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domenica 3 ottobre 2021

IL CAPITALISMO STA CROLLANDO, MA C’E’ POCO DA STARE ALLEGRI:
IL PESSIMISMO RADICALE DI WOLFGANG STREECK  




Nota introduttiva

E se il capitalismo dovesse crollare prima che (e senza che ciò avvenga per molto tempo) maturino le condizioni perché un nuovo ordine sociale possa prenderne il posto? A porre la domanda è Wolfgang Streeck, sociologo ed economista tedesco erede della Scuola di Francoforte, studioso di spessore, conosciuto soprattutto grazie al saggio Tempo guadagnato (1), un personaggio, insomma, che non sembrerebbe incline a formulare alla leggera ipotesi catastrofiste. Eppure, se gli si chiedesse di commentare l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati”, con cui un autorevole economista italiano liquidò le tesi dei teorici del crollo (2), Streeck obietterebbe che “Il fatto che il capitalismo sia finora riuscito a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado di farlo per sempre”(3). 

La citazione è tratta da un libro appena uscito per i tipi di Meltemi (Come finirà il capitalismo. Anatomia di un sistema in crisi) che raccoglie una serie di saggi e articoli accompagnati da una lunga Introduzione. Un’opera in cui l’autore affronta anche alcune questioni di metodo relative alla sua disciplina, sostenendo, in particolare: 1) che il capitalismo non va studiato come un’economia, bensì come una società (dopo che i sociologi hanno a lungo subito l’imperialismo disciplinare degli economisti, argomenta, è giunto il momento di rovesciare il rapporto, perché il capitalismo di oggi non si può capire senza analizzarne le strette relazioni con la totalità delle relazioni sociali di tipo extraeconomico); 2) che il metodo da seguire per imboccare questa via è quello lasciatoci in eredità da Karl Polanyi (4), il quale sosteneva che la minaccia più grave del capitalismo nei confronti delle stesse condizioni di esistenza della società umana consiste nel rischio che “i rapporti sociali che governano la sua economia penetrino e si impossessino di rapporti sociali precedentemente non capitalistici”. 

Per esporre le tesi provocatorie di Streeck, ho organizzato in cinque parti la lunga recensione che state per leggere: nella prima ricostruirò le tesi sostenute da Streeck in Tempo guadagnato e rilanciate in questo lavoro; nella seconda e nella terza esaminerò le due principali strategie attraverso le quali, secondo Streeck, il capitalismo tenta di prolungare ulteriormente la propria sopravvivenza:  rispettivamente, il processo di mercificazione di tutti gli aspetti della nostra esistenza, e la liquidazione della democrazia politica; nella quarta prenderò in esame il modo in cui interpreta le analisi di Immanuel Wallerstein e altri autori sulla crisi sistemica in corso; nell’ultima mi occuperò della sua prognosi nefasta (il crollo è certo e imminente) in merito all’esisto di tale crisi, e della previsione secondo cui, alla inevitabile catastrofe, seguirà una lunga fase di “interregno” caotico.  


Wolfgang Streeck



I. Il gioco dell’oca. Ovvero: di quel tempo guadagnato resta poco 

Negli ultimi cinquant’anni, sostiene Streeck, il capitalismo ha attraversato tre crisi. Nell’ordine: l’inflazione globale degli anni Settanta, l’esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e il rapido aumento dell’indebitamento privato nel decennio successivo, che è stato la causa principale del collasso dei mercati finanziari nel 2008. Inflazione debito pubblico e debito privato sono le strategie con cui si è tentato di risolvere il conflitto distributivo tra capitale e lavoro, spostando sempre più i rapporti di forza a favore del primo, ma queste tre soluzioni hanno finito per divenire esse stesse altrettanti problemi. Nel corso di questa fase storica, che siamo soliti definire con i concetti di neoliberismo e globalizzazione, scrive Streeck, “Le politiche governative oscillavano tra due punti di equilibrio, uno politico e l’altro economico, impossibili da raggiungere simultaneamente” (5), nel senso che, da un lato, se si cercava di soddisfare le aspettative di prosperità e stabilità si compromettevano i risultati economici, dall’altro lato, se ci si concentrava al contrario su questi ultimi, si finiva per mettere a rischio il sostegno sociale ai governi.

Costrette a barcamenarsi fra queste due alternative, le élite dominanti hanno tentato di legittimare le proprie scelte in tema di politica economica schierando partiti, media ed “esperti” in una ossessiva campagna propagandistica finalizzata a inculcare nei cittadini la convinzione che il crescente indebitamento pubblico era da imputare a maggioranze elettorali che “vivono al di sopra dei loro mezzi, sfruttando ‘il fondo comune’ delle loro società, e ai politici opportunisti che comprano il sostegno di elettori miopi con soldi che non hanno” (6). Sulla base di questa menzogna, ripetuta tanto spesso da acquisire lo statuto di verità indiscussa, si sono giustificati i tagli alla spesa pubblica, ai salari e al welfare. Nel contempo la concorrenza fra gli Stati, costretti a offrire condizioni favorevoli alle multinazionali e ai super ricchi per evitare delocalizzazioni e fughe di capitali, imponeva il ricorso a continui tagli alle tasse. Così aumentava il debito pubblico e la necessità di ricorrere ai prestiti da parte della grande finanza privata globale ma, sostituendo il gettito fiscale con il debito, commenta Streeck, “i governi hanno contribuito ulteriormente all’ineguaglianza, in quanto hanno offerto opportunità di investimento sicure a coloro il cui denaro non volevano o non potevano più confiscare e dovevano invece prendere in prestito” (7). 

Il passaggio dalla crisi del debito pubblico a quella del debito privato si spiega con gli effetti del circolo vizioso appena descritto. Dal momento in cui il settore finanziario, paventando il potere degli Stati sovrani di cancellare il proprio debito, esercita pressioni sempre più forti sui governi, ai quali chiede rassicurazioni in merito alla loro capacità di ripagare i prestiti, si innesca infatti un secondo circolo vizioso: lo Stato democratico si trasforma in “Stato di consolidamento”, vale a dire in una macchina istituzionale il cui ruolo principale consiste nel consolidamento delle finanze pubbliche attraverso i tagli alla spesa;  questa mutazione si traduce in disparità complessive nella domanda e/o in malcontento dei cittadini e, a questo punto, “l’industria finanziaria era felice di intervenire con prestiti alle famiglie, a condizione che i mercati del credito fossero sufficientemente deregolamentati” (8). Nasce così l’economia del debito privato che Streeck descrive come una “conversione dei lavoratori insicuri – mantenuti volontariamente insicuri per renderli lavoratori obbedienti – in consumatori sicuri, convinti, che adempiono felicemente ai loro obblighi sociali consumistici anche di fronte alla fondamentale incertezza dei mercati del lavoro e della occupazione” (9).

Anche questa tuttavia, come ha drammaticamente certificato la crisi del 2008, si è dimostrata una soluzione insostenibile, eppure ciò non ha indotto le oligarchie neoliberiste a cambiare rotta. Di fronte all’esaurirsi dei margini temporali di sopravvivenza del sistema, perseguiti con cinquant’anni di guerra di classe dall’alto condotta con vari mezzi, si è reagito con nuovi tentativi di guadagnare tempo di cui il quantitative easing è un chiaro esempio: “la BCE ha guadagnato tempo per l’euro inondando i mercati di denaro, come surrogato della mutualizzazione del debito, per mantenere bassi i tassi di interesse e solvibili gli Stati membri” (10). Ma nemmeno così si è risolto il problema, come dimostra il recente grido di allarme con cui la signora Yellen, di fronte al dilagare del debito Usa, al drammatico aumento dei costi energetici e ai problemi generati dalla crisi pandemica del covid 19, ha evocato la possibilità che si riaffacci lo spettro della stagflazione, fenomeno che negli anni Settanta del 900 ha innescato il ciclo infernale appena descritto. Come se il capitalismo, impegnato in una sorta di gioco dell’oca, fosse finito in una casella che recita: “torna al punto di partenza”. 

In poche parole: tutti gli espedienti escogitati nell’ultimo mezzo secolo per guadagnare tempo sono falliti, e il capitalismo continua a ritrovarsi di fronte lo stesso problema: come garantire elevati tassi di profitto in un contesto di bassa crescita? Ebbene, risponde Streeck, nemmeno la catena di fallimenti cui è andato incontro possono indurre il sistema ad autoriformarsi e a cambiare rotta, per cui è lecito prevedere che “si cercheranno modi sempre nuovi per sfruttare la natura, estendere e intensificare l’orario di lavoro e incoraggiare ciò che il gergo chiama ‘finanza creativa’, in uno sforzo disperato per mantenere alti i profitti” (11). Il guaio è che, mentre negli anni Settanta si è riusciti a rinviare il disastro anche abbattendo drasticamente il costo del lavoro, oggi i margini per ridurlo ulteriormente sembrano esauriti, come certifica il dilagare dei populismi. E allora? Allora scattano le strategie che andiamo a descrivere nei prossimi paragrafi. 


Immanuel Wallerstein



II. Mercificazione senza limiti. Ovvero il capitalismo come cultura e stile di vita

La guerra di classe dall’alto messa in atto nei decenni seguiti alla rivoluzione neoliberista degli anni Ottanta ha potuto contare sia sui processi di delocalizzazione della forza lavoro nei paesi dove questa era a buon mercato e priva di tutele politiche e legali, sia su una radicale destabilizzazione dei regimi di protezione del lavoro nelle metropoli capitalistiche. A seguito del crollo del modello produttivo fordista e della fine del compromesso storico fra capitale e lavoro del trentennio glorioso, la classe operaia ha subito sconfitte devastanti, scrive Streeck, “anche per mezzo di una secolare espansione dell’offerta di lavoro disponibile, prima con l’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro e poi con l’internazionalizzazione dei processi produttivi” (11). Nello stesso periodo (gli anni Settanta e Ottanta), aggiunge, le famiglie e le comunità tradizionali perdono rapidamente autorità, offrendo ai mercati l’opportunità di riempire un vuoto sociale in rapida crescita, “che i teorici della liberazione contemporanei avevano scambiato per l’inizio di una nuova era di autonomia ed emancipazione” (12). 

Dopo avere notato, per inciso, che Streeck esprime qui implicitamente un giudizio analogo a quello di Boltanski e Chiapello (13) in merito alla complicità di fatto fra svolta liberista e culture libertarie post sessantottine, passiamo a descrivere come è potuta nascere questa paradossale equiparazione fra mercificazione dei mondi vitali ed emancipazione individuale. 

Un primo nodo riguarda la dilatazione del ruolo dei consumatori ai fini della conservazione, rafforzamento ed estensione del meccanismo di accumulazione allargata. Del ruolo giocato in tal senso dal debito privato si è detto, ma con quali altri mezzi si è potuto incentivare il consumo in tempi di vacche magre? Streeck parte da una riflessione antropologico/psicologica. La scarsità, argomenta, “è in misura considerevole una questione di immaginazione collettiva”, e di questo gli uomini del capitale sono perfettamente consapevoli, per cui sanno che il sistema può prosperare solo se i consumatori “possono essere persuasi a scoprire sempre nuovi bisogni e quindi a rendersi psicologicamente poveri”. Naturalmente la persuasione psicologica non basta se i consumatori non possono permettersi di soddisfare questi nuovi bisogni, ma qui subentra, assieme al debito privato, quel paradossale meccanismo che altri autori hanno definito Wal Mart Economy, con riferimento alla grande catena discount americana che, vendendo prodotti di provenienza cinese a basso costo, ha consentito di tenere bassi i salari degli operai americani. “Comprando magliette o smartphone a buon mercato, commenta Streeck, i lavoratori dei paesi ricchi come consumatori fanno pressione su loro stessi come produttori, accelerando il trasferimento della produzione all’estero e di fatto minando i loro stessi salari, condizioni di lavoro e occupazione” (14).

Un altro apporto dei consumatori alla conservazione del sistema, non solo sul piano economico ma anche su quello culturale, consiste nella “personalizzazione” dei prodotti promossa dal post fordismo: ”più i prodotti si avvicinavano alle specifiche dei consumatori, più questi ultimi erano disposti a pagare”. Il marketing coopta i consumatori come co-progettisti del prodotto o servizio che intendono acquistare, alimentando l’illusione che si tratti di una merce costruita “su misura” per le loro peculiari esigenze - un meccanismo che ha toccato l’acme con lo sviluppo del commercio e del marketing online (15). Nel rarefatto ambiente sociale delle relazioni virtuali, l’atto di acquisto può svolgere addirittura un ruolo di auto-identificazione e auto-rappresentazione “che distingue l’individuo da alcuni gruppi sociali mentre lo unisce ad altri “. Una relazione che contribuisce a indebolire le tradizionali identità di classe (Streeck usa il termine sociazione per definire questo tipo di relazioni fondate su legami deboli, tipiche dei rapporti fra utenti dei social network). 

Un secondo tema cruciale consiste nella conversione dei cittadini in clienti. A mano a mano che i governi si impegnano a gestire la transizione a un sistema politico post democratico (16), promuovendo la privatizzazione dei servizi sociali in ragione della presunta superiorità del privato sul settore pubblico (tipico in tal senso il modo in cui si sono legittimate le privatizzazioni di radio tv e Tlc, presentando il modello tradizionale come antiquato e non rispondente alle esigenze degli utenti) i cittadini vengono incoraggiati a percepirsi come clienti della pubblica amministrazione, ed essi accettano questo cambiamento di status, scrive Streeck, perché “la cittadinanza è per sua stessa essenza meno ’comoda’ della clientela e, se misurata con gli stessi criteri, è destinata irrimediabilmente alla sconfitta”. Questo perché “il ruolo di cittadino richiede una ben ammaestrata disponibilità ad accettare decisioni a cui ci si era originariamente opposti o che sono contrarie ai propri interessi. I risultati sono quindi solo raramente ottimali dal punto di vista dell’individuo” (17). Un altro argomento per presentare il neoliberismo come una società più favorevole all’emancipazione individuale.   

Veniamo infine al terzo fenomeno che, secondo Streeck, ha contribuito ad assecondare il progetto neoliberista, vale a dire il cambiamento degli stili di vita (in particolare di quelli degli strati medio-alti delle classi medie). Le società capitaliste occidentali sono sempre più formate da single, coppie senza figli o con pochi figli. Ciò è dovuto alla pressione di un’ideologia che impone all’individuo di considerarsi “imprenditore di se stesso”, il che comporta tirarsi il collo per accumulare “capitale umano” e lottare con il coltello fra i denti in una competizione di tutti contro tutti. I membri del ceto medio si trovano così a dover soddisfare obblighi di carriera e di consumo sempre più impegnativi, per cui devono passare sempre più tempo a lavorare. Le coppie, in particolare, hanno meno tempo da dedicare ai figli, per cui devono esternalizzarne la cura al mercato e “dipendono da una forza lavoro sotto pagata di domestici, in particolare di babysitter, che si solito sono immigrati, perlopiù donne”. Ricordiamo per inciso che un’autrice come Nancy Fraser (18), sostiene che questo processo di mercificazione del lavoro riproduttivo finirà per rivoltarsi contro il sistema, nella misura in cui questo rischia di segare il ramo su cui è stato seduto per secoli (cioè il lavoro di cura gratuito delle donne). Per parte sua Streeck mette in luce come, nell’immediato, si venga così a creare una spaccatura fra gli interessi della classe media autoctona e quelli degli immigrati, nel senso che i servizi a basso costo erogati dai secondi consentono alla prima di reggere i ritmi di lavoro e di vita infernali imposti dal mercato. 


Friedrich von Hayek



III. Il divorzio fra liberalismo e democrazia 

Le origini di ciò che chiamiamo post democrazia affondano le radici nella crisi del regime fordista: a fronte dei tassi di crescita sempre più bassi generati dalla crisi strutturale iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, il capitale reagisce aumentando i tassi di profitto attraverso una distribuzione sempre più sbilanciata a suo favore. La democrazia redistributiva del fordismo che, per trent’anni aveva agito come un volano della crescita, diventa un ostacolo per il funzionamento ottimale del modello neoliberista, quindi il capitale deve liberarsi dei vincoli e delle regole imposti dalle politiche economiche dei sistemi misti emersi dal compromesso postbellico fra capitale e lavoro. “Non c’è stato nessun putsch, scrive Streeck, le elezioni continuano a svolgersi, i leader dell’opposizione non vengono mandati in prigione  e le opinioni possono essere espresse liberamente sui media, sia tradizionali che nuovi. Tuttavia, man mano che una crisi si susseguiva a un’altra, e la crisi fiscale dello Stato di dispiegava, l’arena del conflitto distributivo si spostava verso l’alto e si allontanava dal mondo dell’azione collettiva dei cittadini verso luoghi decisionali sempre più remoti” (19).  

 Questi “luoghi remoti” sono, fra gli altri, le lobby in cui si concentra il “potere materiale” degli oligarchi, un potere che ha raggiunto dimensioni tali “da consentire alla riprovevole disuguaglianza economica che lo sottende di riprodursi a dispetto della democrazia politica. Questo perché permette ai super-ricchi di comprare sia le maggioranze politiche sia la legittimità sociale”. È il sistema delle “porte girevoli” che consente ai tecnocrati di trasferirsi dagli uffici governativi a quelli dell’alta finanza e viceversa, una pratica che certifica come la finanza rappresenti ormai un governo a sé, nella misura in cui gli Stati strozzati dal debito sono indotti a chiedere continuamente prestiti e consigli al settore finanziario privato. Il processo di finanziarizzazione dell’economia ha trasformato di fatto quest’ultimo “in un governo privato internazionale che disciplina le comunità politiche nazionali e i loro governi pubblici, senza essere in alcun modo democraticamente responsabile”.

Il punto di approdo di questo processo verso “una dittatura hayekiana di mercato” - con allusione alle tesi del guru del neoliberismo Friedrich von Hayek (20) - è quello che Streeck definisce Stato del consolidamento: “uno stato di consolidamento può essere descritto come uno Stato in cui gli obblighi commerciali di mercato hanno la precedenza sugli obblighi politici di cittadinanza, laddove i cittadini non hanno accesso a risorse politiche o ideologiche con cui contestarlo” (21). Un esempio evidente di tale regime è l’Unione Europea, la quale, più e meglio di uno Stato nazionale, può imporre la sua volontà ai governi democratici grazie all’indipendenza politica della BCE che “si traduce nella capacità senza precedenti di soddisfare gli interessi dei mercati finanziari e in una dipendenza senza precedenti da questi”. Le riforme istituzionali – come il Fiscal Compact - che la Unione ha imposto a paesi che, come l’Italia e la Francia, in precedenza accettavano un’inflazione e una spesa pubblica elevate per mantenere la pace sociale, hanno annullato il compromesso di classe che ne orientava le scelte di politica economica. 

Privati della possibilità di far valere i propri interessi attraverso i tradizionali canali di partecipazione democratica (anche a causa, è il caso di aggiungere, del tradimento di quei partiti e sindacati “di sinistra” che hanno assecondato la transizione alla post democrazia invece di opporvisi), i cittadini hanno avuto solo due possibilità: delegare ai movimenti populisti il ruolo di dare voce alla loro rabbia, oppure lasciarsi irretire dalle messinscene di un sistema politico che, espropriato di qualsiasi reale potere decisionale, si limita a gestire “un catalogo infinito di opportunità di pseudo-partecipazione e pseudo-dibattiti”, del quale fanno parte ”le guerre culturali, le scelte di vita, il politicamente corretto, l’età e il sesso dei politici, nonché il loro aspetto, il modo in cui si vestono e parlano” (22).


 IV. Una crisi senza fine?

Posto che, come si è visto, Streeck ritiene che nessuna delle strategie adottate dal capitalismo per uscire dalla crisi iniziata negli anni Settanta ha funzionato, ne deriva una domanda: il capitalismo ha un futuro? È lo stesso interrogativo che dà il titolo a un libro a più voci uscito nel 2013 e curato da Immanuel Wallerstein (23). Ed è appunto da questo libro che Streeck prende le mosse per tentare a sua volta di dare una risposta. 

In un primo momento Streeck si limita a elencare le tesi dei vari autori del libro in questione: 1) Wallerstein “colloca il capitalismo contemporaneo alla base di un ciclo di Kondrat’ev senza alcuna prospettiva di una nuova ripresa”. Prognosi negativa quindi, anche perché sempre Wallerstein considera definitamente e irreversibilmente esaurito l’odine mondiale fondato sull’egemonia del modello statunitense (e, com’è noto, sia lui che Giovanni Arrighi ritengono che il sistema capitalista non possa sopravvivere in assenza di un modello egemonico fornito da un paese guida); 2) Calhoun crede che il capitalismo verrà rimpiazzato da un’economia socialista centralizzata o da un capitalismo di Stato in stile cinese, dando per scontato che i mercati potranno esistere anche in futuro, anche se le modalità specificamente capitaliste della proprietà e della finanza saranno decadute; 3) Michael Mann traccia un modello di società umana che non si fonda su una serie di sistemi bensì su reti multiple e sovrapposte di interazione, quattro delle quali – potere ideologico, economico, militare e politico – sono le più importanti, per cui lo sviluppo del capitalismo è influenzato anche da ideologie, guerre e Stati; dopodiché prospetta “l’eventualità che un comportamento irrazionale interferisca con i calcoli razionali dell’interesse, persino dell’interesse della sopravvivenza”; 4) per Randall Collins il capitalismo è soggetto a una debolezza strutturale a lungo termine associata alla dislocazione tecnologica della forza lavoro umana alle macchine, per cui è convinto che “la dislocazione tecnologica della forza lavoro  porrà fine al capitalismo, con o senza l’ausilio della violenza rivoluzionaria, entro la metà di questo secolo”. Sempre Collins motiva tale convinzione con l’argomento che, mentre il lavoro è stato gradualmente sostituito dalla tecnologia da duecento anni a questa parte, con l’avvento dell’informatica e dell’intelligenza artificiale questo processo sta raggiungendo il suo apogeo” e, dopo aver distrutto la manodopera operaia, sta attaccando e annientando anche la classe media, per cui cui prevede tassi di disoccupazione del 50-70% entro la metà del secolo. 

Streeck ritiene che ognuna delle tesi appena elencate contenga un nucleo di verità, ma rifiuta di inquadrarle in un ordine gerarchico. La sua è infatti una diagnosi di multimorbilità in cui diversi disturbi coesistono e si rafforzano a vicenda, per cui espone il proprio punto di vista attraverso la seguente metafora: ”la fine del capitalismo può essere immaginata come una morte sopraggiunta per innumerevoli ferite o per una molteplicità di infermità, ognuna delle quali sarà tanto più incurabile quanto più tutte richiederanno cure contemporaneamente” (24). Questa crisi multipla è accelerata dal trionfo del capitalismo nei confronti dei propri nemici, nel senso che in passato socialismo e sindacalismo “ponendo un freno alla mercificazione, hanno impedito al capitalismo di distruggere i suoi fondamenti non capitalistici – fiducia, buona fede, altruismo, solidarietà all’interno delle famiglie e delle comunità, ecc. “. Col venir meno di tali ostacoli e risorse in questione sono destinate a un rapido deperimento: per usare la metafora di Nancy Fraser, citata in precedenza, il capitalismo sta segando il ramo su cui siede. O, per dirla con Polanyi, un  sistema politico interamente conquistato dagli interessi capitalistici non è in grado di proteggerli dalla distruzione. Tuttavia il fatto che la salvezza del capitalismo dipenda da una politica sensibile, almeno in parte, alle ragioni dei movimenti sociali, commenta Streeck, non impedisce ai singoli capitalisti di “fare un’ultima puntata prima che il casinò fallisca”.


Karl Polanyi



V. Chi può impedire il crollo e, se ciò è impossibile, cosa verrà dopo?

Se il compito della politica è impedire che la crisi degeneri in crollo, occorre riconoscere che si tratta di un compito impossibile. Per assolverlo, riportando il capitalismo nell’ambito del governo democratico, occorrerebbe niente di meno che, da un lato impedire che il lavoro, la terra e la moneta subiscano una completa mercificazione, dall’altro lato de-globalizzare il capitalismo. Ma oggi non esiste alcun governo dotato dell’autorità necessaria per farlo. È per questo che, argomenta Streeck, è ora di prendere atto del fatto che se il capitalismo è finora riuscito a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente ciò non significa che sarà in grado di farlo per sempre. 

Citando Lenin e Gramsci, Streeck, ricorda che, se è vero che un ordine sociale va in pezzi solo se e quando le sue élite non sono più in grado di mantenerlo, è altrettanto vero che, per spazzarlo via, ci devono essere nuove élite capaci di progettare e instaurare un nuovo ordine. Ma oggi queste condizioni non si danno:  la società capitalista si sta disintegrando, ma ciò non avviene per mano di un’opposizione organizzata che mira ad instaurare un ordine sociale migliore. Ciò significa che il capitalismo sopravvivrà comunque?  Niente affatto, risponde Streeck: “Perché il declino del capitalismo continui (…) non è richiesta alcuna alternativa rivoluzionaria e certamente nessun piano generale di una società migliore”; il sistema crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni interne e “come risultato della vittoria sui suoi nemici – che (…) hanno spesso salvato il capitalismo da se stesso costringendolo ad assumere una nuova forma” (25).  Dopodiché che cosa succederà? Avremo un lungo periodo di entropia sociale, risponde Streeck, un interregno in cui il capitalismo, prima di andare all’inferno, “resterà sospeso nel limbo, morto o sul punto di morire per overdose di se stesso, ma ancora molto presente, poiché nessuno avrà il potere di spostare il suo corpo in decomposizione dalla strada” (26). 

Per rendere ancora più macabro tale scenario, Streeck invita a riflettere sul fatto che esistono soggetti  sociali e politici (nei quali, aggiungo io, è difficile non riconoscere tanto i liberali “progressisti” quanto il radicalismo libertario “di sinistra”) convinti che “la disintegrazione sistemica e l’entropia sociale possono essere considerate un progresso storico verso la libertà individuale e una società libera”; convinti che “la vita in una società sottogovernata di questo tipo può essere glorificata come una vita in libertà. Non vincolata da istituzioni rigide e costruita autonomamente attraverso accordi volontari tra individui consenzienti che perseguono liberamente le loro priorità idiosincratiche” (27). 

Il sordido interregno che ci aspetta dopo il crollo durerà tanto più quanto più reggeranno i principi e i valori dell’etica neoliberale “di automiglioramento competitivo, di coltivazione instancabile del proprio capitale umano commerciabile”; la dedizione entusiastica al lavoro e l’accettazione ottimista e faceta dei rischi inerenti a un mondo senza governo politico; il culto della resilienza (“più resilienza gli individui riescono a sviluppare, scrive Streeck, meno domanda ci sarà per un’azione collettiva per contenere le incertezze prodotte dalle forze di mercato”); in una parola: l’esaltazione di una vita nell’incertezza come vita nella libertà. Vivremo – o meglio già viviamo - in un mondo governato da quattro imperativi: coping, hoping, doping, shopping. Coping, ovvero come gli individui rispondono con improvvisazioni alle emergenze inflitte da un ambiente sociale sottogovernato. Hoping, ovvero la speranza fiduciosa sostenuta da sogni tanto più coltivati quanto più irrealistici.  Doping, ovvero lo spaccio di droghe per i vincitori legali e altamente redditizie per  l’industria farmaceutica, illegali e altamente redditizie per il crimine organizzato per i vinti. Shopping, ovvero l’etica di “individui consumatori che aderiscono a una cultura dell’edonismo competitivo che deve rendere obbligatori speranze e sogni mobilitandoli per sostenere la produzione e alimentare il consumo nonostante la bassa crescita, le disuguaglianze e l’indebitamento”.


Considerazioni critiche conclusive

Il modo in cui Streeck descrive la crisi del sistema capitalista mi sembra difficilmente contestabile, anche e soprattutto perché ha l’indiscutibile merito di non limitarsi - a differenza di molti autori, anche in campo marxista - a coglierne solo gli aspetti economici, ma ne mette in luce la natura multiforme, chiamando in causa le contraddizioni e i problemi che coinvolgono gli equilibri geopolitici, ambientali, le istituzioni dello Stato, la cultura, gli stili di vita, ecc. Il suo, come si è più volte sottolineato nell’articolo che avete appena letto, è un approccio che rinvia a quello di Karl Polanyi, nella misura in cui il nocciolo duro – e la gravità – della crisi in atto da mezzo secolo viene identificato negli effetti controfattuali dell’assoluto trionfo neoliberista su ogni forma di resistenza delle classi subalterne; trionfo che comporta, da un lato, l’eccessiva estensione del processo di mercificazione di ambiti sociali in precedenza esclusi dai rapporti di mercato, dall’altro la neutralizzazione del ruolo di “freno” dei contromovimenti sociali che in passato avevano svolto il compito di preservare il sistema dalle sue stesse pulsioni autodistruttive (vedi la metafora di un sistema che sega il ramo su cui siede da secoli).

Il punto è: questa analisi giustifica la tesi sull’assenza di futuro del capitalismo? Possiamo davvero credere che il sistema sia destinato a crollare spontaneamente, senza subire spallate da parte di un progetto politico finalizzato a sostituirlo con un altro modello di società? Non si rischia così di ricadere in una visione determinista, “oggettivista”, del processo storico, accettando un punto di vista che rimpiazza l’imperialismo del paradigma economico con quello del paradigma sociologico? Abbiamo visto come, a un certo punto, Streeck chiami in causa Lenin e Gramsci, laddove costoro sostengono che un ordine sociale va in pezzi solo se e quando le sue élite non sono più in grado di mantenerlo, ma aggiungono che, per spazzarlo via, occorrono nuove élite che siano pronte (e capaci!) di progettare e instaurare un nuovo ordine. Ebbene, se la situazione fosse realmente questa, non si può negare ogni fondamento alla tesi del crollo, e di un susseguente interregno caratterizzato dal caos e dall’entropia, avanzata da Streeck. Prima di rassegnarci a un simile scenario, però, occorre ragionare su quello che considero il maggior punto di debolezza dell’analisi su cui tale scenario è fondato.

In primo luogo, va detto che il riferimento a Lenin e Gramsci è monco: è pur vero che Gramsci è l’autore della celebre (e di questi tempi fin troppo citata) battuta sul vecchio che muore ma il nuovo non  può (ancora) nascere. Ma è altrettanto vero che sia lui, e ancor più Lenin, non concepiscono la possibilità di un “vuoto” di potere. Lenin, in particolare, nega che esistano situazioni senza via di uscita, in cui il sistema vegeta senza trovare soluzioni: se ci sono le condizioni oggettive per rovesciarlo, ma soprattutto un soggetto politico in grado di sfruttarle, cade, altrimenti trova il modo di riprodursi e conservare il proprio potere. Forse si tratta solo di “tempo guadagnato”, come sostiene Streeck, ma quello che resta in piedi è pur sempre capitalismo, non un ibrido indefinibile, e tale resterà finché non nascerà un soggetto politico in grado di buttarlo giù.  

Per dirla altrimenti: ciò che manca nella visione di Streeck, è la dovuta considerazione del peso dell’elemento soggettivo nella storia. Una miopia che – assieme al persistere di un pregiudizio eurocentrico – gli impedisce di prendere in considerazione l’esistenza di un’alternative politiche esterne all’Occidente, alle metropoli americane ed europee. La sua spietata analisi dell’integrazione delle classi medie occidentali – disposte ad accettare il ruolo di consumatori, clienti di uno Stato “privatizzato”, nonché spettatori di una politica spettacolarizzata, personalizzata e ridotta a officiare le commedie del politicamente corretto – coglie nel segno. Ma siamo sicuri che è solo da questi paesi e da queste classi sociali che potrebbe/dovrebbe venire la spallata? Streeck letteralmente non vede l’assedio alle metropoli occidentali da parte della Cina (che cita solo episodicamente, dando per scontato che faccia ormai parte a tutti gli effetti del campo capitalista, ancorché di Stato) e degli altri Paesi socialisti in Asia e America Latina. Per concludere: con buona pace di Streeck, e non senza aver reso omaggio alla sua straordinaria capacità di analisi dei meccanismi della lunga crisi capitalistica dai Settanta a oggi, ritengo priva di fondamento la sua tesi “crollista”. Il capitalismo continuerà a sopravvivere, cercando e trovando scappatoie, ancorché precarie e temporanee, finché non matureranno uno o più soggetti sociali e politici in grado di dargli il colpo di grazia. Se ciò non dovesse succedere in tempi relativamente brevi, non andremo incontro a nessun interregno, bensì alla peggior barbarie.  


Note

(1) W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.

(2) G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008.

(3) W. Streeck, Come finirà il capitalismo. Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano 2021, p. 14.

(4) K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(5) Come finirà il capitalismo, cit., p. 32.

(6) Ibidem, p. 86.

(7) Ivi.

(8) Ibidem, p. 33.

(9) Ibidem, p. 12.

(10) Ibidem, pp. 163-164.

(11) Ibidem, p. 119.

(12) Ibidem, p. 123.

(13) L. Boltanski – E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.  

(14) Come finirà il capitalismo, cit., p. 46.

(15) Ho analizzato questo meccanismo in Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011. 

(16) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

(17) Come finirà il capitalismo, cit., p. 133.

(18) Cfr. N. Fraser, Fortunes of Feminism, Verso, London – New York 2015. 

(19) Come finirà il capitalismo, cit., p. 38.

(20) Cfr. F. von Hayek, la via della schiavitù, Rubettino, Cosenza 2011.

(21) Come finirà il capitalismo, cit., p. 157.

(22) Ibidem, p. 246.

(23) I. Wallerstein, R. Collins, M. Mann, G. Derluguian, C. Calhoun, Does Capitalism Have a Future, Oxford University Press, Oxford 2013. 

(24) Come finirà il capitalismo, cit., p. 27.

(25) Ibidem, p. 28.

(26) Ibidem, p. 61.

(27) Ibidem, p. 63.








mercoledì 15 settembre 2021

Afghanistan: come non lasciare un bel ricordo


di Piero Pagliani



La ressa nel tentativo di lasciare Kabul



Secondo i media e i commentatori mainstream, l'evacuazione degli Stati Uniti dall'Afghanistan è stato un orrendo errore. Ma c'è poco da obiettare alla risposta di Biden: “Those who say that 2 or 5 more years will bring us victory are lying to you”. Un'affermazione piena di saggezza che, confesso, mi ha sorpreso in una persona come Biden a cui io non ho mai dato molto credito, anzi. In venti anni non abbiamo vinto, ma perso terreno. Pensate proprio che in ventidue potremmo vincere? Questo è il (buon) senso dell'inquilino della Casa Bianca. 

La cosa a prima vista più stupefacente, fateci caso, è che se un presidente degli Stati Uniti fa un'affermazione sensata, i media e i commentatori occidentali vengono presi dall'isteria. Tanto che la vice Khamala Harris si è data alla fuga, al mutismo metodico: pensa alla sua carriera, quindi non vuole essere coinvolta in queste polemiche in cui si scatenano fissazioni di ogni tipo. Così ha deciso di lasciare da solo il suo capo nella bufera. Io non ci sono per nessuno. Non m'importa se qui, nel bene o nel male, si sta facendo la Storia del mio Paese. Io non esisto. Notevole per una vice presidente.

In realtà la decisione non è stata del quasi ottuagenario signor Joe Biden, ma del “Biden collettivo”, cioè quell'insieme di forze e di interessi che nel corso del tempo fanno la politica degli USA, che ha preso il testimone dal Trump collettivo che a sua volta lo aveva ricevuto dall'Obama collettivo. Tale è la storia della decisione di ritirarsi dall'Afghanistan. Storia dimenticata da commentatori e commentatrici  che vivono nel mondo di Papalla. 


Secondo gli ultrà dell'antimperialismo senza macchia, senza paura e senza dubbi, ma anche secondo i sostenitori della tesi del “complotto mondialista”, ovviamente demo-pluto-giudaico (per alcuni vi facevano parte anche Marx e Lenin perché di ascendenza ebraica!), secondo questi straordinari analisti che la sanno più lunga del Cremlino, della Casa Bianca, di Pechino, di Londra e così via, la decisione di Biden è stata sic et simpliciter la dichiarazione che l'impero USA-NATO è stato sconfitto dalle forze popolari afgane. 

Ora, che in un modo particolare che poi vedremo, ci sia stata una sconfitta dell'arrogante Occidente, è vero. Ma questo non vuol dire che Kabul sia stata una nuova Saigon (addirittura “al quadrato” per qualcuno). In realtà, al contrario del Vietnam dove gli USA e il suo esercito proxy sud-vietnamita sono stati drammaticamente sconfitti dai soldati del Nord e dai Vietcong del Sud al prezzo di 1 milione di morti tra i combattenti e di 2 milioni tra i civili, in Afghanistan gli USA non sono stati sconfitti sul campo, ma si sono sconfitti da soli, perché la loro “grand strategy” ideata dai neocons e iniziata nel 2001 non poteva funzionare, per una miriade di motivi che cercheremo di vedere sotto un particolare punto di vista.

Di questa grand strategy parlai in un libro edito nel 2003 da Punto Rosso. Si intitolava “Alla conquista del cuore della Terra. Gli Usa: dall'egemonia sul «mondo libero» al dominio  sull'Eurasia” (su Internet, i termini “egemonia” e “dominio” del titolo sono spesso scambiati, non so perché). Per prepararlo avevo scartabellato centinaia di studi e decine di riviste internazionali che non mi portarono ad avere una conoscenza dei problemi dell'Asia Centrale e del Caucaso, ma se non altro mi permisero di farmi un'idea un po' meno cialtrona delle analisi propinate dai media e dai libri mainstream.

In seguito i miei interessi si concentrarono di più sull'India, ma non persi l'abitudine di andare a vedere le fonti che si erano rivelate più informate e intelligenti riguardo ai problemi del “cuore della Terra”.

Dieci anni dopo scrissi due volumi che intitolai “Al cuore della Terra e ritorno” (liberamente scaricabili da Internet). Avevo iniziato a vedere che, al di là di ciò che succedeva sui campi di battaglia e si diceva nelle narrazioni in voga, l'andamento della crisi sistemica (che coinvolge cioè non singoli settori economici e non solo l'economia, ma anche la politica e la geopolitica, e non singole nazioni) stava imponendo un “ritorno”, cioè una ritirata (molto contraddittoria e con impressionanti ritorni di fiamma): dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione, dall'espansione imperialistica.

Così, lasciata posare la polvere sollevata dal “momento Kabul”, ho deciso di tentare di fare un primo (e necessariamente lacunoso) punto su ciò che sta succedendo.


1. Lo strano attacco dell'ISIS-K

Iniziamo con questa orrenda strage, chiamata “Abbey Gate massacre”. Secondo fonti della BBC molte delle persone morte durante l'attacco ISIS all'aeroporto di Kabul sono in realtà state uccise da proiettili statunitensi [1].

Adesso c'è un rapporto dal Kabul Emergency Hospital che rivela che “all victims were killed by American bullets, except maybe 20 people out of 100.” (esiste anche un reportage in lingua Dari, quella dei Tagiki, con commenti esplicativi in Inglese, di una notevole “street-level TV”, Kabul Lovers, che mortifica i grandi network) [2].  

In realtà oltre alle vittime civili sono stati ammazzati anche 30 miliziani talebani [3]. 

Secondo l'Ansa, ciò è stato causato dalla “confusione” che si è creata con le bombe suicide. E' possibile. Ma la presenza dell'ISIS in Afghanistan è stata pianificata:


A) Molti miliziani dell'ISIS (che, non bisogna mai dimenticare, sono stati organizzati, equipaggiati e addestrati da USA, Qatar e Sauditi [4]), sono stati messi in salvo dalle regioni della Siria occupate  dall'alleanza SDF-USA e da Idlib tramite un ponte aereo coordinato dagli Stati Uniti con terminali le province di Konar e Nangarhar nell'Afghanistan orientale (altri sono stati dislocati nello Xinjiang cinese, nelle zone del Myanmar abitate dai Rohingya e al confine con lo stato indiano conteso del Jammu & Kashmir).

B) I servizi segreti talebani avevano avvisato gli Stati Uniti che l'ISIS-K stava preparando un attentato all'aeroporto e di stare in allerta. Allarme che sempre di più pare sia stato recepito solo a parole.

C) Lo stesso ex presidente Afghano di fiducia della NATO, Hamid Karzai, ha descritto l'ISIS-K come “uno strumento degli Stati Uniti”. 


Come gli Stati Uniti intendano utilizzare questo loro “strumento” (che pochi anni fa, in relazione alla Siria, il Pentagono stesso descrisse come “l'unico reparto operativo dell'esercito saudita”, cioè dell'esercito di un loro strettissimo alleato), può essere per ora solo oggetto di speculazioni. Una di esse, non campata per aria, è che sia usato per controllare e tenere sotto scacco il futuro nuovo governo afgano, qualsiasi esso sia. Questa ipotesi potrebbe spiegare come mai gli USA si siano subito affrettati ad ipotizzare una collaborazione militare e di intelligence coi Talebani contro l'ISIS, ipotesi rigettata al mittente in quanto evidente tentativo di rimettere i piedi nel Paese asiatico (anzi, vedremo che i Talebani stanno tentando di smantellare le due reti di intelligence messe in piedi dalla CIA nel loro Paese, cosa non riportata da nessun media mainstream occidentale).

Un'altra ipotesi deriva dalla constatazione che il sempiterno Piano B degli USA recita: “Se le cose vanno storte, lasciare dietro di sé il caos”, un caos che qualcun altro dovrà affrontare.

Ad esempio, dopo aver trasformato l'Ucraina in uno stato fallito, l'odierna strategia di Washington è lasciare la patata bollente alla Germania e alla Russia. Cosa che ovviamente potrebbe avere un risvolto negativo per gli USA, ovvero una rinnovata e ampliata collaborazione tra i due Paesi europei, se non fosse che Washington lascia sempre sul campo una quinta colonna: in Ucraina le formazioni politiche e paramilitari naziste, in Afghanistan l'ISIS e, come vedremo, al-Qaida. 


2. Il problema dei Talebani: instabilità, divisioni etniche e complessificazione della società afgana

Il “nuovo” Afghanistan difficilmente sarà stabile. I Talebani sono tutti di etnia Pashtun, che conta solo il 42% degli Afgani. Le altre etnie fanno eventualmente riferimento ad altri “signori della guerra” che possono o non possono allearsi con i cosiddetti “studenti coranici”, a seconda dei loro interessi. In secondo luogo i Talebani non sono una formazione compatta, ma una sorta di federazione di combattenti organizzati su base clanica, tribale e regionale. Non solo, sono attualmente contrapposti al loro interno tra i “negoziatori di Doha” (uomo di riferimento Abdul Ghani Baradar), la rete politico-militare Haqqani (uomini di riferimento Haji Mali Khan e Anas Haqqani), molto collegata ai servizi segreti pakistani e quella nazionalista del giovane Mullah Yakoob (figlio di Mullah Omar). Il cemento ideologico dei Talebani, ovvero la loro dottrina nazional-fondamentalista, sostenuta dai wahhabiti sauditi, definibile “neo-Deobandi” [5] (qualcosa di sconosciuto ai nostri media), dovrà vedersela con la complessificazione della società afgana che oggi è molto diversa da quella di venti anni fa. 

I Talebani sono tradizionalmente visti nelle città, e specialmente a Kabul, come degli alieni, così come, reciprocamente, essi considerano Kabul una sorta di “pianeta proibito”. 

Infatti Kabul, così come Herat e Mazar-i-Sharif, è abitata in maggioranza da Tagiki, che non sono organizzati su base tribale e formano anche la crème intellettuale (e religiosa) dell'Afghanistan. Questa ostilità delle città nei confronti dei Talebani si è ampliata con l'ampliarsi della classe media, col diffondersi di altri stili di vita, di altre conoscenze e modi di pensare permesso dall'occupazione della NATO (questo effetto delle occupazioni occidentali nei Paesi del Sud del mondo, effetto non totalmente controllabile dall'occupante e non totalmente asservibile alle sue esigenze, è una costante storica che ho già avuto modo di sottolineare e che benché faccia capo ad alcune élite locali, spesso ha svolto ruoli positivi nel Paese occupato, dinamizzandone la società e fungendo da elemento chiave anche nella lotta per l'indipendenza – può essere difficile da comprendere o da digerire, ma la Storia dice questo, vedi India e vedi Algeria, per fare due esempi). 

Di questo profondo cambiamento sono testimonianza le manifestazioni di protesta che vediamo in questi giorni, impensabili durante il primo regime talebano. 

Le dichiarazioni ufficiali di “moderazione” da parte dei portavoce del movimento riflettono queste difficoltà che si intersecano con la necessità di riconoscimento internazionale, ma si tenga conto che i propositi di moderazione dei vertici, così come quelli di “magnanimità” nei confronti di chi ha collaborato con gli occupanti, possono essere disattesi man mano che si scende al livello di capi locali e di singoli miliziani (a dire che vendette anche sanguinose e repressioni vecchio stile dei costumi “liberali” sono sicuramente da aspettarsi).



I Talebani entrano a Kabul 




3. Gli accordi con Washington

I Talebani hanno firmato con gli USA impegni in cambio dell'evacuazione delle forze NATO. A mio avviso sono impegni soprattutto geopolitici. Sicuramente gli USA vorranno controllare che essi  vengano rispettati e per far ciò utilizzeranno vari mezzi. L'uso della pressione economica deve essere molto misurato, per impedire massicce incursioni economiche e finanziarie della Cina. Le pressioni saranno quindi soprattutto politiche e oltre alla minaccia di isolamento (dall'Occidente) comprenderanno quelle di carattere “militare” ottenibili mobilitando le quinte colonne di cui sopra.  Proprio il fatidico 31 agosto è rientrato in Afghanistan l’ex capo della sicurezza di Bin Laden, Amin-ul-Haq, esponente di spicco di al-Qaida, senza che gli USA abbiano avuto sostanzialmente niente da ridire. Non è una sorpresa, essendo stata apertamente questa organizzazione uno “strumento” USA durante la guerra contro la Repubblica Democratica dell'Afghanistan e l'Unione Sovietica (guerra fortemente voluta da Zbigniew Brzezinski, consulente per la Sicurezza di Carter), nella guerra di Bosnia, in quella in Kosovo, nello Yemen, in Libia e in Siria.

Occorre poi citare altri due strumenti che sono ignoti alla grande maggioranza dei nostri commentatori (che pare si limitino a passare veline o a scopiazzare i giornali anglosassoni – ovviamente non i migliori quali il realmente prestigioso The Nation). Si tratta della Khost Protection Force (KPF) e del National Directorate of Security (NDS), entrambi assets della CIA. Si presume che durante l'occupazione fossero composti da un minimo di 3.000 a un massimo di 10.000 persone ed avevano compiti di polizia segreta, di intelligence e di squadroni della morte (e qui si capisce perché non vengano mai citati, a parte l'ignoranza) [6].

I Talebani stanno cercando di neutralizzarne le rimanenze. Si sa che le cellule dormienti talebane  infiltrate negli apparati dell'amministrazione fantoccio sono riuscite a mettere le mani sulle liste dei nomi e che il famoso “bussare alla porta delle abitazioni” e i cordoni talebani di isolamento all'aeroporto di Kabul che hanno fatto scattare l'isteria dei media e del pubblico occidentali, in larga parte riguardano la ricerca dei membri del KPF e dell'NDS [7].

Infine nel Panshir c'era (c'è?) il movimento guidato da Massud jr, il figlio del “leone” Ahmad Shah Massud. Anche in questo caso l'approssimazione dei nostri media è sconfortante. Per anni Ahmad Shah fu visto e descritto come un tollerante difensore della libertà contro i Talebani, dimenticandosi volutamente, o non sapendo, che si era macchiato di pesanti crimini di guerra, anche contro le donne [8]. Era anche un antico alleato del generale Dostum, un bieco traditore del governo della Repubblica Democratica dell'Afghanistan, una sorta di Pinochet. Oggi la resistenza del figlio del “leone del Panshir” è stata appaltata ad Amrullah Saleh, l'ex vice-presidente afghano, che è apertamente considerato un asset della CIA. Ma la resistenza nel Panshir a regola fa parte anche degli interessi britannici. Dato questo quadro, lascia di sasso che venga presa per buona la notizia che Putin avrebbe avuto intenzione di intervenire con l'aviazione nel caso i Talebani fossero avanzati nella valle. Basterebbe riflettere sul fatto che Putin è uno statista prudentissimo che nel Donbass ha giocato di fioretto per non essere coinvolto e che ha centellinato col bilancino l'intervento in Siria. E basterebbe riflettere sul fatto che il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov, ha dichiarato che Mosca vuole una soluzione politica pacifica tra Massud e i Talebani  (“come tutte le Potenze”, ha aggiunto), ma che non intende minimamente fare da mediatrice (figuriamoci intervenire militarmente – a fianco della CIA poi) [9].  

Adesso i nostri media strillano disperati che Massud è stato lasciato solo da Russia e USA nonostante le promesse. Per la Russia abbiamo visto. Per quanto riguarda gli USA, non vi sembra imbecille pensare che una potenza che si ritira da tutto l'Afghanistan il 31 agosto lasciandosi indietro tonnellate di armamenti, il primo settembre vi rientri dal Panshir per affrontare le forze con cui ha concluso un accordo e che di fatto ha contribuito ad armare? Ogni tanto mi sembra che i nostri media, i nostri politologi, i nostri commentatori e molti nostri politici siano in preda a disconnessione cognitiva (i nostri militari sembrano invece avere i piedi più per terra, vedi il generale Carlo Jean).


4. Chi ha realmente sconfitto gli Stati Uniti in Afghanistan?

Il famoso e sbandierato raid della vendetta contro l'ISIS a Jalalabad (la capitale della provincia di Nangarhar – vedi sopra) in realtà si è concretizzato nello sterminio di tre famiglie: 12 civili inclusi 7 bambini tra i 2 e i 10 anni. Non è una novità per gli USA: in Afghanistan e in Pakistan sono anni che compiono queste eroiche imprese. Sono i risultati di quella che è stata chiamata la “dronificazione della violenza di stato” [10]. 

Non c'è allora da meravigliarsi del ripetersi dei “momenti Saigon” cioè la fuga precipitosa degli Usa inseguiti dall'ira dei legittimi abitanti delle nazioni in cui intervengono con arroganza e violenza, vedi Vietnam, vedi Libano, vedi Somalia, e vedi adesso Afghanistan [11].

In una larga parte del mondo c'è un reale odio/astio/profonda diffidenza contro gli Stati Uniti che i  media e i politici occidentali vogliono ovviamente nascondere utilizzando spesso il successo mondiale della cultura pop – e non solo – americana. Questo successo è reale, solo gli antiamericani senza se e senza ma, i sognatori romantici dei bei tempi andati, i devoti delle sane tradizioni locali (non importa quanto retrograde siano), e gli ultrà antimperialisti, possono negarlo. Il successo c'è ed è spiegabile. 

Tuttavia anche la cultura dell'antica Roma aveva un successo mondiale, un successo che si è protratto per secoli e secoli anche dopo la caduta dei due imperi, occidentale e orientale. Ma ciò non toglie che i due imperi caddero. 

Gli imperi cadono per vari motivi e gli studiosi più attenti hanno cercato di distinguere ciò che varia da ciò che è costante nella storia di queste cadute (in definitiva, un po' in ogni settore, gli studi seri servono proprio a questo). 

Cosa sta succedendo allora all'impero statunitense?

Cerchiamo di rispondere intanto a un'altra domanda: Kabul è stata veramente una nuova Saigon? I Talebani sono veramente i nuovi Vietcong?

So che anche qui farò infuriare alcuni, ma ripeto ancora una volta: no, non è così. Nonostante certe suggestive analogie iconografiche (gli elicotteri che si danno alla fuga) Kabul non è Saigon e i Talebani non sono i Vietcong. Le modalità di evacuazione degli USA da Kabul hanno poco a che vedere con la fuga precipitosa da Saigon, a parte qualche fermo immagine (ad esempio, gli agenti segreti statunitensi e dei Paesi Nato in quei giorni entravano e uscivano da Kabul liberamente). E i Talebani non sono né i Vietcong né il Partito Comunista vietnamita, non lo sono per ideologia e non lo sono per le modalità con cui hanno riconquistato l'Afghanistan. E in questo giudizio non interviene il fatto che la mia simpatia per i Talebani sia simile a quella che ho per la Santa Inquisizione.

Una forza retrograda e reazionaria, nel migliore dei casi – ed è ancora da vedere se il caso qui in discussione è uno di essi – può temporaneamente essere di ostacolo all'imperialismo (come sapeva anche Lenin, proprio a proposito dell'Afghanistan e del suo “emiro reazionario”), ma nel medio periodo, nemmeno in quello lungo, farà scelte di campo che con l'antimperialismo non c'entreranno niente. E' una questione di progetto. A meno che con “antimperialismo” si qualifichi uno scontro geopolitico e basta. Si ricordi che l'imperialismo storicamente si è basato su forze reazionarie locali.

Degli accordi con Washington frutto di una negoziazione di sei anni (tre segreti e tre ufficiali) abbiamo già parlato [12]. Possiamo aggiungere che i maggiori leader talebani attuali erano tutti in prigione e sono stati liberati dagli USA proprio per condurre quei negoziati.

Il punto centrale del discorso è che gli USA in Afghanistan non sono stati sconfitti. I 2.400 morti statunitensi in 20 anni non sono i 58.000 nei 10 anni di coinvolgimento pesante in Vietnam (dalla famosa escalation alla sconfitta). 

Ciò che forse più accomuna il “momento Saigon” al “momento Kabul” è una profonda crisi sistemica  che gli USA e l'Occidente non sanno più gestire e che oggi si associa alla possibilità di due Potenze, Cina e Russia, di contrapporsi in modo diretto sia militarmente sia economicamente alla superpotenza americana (persino l'Iran lo può fare: si pensi agli attacchi missilistici dell'8 gennaio 2020 contro le basi statunitensi in Iraq seguiti all'assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, ai quali gli USA non hanno risposto per il semplice motivo che non potevano farlo senza finire in un disastro – fu una scelta saggia ma obbligata).

E quindi qui sta il punto cruciale, su cui occorrerà ritornare in modo specifico: gli Usa non sono sconfitti, gli USA si stanno esaurendo. Questa sarà, a mio avviso, la dinamica della fine dell'impero statunitense. Certo, in linea teorica può succedere che gli USA vengano sconfitti in modo drammatico in un conflitto periferico o semi-periferico suscitato da quelli che Paul Craig Roberts, ex sottosegretario al Tesoro di Reagan, definisce “the crazy freaks in Washington” (misti repubblicani e democratici), ma la Russia e la Cina sanno perfettamente che se è vero che occorre bastonare il cane che affoga, è meglio anche essere molto prudenti con la tigre ferita e daranno poche possibilità ai crazy freaks di scatenare la loro pazzia.

Vediamo alcuni fatti “culturali” (cioè non relativi al cuore della crisi sistemica) che spiegano le difficoltà statunitensi.


Fatto 1. Gli Usa sono nel pieno del fenomeno detto di “sovradimensionamento strategico” che è  stato un elemento chiave costante nel crollo degli imperi: per mantenere le stesse posizioni devo ampliare sempre più il campo di intervento [13]. È un paradosso che io chiamo paradosso di Alice (che doveva correre sempre più velocemente per rimanere almeno ferma), che si combina con la crisi economica, con la conseguente finanziarizzazione che non è altro che la costruzione di un immane colosso dai piedi di argilla pronto a crollare, e con l'emergere di potenti competitor internazionali che non fanno crollare il colosso d'argilla in parte perché ne rimarrebbero coinvolti economicamente, ma più che altro perché temono le conseguenze telluriche politiche e militari di un tale crollo, se fosse subitaneo e incontrollato.

Qualche osservatore rintronato, volendo applicare agli altri gli schemi mentali e politici americani, sostiene che la Russia vorrebbe che il Rublo sostituisse in Dollaro come valuta internazionale e la Cina il suo Yuan. Scemenza. Russia e Cina non hanno assolutamente voglia di sostituire gli USA come guardiani del mondo né vogliono che la loro valuta nazionale diventi la moneta di scambio internazionale. Stanno ben vedendo come sta andando a finire in America e non vogliono ripetere gli stessi errori [14].


Fatto 2. Il sovradimensionamento strategico fa sì che gli “interessi nazionali” siano spinti, sia geograficamente sia idealmente, in periferie sempre più lontane. Il risultato è combattere guerre con soldati che non capiscono assolutamente perché vanno ad ammazzare e a morire chissà dove e con dietro una nazione che fa altrettanto. Soldati che si trovano, vuoi in Afghanistan, vuoi in Iraq, vuoi in Somalia o altrove nel mondo, solo perché la loro alternativa di vita in America era diventare poliziotti o criminali (o solo per avere la cittadinanza). Di fronte si trovano invece combattenti che, tanto per iniziare, combattono nel proprio Paese e che spesso oltre che da un motivo nazionale sono mossi da forti motivazioni ideali (che ci possano piacere è un altro discorso). Ad essi non si contrappongono combattenti statunitensi con forti motivazioni contrapposte (quelli che le hanno sono un'esigua minoranza) bensì persone che dentro di sé hanno il vuoto e la paura e spesso la cognizione dell'inutilità o a volte anche dell'immortalità di quel che fanno.

Anche per questo motivo gli Usa non vincono più una guerra dal 1945, benché abbiano costantemente tentato di replicare il clima di mobilitazione ideale della II Guerra Mondiale dando del “dittatore sanguinario” o del “nuovo Hitler” a ogni loro avversario, chiunque fosse. Al massimo possono vincere nazioni disarmate, come Panama. O, per l'appunto, far stragi di civili.


Fatto 3. Alcuni commentatori affermano che a differenza della Gran Bretagna, gli USA non hanno i mezzi culturali, le capacità politiche e le abilità diplomatiche per mantenere un impero.

Sono d'accordo, molto d'accordo, e per i motivi che seguono.

Gli Stati Uniti nascono grandi e grossi. Non sono una piccola isola con pochi abitanti che ha necessità di espandersi ma deve fare i conti con risorse limitate e che quindi mobilita abilità e intelligenza più ancora che forza militare. Come avrebbe fatto la Gran Bretagna a soggiogare per tutto quel tempo un'India con 400 milioni di abitanti usando solo 84.000 soldati britannici al massimo?

Si pensi all'ossessione britannica per la conoscenza, fin nei minimi particolari, delle regioni che occupava. Sentite ad esempio cosa dichiarava Lord Curzon, alla Camera dei Lord il 27 settembre 1909:

La nostra familiarità non solo con le lingue dei popoli dell’Est, ma anche con i loro costumi, i loro sentimenti e le loro tradizioni, la loro storia e le loro religioni, insomma la nostra capacità di comprendere ciò che può essere chiamato “il genio dell’Est”, è il solo fondamento in base al quale possiamo sperare di mantenere in futuro la posizione che ci siamo conquistata”. 

E nel 1914 alla Mansion House ribadiva che gli studi orientali non erano un lusso intellettuale bensì “un grande obbligo imperiale. E’ mia opinione che la creazione di una scuola di questo tipo a Londra [cioè di studi orientali ]debba far parte dell’indispensabile attrezzatura per il governo dell’Impero.”

E infatti questa scuola fu fondata e divenne la London University School of Oriental and African Studies.

Che altro sostiene il magnifico saggio di Edward Said “Orientalismo”? Proprio questo, cioè  l'importanza cruciale della, diciamo così, conquista cognitiva del mondo da parte britannica. La Gran Bretagna non poteva affidarsi esclusivamente o prevalentemente alla forza bruta.

Gli USA invece sì. Nascevano grandi, forti, spregiudicati (sterminio dei nativi), protetti dalla geografia e con l'obiettivo che la loro grandezza doveva contrapporsi a quella dell'Impero Britannico (visto per decenni, dopo la Guerra di Secessione che servì a sbarazzarsi delle forze filo-britanniche, come il principale avversario). 

E così, nel 1926 l'agente segreto britannico Gertrude Bell fece nascere quel Museo Nazionale di Baghdad che nel 2003 sarà saccheggiato e bruciato sotto gli occhi complici dagli statunitensi [15]. 

Basterebbe anche solo questo per dimostrare che, sì, in effetti gli USA non hanno i mezzi culturali per mantenere un impero.

E non hanno quelli diplomatici, essendo la loro diplomazia basata sulle minacce e la corruzione (le raffinatezze usate dall'agente segreto - e archeologo esperto di Vicino Oriente - Thomas Edward Lawrence nella Rivolta Araba, se le potevano solo sognare).

Non c'è partita per il povero Tony Blinken contro Wang Yi o Sergej Lavrov.



La foto choc dei fuggitivi caduti dall'aereo  




5. Il caos di Kabul e l'impossibile “afganizzazione” della guerra

Il caos che si è creato nei giorni di fine agosto all'aeroporto di Kabul è dovuto a diversi fattori. Intanto si tenga conto che a Kabul i Talebani, come si è già detto, avevano da tempo infiltrato cellule in sonno. Ma queste cellule non avevano ricevuto l'ordine di attaccare. Il problema è che il governo fantoccio, le sue forze di sicurezza e il suo esercito si sono sciolti come neve al sole a una velocità sorprendente, sì che si è creato un vuoto di potere, amministrativo e d'ordine, che a quel punto poteva essere riempito solo dai Talebani. E così è stato. E questo ha completamente spiazzato i tempi e le modalità di evacuazione previsti da Washington e dalla Nato. Tempi per altro già stretti: si pensi che l'evacuazione dell'Unione Sovietica avvenne in 18 mesi.

E qui è utile un excursus. Le forze militari addestrate ed armate dalla combriccola USA-NATO hanno il vizio di collassare. Successe dopo la “vietnamizzazione” del conflitto nel Sudest asiatico agli inizi degli anni Settanta. Ci vollero circa cinque anni, perché l'intervento statunitense e alleato era stato mastodontico, ma infine i proxy vietnamiti del Pentagono crollarono.  Invece nell'agosto del 2008 in Georgia l'esercito para-NATO (e coadiuvato da Israele) crollò in un batter d'occhio. L'impero era convinto di aver costruito in quel Paese una forza militare coriacea. Così la mandò a provocare la Russia in Ossezia del Sud, nel Caucaso. Benché in quel momento fosse sommersa da problemi, la Russia sconfisse l'escrescenza georgiana della NATO in tre giorni, fermandosi davanti alla capitale georgiana, Tbilisi, solo per convenienza politica. E qualsiasi generale NATO serio vi dirà che ogni attacco convenzionale occidentale alla Russia verrebbe fermato catastroficamente sulla linea di confine (mentre secondo uno studio di Princeton una guerra non convenzionale anche limitata - cioè solo con attacchi nucleari tattici - causerebbe in Europa più di 85 milioni di morti in soli 45 minuti). 


6. E il futuro? Si vede poco, bisogna che la nebbia si diradi

L'isteria occidentale per l'Afghanistan trainata dai media sta man mano scemando e tra poco cesserà, a  meno di eventi eclatanti. Riemergerà a tratti per un fatto di sangue, per qualche episodio di repressione brutale e di intolleranza, per qualche scontro nel Panshir, per i profughi. O magari per qualche episodio di terrorismo. Ma il ritiro dall'Afghanistan, voluto da Obama, avviato da Trump e conclusosi con Biden, è stata una decisione strategica degli USA e quindi anche in Europa calerà un sostanziale silenzio. Era ovvio che finiva così. Parimenti la “brutta figura” di Biden alla fine verrà dimenticata. C'è chi sostiene di no, ma io penso proprio di sì, tenuto conto che gli elettori statunitensi tradizionalmente non votano sulla politica estera che a loro interessa solo nei suoi risvolti ed effetti interni. Uscire dall'inutile pantano afgano era infatti una priorità di politica interna e lo è stato, per l'appunto, prima per Obama, poi per Trump e infine per Biden. Ovviamente i tempi li ha dettati il Pentagono.

Rimane da vedere come gli USA gestiranno questa congiuntura. Abbiamo visto più sopra le teste di ponte che essi mantengono in Afghanistan. Probabilmente cercheranno di esternalizzare agli UK la gestione della patata bollente che hanno cucinato e tramite gli UK alla Russia e alla Cina. Già ci sono state le avance britanniche verso queste due potenze che per ora hanno fatto orecchie da mercante.

Cina e Russia sono infatti molto guardinghe. Temono, a ragione, che il piano statunitense sia propagare il caos afgano agli stati ex sovietici, alla Russia stessa, alla regione del Xinjiang-Uiguri cinese e all'Iran. 

La Russia punta quindi a rinforzare i già stretti legami con Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran. Intense consultazioni tra questi attori si sono e si stanno svolgendo e la Russia ha già annunciato che rafforzerà la difesa di questi Paesi. Ciò che stupisce è che questo rafforzamento della Russia nella strategica Asia Centrale (così strategica che fu l'obiettivo principale degli USA dal 2000 in poi), avviene senza che Washington batta ciglio, almeno apparentemente.

I Cinesi dal canto loro immaginano che nei patti concordati con Washington si richiede che i Talebani facciano da argine in qualche modo alla Belt and Road Initiative (BRI), cioè alla nuova Via della Seta. I Cinesi però sanno aspettare e hanno dalla loro la più forte economia del mondo. Anche per loro per adesso la priorità principale è la sicurezza. 

In realtà i Talebani si sono recentemente detti entusiasti per la BRI. Ma sarà vero? E' solo una minaccia per negoziare termini migliori con gli USA? Vedremo. Io oggi non ne ho idea. Vedo solo che gli USA e l'Europa scalpitano per allacciare relazioni diplomatiche ed economiche col nuovo Emirato Islamico. Aspettano che la situazione si stabilizzi e che i dirigenti talebani assicurino almeno a parole il rispetto dei diritti delle donne, anche se non si capisce cosa ciò voglia dire. Vuol dire potersi istruire e lavorare? Poter accedere a cariche governative? Poter non indossare il burqa? Poter fare il bagno in bikini (cosa, sia detto incidentalmente, che è possibile nella Siria di al-Assad, odiatissima dall'Occidente)? Questo più che un problema afgano è un problema di dissimulazione per l'ipocrisia occidentale – vedi i languidi amori con l'ultra reazionaria Casa Saudita. Immagino quanti nelle cancellerie occidentali stanno oggi dicendo: “Come siamo stati fessi. Per due decenni abbiamo detto che occupavamo l'Afghanistan per difendere i diritti delle donne e la democrazia. Ce ne siamo andati via facendo infuriare in Occidente e mettendo in pericolo chi in Afghanistan ci ha creduto. E così ci siamo cuciti addosso da soli inutili ostacoli ideologici ai nostri interessi (che con la democrazia e i diritti delle donne non c'entrano nulla) [16]”.

Per finire, nessun commentatore mainstream ha citato il concomitante ritiro di sistemi di difesa contraerei americani da diversi Paesi arabi, comprendenti l'Arabia Saudita (la più interessata dal ritiro), l'Iraq, il Kuwait e la Giordania.

I motivi? Varie ipotesi. La più meccanica ma meno verosimile è per reimpiegarli contro la Cina (come se gli USA non ce ne avessero altri). Una delle più plausibili è apparecchiare la tavola per nuovi negoziati con l'Iran [17].

In questo caso avremmo l'ampliamento di uno scenario che potrebbe indicare la scelta di una strategia più accomodante da parte di Washington. Una strategia più saggia: impossibile rimanere l'unica superpotenza, si va inesorabilmente verso un mondo multipolare, cerchiamo di guadagnare le migliori posizioni in questo mondo irriconoscibile rispetto a quello uscito dalla II Guerra Mondiale. Una strategia necessariamente piena di contraddizioni, di contorcimenti, di colpi di coda e di effetti imprevisti. Ma l'unica di buon senso.

Dopo tutto, quello che ho chiamato “esaurimento” dell'impero statunitense, non significa collasso verticale degli USA. Sono pur sempre una nazione straordinariamente potente, straordinariamente grande e che occupa una posizione straordinariamente vantaggiosa in termini geopolitici (di fatto sono un'enorme isola, non avendo nemici confinanti, ed è bagnata dai due più grandi oceani commerciali del mondo). E occupa una terra straordinariamente ricca. Basti pensare al Midwest, la distesa di terre arabili contigue più vasta del mondo, solcata dai maggiori fiumi navigabili del mondo, Mississipi e Missouri. 

In una posizione meno favorevole, l'Italia continuò ad avere il maggior PIL pro capite del mondo anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, fino al 1.600, quando fu sorpassata dall'Olanda. 

Io penso che i maggiori problemi per gli USA nasceranno dai loro assetti sociali e politici interni che saranno messi a dura prova dall'esaurimento dell'egemonia globale statunitense, le grandi sacche di una  povertà che è irredimibile nel sistema socio-economico predominante e si è ampliata notevolmente con la pandemia, la frantumazione delle élite dirigenti e degli interessi dominanti che non permette linee politiche omogenee di alcun tipo. Problemi che avranno possibili conseguenze sui rapporti tra i vari Stati federati. Ma è uno scenario tutto da studiare.



Note


[1] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/08/28/bbc-nel-caos-attacco-kabul-molti-uccisi-da-truppe-usa_46b6f0d1-b1e5-4c13-9ec0-8545837331b5.html


[2] https://www.youtube.com/watch?v=nhJB2By61bQ


[3] http://acloserlookonsyria.shoutwiki.com/wiki/Abbey_Gate_massacre


[4] Una delle cose non perdonate a Julian Assange è l'avere in parte scoperchiato questi legami: https://youtu.be/vnWWgKxWvtY


[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Deobandi


[6] https://foreignpolicy.com/2020/11/16/afghanistan-khost-protection-forces-cia-us-pullout-taliban/


[7] https://thecradle.co/Article/investigations/1401

https://www.hrw.org/node/335066/printable/print


[8] https://www.cisda.it/controvento/signori-della-guerra/2243-massoud-ahmad-shan.html

https://foreignpolicy.com/2012/11/23/the-cult-of-massoud/


[9] https://www.aa.com.tr/en/world/russia-expects-peaceful-solution-to-confrontation-in-afghanistans-panjshir/2353558#. 

In realtà altre fonti sostengono che l'ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, stia discutendo coi Talebani qualche forma di autonomia per il Panshir, popolato da Tagiki. Non è fantascienza ipotizzare che i Talebani stiano chiedendo a Mossud jr. di disfarsi in compenso dell'ingerenza CIA e UK, cosa che farebbe sommo piacere anche alla Russia.


[10] https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/14672715.2014.898452?scroll=top&needAccess=true&journalCode=rcra20)


[11] L'alleanza anglosassone in Afghanistan, come in altre parti del mondo, si è macchiata di orrendi crimini. Un esempio è l'addestramento delle forze speciali australiane consistente nell'uccidere a freddo persone inermi: https://www.abc.net.au/news/2020-11-19/afghanistan-war-crimes-report-igadf-paul-brereton-released/12896234

Si veda anche il docimentario di Michael Moore “Farenheit 9/11”: 

https://www.michaelmoore.com/p/watch-fahrenheit-911-live-q-and-a


[12] Anche durante la guerra in Vietnam ci furono colloqui segreti, promossi negli USA da Kissinger, paralleli a quelli ufficiali. Ma la guerra venne decisa sul campo con l'aiuto dell'inizio della crisi sistemica (Nixon shock). La mossa di Kissinger era a tenaglia: da una parte convincere Hanoi a un compromesso, dall'altro convincere Russia e Cina a indebolire gli aiuti al Vietnam del Nord, cosa, questa, che in parte riuscì ma che non disarmò la volontà di resistenza vietnamita. Durante i negoziati gli scontri salirono persino in intensità e in ampiezza.


[13] Una esposizione delle dinamiche di questo sovradimensionamento lo si trova nel famoso studio Rebuilding America's Defenses del think tank Project for a New American Century:

(https://web.archive.org/web/20021112224032/http://www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf) mentre una sintesi pratica è esposta nella altrettanto famosa intervista di Amy Goodman al generale Wesley Clark: https://www.youtube.com/watch?v=WGkSNAHqpJM. 


[14] Errori che sono stati ampiamente previsti e studiati, vedi i lavori di Triffin e di Hudson, ad esempio. Ne ho discusso in “Al cuore della Terra e ritorno” ma un sunto di ciò che qui ci interessa si trova nella fantastica e frizzante autobiografia di Michael Hudson che ho tradotto col suo permesso e pubblicato in rete e che invito caldamente a leggere perché ne vale proprio la pena:  

https://megachip.globalist.it/pensieri-lunghi/2018/09/30/michael-hudson-vita-e-pensiero-un-autobiografia-2031514.html


[15] https://www.theguardian.com/education/2003/apr/10/highereducation.iraq


[16] La vera preoccupazione della UE sono i profughi. I governanti europei sono allarmati per alcune decine di migliaia di Afgani che dovrebbero venire in Europa, mentre l'Iran già ne ha accolti circa un milione e mezzo ai quali garantisce anche l'istruzione gratuita (probabilmente perché l'Iran è uno “stato canaglia”).


[17] https://geopoliticalfutures.com/withdrawal-from-the-middle-east/ 


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