte dell’affermazione da cui ho fatto partire il ragionamento: Preve dice che il genere umano “non è il presupposto ma l’esito di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale”. Ammesso e non concesso che esista la possibilità che il processo storico approdi a una “universalizzazione reale” (che sarebbe di fatto l’hegeliana auto-realizzazione dello Spirito Assoluto e la fine della storia), in che modo si pensa che ciò possa realizzarsi a partire da una qualsiasi civiltà particolare? Preve riconosce infatti che ogni comunità è per sua natura particolare, “relativa al tempo e al luogo in cui sviluppa i propri costumi condivisi dal gruppo”; riconosce inoltre che il concetto di verità “nasce e si sviluppa come funzione di sopravvivenza e di riproduzione di una comunità” (falso è ciò che ne mette in pericolo la sopravvivenza e la riproduzione). Come emanciparsi, dunque, dal falso universalismo occidentale e dai suoi criteri di verità, in cui siamo nati e cresciuti, considerando che persino Marx non vi è riuscito, visto che immaginava “che il presupposto della mondializzazione del comunismo fosse la mondializzazione del modo di produzione capitalistico”? Eppure Preve è convinto che solo questa evasione da noi stessi può salvarci, se è vero che “non esiste comunismo comunitario se non ci si chiama fuori integralmente dall'occidentalismo imperiale in tutte le sue forme”.

Sappiamo (vedi il secondo paragrafo) che, secondo Preve, i Greci sarebbero stati in grado di proporre un modello universalistico radicalizzando la loro particolarità, e sappiamo che, sempre secondo Preve, tale particolarità era il prodotto di un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. Il comunismo comunitaristico potrebbe e dovrebbe nascere non dall’impossibile radicale e totale ripudio delle nostre radici occidentali (benché lo stesso Preve – vedi sopra - sembri considerare necessario tale ripudio) ma dallo sforzo di darne una lettura alternativa. Il che vorrebbe dire “tornare” ai greci, o almeno a quelle che Preve considera le caratteristiche di una particolare fase della loro storia. Così descrive un comunitarismo solidale di libere individualità, “che sostiene la legittimità dell’universalità attraverso il riconoscimento della singolarità e della particolarità”, che “è una teoria e una pratica del rapporto fra la singolarità, la particolarità e l'individualità, da un lato, e l’universalità dall’altro”, e scrive che “la via maestra dell'universalismo reale da intendere non come un insieme di prescrizioni dogmatiche ‘universali’, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità”. A meno di non voler attribuire le caratteristiche appena elencate a un intervento divino, è evidente che le comunità così definite dovrebbero fondarsi a loro volta su un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti [!?]


VII.
Prima di ragionare sulle tre intuizioni che avrebbero a mio avviso consentito a Preve, ove non irretito da presupposti idealisti, di sviluppare una teoria alternativa credibile sulla transizione a una società post capitalista, provo a stilare un breve elenco delle tesi sin qui analizzate, sia quelle che considero condivisibili, sia quelle che mi lasciano perplesso.Trovo assolutamente condivisibile la sua analisi delle basi teologiche – ebraico-protestanti – dell’ideologia imperiale del capitalismo neoliberale. In particolare, è evidente che l’attuale tentativo del blocco atlantico a guida Usa di scatenare una Terza guerra mondiale contro tutte le nazioni e i popoli che si oppongono al suo dominio, non è dovuto solo a incontestabili ragioni economiche (perdita di controllo di ampie fette del mercato mondiale dovuta all’emergere di competiror vecchi e nuovi come la Russia e la Cina), ma anche e soprattutto all’integralismo neocons che affida alla anglosfera la “missione” di convertire il mondo alla “democrazia” e al “libero” mercato (fattore da non liquidarsi come meramente “ideologico”, sovrastrutturale). Trovo parimenti condivisibile la sua tesi sul ruolo decisivo del pensiero di Lenin nel liquidare il marxismo “canonico” della II Internazionale e le sue scorie economiciste, evoluzioniste e positiviste, a partire dalle tesi secondo cui la transizione al socialismo sarebbe possibile solo laddove il livello di sviluppo delle forze produttive ha toccato i vertici massimi consentiti dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, rimpiazzandola con la tesi dell’anello debole (crisi politico-istituzionale e perdita di capacità delle élite dominanti si esercitare egemonia). Trovo infine condivisibile la sua feroce critica delle sinistre postmoderne, a partire dal femminismo e dall’ideologia del politicamente corretto in tutte le sue articolazioni, una presa di posizione che chi scrive ha espresso nel capitolo intitolato “Le sinistre del capitale” del suo ultimo libro (33).

Il mio assenso è viceversa parziale nei confronti del modo in cui Preve affronta la questione del fallimento dell’esperimento sovietico: se mi pare giusto evidenziare l’errore di aver tentato di schiacciare le classi medie sotto una spietata dittatura operaia, creando i presupposti della controrivoluzione di fine Novecento, non condivido la sua critica al fatto che non siano stati garantiti i diritti “borghesi” (democrazia rappresentativa, libertà individuali, ecc.), anche se precisa che nella società comunistico comunitaria tali diritti assumerebbero carattere diverso. Soprattutto non condivido la sua visione di un comunitarismo associato a un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. A tale proposito mi limito a citare letteralmente quanto ho scritto su questa pagina (34) a proposito dell’analoga visione proposta dal marxista calabrese Nicola Zitara e dal suo allievo Angelo Calemme: “ammesso e non concesso che oggi sia, non dico realizzabile, ma anche solo concepibile ‘una società di liberi produttori’ (Owen e Proudhon potevano ancora nutrire un simile sogno perché vivevano nella fase aurorale del capitalismo industriale, ma nemmeno loro avrebbero potuto farlo se fossero vissuti nell’era del tardo capitale monopolistico) non vedo come si possa non capire che tale società, in seguito alle differenze di capacità, talento, aggressività, ambizione, ecc. di questi produttori sarebbe destinata a subire un rapido processo di concentrazione dei capitali nella mani di una minoranza a scapito della maggioranza. Peggio mi sento di fronte alla schizofrenia teorica che, da un lato esclude ogni forma di liberismo economico […] dall’altro indica nella proprietà privata e nella piena libertà di vendere e comprare il fondamento dei diritti individuali”.

Eppure, come detto poco sopra, Preve ha formulato tre intuizioni che avrebbero potuto condurlo in tutt’altra direzione. La prima è quella associata alla famosa lettera di Marx alla Zasulic in merito alla possibilità che la comunità contadina tradizionale russa (obscina) potesse approdare al socialismo senza passare dalle forche caudine del modo di produzione capitalistico. Marx, scrive Preve, ammettendo anche solo in via ipotetica tale possibilità (in barba ai suoi precedenti, duri giudizi nei confronti del potenziale rivoluzionario delle masse contadine), “compie un atto teorico anti-economicistico, anti-deterministico e anti individualistico”, evade cioè dal condizionamento associato alla sua appartenenza alla tradizione occidentale. Non è un caso se quest’ultimo Marx (35), come ho più volte ricordato analizzando il dibattito interno alla cultura marxista latinoamericana, sia ampiamente citato per legittimare il carattere oggettivamente anticapitalista della resistenza delle comunità originarie alla colonizzazione da parte del mercato. Né è un caso se un raffinato leader rivoluzionario africano come Amilcare Cabral parla di “classe nazione” (36) a proposito delle masse (prevalentemente contadine) in lotta per la liberazione dal giogo coloniale, ma proiettate verso un progetto di trasformazione socialista. Né è infine un caso se il “socialismo con caratteri cinesi” presenta evidenti debiti nei confronti della millenaria tradizione confuciana, che rispecchiava i valori del solidarismo comunitario contadino. 

La seconda intuizione di Preve riguarda, da un lato, la necessità di superare la rigida opposizione bipolare operai/capitalisti (che, secondo lui, sarebbe stata in Marx strumentale alla realizzazione del comunismo comunitario, ciò di cui dubito ma che non è qui l’aspetto determinante); dall’altro lato, il riconoscimento che esistono civiltà culturalmente diverse [da quella occidentale] e forse inassimilabili come la cinese e la musulmana. Posto che aggiungerei certe civiltà amerindie e africane, c'erano qui i presupposti per capire che una larga fetta di umanità ha imboccato una via che - ancorché faticosa e tutt’altro che scontata – conduce al socialismo attraverso percorsi del tutto diversi da quelli immaginati dal marxismo occidentale. Invece Preve resta suo malgrado occidentalista (in quanto rigorosamente hegeliano!), per cui è convinto che la via cinese - e più in generale quelle degli altri paesi in via di sviluppo - siano una nuova forma di sviluppo capitalistico (infatti sostiene – diversamente da Lenin (37) - che non possano esistere forme di capitalismo di stato che non siano forme di capitalismo tout court); ed è convinto che il capitalismo (come previsto dal Manifesto del 1848) abbia ormai conquistato il mondo senza residuare forme esterne. Eppure anche la terza intuizione, sintetizzata nell’affermazione “il comunismo comunitario che propongo si basa su un processo di democratizzazione radicale di famiglia, società civile e stato e non sulla loro abolizione”- affermazione con cui prende le distanze dalla tesi marxiana sull’estinzione dello stato – avrebbe potuto aiutarlo a valutare la possibilità che uno stato socialista possa mantenere il controllo politico sull’economia senza liquidare l’intera classe capitalistica e servendosi di certe dinamiche del mercato senza abolirle integralmente. Ho ampiamente discusso di tale possibilità nel mio Elogio dei socialismi imperfetti (38) al quale rinvio il lettore, che potrà verificare come le forme sociali colà analizzate presentino non poche analogie con le caratteristiche che Preve immagina per il suo comunismo solidaristico (con tutte le differenze che distinguono la realtà storica concreta dagli idealtipi astratti). 



Note 

(1) Preve argomenta questa tesi in modo particolarmente convincente in un libro uscito negli anni Ottanta: cfr. La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984. 

(2) Il riferimento alla dialettica hegeliana è qui talmente evidente da non meritare particolari commenti. Più interessante, dal punto di vista della storia delle religioni, sarebbe cogliere in questo “movimento” dell’essere divino tracce di alcune cosmologie gnostiche. Cfr. quanto ho scritto sull’immaginario gnostico in Immagini del vuoto, Liguori, Napoli 1989 e in Piccole apocalissi, Raffaello Cortina, Milano 1991. 
 
(3) Cfr. I. Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma 2022. 

(4) Preve si riferisce qui in particolare ai bombardamenti terroristici alleati sulle città tedesche quando l’esito della guerra era già deciso e alle bombe atomiche sul Giappone (finalizzate a terrorizzare i sovietici più che un Giappone già in ginocchio). Ma a negare la pretesa “unicità” del genocidio nazista ai danni del popolo ebraico sono in molti: vedi, fra gli altri, il libro di L. Pegoraro sui genocidi dei popoli originari da parte delle potenze coloniali occidentali (I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Meltemi, Milano 2019); vedi le riflessioni che Domenico Losurdo ha compiuto in diverse occasioni sull’aggressione nazista all’Unione Sovietica e sulle caratteristiche che la accomunano alle imprese criminali del colonialismo occidentale (spagnolo, inglese, olandese, portoghese, ecc.); vedi infine le riflessioni di Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo (ombre corte, Verona 2020) in cui l’autore antillano scrive che a risultare intollerabile agli occhi dei razzisti occidentali era il fatto che il razzismo hitleriano si rivolgeva contro popoli bianchi. 

(5) Un interessante dossier sul pesante condizionamento che il complesso di colpa associato allo sterminio degli ebrei esercita tuttora sul popolo tedesco e sulla politica interna ed estera della Germania, bloccando a priori qualsiasi possibilità di un’autonoma visione geopolitica di quel Paese si trova nel numero 6 (giugno 2024) della rivista “Limes”, “La Germania senza qualità”. 

(6) L’assoluta acquiescenza dell’Europa nei confronti dei diktat statunitensi si è manifestata in modo clamoroso nella doppia morale che l’Unione Europea ha adottato nei confronti della guerra ucraina, dove le vittime degli attacchi russi (che nel caso delle guerre imperiali americane erano “danni collaterali”) sono sistematicamente denunciate come “crimini di guerra”, mentre l’osceno sterminio perpetrato da Israele contro il popolo palestinese viene blandamente criticato come “eccesso di reazione”.

(7) Uno dei bersagli preferiti della rabbia di Preve nei confronti degli intellettuali “ di sinistra” che condannano senza se e senza ma il secolo delle rivoluzioni è Marco Revelli (vedi il suo Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001). 

(8) Questa sacrosanta identificazione fra apologia della modernità (ampiamente condivisa dalle sinistre occidentali, comunisti compresi) e apologia del modo di produzione capitalistico rinvia alla critica di Preve nei confronti della categoria del progresso e più in generale dell’infatuazione di sinistra per lo sviluppo in generale e lo sviluppo scientifico e tecnologico in particolare.Tuttavia, come vedremo nella parte finale di questo articolo, questa postura critica cede talvolta a una certa influenza dello storicismo hegeliano – ancorché negata – sulla visione sostanzialmente illuminista (e idealista) di Preve. 

(9) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.

(10) “La totalità esiste”, scrive Preve, “e coincide con la riproduzione sistemica unitaria del sistema capitalista. Essa appare tuttavia come molteplicità infinita di individui frammentati al livello della produzione e artificialmente collegati al livello del consumo”. Considero questa frase come una delle più geniali descrizioni dell’essenza del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui mette in relazione diretta il processo di disintegrazione sociale (atomismo individuale) con il dominio, impersonale e totalitario ad un tempo, dei rapporti di mercato. 

(11) Questa definizione trova riscontro, oltre che nella crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dei periodici riti elettorali, nelle analisi dei politologi che parlano ormai apertamente di post democrazia. Cfr., fra gli altri C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2013. 

(12) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., PGRECO, Milano 2012. 

(13) Un esempio sconvolgente di questo osceno pedigree razzista è il film Trecento di Zack Snyder (2007) dove gli eroici spartani si scontrano con un esercito persiano di mostri ed esseri deformi tanto assetati di sangue quanto incapaci di combattere (con chiara allusione agli “eroici” soldati americani armati fino ai denti contro i “barbari” iracheni votati al massacro). Questa la versione pop, quanto alla versione sofisticata vedi quanto ho scritto ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) ironizzando su un articolo del filosofo Roberto Esposito che celebra l’esclusivo “copyright” europeo sul pensiero filosofico (pp. 187 e segg.). 

(14) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974. 

(15) Cfr. L. Boltanski, L Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014. 

(16) Cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018. 

(17) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, New York 2013. 

(18) Cfr- C. Formenti, A proposito del cosiddetto capitalismo woke, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html  

(19) Vedi, in particolare, Guerra e rivoluzione, vol. I, Le macerie del capitale, Cap. V “Le sinistre del capitale”. 

(20) Cfr. fra le altre, N. Fraser, Fortune…, cit., J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017; J. Crispin, Why I’m not a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017; S. Federici, Genere e capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2019. 

(21) Cfr. S. Federici, op. cit. 

(22) Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979. 

(23) Mi riferisco alla nota polemica di Marx con il recensore dell’edizione russa del Capitale, nella quale Marx negava di avere voluto fissare le “leggi” dello sviluppo storico universale, ma di essersi limitato a descrivere il processo della nascita del capitalismo in condizioni storiche determinate. 

(24) Cfr. Guerra e rivoluzione, cit.. Vedi, in particolare, Vol. II, Elogio dei socialismi imperfetti, capitoli I e III.

(25) Cfr. M. Revelli, op. cit.

(26) Cfr. R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.

(27) In realtà il mito del comunismo come nascita di un uomo nuovo non è una prerogativa staliniana, basti pensare al Principio speranza di E. Bloch (3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019) e all'immagine utopistica del socialismo cubano secondo Ernesto che Guevara.

(28) Cfr. G. Lukacs, Ontologia…, op. cit.

(29) In realtà, come argomenta A. G. Linera in Forma valor y forma comunidad (Traficantes de Suenos, Quito 2015) certe comunità originarie latinoamericane forniscono assai più della prova che la proprietà privata non è insita nella natura umana: forniscono, come già argomentava J. C. Mariategui (cfr. Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti, Einaudi, Torino 1972) la prova dell’esistenza di forme sociali che potrebbero transitare al socialismo senza passare dalle forche caudine del capitalismo (per dirla con Marx quando discuteva con la Zasulic in merito alla stessa possibilità per l’obscina russa).

(30) Cfr. L. Althusser, Per Marx, Mimesis, Milano-Udine 2008.

(31) Cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi su Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.

(32) Cfr. G. Lukacs, Ontologia, cit.

(33) Vedi nota 19.
(34) Cfr. C. Formenti, A proposito del proletariato esterno. Meriti e limiti del pensiero di Zitara, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/04/a-proposito-del-proletariato-esterno.html 

(35) Cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009.

(36) Cabral teorizzava che la rivoluzione di liberazione nazionale, per avviarsi verso il socialismo, avrebbe dovuto attraversare tre fasi: nella prima vi sarebbe stata la rivoluzione della classe-nazione contro il colonialismo; nella seconda, le differenze di classe sarebbero emerse e divenute più evidenti nella società postcoloniale; nella terza, vi sarebbe stata una rivoluzione socialista nella rivoluzione, attraverso la quale le masse avrebbero eliminato le differenze di classe. Questo terzo passaggio richiedeva che la piccola borghesia che era stata l’avanguardia del movimento per l’indipendenza si suicidasse in quanto classe. Se ciò non fosse avvenuto, la rivoluzione sarebbe degenerata in statalismo autoritario o capitalismo di stato.

(37) Negli anni in cui si apprestava a imporre la svolta della NEP Lenin teorizzò, contro le tesi dei bolscevichi “di sinistra”, che il capitalismo di stato della Russia sovietica non poteva essere confuso con il capitalismo di stato dei Paesi occidentali e, in un discorso del 1918 (citato da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione, una raccolta di testi leniniani da lui curata per il Saggiatore), affermò: “Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. Come si vede si tratta di una posizione non lontana da quella dei dirigenti cinesi post maoisti e in palese contrasto con il “purismo” ideologico di Preve.

(38) Cfr. op. cit.

lunedì 17 giugno 2024

LUCIANO CANFORA . UNO STORICO "SOVVERSIVO"

Per una lettura tendenziosa del "Dizionario politico minimo"



Luciano Canfora




Premessa


Il dizionario politico è un genere che l’editoria specializzata in Scienze Sociali ha proposto con una certa frequenza negli ultimi decenni, un fenomeno che può essere interpretato anche come reazione all’horror vacui generato dalla progressiva rimozione della politica - intesa come prassi orientata a cambiare lo stato presente delle cose - dall’orizzonte della realtà postmoderna, a mano a mano che viene surclassata da altre sfere dell’agire umano, a partire all’economia. Si tratta di un genere che non amo particolarmente, perché praticato perlopiù da accademici – filosofi, sociologi e politologi – che tendono a neutralizzare il carattere antagonistico del politico, “inscatolandolo” in lemmi infarciti di categorie astratte e trans-storiche (se non anti-storiche).


Ciò premesso, per i tipi di Fazi è appena uscito il “Dizionario politico minimo” di Luciano Canfora (a cura di Antonio Di Siena) (1), che ho invece decisamente apprezzato: in primo luogo, perché non si tratta di un “vero” dizionario, nel senso che il curatore, come spiega nella Introduzione, ha realizzato una lunga intervista a Luciano Canfora, articolandola su una cinquantina di parole chiave che, più che vere e proprie voci, sono “stazioni” di un percorso attraverso l’attualità storico-politica (2); in secondo luogo perché lo sguardo di Canfora, in quanto storico, si concentra sui fatti invece di perdersi in disquisizioni astratte; infine perché, grazie al lavoro del curatore (che pure attribuisce il merito alla chiarezza espositiva dell’intervistato), il testo risulta scorrevole e di gradevole lettura e - grazie anche alla lunghezza contenuta - si divora in poche ore. 


Quella che segue non è una recensione, bensì il tentativo di estrapolare dal libro quattro percorsi tematici (operazione esposta a inevitabili rischi di arbitrarietà e tendenziosità) che ho “ricavato” da una trentina voci (omettendo le altre) sfruttando le ridondanze e i legami incrociati che le interconnettono. Si tratta di quattro thread che evocano altrettanti grand reçit –  per usare la definizione di Jean-François Lyotard (3) – della modernità politica: democrazia, imperialismo, fascismo, sinistra.





1. Democrazia (vedi le voci democrazia, elezioni, élite, libertà, populismo, postdemocrazia, propaganda e libertà)


Ho esordito sottolineando come i filosofi siano spesso responsabili di definizioni trans storiche delle categorie politiche. Ciò è particolarmente vero nel caso del concetto di democrazia, che molti non esitano a descrivere come una categoria universale le cui “incarnazioni” storiche, dall’antica Grecia  ai giorni nostri, presenterebbero sostanziali affinità (4). Rispondendo alle sollecitazioni del curatore, Luciano Canfora si distanzia da questo approccio affermando a più riprese come il temine corrisponda a realtà concrete (storiche) radicalmente diverse nel tempo come nello spazio. In Atene, come nell’antica Roma, non è mai esistito qualcosa che possa essere anche lontanamente paragonato alle (differenti) forme di democrazia moderna, a meno che non si accetti l’idea che possano essere definite democratiche istituzioni che concedevano a un’infima minoranza la facoltà di partecipare al processo decisionale (ad alimentare l’equivoco, nota Canfora, ha contribuito la rappresentazione, da parte dei leader giacobini, della grande rivoluzione borghese come ritorno alle virtù politiche dell’antichità classica).  


Venendo ai giorni nostri, Canfora sfrutta le domande del curatore per demistificare l’operazione ideologica che interpone il doppio trattino del segno matematico di uguaglianza fra i termini di democrazia, libertà e capitalismo (libero mercato). Che democrazia e capitalismo stiano ai poli opposti di una contraddizione è evidente: mentre il secondo rivendica l’assoluto rispetto dell’interesse soggettivo, individuale (identificato con la libertà di iniziativa economica e la sacertà della proprietà privata), la prima si identifica con la decisione collettiva e la ricerca del bene comune. Quanto al carattere antitetico di democrazia e libertà (intesa come libertà dell’individuo da ogni forma di limitazione politica) non è stato solo Marx a evidenziarlo, dimostrando come l’uomo libero sia una mera astrazione filosofica (5), ma anche liberal borghesi come Alexis de Tocqueville, il quale ha anticipato (6) le preoccupazioni dei moderni fondatori del neo liberalismo (7) in merito ai rischi di “dittatura della maggioranza”.


I passaggi in cui emerge con chiarezza la maggiore lucidità dello sguardo storico rispetto alle letture sovradeterminate dall’astrazione filosofica e/o dall’ideologia sono, a mio avviso, soprattutto quelli dedicati al tema del rapporto fra democrazia e rappresentanza elettorale. Canfora cita l’illusione (condivisa dagli stessi padri fondatori del marxismo) secondo cui l’avvento del suffragio universale avrebbe determinato l’automatico capovolgimento dei rapporti di forza nella rappresentanza politica (e quindi nei rapporti di classe). L’illusione socialista trovava riscontro nella preoccupazione delle controparti borghesi che, com’è noto, fecero di tutto per ritardare l’estensione del suffragio. Per rendersi tuttavia conto, a “catastrofe” avvenuta, di poter agevolmente catturare il consenso dei ceti intermedi che coltivano l’illusione di poter entrare a  far parte della élite. 


Nel contempo i cultori dell’illusione “elezionista” venivano indotti a prendere atto della dura realtà che Lenin e Gramsci hanno contribuito, fra gli altri, a svelare: le idee delle classi dominanti diventano le idee dominanti di tutto (o della grande maggioranza del) popolo. Un meccanismo che rispecchia una banale verità: chi ha la forza (e gli strumenti: controllo dei mezzi di comunicazione, risorse economiche per alimentare massicce campagne propagandistiche, ecc.) per plasmare l’opinione pubblica è inesorabilmente destinato a vincere (con buona pace dei teorici della comunicazione che teorizzano la relativa autonomia dell’opinione pubblica dagli input mediatici (8)). 


Dove non arriva l’egemonia culturale si provvede a manipolare le regole del gioco: dal doppio turno che taglia fuori dalla competizione le “ali estreme” (vedi il caso francese), ai dispositivi truccati made in Usa che governano la “più grande democrazia del mondo” (denunciati, fra gli altri, da Bernie Sanders (9)), studiati per far sì che la rappresentanza sia sistematicamente monopolizzata dalla minoranza dei super ricchi, alle riforme “maggioritarie” che nel nostro Paese hanno affossato il sistema proporzionale per calpestare la volontà popolare e incentivare l’astensione. Insomma: siamo  lontani anni luce dalla grande illusione che fra fine Ottocento e inizio Novecento aveva sognato di seppellire le élite borghesi sotto una montagna di voti. Al punto che Canfora può ironizzare sul termine postdemocrazia coniato da Colin Crouch (10), definendolo come un concetto superato dalla realtà prima ancora che riuscisse ad affermarsi nel dibattito teorico-politico. 


Poco sopra citavo l’importanza del ruolo dei ceti medi nel garantire la difficilmente sormontabile (se non insormontabile) base di consenso alle élite dominanti. Canfora cita in proposito la proliferazione di nuovi strati di classe (sia verso l’alto che verso il basso, a smentita della previsione marxiana di una crescente polarizzazione operai/capitale) – fenomeno che contribuisce ad aumentare la complessità della lotta per la conquista del consenso e che, d’altra parte, può aprire  spiragli di contendibilità del potere in situazioni di crisi istituzionale. Ecco perché non si allinea al coro di condanne per il “populismo”. Nella suddetta situazione di articolazione della composizione di classe, argomenta, la parola popolo non rappresenta un arretramento ideologico rispetto alla parola classe, ma può anzi contribuire ad assemblare tutti questi segmenti in un nuovo progetto politico (11). Di qui la repulsione che suscita nelle stanze del potere costituito.      



2. Imperialismo (vedi le voci Cina, decolonizzazione, globalizzazione, internazionalismo, imperialismo, mondo multipolare, nazione, patria, rivoluzione, sovranità)


Ricavare da una serie di passaggi disseminati in varie parti dell’intervista un abbozzo di teoria dell’imperialismo sarebbe troppo (del resto non è quanto possiamo pretendere da un testo che nutre ambizioni più limitate). Eppure, scavando qua e là, è possibile evidenziare una rete di spunti significativi. Provo a sintetizzarli attraverso il seguente schema per punti.


a) In primo luogo Canfora valorizza la torsione - il salto di paradigma - che Lenin ha imposto alla teoria marxista. E’ vero che molti vedono nel Manifesto una geniale anticipazione del processo che oggi chiamiamo globalizzazione, ma non andrebbe dimenticato che Marx “vide e descrisse un mondo di 150 anni fa”, mentre fu Lenin a diagnosticare la realtà specifica dell’imperialismo in quanto espressione del tardo capitalismo e delle sue forme politiche, oltre che economiche. In particolare, Lenin era consapevole del fatto che nei centri metropolitani anche le classi subalterne partecipano del beneficio associato allo sfruttamento delle colonie – fenomeno che Marx intuì allorché fu indotto a prendere atto di come l’oppressione inglese ai danni dell’Irlanda rendesse impossibile una rivoluzione proletaria in Inghilterra, e che la scuola della dipendenza (12) ha approfondito a partire dal secondo dopoguerra. In Lenin questa presa di coscienza si traduce nella esaltazione del ruolo strategico delle lotte di liberazione nazionale nella lotta anticapitalista mondiale - tanto che, dopo il fallimento della rivoluzione in occidente, inizia a guardare all’Asia per conservare la speranza di una rivoluzione mondiale. 


b) A partire dal nodo appena evidenziato, Canfora fa un’affermazione forte che ribalta le letture dogmatiche (sia quelle nostalgico-agiografiche, sia quelle liquidatorie) dell’esito della Rivoluzione russa: quel grande evento storico, argomenta, non coincise con l’avvento del socialismo mondiale, bensì con il risveglio dell’Asia e poi di altri mondi dipendenti, in poche parole fu la scintilla che innescò il processo di decolonizzazione. A svelare la verità storica di quella svolta epocale è l’evoluzione della Rivoluzione cinese: dopo i disastri del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale – associati al sogno maoista di una transizione diretta dal sottosviluppo al socialismo – subentra il denghismo, che può essere descritto come una gigantesca NEP (13) (imposta, come quella voluta da Lenin mezzo secolo prima, della necessità di passare attraverso una fase caratterizzata dal capitalismo di stato e dalla reintroduzione di robuste dosi di economia di mercato). E’ ancora possibile parlare di socialismo? Canfora – contrariamente a chi scrive (14) – non si esprime chiaramente in merito, preferendo parlare di “socialismo nazionale” e accostando la via cinese a quella imboccata, fra gli altri, da Tito, Castro e Chavez, che definisce una scelta obbligata per chi voglia ottenere il consenso di popolazioni che aspirano all’emancipazione e al riscatto nazionale.


Deng Xiaoping 



c) Che la decolonizzazione sia di necessità patriottica, che il concetto di patria sia un carburante strategico della mobilitazione antimperialista, e che tutte le lotte di liberazione nazionale siano culminate nella nascita di nuovi stati-nazione, sono elementi indigesti per una sinistra occidentale ancorata al concetto astratto di internazionalismo. Purtroppo, annota Canfora, con un’altra delle affermazioni forti che rappresentano il meglio di questo dizionario-intervista, occorre ammettere che i soli, veri internazionalisti sono le classi dominanti, per le quali la dimensione mondiale, transnazionale, globale o comunque la si voglia definire, è il terreno ideale su cui sono certe di sconfiggere le classi subalterne, per le quali è invece lo stato nazionale l’unica dimensione in cui è possibile difendere i propri interessi e governare la società in caso di conquista del potere. La bandiera dell’internazionalismo, ove innalzata da una nazione in cui la rivoluzione ha vinto, rischia di legittimare operazioni imperialiste: dall’internazionalismo giacobino trasformato in imperialismo francese da Napoleone, all’internazionalismo socialista trasformato in imperialismo russo da Stalin. Quanto alle sinistre radicali nostrane e alla loro ideologia antistatalista e antinazionale, Canfora cita il loro fallimento di fronte alla tragedia del neocolonialismo, testimoniato dalla liquidazione sprezzante delle lotte dei popoli periferici in quanto “terzomondiste”, così come cita l’ideologia operaista della “fine del lavoro”, evidenziandone la complicità di fatto con il neocolonialismo: l’illusione che la fase del non lavoro sia a portata di mano, argomenta, è espressione di una situazione di benessere, “del privilegio di aree che se la passano bene”.



3. Fascismo (vedi le voci antifascismo, fascismo, Hitler, Mussolini, nazionalsocialismo, Quaderni dal carcere)


Non credo di essere lontano dal vero nell’affermare che l’analisi di Canfora sul fenomeno fascista deve molto al concetto gramsciano di rivoluzione passiva. Concetto che le sinistre e la filologia gramsciana dei marxisti accademici ha depotenziato offrendone una lettura dottrinale, astratta (associandola cioè alla capacità “in generale” delle élite conservatrici di risolvere una crisi catturando il consenso della classi subalterne attraverso una propaganda demagogica fondata su parole d’ordine “popolari”). Viceversa Canfora “incarna” questo modello astratto nella storia concreta delle “rivoluzioni” fascista e nazista. Non ignora cioè il fatto che sia i fascisti che i nazisti si presentarono alle origini come movimenti anticapitalisti. Il programma dei fasci del 1919, scrive in particolare, presentava caratteri non definibili altrimenti che sovversivi (non a caso, il Partito Comunista in clandestinità rivolse nel 36 un appello – che le nostre sinistre non amano ricordare – “ai fratelli in camicia nera”). 


Mussolini socialista



Quanto al nazional socialismo, il secondo termine dell’endiadi non fu scelto a caso, ma servì a evocare l’interconnessione programmatica fra difesa degli interessi nazionali e politiche sociali. Un accostamento che le forze social-comuniste aborrivano in quanto contrario ai dogmi dell’internazionalismo. Così Mussolini potè presentarsi come un socialista che tributava il dovuto rispetto al sacrificio delle masse popolari che avevano pagato un pesante tributo di sangue nel corso del Primo conflitto mondiale, mentre i comunisti si alienavano le simpatie dei reduci denunciando come “inutile” e privo di senso quel sacrificio (vedi il demenziale settarismo che impedì ai comunisti di accettare le profferte di alleanza degli Arditi del Popolo e vedi, aggiungerei, le critiche che il leader bolscevico Karl Radek rivolse del KPD, per non avere saputo contendere ai nazisti la capacità di mobilitare la rabbia del popolo tedesco contro le condizioni capestro imposte alla Germania dalle potenze vincitrici (15)). Dipingendo Mussolini come un pagliaccio e Hitler come un folle si sottovaluta la loro abilità politica nello sfruttare l’interesse nazionale come leva di mobilitazione di massa, così come si rimuove il fatto che nemmeno la componente “socialista” delle rivoluzioni passive in Italia e Germania è riducibile a mera propaganda: a modo loro, argomenta Canfora, l’IRI e le industrie a partecipazione statale hanno rappresentato una forma di “stato sociale” autoritario, e la politica economica del Terzo Reich, potremmo aggiungere, fu caratterizzata da aspetti non meno “keynesiani” di quelli del New Deal d’oltreoceano.



4. Sinistra (vedi le voci costituzione, diritti, Manifesto, Marx, politicamente corretto, sinistra, sovranità)


Si è visto come Canfora, parlando di democrazia, ponga l’accento sui diversi significati che il termine ha assunto nel tempo (e assuma nel contesto dei differenti approcci ideologici di chi lo evoca). Analogamente, sollecitato a definire il significato della parola sinistra, esordisce affermando che, quando parliamo di sinistra, “non abbiamo ben chiaro di cosa stiamo parlando”. La nebulosità semantica di un concetto storicamente associato (associazione che risale però a epoche lontane) a partiti e movimenti politici che si propongono di promuovere gli interessi delle classi subalterne, è ormai divenuta tale da poter fungere da abito pretaporter per i soggetti più improbabili. 


Mi limito qui a mettere in evidenza tre giudizi – più o meno espliciti – contenuti nel discorso che Canfora dedica all’argomento in alcuni passaggi del suo “dizionario minimo”. Il primo riguarda il percorso storico che ha condotto quello che è stato il più grande partito comunista occidentale a suicidarsi prima e a trasformarsi in una formazione liberale poi. La grande svolta ideologica che Togliatti ha imposto al PCI nel secondo dopoguerra,  riassumibile nei concetti di democrazia progressiva e riforme strutturali, ha offerto una cornice ideale – anche se non ha direttamente legittimato – che i suoi successori hanno sfruttato per imboccare una strada che ha fatto di quel partito un partito radicale di massa che si occupa dei diritti civili e trascura i diritti sociali. Questa mutazione è associata al processo parallelo – in questo caso di tipo strutturale e non ideologico – avvenuto nella composizione di classe del nostro Paese (e più in generale nei Paesi occidentali, non meno interessati al fenomeno dell’eclissi delle sinistre). Si tratta del processo già evocato nelle voci analizzate in precedenza: vale a dire la mostruosa dilatazione delle classi medie, enfiatesi fino costituire un corpaccione enorme che comprende “aristocrazie operaie, borghesia decaduta, libere professioni, crimine organizzato, lobbismo, clientele parlamentari” ecc. Le forze social-comuniste non sapendo analizzare né potendo arginare tale mutazione, vi si sono semplicemente adattate, cambiando il proprio bacino elettorale di riferimento (sappiamo bene, annota Canfora, che quella che un tempo si chiamava sinistra, e oggi propugna i diritti civili come principale battaglia, è oggi prevalentemente composta di benestanti).  


La svolta della Bolognina



Del resto, il riferimento sociale appena evocato vale anche per quella “nuova sinistra” che, nella seconda metà del secolo scorso, si è auto eletta ad alternativa rivoluzionaria della sinistra tradizionale. Forse è per questo che il giudizio di Canfora sulla cosiddetta New Left è ancora più severo: si è trattato, afferma lapidariamente, di “una rinascita dell’anarchismo in  forma puerile”. Il che è dimostrato dalla scelta di rivendicare, in contrapposizione al realismo e all’opportunismo delle formazioni “revisioniste”, la messa in pratica degli aspetti più datati (resi insostenibili dalla realtà storica) dell’utopia marxista. Parliamo dell’idea che ci possa essere una fine della storia, che lo stato si estingua e il lavoro si dissolva. Sposando questa utopia, commenta Canfora, lo stesso Marx finì per identificarsi con quei socialisti utopisti e anarchici contro i quali tanto aveva tuonato. Contro questa visione ottocentesca, Canfora ribadisce la propria convinzione che la storia non  finirà ma continuerà ad articolarsi in una serie di conflitti sempre diversi fra loro. 


Concludo con una questione dalla quale non mi è facile estrapolare un chiaro giudizio dell’autore (come ho fatto sin qui, forse forzandone talvolta le intenzioni). Mi riferisco ai passaggi in cui Canfora allude al presunto carattere “eversivo” della nostra Carta costituzionale. In quanto storico, non può non evocare il compromesso fra le diverse forze politiche che hanno contribuito alla sua stesura – compromesso che rispecchiava gli equilibri post bellici fra i due blocchi cui appartenevano le potenze vincitrici. Ciò premesso, ammette che, se uno volesse applicare l’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) dovrebbe instaurare una vera e propria rivoluzione sociale; così come ammette che il contenuto dell’articolo 5, che sancisce il principio secondo cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la effettiva partecipazione  del lavoratore all’organizzazione politica del paese”, è senza dubbio eversivo rispetto ai principi che reggono l’attuale ordine economico, sociale e politico Ciò vuol dire che condivide la tesi, cara ai militanti di ciò che resta delle sinistre radicali, secondo cui un programma anticapitalista potrebbe essere ancora oggi sintetizzato nella richiesta di mettere in pratica i primi articoli della Carta del 48? 


Come detto poco sopra, non so dare una risposta inequivoca a tale interrogativo (o forse non sono riuscito a coglierla in ciò che ho letto). Quel che mi pare certo è che Canfora, ragionando sulla progressiva esautorazione del dettato costituzionale da parte di governi che applicano pedissequamente le decisioni della UE, prende atto che il nostro Paese (come gli altri membri della Comunità) si ritrova oggi sotto il giogo di quella che è “a tutti gli effetti una carta che viene dall’alto e fa strame delle costituzioni nazionali”. E’ per questo che la questione della sovranità azionale appare ineludibile per qualsiasi progetto politico che si proponga di ricreare condizioni minime per poter intervenire sui rapporti di forza fra le classi sociali, in barba agli anatemi che partiti e media di regime, ma anche certi sedicenti oppositori radicali, lanciano quotidianamente contro il cosiddetto “sovranismo”.


Note


(1) Luciano Canfora, Dizionario politico minimo, (a cura di Antonio Di Siena), Fazi, Roma 2024.


(2) E’ una soluzione simile a quella che chi scrive ha adottato qualche anno fa curando un film-intervista con Mario Tronti, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo “Abecedario”.


(3) J-F Lyotard, La condizione postmoderna (trad. di Carlo Formenti), Feltrinelli, Milano 1980.


(4) Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano2019) cito un esempio tipico di questa tendenza dei filosofi a postulare una continuità sostanziale fra antica Grecia e mondo moderno (europeo), un filo rosso che legherebbe la civiltà greca all’Europa contemporanea, e più in generale all’Occidente, e marcherebbe a una netta distinzione fra nazioni e popoli “filosofici” e resto del mondo. Vedi il mio commento (pp. 187 e segg.) all’articolo di Roberto Esposito “Europa e filosofia” (aut aut, n. 378, 2018).


5) Per Marx l’uomo libero della società borghese è “l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità” (Opere scelte,Editori Riuniti, Roma, pp.961-962.


(6) Vedi le considerazioni critiche di Tocqueville sull’eccesso di democrazia che caratterizza le istituzioni americane in La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.


(7) L’autore contemporaneo che con più radicalità ha denunciato “l’eccesso di pretese” associato alla democrazia moderna è il guru del pensiero neoliberale Friedrich von Hayek (vedi, fra le altre opere, La società libera, Rubettino 2011).


(8) A sostenere la tesi secondo cui l’effetto manipolatorio dei media sarebbe assai meno efficace di quanto si creda sono stati, fra gli altri, autorevoli filosofi e sociologi della comunicazione di casa nostra, da Umberto Eco ad Alberto Abruzzese.


(9) Mi riferisco, in particolare alle critiche che Bernie Sanders rivolge alle procedure delle elezioni presidenziali americane (vedi Un outsider alla Casa Bianca, Jaka Book, Misano 2016).


(10) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.


(11) Sul dibattito teorico interno alle sinistre in merito al concetto di populismo, innescato dalle tesi del filosofo argentino Ernesto Laclau (vedi La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008 e Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017) chi scrive è intervenuto più volte (vedi Il socialismo è morto...op. cit. e Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023).


(12) Cfr. A. Visalli, Dipendenza,Meltemi, Milano 2020.


(13) Per un’accurata ricostruzione della storia della rivoluzione cinese e delle riforme postmaoiste degli anni Settanta, vedi D. A. Bertozzi, Cina Popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, l’Antidiplomatico 2021. Sulla NEP nella Russia rivoluzionaria dei primi anni venti, vedi fra gli altri R. di Leo, L'esperimento profano, Futura, Roma 2011, vedi anche l’antologia degli scritti economici di Lenin curata da Vladimiro Giacché L’economia della rivoluzione, il Saggiatore, Milano 2017.


(14) Ho espresso le mie idee - che risentono apertamente delle tesi espresse da Giovanni Arrighi nel suo capolavoro Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, Milano 2007) - sulla natura socialista dell’esperimento cinese nel secondo volume (“Elogio dei socialismi imperfetti”) di Guerra e rivoluzione, op. cit.


(15) Radek sostenne che i comunisti tedeschi avrebbero dovuto difendere gli interessi della Germania prostrata dalle condizioni imposte dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, rivolgendo la rabbia popolare contro la borghesia nazionale (complice di quelle vincitrici e colpevole di avere trascinato il paese in guerra), a differenza dei nazisti che negavano la lotta di classe attribuendo agli ebrei la responsabilità del disastro.

 

 


 


 






 








  

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