Lettori fissi

lunedì 5 settembre 2022

LA PRIGIONE PIU' GRANDE DEL MONDO





L'editore Fazi pubblica un libro che fin dal titolo – La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati - lascia intuire l’opinione dell’autore in merito alla politica israeliana nei confronti del popolo palestinese. Ove non bastasse il titolo la dedica dissipa ogni dubbio: “Ai bambini palestinesi, uccisi, feriti e traumatizzati dal vivere nella più grande prigione del mondo”. Opera di un intellettuale comunista pregiudizialmente ostile nei confronti di Israele, di un esponente della destra antisemita, di un simpatizzante di Hamas o di un pacifista “a senso unico”? No, a firmare il libro è Ilan Pappé, autorevole storico israeliano (docente all’Università di Exeter, in Inghilterra) già autore di diversi bestseller fra i quali Palestina e Israele: che fare? ( con Noam Chomsky).


Pappé è una mosca rara in un Paese dove le uniche forze che denunciano la politica israeliana nei Territori Occupati come ingiusta, crudele, per non dire criminale, sono il piccolo Partito Comunista, qualche minuscolo movimento anti sionista e quella esigua minoranza di intellettuali “illuminati” di cui lo stesso Pappé è un esponente. Tuttavia il suo lavoro non è una perorazione ideologica né una predica morale (o peggio moralistica), bensì una rigorosa esposizione di fatti storici corredata da un’ampia documentazione (verbali di riunioni di governo, memorie dei protagonisti, cronache nazionali e internazionali, sentenze di tribunali militari e civili, testi di legge, decreti, regolamenti emanati dalle autorità di occupazione, dichiarazioni di leader di partito, ecc.). Una mole di materiali talmente ingente che chi non abbia seguito con particolare attenzione gli eventi del conflitto palestinese dalla Guerra dei sei giorni (1967) a oggi rischia di perdercisi dentro (parlando di attenzione, non mi riferisco tanto all'attività militante dei movimenti filo palestinesi quanto a un costante impegno di documentazione sulla realtà dei fatti). Ecco perché, per raccontare il libro e metterne in luce gli elementi più rilevanti, organizzerò l’esposizione per capitoletti tematici.


Ilan Pappé



Israele non voleva la guerra e si è limitata a reagire alle minacce dei Paesi arabi? Falso


Le fonti citate da Pappé non sono univoche, al punto da non concedere margini di ambiguità: nessuna delle guerre contro gli arabi intraprese da Israele dal 1948 a oggi è nata dalla necessità di fronteggiare le provocazioni e le minacce di un nemico deciso a cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica. La verità è che si è trattato piuttosto di un lucido disegno strategico, premeditato e perseguito con spietata determinazione.


Dopo la pulizia etnica del 48 - realizzata attraverso intimidazioni, assedi ai villaggi palestinesi, bombardamenti , espulsioni forzate delle popolazioni locali (imbottendo di tritolo le macerie per impedirne il ritorno) – l’élite politico militare israeliana si è messa in attesa dell’occasione storica favorevole per mettere le mani sulla Cisgiordania. Attesa che si è prolungata oltre il 56, l’anno del fallito tentativo di rovesciare Nasser con l'appoggio di Francia e Inghilterra. Non a caso, argomenta Pappé, l dibattito su come gestire le zone arabe occupate era ancora in corso nel 63, allorché fu condotta un'esercitazione in cui vennero simulati i primi giorni della presa del potere. In effetti, aggiunge, i documenti confermano che già allora erano state definite le regole di comportamento finalizzate a incoraggiare i collaboratori e punire i resistenti; confermano inoltre che l’eventuale occupazione di nuovi territori non fu mai concepita come un fatto transitorio, e infatti gli eventi storici successivi hanno confermato che per Israele la sovranità assoluta su Gaza e Cisgiordania non è negoziabile. Per tacere dei media, i quali non hanno mai fatto mistero sull’esistenza di un progetto “imperiale”, invocando a gran voce la creazione del Grande Israele.


Negli anni immediatamente precedenti alla Guerra dei sei giorni si lavorò a preparare l’opinione pubblica interna e internazionale all’imminente conflitto agitando lo spettro del “radicalismo” arabo (il regime di Nasser in Egitto e quello del Baath in Siria), minaccia con la quale si mirava a ottenere l'appoggio occidentale –in particolare americano - presentandola come una sorta di comunismo in salsa araba. Ecco perché, nel 67, non era pronto alla guerra solo l'esercito: era pronto anche l'apparato burocratico deputato a gestire le conquiste. Quanto alla narrazione sulla necessità di sferrare un attacco preventivo per neutralizzare le forze di un nemico che si preparava ad annientare Israele, si tratta di una “bufala” paragonabile al presunto attacco vietnamita alle navi americane nel Golfo del Tonchino e alle “prove” sulle armi di distruzione di massa in mano irachena. La verità, sostiene Pappé, è che le élite israeliane erano consapevoli dell'inferiorità militare araba, e che Siria ed Egitto ne erano altrettanto consapevoli, né si sarebbero mai sognati di attaccare per primi.



Il sionismo: una matrice ideologica condivisa da destre e sinistre


Per capire in che misura gli aspetti più discutibili della politica israeliana nei confronti del popolo palestinese siano l’esito logico dell’ideologia sionista, argomenta Pappé, occorre risalire allo spirito della “colonizzazione messianica” fra fine Ottocento e primo Novecento. È la visione di un ritorno ai tempi (e ai luoghi) biblici a rappresentare il fondamento del sionismo. Nato come ricerca di un rifugio sicuro contro l'antisemitismo e di un territorio che desse forma di nazione all'ebraismo, il sionismo non sarebbe andato incontro alle attuali degenerazioni se, per realizzare le sue legittime aspirazioni, non avesse scelto un territorio già abitato, il che lo ha inevitabilmente trasformato in un progetto colonialista (per inciso: in America e in Australia analoghi progetti hanno implicato lo sterminio sistematico delle popolazioni autoctone).


Realizzare il progetto significava ottenere il controllo sulla maggior parte della Palestina storica e ridurre drasticamente il numero dei palestinesi che ivi vivevano; l’obiettivo era insomma l‘edificazione di uno Stato ebraico “puro” dal punto di vista etnico-religioso, il desiderio (da alcuni nascosto, da altri dichiarato) era che nell'antica terra di Israele vi fossero solo ebrei. Di qui la pulizia etnica del 1948 resa possibile: 1) dalla decisione britannica di abbandonare i territori che governava da 30 anni; 2) dall'impatto dell'Olocausto sull'opinione pubblica occidentale; 3) dal marasma politico nel mondo arabo palestinese. Cogliendo l'opportunità una leadership sionista fortemente determinata espulse larga parte della popolazione nativa distruggendone i villaggi e le città, tanto che, in tempi brevissimi, l'80% della Palestina sotto mandato britannico era diventata lo Stato ebraico di Israele.


Passando alle decisioni draconiane sulla gestione dei Territori Occupati assunte dal governo che guidava il Paese durante la guerra del 67, Pappé sottolinea come esso comprendesse tutte le correnti ideologiche: laburisti, liberali laici, religiosi e ultra religiosi, rappresentando dunque il più ampio consenso sionista possibile. Sulla durezza di tali decisioni torneremo più avanti, ciò che importa sottolineare in primo luogo è l’assenza di differenze sostanziali fra destra e sinistra. Un’unità di intenti sancita dal fatto che nemmeno l’alternanza fra Laburisti (che governarono fino al 1977) e destre (il Likud dominò il decennio successivo, dal 77 all’87), produsse alcun cambiamento sostanziale se non nella “narrazione”: i Laburisti furono abili nell’ingannare il mondo sulle intenzioni di pace di Israele (Shimon Peres vi riuscì tanto bene da essere premiato con il Nobel) ma non cambiarono una virgola della strategia adottata nel 67; quanto al Likud, l’unica vera novità consistette nell’allacciare legami sempre più stretti con il movimento dei coloni (Gush Emunim). Nel decennio in questione gli ultra ortodossi vennero autorizzati a formare enclave teocratiche dotate di regole e procedure giuridiche diverse da quelle in vigore in Israele. Il fondamentalismo ebraico venne di fatto autorizzato a svolgere un ruolo di “militarizzazione” dei coloni, fino a creare squadre di vigilantes che eseguivano spedizioni punitive ctollerate dallo Stato (su 48 omicidi ad opera dei coloni violenti che agivano in bande organizzate, segnala Pappé, solo un colpevole venne incriminato e processato).



Il bastone e la carota. La prigione più grande del mondo


Veniamo alle sfide che hanno indotto Israele a creare quella che Pappé definisce la più grande prigione mai esistita (inizialmente un milione e mezzo di “detenuti”, saliti poi a 4 milioni) e ai metodi con cui è stata ed è tuttora gestita. Di fatto, si scelse di estendere l'autorità militare, già imposta alla minoranza palestinese entro Israele, agli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, e a tale scopo si trasse ispirazione dai regolamenti mandatari di emergenza emessi dagli inglesi, che gli stessi capi sionisti avevano definito nazisti. Basti citare la direttiva 109 ( che consentiva al governatore militare di espellere la popolazione), la 110 ( che gli dava il diritto di convocare qualunque cittadino in una stazione di polizia) e la famigerata 111 (che autorizzava l'arresto amministrativo a tempo indeterminato senza motivazioni né processo). Anche il sistema di reclutamento dei collaboratori venne copiato da quello usato dal governo coloniale britannico in Egitto e in India.


Gaza sotto le bombe israeliane



La contraddizione di fondo che rese necessario ricorrere a questa spietata soluzione era il fatto che i territori acquisiti nel 67 potevano essere annessi de facto ma non de iure, e ciò per due motivi: 1) il diritto internazionale li considerava territori occupati, al contrario di quelli acquisiti nel 48, che erano stati riconosciuti come parte integrante dello Stato di Israele; 2) i palestinesi non potevano essere espulsi ma nemmeno integrati come cittadini con pari diritti, perché il loro numero e la loro crescita demografica avrebbero messo in pericolo la maggioranza ebraica. La concomitanza di tre obiettivi contraddittori - conservare i territori, non espellerne gli abitanti ma non concedere loro la cittadinanza - era destinata a produrre una realtà disumana, vale a dire una prigione che non veniva imposta a singoli individui bensì a una intera società. A gestire questa mega prigione è stata chiamata una quantità enorme di personale (“la burocrazia del male”, la chiama Pappé) incaricata di amministrare quasi cinque milioni di “carcerati” rinchiusi in quelli che prima erano i loro territori.


Per svolgere il compito i carcerieri hanno fatto ricorso alla politica del bastone e della carota, premiando chi accettava le regole imposte dall’occupante e punendo chi si opponeva. L’arma strategica per fiaccare le velleità di resistenza è stata l’insediamento di un numero crescente di coloni ebrei. Il luogo in cui tale strategia è stata applicata in modo esemplare è stato Gerusalemme Est e aree adiacenti. La Grande Gerusalemme che è divenuta la nuova capitale di Israele è nata a suon di furti di terreni palestinesi perpetrati dallo Stato, di espropri senza risarcimento, di demolizioni di case e villaggi e di costruzione di nuovi quartieri riservati agli ebrei sulle rovine. Già nel 68, scrive Pappé, solo il 14% dell’aera di Gerusalemme Est apparteneva ai palestinesi, che solo un anno prima ne erano invece gli esclusivi proprietari.


Nel resto dei Territori Occupati l’insediamento dei coloni ebraici si è ispirato alla “strategia del cuneo”, finalizzata a impedire la continuità spaziale e l'integrità geografica delle aree occupate dai palestinesi. Funziona così: si colonizza una località lontana, dopodiché si rivendica come esclusivamente ebraica l'area che si frappone fra Israele e il nuovo insediamento (ivi comprese le strade che vi conducono). In questo modo si crea continuità territoriale tra gli insediamenti ebraici e discontinuità fra villaggi e le città palestinesi che diventano enclave isolate le une dalle altre e “incistate” in un continuum sempre più esteso di territori annessi a Israele.


Detto che il bastone è sempre quello del 48 - demolizione di abitazioni, arresti di massa senza processo, coprifuoco, irruzioni violente nelle case ecc. - qual è la carota? La risposta rinvia all’uso dell’economia come strumento di pacificazione. Il reclutamento di forza lavoro palestinese a basso costo, presentata come una “ricompensa” per buona condotta (in barba al fatto che i lavoratori palestinesi non sono pagati come quelli ebrei, né tantomeno godono dei loro diritti e delle loro tutele), ha creato una situazione di relativa prosperità fino all’esplosione delle due Intifada. Una situazione che non ha tuttavia consentito lo sviluppo di un’economia palestinese autonoma, visto che fra Israele e i Territori esistono solo due flussi: quello di merci israeliane in entrata e quello di mano d'opera in uscita, per cui l’unica altra fonte di risorse sono gli aiuti internazionali. Questo bastò a ottenere la collaborazione di una minoranza di palestinesi benestanti (sindaci, commercianti, avvocati ecc.) almeno finché collaborare non ha significato rischiare la pelle.


Le due Intifada


Basandosi sulla relativa prosperità dei Territori di cui si è appena detto, la propaganda israeliana attribuisce lo scoppio della prima Intifada all’azione sobillatrice dei “terroristi” , sottacendo i motivi di scontento della popolazione (confinamento in aree sovrappopolate, negazione dei più elementari diritti umani e civili, sfruttamento della forza lavoro, ecc.). La famosa provocazione di Sharon (la passeggiata alla Spianata delle Moschee) fu solo un pretesto occasionale che fece esplodere la rabbia popolare. Rabbia che, sottolinea Pappé, si espresse inizialmente con metodi pacifici: scioperi, boicottaggio delle merci israeliane, rifiuto di pagare le tasse, nella peggiore delle ipotesi lancio di pietre, manifestazioni cui l’esercito reagì con inusitata violenza provocando numerosi morti e feriti (nei primi due anni quasi 30000 bambini, un terzo dei quali sotto i dieci anni, dovettero ricorrere a cure mediche per le ferite subite), mentre le reazioni internazionali non andarono al di là di blande critiche a quello che fu eufemisticamente definito un “uso eccessivo della forza”. Questa ferocia fu il carburante che alimentò il radicalismo di Hamas, e gli attacchi di Hamas furono a loro volta il pretesto per l’ulteriore inasprimento della repressione che, fra i tanti aspetti odiosi, aggiunse la negazione della libertà di movimento e di iniziativa privata: si iniziò infatti a richiedere permessi per ogni cosa lavorare, studiare, edificare, commerciare (permessi concessi o negati a totale arbitrio dei burocrati).


Pietre contro carri armati



Veniamo alla seconda Intifada, esplosa dopo gli “accordi di pace” di Oslo (1993). Pappé smonta la narrazione mediatica (non solo israeliana) che a quei tempi si fondò su due mistificazioni: la prima era che si trattasse di un autentico tentativo di pacificazione; la seconda che sia stato deliberatamente fatto naufragare da Arafat. Quanto alla prima menzogna: la proposta israeliana consisteva nella creazione di un mini stato palestinese demilitarizzato con capitale Abu Dis (un villaggio vicino a Gerusalemme), al quale sarebbe stata sottratta larga parte della Cisgiordania, che non avrebbe goduto del diritto di condurre politiche economiche ed estere indipendenti e che avrebbe dovuto rinunciare a rivendicare il diritto al ritorno degli esuli del 48. Spacciata come la soluzione “dei due Stati”, questa farsa prevedeva che Israele avrebbe deciso unilateralmente sia quanto territorio concedere sia quanto sarebbe dovuto accadere nel territorio in questione. 


Arafat con Rabin



Quanto al presunto sabotaggio di Arafat: la verità, sostiene Pappé, è che certe clausole fissate dal negoziato, a partire da quella secondo cui le autorità palestinesi avrebbero dovuto gestire la sicurezza dei Territori, garantendo che non ospitassero attività di resistenza, erano impossibili da rispettare. Questa capitolazione, e la complicità dei Paesi arabi che la accettarono, fece infuriare la popolazione palestinese che considerò l’accordo come “il tradimento di Oslo”, rafforzò l’egemonia di Hamas e fece ripartire la protesta in forme assai meno pacifiche della prima Intifada, per cui la reazione israeliana fu ancora più violenta: non operazioni di polizia bensì una vera e propria guerra: invece di dare la caccia ai terroristi si iniziò a usare armi pesanti (carri armati e cannoni) contro la popolazione civile, adottando il principio della punizione collettiva applicato dalle rappresaglie naziste dopo gli attacchi partigiani. In particolare, dopo che Hamas ha assunto il controllo di Gaza, la striscia viene ripetutamente attaccata come una nazione nemica, attraverso operazioni militari in grande stile di terra, cielo e mare che provocarono pesantissime perdite fra i civili. Le ultime pagine del libro sono una cronistoria di questa guerra strisciante che si trascina dagli anni Novanta a oggi (l’edizione originale è del 2017).


L’impotenza dell’opinione pubblica interna e internazionale


Si è detto dell’estrema debolezza delle forze di opposizione israeliane, sovrastate dall’ideologia sionista condivisa da tutti i grandi partiti, di destra e sinistra, laici e religiosi, silenziate da un sistema informativo unanimemente schierato a favore del progetto della Grande Israele, e minoritarie anche nei campi della cultura accademica e letteraria. Pressoché nulle le reazioni occidentali: nella prima fase del processo – la pulizia etnica del 48 - l'Europa doveva espiare i crimini commessi sul suo territorio contro gli ebrei per poter approdare alla pace e alla riconciliazione, per cui accettò senza battere ciglio la colonizzazione ebraica proprio nel momento storico in cui la comunità internazionale bollava il colonialismo come un odioso retaggio del passato. Dal 67 in poi, l’appoggio incondizionato dell’Occidente a Israele divenne un tassello fondamentale della Guerra fredda, in quanto lo Stato ebraico fungeva da avamposto nella lotta contro i regimi dell’area alleati con Mosca e, caduta l’Urss, contro i Paesi arabi che insistevano a opporsi all’egemonia occidentale (da Johnson in poi, nessun presidente americano ha rifiutato di fornire agli israeliani gli armamenti più avanzati). Prima di concludere segnalo che ho trascurato, per motivi di spazio, uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Pappé, vale a dire l’accurata analisi dei dispositivi giuridici con cui Israele ha legittimato anche le azioni più efferate del proprio esercito (e delle bande di coloni ultra ortodossi). Mi limito a ricordare ciò che l’autore annota in merito al coinvolgimento della Corte Suprema: chiamata a svolgere un ruolo di garanzia, si è limitata a legittimare gli atti compiuti dalle autorità militari nei Territori, coprendoli con il manto della legalità.



Qualche considerazione a margine


In due occasioni (mi riferisco al giudizio sulle regole mandatarie inglesi emesso dagli stessi sionisti che le hanno a loro volta adottate, e al metodo della punizione collettiva che colpisce un’intera comunità invece del colpevole) ho usato l’aggettivo nazista. Preciso che nel libro di Pappé, che pure è una delle più dure denunce dei crimini israeliani che mi sia capitato di leggere, questo accostamento (“proibito” non solo dalla sensibilità ebraica per la memoria dell’Olocausto, ma anche dalla correttezza politica che vige nei Paesi occidentali) non viene mai proposto. Mi tocca quindi rispondere alla domanda se e in che misura il sottoscritto lo ritenga giustificato.


L’elenco dei fatti che potrebbero indurmi a sfidare l’accusa di antisemitismo che colpirebbe immediatamente chiunque osasse tanto (in effetti oggi si rischia tale accusa per molto meno) è lungo: pulizia etnica (anche se qui è in gioco la purezza religiosa più che etnica: gli ebrei di origine africana, per esempio, non sono discriminati); violenza contro la popolazione civile (uomini, donne, vecchi e bambini); violazione dei più elementari diritti civili ed umani; sfruttamento intensivo del lavoro; violazione del diritto internazionale, ecc. Manca tuttavia un fattore essenziale: non è stato messo in atto uno sterminio sistematico del popolo palestinese. Ciò detto, sono assai meno sicuro che si possa respingere l’accusa di genocidio, se si applicano i criteri di colui che ha coniato il termine, il giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin, il quale parlava di “distruzione di una nazione o di un gruppo etnico”, non intendendo solo l’annientamento fisico, bensì pratiche quali la soppressione delle istituzioni di autogoverno, la distruzione della struttura sociale, la privazione dei mezzi di sussistenza, la distruzione dei luoghi di culto, l’umiliazione e la degradazione morale. Come si vede è lecito nutrire più di un dubbio.


Lo scopo di questa breve appendice, tuttavia, non è puntare ulteriormente il dito contro le responsabilità dello Stato israeliano, bensì smascherare l’insopportabile ipocrisia della propaganda occidentale: per i crimini commessi durante la guerra nella ex Jugoslavia (innescata dagli interessi geopolitici europei, tedeschi in primis) è stato processato Milosevic; sui presunti crimini cinesi contro i popoli tibetano e uiguro i media occidentali versano ogni giorno fiumi di inchiostro; infine, dall’inizio della guerra in Ucraina, stiamo vivendo la più forsennata campagna antirussa dai tempi della Rivoluzione d’ottobre. In merito all’ultimo punto faccio notare che, a prescindere dalla legittimità dell’intervento militare nel Dombass (che visto da Mosca potrebbe essere giustificato, con argomenti più solidi di quelli accampati da Israele nel 1967, come una mossa preventiva per evitare l’accerchiamento da parte della NATO) la Russia ha invaso aree abitate da minoranze russofone che erano oggetto di pulizia etnica da parte delle milizie parafasciste di Kiev e non, come nel caso delle guerre israeliane, aree abitate da secoli da un popolo che non aveva aggredito né minacciato nessuno. Ammesso che ciò non basti a evocare i fantasmi del nazismo né a parlare di genocidio, nessuno può negare che si tratti di azioni aggressive di natura colonialista, né che l’Occidente le abbia assolte applicando il metodo dei due pesi e delle due misure, un atteggiamento dettato dal più cinico interesse geopolitico e nel quale principi e valori non hanno peso alcuno.




venerdì 5 agosto 2022

DICHIARAZIONE DI VOTO



Cari amici e compagni

Il 25 settembre, che casualmente è anche la data del mio 75° compleanno, ammesso e non concesso che l’infame dispositivo che obbliga le poche forze realmente di opposizione a raccogliere le forme in tempi ridicolmente brevi, voterò per il PC di Rizzo. Scelta scontata, penseranno alcuni, visto che a quel partito sono iscritto e che negli ultimi uno/due anni l’ho sostenuto in varie occasioni, anche accettando di candidarmi alle recenti elezioni comunali di Milano. Invece la scelta non è affatto scontata per i motivi che cerco di spiegare qui di seguito.

In primo luogo perché sulla scheda elettorale non troverò il simbolo di quel partito ma un per me indigesto simbolo in cui non vedo né una falce e martello né la parola comunista, e nemmeno la parola socialista, rimpiazzata dall’aggettivo popolare che sta sotto le parole Italia e sovrana. Chiarisco che non è il riferimento alla sovranità nazionale a imbarazzarmi: è dai tempi in cui assieme ad altri amici avevo fondato il gruppo Nuova Direzione che vengo sistematicamente accusato di rossobrunismo per cui ci ho fatto il callo. Il punto è che quell’esperienza, che mi ha consentito di conoscere dall’interno la galassia dei gruppuscoli del sovranismo di sinistra e dalla quale mi sono dissociato quando ho capito l’impossibilità di spostarla su posizioni coerentemente socialiste, fa sì che consideri ingiustificata la rinuncia a una chiara connotazione socialcomunista per mettere in piedi un’alleanza con quindici (15!) gruppi non tutti – per usare un eufemismo - di specchiata connotazione anticapitalista.

Certo ci sono situazioni in cui la tattica suggerisce l’opportunità di fare compromessi, ma questa è davvero una di quelle? E ancora: siamo sicuri che il gioco valga la candela? Non sono mai stato astensionista di principio, ma ammesso e non concesso (sbaglierò, ma temo che i 15 raggruppamenti di cui sopra non rappresentino un consistente bacino potenziale di voti, né un’ampia parte di opinione pubblica) che il compromesso ci consenta di piazzare uno o due rappresentanti in questo parlamento ridotto a un simulacro privo di potere decisionale, e persino del ruolo di cassa di risonanza di opinioni diverse dal pensiero unico neoliberale, quale potrà essere il loro contributo alla lotta contro il sistema? Non sarebbe stato meglio mantenere una chiara identità e sfruttare la tribuna elettorale per fare agitazione e propaganda onde raccogliere nuove adesioni al partito? Invece, e questa è l’altra nota dolente per chi come il sottoscritto si sta spendendo con gli amici di Cumpanis per creare le condizioni di un processo unitario dei tanti comunisti italiani rimasti senza un’organizzazione in cui riconoscersi, la strada che si è scelta è costata l’allontanamento di tanti bravi militanti, il che rende ancora più problematici e lontani l’obiettivo dell’unità e il momento in cui le classi subalterne italiane potranno tornare a contare sulla guida di un vero partito di classe. 

Torniamo al dubbio:  ne valeva davvero la pena? Il grado di marcescenza del sistema politico italiano ha raggiunto livelli tali che nessun’altra democrazia parlamentare borghese può esibire. Non penso solo all’immondo balletto orchestrato da Letta e soci per mettere in piedi un pastrocchio di centro, non per contendere la vittoria  (scontata) alla destra, ma per sedersi al tavolo dei vincitori e collaborare con loro nel mettere a punto gli strumenti per rendere questo Paese ancora più povero e servo di Washington e Bruxelles; penso anche al miserando spettacolo offertoci dalle “sinistre”:  Fratoianni e Bonelli, prima disposti a mettersi a novanta gradi accettando i veti di Calenda pur di restare attaccati al carro di Letta, poi col cappello in mano a pietire un accordo con l’M5S, il neo arcobaleno messo in piedi dalla mummia di Rifondazione, PAP e De Magistris, una vetrina delle varie versioni di sinistrese politicamente corretto, con posizioni sfumate sull’Unione Europea e genericamente pacifiste sulla guerra scatenata dalla NATO (che si appresta ad aprire un secondo fronte nel Mar della Cina), per cui mi chiedo che fine abbiano fatto gli amici della Rete dei Comunisti: anche loro intenti a tessere compromessi tattici alla Tafazzi? Sorvolo infine sul gruppo parlamentare di Alternativa convolato a giuste nozze con il fascio leghista Paragone. 

Di fronte a questa marea di merda, è venuto il momento di prendere atto che gli appelli all’unità per la Costituzione lasciano il tempo che trovano. La carta nata dalla Resistenza è morta e sepolta da decenni di “riforme” che l’hanno irreversibilmente snaturata. Viviamo un terribile passaggio d’epoca in cui la crisi, prima ancora di avere assorbito gli effetti della pandemia, è destinata a divenire ancora più tragica in conseguenza della guerra; è iniziato lo scontro finale fra imperialismi occidentali (con l’Europa al carro degli Usa) e resto del mondo (Paesi socialisti più tutti quelli non disposti a inchinarsi ai diktat dell’Occidente); si annuncia un futuro di miseria e conflitti feroci. Tempi in cui occorrerebbe accelerare la costruzione del partito per far fronte alla guerra imperialista e trasformarla in guerra di classe piuttosto che perdere tempo in giochetti elettorali (si partecipi pure ma al solo scopo di fare propaganda). Quanto alla Costituzione, se esistesse un vero partito dovrebbe rivendicare la convocazione di una nuova Assemblea Costituente che liquidi un sistema politico costruito per impedire al popolo di esprimere la propria volontà: rafforzare i vincoli alla proprietà privata per garantire la piena occupazione e condizioni di vita e di lavoro dignitose; abolire le regioni che invece di avvicinare i cittadini al potere espropriano lo Stato del potere decisionale su questioni vitali e fungono da collettori di interessi lobbistici e mafiosi; regolare il sistema dei media per renderlo pluralista e aperto a tutte le opinioni; dettare leggi elettorali che consentano una effettiva rappresentanza dei soggetti sociali;  reintrodurre l’obbligo del servizio militare per cittadini e cittadine, perché solo un esercito popolare può difendere la Repubblica dai nemici interni ed esterni.

Per concludere: voterò comunque per il PC di Rizzo, ancorché camuffato dietro quel brutto simbolo elettorale, non tanto perché sono iscritto al partito, ma perché è l’unico ad avere posizioni chiare sulla NATO, sull’Europa, sulla Cina e sulla guerra, e scusate se è poco. Dopodiché, passata l’ennesima dispersione di energie per partecipare a elezioni truccate, spero di poter contribuire a una seria discussione sui temi strategici.  

 










  

martedì 28 giugno 2022

LA REQUISITORIA DI SAHRA WAGENKNECHT 

E I SUOI LIMITI






Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht - dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina  https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html 

Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine. 

Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti. Per queste persone, le tradizioni e i legami comunitari passano in secondo piano, quando non sono oggetto di rifiuto e disprezzo, rispetto all’autonomia e all’autorealizzazione individuali (l’identità individuale è concepita come qualcosa che esiste indipendentemente dalla vita sociale). Trovare riconoscimento e conferma di sé viene prima di qualsiasi velleità di cambiare il mondo e la società, e in ogni caso si ritiene che il mondo e la società possano e debbano essere cambiati cambiando le parole con cui li si nomina e descrive (questa moda del politically correct, scrive Wagenknecht, è nata nelle università di élite angloamericane, imbevute delle idee dei maestri del postrutturalismo come Foucault e Derrida). 

Alle lotte per l’uguaglianza subentra la santificazione della disuguaglianza, una mistica della differenza che fa sì che non ci si impegni più per ottenere l’equiparazione legale delle minoranze, bensì per rivendicare privilegi da concedere alle minoranze stesse. Di qui una svalutazione degli interessi della maggioranza che diventa un alibi per le classi benestanti, le quali che possono così astenersi dal finanziare la collettività, in quanto ai loro occhi non rappresenta più l’incarnazione di un interesse comune e condiviso. A fornire un altro alibi al liberismo economico e al suo progetto di smantellamento dello stato sociale è poi il concetto di società aperta e di cittadinanza globale, una dimensione astratta cui tutti possono accedere senza che ciò comporti coesione e aiuto reciproco. Infine, dietro le maschere dell’apertura e della tolleranza che questa gente indossa, si cela uno spirito intollerante degno della peggiore destra reazionaria: per esempio chi non condivide i valori e i dogmi della cultura Lgbt (a partire dalla negazione di ogni fondamento biologico delle differenze sessuali) non è fatto solo oggetto di disprezzo, ma di vero e proprio odio, sentimento che viene riservato a priori ai maschi bianchi della classe media. 

Sinistra alla moda è definizione azzeccata: come le mode postmoderne cercano di illudere il consumatore di godere di prodotti e servizi “unici”, ritagliati su misura per le sue esigenze, che viceversa differiscono solo per qualche elemento marginale, allo stesso modo, dietro l’esaltazione delle differenze e delle singolarità individuali che sostanzia l’ideologia delle nuove sinistre, si nasconde una disarmante uniformità di gusti, idee e valori. Questo conformismo di massa, chiarisce Wagenknecht, non è un prodotto puramente culturale ma rispecchia precisi interessi di classe. Al posto di concetti come classe creativa o lavoratori della conoscenza, l’autrice usa la definizione di “nuovo ceto medio dei laureati”, ma la sostanza è la stessa: si tratta di quel 25/30% di lavoratori (1) – dipendenti, autonomi e liberi professionisti – che svolgono attività legate prevalentemente ai settori della finanza, dell’economia digitale e della comunicazione (media, pubblicità, marketing, ecc.). A marcare la distanza fra questo strato sociale da una parte e la classe operaia e le “vecchie” classi medie dall’altra, non sono solo le forti differenze salariali, sono anche differenze antropologiche (atteggiamenti, valori e stili di vita) che rispecchiano precise condizioni materiali di vita: gli uni vivono nei quartieri centrali delle metropoli, che qualcuno ha definito vetrine della globalizzazione felice (2), o nelle città universitarie, gli altri nelle periferie e/o nei piccoli centri di provincia. L’economia della conoscenza non conosce sindacati, stipendi – né tanto meno posti - fissi, percorsi di carriera predefiniti. I contratti di lavoro sono frutto di trattative individuali, mentre il rischio individuale associato a tale condizione viene esaltato come una virtù, in quanto, secondo la vulgata mainstream,  questa spietata competizione di tutti contro tutti premierebbe i “giocatori” più meritevoli e coraggiosi. 

Nel concetto di nuovo ceto medio dei laureati, più del termine laureati pesa l’attributo nuovo. La semplice laurea, infatti, non garantisce più di poter salire sull’ascensore sociale, in quanto le professioni meglio pagate richiedono ormai capacità che i percorsi formativi pubblici non sono in grado di trasmettere. Di conseguenza, l’istruzione superiore torna a essere quel privilegio che la massificazione degli accessi all’università sembrava avere cancellato nella seconda metà del secolo scorso, dal momento che sono solo le famiglie benestanti a poter offrire ai figli la possibilità di frequentare università di élite. Ma la selezione comincia prima, su base socio territoriale, dal momento che, come ricordato sopra, il nuovo ceto medio vive nei centri gentrificati delle metropoli, cioè in quartieri dove le scuole, dalle elementari ai licei, offrono chance ben superiori di quelle degli istituti periferici. In poche parole, il privilegio sociale è una spirale che si autoalimenta e si rafforza continuamente, aumentando costantemente la distanza fra alto e basso.

Queste distanze si rispecchiano nelle scelte elettorali: come tutte le ricerche sulla composizione sociale dei flussi elettorali confermano, oggi a votare a sinistra sono gli individui benestanti di cultura elevata, tutti gli altri votano a destra o - in misura crescente – si astengono. Wagenknecht cita il caso dei Verdi tedeschi, che hanno superato da tempo i Liberali come partito più votato dai ricchi, ma ammette che anche il suo partito, la Linke, un tempo sostenuto da un elettorato di cultura medio-bassa prevalentemente operaio, è diventato un “partito dei laureati”. Ma soprattutto si rispecchiano negli stili di vita, nei linguaggi e nelle posture ideologico-culturali. Le élite della nuova sinistra guardano dall’alto in basso “quelli che non hanno frequentato l’università, vivono in provincia e comprano da LIDL i prodotti per la grigliata per risparmiare”.  Questi “sdentati” (3) usano parole che l’etichetta politicamente corretta considera intollerabili, per cui, nelle redazioni dei media, nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende sono sottoposte a dure sanzioni sociali, al punto che “più della metà dei cittadini tedeschi non osano esprimere liberamente le proprie opinioni “ (4). 

Quando questa “marmaglia”, ribellandosi contro le politiche neoliberali e le condizioni di vita che impongono alle classi subalterne, scende in piazza dando vita a spettacoli “indecorosi”, come le manifestazioni dei gilet gialli in Francia, degli elettori di Trump negli Stati Uniti e dei No Vax in tutto il mondo, viene bollata con accuse di neofascismo. Le sole manifestazioni accettabili sono quelle per i diritti delle minoranze Lgbt, dei migranti o per la tutela dell’ambiente, e devono essere pacifiche, allegre e variopinte come quelle di movimenti come MeTo e Friday for Future. Per inciso, nota Wagenknecht, a queste ultime non hanno partecipato più dell’80% dei giovani, mentre i due terzi dei partecipanti hanno annesso di appartenere a un ceto sociale elevato.  


Sahra Wagenknecht



Passiamo all'altra faccia dello specchio. I proletari votano a destra perché si sono convertiti in massa al fascismo, o solo perché l’assoluta assenza di empatia del nuovo ceto medio nei confronti delle loro esigenze e dei loro timori non lascia a queste persone altre alternative per esprimere la propria rabbia? Questa per Wagenknecht è ovviamente una domanda retorica che ammette solo la seconda risposta. Le radici della rabbia affondano nel venir meno di ogni senso di sicurezza e continuità. La mistica del cambiamento e del rischio che esalta il nuovo ceto medio, per i membri delle classi subalterne, che hanno bisogno di sapere che cosa accadrà domani, è viceversa associato a un angosciante senso di precarietà e insicurezza esistenziali. Nel trentennio postbellico lo Stato aveva imposto limitazioni alla corsa al profitto privato, alla cui logica aveva sottratto la sanità, l’educazione, il diritto alla casa, le comunicazioni e alcuni servizi fondamentali come elettricità, acqua e trasporti pubblici. La rivoluzione neoliberale ha spazzato via in tempi brevissimi questi presidi che garantivano sicurezza e protezione. Nei primi cinque anni del governo Tatcher è andato in fumo un terzo dei posti di lavoro industriali. Globalizzazione, decentramento produttivo nei Paesi a basso costo del lavoro, outsourcing dei servizi interni alle imprese hanno fatto il resto. Il nocciolo duro del proletariato industriale, caratterizzato da una cultura del lavoro fondata anche sull’orgoglio professionale (non si lavorava “solo per denaro ma per fare qualcosa di utile di andare fieri, non si voleva solo fare un lavoro ma farlo bene”), è stato rimpiazzato da un coacervo di mestieri dislocati nella logistica, nella grande distribuzione, nei servizi di cura e assistenza, tutti lavori precari, mal retribuiti e lontani dal garantire una qualche forma di soddisfazione professionale.  Un capitalismo finanziarizzato, in cui il reddito proviene dalle rendite patrimoniali più che dal lavoro, ha alimentato disuguaglianze, aumento dei debiti pubblici e privati e immiserimento di massa, al punto che le aspettative di vita della classe media di un Paese ricco come gli Stati Uniti si sono drasticamente ridotte a causa del diffondersi dell’alcolismo, dei suicidi e dell’abuso di psicofarmaci.     

La divaricazione alto/basso si evidenzia con particolare nettezza a proposito di temi come l’ambiente e l’immigrazione. In entrambi i casi il nuovo ceto medio e le forze politiche che lo rappresentano propongono un’analisi irrealistica del problema e soluzioni che non tengono in alcun conto gli interessi delle classi subalterne. Partiamo dall’ambiente. Le analisi dei Verdi non vanno alla radice delle cause del degrado ambientale – la logica del profitto capitalistico – ma puntano il dito contro i comportamenti individuali, alimentando l’illusione secondo cui basterebbe cambiare stile di vita per salvare il pianeta. Ovviamente a cambiare stile di vita dovrebbero essere soprattutto i poveri le cui pratiche antiecologiche vengono addebitate a ignoranza e incuria e non alla necessità di risparmiare, per cui si propone di penalizzare determinati consumi di massa (per esempio il carburante diesel) con rincari che “renderebbero nuovamente beni di lusso molti oggetti di consumo e servizi comuni cui grandi fette di popolazione non avrebbero più accesso”.  

Veniamo all’immigrazione . L’ideologia delle sinistre cosmopolite che predicano l’accoglienza indiscriminata e senza limiti non fa distinzione fra chi è costretto a emigrare dai disastri provocati dall’imperialismo occidentale e chi lo fa per scelta, rimuovendo il fatto che questi ultimi non sono affatto i più poveri, che non hanno i mezzi per farlo per farlo, bensì i corrispettivi dei ceti medi emergenti dei Paesi occidentali. Così aumentano  ovunque i medici  del terzo mondo e i paesi poveri finanziano la formazione di specialisti che verranno  sfruttati dai paesi ricchi, assistiamo cioè a un sovvenzionamento del Nord da parte del Sud  che viene depauperato di forza lavoro qualificata (venti milioni di lavoratori dell’Est sono venuti in Germania dopo l’ingresso dei loro Paesi nella Ue). I padroni ottengono così il duplice obiettivo di usufruire di forza lavoro a basso costo e di dividere i lavoratori, ma anche il ceto medio dei laureati ha il suo tornaconto: la disponibilità di servizi di cura alla persona garantisce infatti un aumento del loro potere d’acquisto. A pagare per tutti questi vantaggi sono i quartieri poveri in termini di concorrenza per le abitazioni, degrado delle scuole e dei servizi locali. Il fatto poi che le nuove ondate migratorie giunte in Germania negli ultimi anni dalla Siria e altri Paesi del Medio oriente abbiano faticato a trovare lavoro e vivano di sussidi, alimenta nei ceti subalterni l’idea che questi soldi vanno a persone che non c’entrano nulla con noi né hanno lavorato per meritarsele.  

Fin qui il discorso fila e, pur non apportando sostanziali novità a quanto già argomentato da altri autori, ha il merito di approfondire la situazione tedesca evidenziandone la sostanziale convergenza con quella degli altri Paesi dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Le perplessità nascono laddove, come anticipato in sede introduttiva, la Wagenknecht  si sforza di riscattare il concetto di sinistra, sia riagganciandolo – acriticamente – alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, sia temperando il giudizio sulla sinistra neoliberale nel tentativo di distinguerla dal neoliberismo economico, il che la induce a imboccare una strada che conduce a un pasticcio ideologico che ha scarse chance di contribuire alla costruzione di un’alternativa al dominio neoliberale. 

Sulla conversione delle sinistre al neoliberalismo disponiamo già del contributo, fra gli altri, di autori come Nancy Fraser che ha coniato la formula neoliberismo progressista per denotare l’alleanza fra liberalismo di sinistra e liberismo economico (5), o di Wolfgang Streeck, che nei suoi lavori parla della fine della liberal democrazia dovuta al definitivo divorzio fra liberalismo e democrazia (6), ma l’approccio di Wagenknecht, forse perché è più lontana dalla cultura marxista degli autori appena citati, è decisamente meno radicale. Pur riconoscendo che fra liberalismo di sinistra e neoliberismo economico esistono molte convergenze, in quanto riflettono entrambi la visione di strati sociali che sono stati premiati dai grandi mutamenti socioeconomici degli ultimi decenni, continua a coltivare l’illusione che esista un liberalismo di sinistra non ispirato al liberismo economico. È vero che questa differenza si riduce alla disponibilità a tenere in vita un welfare “riformato”, fondato su provvedimenti come l’istituzione di un reddito di base incondizionato che, invece di promuovere politiche finalizzate al conseguimento di uno stato di piena e buona occupazione, si limitano a offrire ai poveri un’assistenza di tipo umanitario, ciò non toglie, secondo Wagenknecht, che queste differenze conservino traccia della sinistra liberale “classica”, che nulla avrebbe a che fare con l’attuale neoliberismo “progressista”. 

Per sinistra liberale “classica”, Wagenknecht intende movimenti come la sinistra laburista di Corbyn e quella democratica di Sanders o, per restare in Germania, le ali di sinistra di SPD e Linke. Il che implica che, secondo lei, per rianimare una sinistra degna di questo nome, basterebbe restituire centralità al ruolo dello Stato (di questo Stato) in economia, senza che ciò debba essere necessariamente associato a un progetto di trasformazione sistemica; progetto che del resto, a partire dalla svolta di Bad Godesberg, non fa più parte della cultura socialdemocratica tedesca. La “sua” sinistra dovrebbe essere “liberale e tollerante” e collocarsi nella tradizione dell’illuminismo occidentale che l’autrice assume come un complesso di valori universali privi di connotazioni storiche e politiche (7). 

Insomma Wagenknecht è una liberale (“classica”) senza se e senza ma, al punto che si compiace nel scrivere che “oggi la maggioranza dei cittadini pensa in maniera molto più liberale rispetto a pochi decenni fa, lo spirito dei tempi è solidamente liberale” e che “il nostro sistema politico è ancora liberale e bisogna sperare che continui ad esserlo”. Di più: da buona tedesca, Wagenknecht non si rifà semplicemente alla tradizione liberale bensì a quella dell’ordoliberalismo, un pensiero che esalta in quanto impegnato a limitare il potere dei monopoli e garantire le condizioni di una “sana” concorrenza e che, a suo avviso, fino agli anni Novanta, avrebbe premiato “il merito, gli sforzi per migliorarsi e l’operosità individuale”. Non una parola sul fatto che la “libera” concorrenza (Marx docet) genera monopolio, che il merito e la competizione individuale per migliorarsi sono stati la base ideologica su cui è venuta crescendo quella sinistra alla moda che giustamente le sta sui nervi. Non una parola sul fatto che la potenza e il benessere del suo Paese si fonda su un modello di sviluppo mercantilista che ha potuto sfruttare, grazie all’egemonia tedesca sulla Ue, il lavoro a basso costo degli operai del Sud e dell’Est Europa. Infine rammarico per un industria tedesca che sarebbe in crisi non a causa delle contraddizioni interne al suo modello di sviluppo bensì delle “importazioni cinesi basate sul dumping”, puntando il dito contro quella Cina “che intrattiene con la democrazia e con i diritti civili un rapporto quale non ci augureremmo mai in Europa”. In conclusione mi scappa da dire: cara Sahra non capisci che quella sinistra alla moda che giustamente ti irrita è l’erede della tradizione liberal socialista del tuo Paese che oggi ti ispira tanta nostalgia? 


Note      

(1) Questa percentuale ricorre in tutte le analisi della composizione sociale delle società occidentali, anche se i criteri di ricerca variano. Piketty, ad esempio, si riferisce a quegli strati sociali che più di altri hanno beneficiato delle politiche redistributive del “trentennio glorioso”, ciò che ha loro permesso di integrare il reddito da lavoro con rendite derivanti dal possesso di beni immobili e titoli di stato.

(2) A usare questa definizione è, fra gli altri, il geografo francese Christophe Guilluy, autore di una serie di opere in cui descrive la dimensione territoriale del conflitto di classe.  

(3) A usare questa sprezzante definizione nei confronti delle classi inferiori è stato l’ex presidente socialista francese François Hollande. 

(4) Questo fenomeno di autocensura indotto dalla pressione del discorso delle élite sull’opinione pubblica è stato analizzato dalla sociologa tedesca Noelle Neumann che lo definisce “la spirale del silenzio” (La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017).

(5) Cfr. N. Fraser, Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(6) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013. 

(7) La Wagenknecht respinge l’accusa che il pensiero postcoloniale rivolge alla razionalità occidentale, definendola eurocentrica e colonialista, ma se all’ideologia postcoloniale si possono rivolgere molte critiche, questa accusa è invece, piaccia o meno ai paladini dell’ideologia occidentale, un suo merito indiscusso.

      

    

mercoledì 8 giugno 2022

    LA STRANA STORIA DI PUTZI





Il pianista di Hitler è un curioso libro di Thomas Snégaroff, noto giornalista francese, che, a metà fra la biografia e il romanzo storico, ricostruisce la vita di Ernst Hanfstaengl, più noto con il soprannome di Putzi (ometto in dialetto bavarese) affibbiatogli da una domestica quando aveva due anni e rimastogli appiccicato malgrado il, o forse a causa del, grottesco contrasto con la sua statura da adulto (era alto due metri). Figlio di un’americana e un tedesco (entrambi di famiglie altolocate) quest’uomo ha avuto accesso alle alte sfere di entrambi i mondi: è stato amico di Hitler e Göring, ma anche di Roosvelt, ha conosciuto Churchill e Jung – che lo ha avuto brevemente in  cura – e ha frequentato star della cultura come Djuna Barnes e Leni von Riefensthal. 

Nato nel 1887, ha inseguito per tutta la vita – fino alla Seconda guerra mondiale – il sogno di favorire un’alleanza fra Stati Uniti e Germania in funzione antisovietica. Considerato dai più un esponente di spicco – ancorché non di prima fila – del regime nazista, mentre altri hanno dato credito alla sua rivendicazione di essersi strenuamente impegnato per “moderare” Hitler, sottraendolo all’influenza delle “anime nere” Rosenberg e Goebbels, ha sfruttato il fatto di essere fuggito a Londra, dopo essere caduto in disgrazia alla fine degli anni Trenta, per ottenere la riabilitazione, evitando così di finire processato dai tribunali alleati. Snégaroff si destreggia fra una enorme mole di materiali (gli archivi di Ernst Hanfstaengl conservati alla Biblioteca di Monaco, la sua autobiografia e un’ampia bibliografia sul personaggio e più in generale sui rapporti fra Stati Uniti e Germania in quegli anni), cercando di capire se Putzi sia stato un mostro abile nel camuffarsi da agnello oppure un ingenuo che si era lasciato affascinare da Hitler per poi pentirsi, riempendo con la fantasia i buchi irrisolti dalla ricerca documentale.  

Il titolo di Feltrinelli (che è lo stesso dell’edizione inglese, mentre quello di Gallimard è Putzi) rischia di essere depistante. Hanfstaengl non era un artista, semmai un mercante d’arte (per conto dell’impresa paterna, dove però ha sempre occupato un ruolo secondario, all’ombra del fratello maggiore); soprattutto non era un pianista di professione, anche se suonava divinamente il piano. A giustificare il titolo è il fatto che, nei primi anni Venti, il suo incontro con Hitler si consuma all’insegna di una sorta di fascinazione reciproca: Putzi è sedotto dall’oratoria del futuro Führer, quest’ultimo è estasiato dalle sue esecuzioni della musica di Wagner. 

Ciò posto, la ricostruzione di Snégaroff lascia pochi margini di dubbio: Hanfstaengl è stato un nazista della prima ora, entusiasta e convinto, che, nel corso del tempo, ha anche svolto ruoli di una certa importanza, come la gestione dell’immagine internazionale del regime (finché Goebbels non ha avocato a sé il controllo totale della comunicazione e della propaganda) soprattutto contribuendo ad eufemizzare la violenza del regime nei confronti di ebrei e oppositori e a catturare la simpatia di politici, intellettuali e artisti anglosassoni (sempre nella speranza di creare le condizioni per un’alleanza fra Usa e Terzo Reich). Pur con qualche momento di smarrimento (dopo la notte dei lunghi coltelli e le feroci epurazioni nei confronti delle SA, teme di poter finire a sua volta nella lista dei proscritti), la sua fedeltà nei confronti del Führer  non viene intaccata nemmeno quando costui lo emargina progressivamente, revocandogli amicizia, fiducia e incarichi. Finché, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, i gerarchi gli giocano un feroce scherzo, facendogli credere che dovrà paracadutarsi in Spagna per svolgere attività di propaganda per conto di Franco che sta combattendo contro l’esercito repubblicano e, dopo averlo fatto salire in aereo, simulano il suo lancio in una zona dove sono in corso feroci battaglie (la sua vigliaccheria fisica era nota). Temendo che lo scherzo sia il preludio della sua liquidazione, ripara a Londra e non tornerà se non a guerra finita (eppure anche in esilio non cessa di perorare la causa della Germania nazista presso gli angloamericani). 

Ernst Hanfstaengl


Secondo Snégaroff, la “conversione” antinazista (più che antihitleriana) di Putzi è tardiva, opportunistica e finalizzata non pagare dazio. Né il personaggio ha mai messo seriamente in discussione il proprio razzismo (anche se il suo antisemitismo non ha mai toccato livelli tali da giustificare la Shoà) né, tanto meno, il suo feroce anticomunismo. Tutto questo non sarebbe degno di particolare attenzione – un episodio marginale legato a un personaggio altrettanto marginale nei terribili decenni segnati dal nazifascismo – se non fosse che dal libro emergono prove evidenti e inconfutabili del vasto consenso e delle diffuse simpatie di cui il regime e l’ideologia nazista hanno goduto da parte delle élite angloamericane. Non si tratta solo di casi isolati ancorché clamorosi (Pound, Disney, Ford, re Edoardo VIII, ecc.): dalle frequentazioni e dalle memorie di Putzi emerge un’ampia rete di politici, giornalisti, diplomatici, intellettuali, artisti che guardava con favore a un regime che prometteva di annientare una volta per tutte la minaccia bolscevica. Emerge, anche, quanto fossero diffusi, tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti, sia l’antisemitismo che il razzismo in generale. Del resto è noto che Hitler trasse ispirazione dal massacro delle popolazioni amerindie e dalla segregazione dei neri americani per le sue elaborazioni “teoriche”.

L’orrore per l’Olocausto, coltivato assiduamente da media e politici occidentali, è sempre stato sospetto, in quanto finalizzato a rovesciarne l’intera responsabilità sul regime nazista e ad alimentare la narrazione della sua “unicità” e “alienità” rispetto alla cultura occidentale, rimuovendo le radici sotterranee del mito della supremazia bianca che legano Stati Uniti, Inghilterra e Germania, giustificandone le pulsioni imperiali nei confronti delle razze “inferiori”. Riconoscere l’esistenza di questo filo rosso aiuta a capire la naturalezza con cui l’Occidente sembra oggi accettare (ed esaltare) il ruolo dell’estrema destra ucraina in funzione antirussa (la fobia anticomunista sembra avere lasciato il posto  una versione aggiornata  del vecchio sogno hitleriano di sottomettere il popolo slavo). Concludo dicendo che questa mia lettura del libro di  Snégaroff è del tutto soggettiva: gli spunti che l’autore offre in questa direzione sono (almeno apparentemente) involontari. 


mercoledì 25 maggio 2022

PER RILEGGERE  FEDERICO CAFFE’ DA UNA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA








Nella collana Meltemi “Visoni eretiche” è appena uscito il nuovo libro (1) di Thomas Fazi, che quattro anni fa aveva inaugurato la serie con Sovranità o barbarie (2), dedicato al grande eretico della scienza economica, quel Federico Caffè che, dopo la sua misteriosa scomparsa (in data 15 aprile 1987), si è sollecitamente provveduto a rimuovere dai programmi di studio della disciplina perché la lucidità con cui aveva denunciato i rischi della svolta neoliberista – e previsto i disastri che ne sarebbero derivati – è imbarazzante per gli economisti e i politici (in particolare se di sinistra) che di quella svolta si fecero promotori e apologeti. Senza entrare nei dettagli dell’accuratissima ricostruzione che Fazi fa del pensiero e dell’impegno politico e sociale di Caffè, le pagine che seguono si propongono di: 1) ricordare quale fosse il senso comune condiviso dalla maggioranza degli economisti occidentali fino agli anni Settanta del secolo scorso; 2) riassumere i fondamenti teorici su cui si fondava, cioè la teoria keynesiana (e la lettura che ne diede Caffè, il primo a diffondere il pensiero di Keynes nel nostro Paese); 3) ricostruire a grandi linee della svolta neoliberista degli anni Ottanta, legittimata dalle “innovazioni” teoriche della sintesi “neokeynesiana” e della scuola neomonetarista; 4) rievocare la tenace quanto disperata opposizione di Caffè nei confronti del nuovo corso, con particolare attenzione alla sua irritazione nei confronti della conversione del PCI e del sindacato ai paradigmi del pensiero liberal/liberista.

Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea - con il cosiddetto piano Werner - fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia. Questo perché, a quei tempi, a livello accademico esisteva ancora un sostanziale accordo sul fatto che la politica economica dovesse essere prerogativa esclusiva dello stato-nazione. Dal che discendeva: 1) l’idea che spettasse a quest’ultimo il controllo delle principali leve di politica economica, a partire da quella monetaria e di bilancio; 2) una diffusa consapevolezza che i fenomeni monetari producono effetti concreti sulla distribuzione del reddito, sui livelli occupazionali sul benessere sociale. In altre parole,  la politica monetaria veniva vista come una componente strategica della politica economica generale, di cui in governi in carica dovevano assumere la piena responsabilità. (4) Del resto, questa visione era del tutto coerente con il regime keynesiano che, dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, era stato adottato da tutti i Paesi democratici occidentali (e non solo da quelli: anche i totalitarismi di destra, sia pure a modo loro, lo avevano fatto proprio). La filosofia che inspirava tale regime comportava una  forte presenza dello Stato in economia, non solo con politiche industriali a sostegno degli investimenti e della domanda attraverso la spesa pubblica, ma anche con interventi diretti, come lo sviluppo di importanti settori produttivi a capitale pubblico). A complemento di tale indirizzo politico erano previsti il rafforzamento dello Stato sociale (sanità, istruzione, indennità di disoccupazione, ecc.), politiche del lavoro finalizzate al raggiungimento della piena occupazione e alla crescita salariale; la valorizzazione del ruolo dei sindacati in quanto istituzioni preposte alla mediazione dei conflitti di interesse fra capitale e lavoro, e l’idea secondo cui la partecipazione delle classi lavoratrici alla vita politica dei loro paesi attraverso i partiti di massa fosse un elemento decisivo per lo sviluppo e il rafforzamento della democrazia (5). 

* * *

Chi è nato dopo gli anni Settanta e ha studiato economia nei decenni successivi, di Keynes conosce – ammesso e non concesso che abbia avuto l’opportunità di accostarsi al suo pensiero – la versione edulcorata e distorta che ne hanno dato i teorici “neokeynesiani” (sui quali torneremo più avanti), vale a dire l’idea secondo cui in situazioni di crisi è lecito ricorrere all’intervento pubblico per sostenere l’economia. Ma Keynes sosteneva ben altro: l’economia non richiede l’intervento dello Stato esclusivamente in caso di crisi, perché il capitalismo è non è solo soggetto a crisi periodiche ma è intrinsecamente instabile e strutturalmente incapace di assicurare la piena occupazione e un’equa distribuzione di reddito, per cui lasciarlo libero di operare seguendo i suoi “spiriti animali”  significa causare disastri. In particolare contestava la tesi liberista, secondo cui la disoccupazione è un fenomeno “naturale” che si aggrava in situazioni di contrazione del mercato ma, se si lascia che i salari  fluttuino verso il basso in base alla “leggi” del rapporto fra domanda e offerta, tende “automaticamente” ad essere riassorbita. Contro tale tesi, Keynes aveva dimostrato la possibilità che, in assenza di idonee misure di intervento pubblico, si instauri un equilibrio stabile di sottoccupazione per cui, al fine di mantenere condizioni di pieno impiego, occorreva  stimolare gli investimenti da parte delle autorità di governo centrali e locali, né tale politica avrebbe dovuto trovare ostacolo nel disavanzo del bilancio dello Stato che anzi veniva raccomandato (il cosiddetto deficit spending) (6). 

Per Keynes l’ozio forzato era il male assoluto, nella misura in cui vedeva nel lavoro il fondamento della dignità umana (di qui la famosa provocazione secondo cui sarebbe stato meglio pagare le persone per scavare buche e poi riempirle piuttosto che lasciarle in condizioni di inattività – battuta che venne interpretata alla lettera dai suoi detrattori, per poterlo accusare di “assistenzialismo”). Questa visione è chiaramente eretica in base ai canoni della razionalità e dell’etica capitalistiche, il che lascia intuire come, dietro di essa, non vi fossero semplicemente una concezione alternativa della politica economica ma il tentativo di affermare la possibilità di una civiltà completamente “altra”. Nella lettura di Caffè – e in quella di Fazi che la rilancia – il progetto di Keynes non è solo di natura economica, ma anche politico, sociale e morale; non si tratta semplicemente di riformare il capitalismo, ma di prospettare la transizione a una sorta di socialismo liberale e/o democratico.  

Ciò che Keynes aveva in mente, secondo Caffè e Fazi, era un “sistema misto” in cui lo Stato esercita un controllo centrale dell’economia programmando e pianificando l’attività generale, pur senza escludere l’iniziativa privata, ma disciplinandola nell’interesse della comunità (7). Non solo: la sua visione comportava anche provvedimenti ancora più indigesti per il punto di vista liberal/liberista, quali la regolazione politica dei rapporti economici e commerciali con l’estero (onde ottenere quanta più autosufficienza nazionale possibile), l’abolizione della libera circolazione dei capitali, la cosiddetta “eutanasia del rentier”, cioè di coloro che sfruttano a fini speculativi le situazioni di scarsità artificiale di capitale.

Nel solco di questa visione, argomenta Fazi, Caffè insisteva con particolare vigore nel denunciare – ben prima dell’uso strumentale che le nostre élite ne avrebbero fatto dopo l’ingresso dell’Italia in Europa - la tesi del vincolo esterno, vale a dire l’idea che le singole economie nazionali siano obbligate ad adattarsi alle “leggi” del mercato mondiale, anche a costo di pagare tale acquiescenza con la disoccupazione e la depressione. Una volta accettato il principio che l’azione pubblica è chiamata a correggere le varie forme di fallimento del mercato, non si vede perché tale principio non debba applicarsi anche alla sfera delle relazioni internazionali e, non c’è motivo di arrendersi al tabù della sacra libertà degli scambi, è chiaro  che le forme di regolamentazione degli stessi – e qui lo scandalo diviene assoluto – “non possono prescindere da misure protezionistiche”. In particolare, l’esportazione di capitali a fini speculativi poteva e doveva essere vietata perché Caffè - qui citato da Fazi - la considerava  “un diritto di veto, da parte di una sezione della collettività, nei confronti di provvedimenti che, malgradi le reazioni emotive eventualmente suscitate, siano stati riconosciuti conformi all’interesse della comunità nelle sedi politicamente qualificate a esprimere tale giudizio” (8).

In che misura questa lettura radicale delle teorie keynesiane può essere considerata “rivoluzionaria”. Bisogna intendersi sul termine. È pur vero che nel dibattito su riforme e rivoluzione che si svolse nella socialdemocrazia tedesca fra fine Ottocento e primo Novecento, sia Engels che Luxemburg sostennero che l’alternativa non era fra riforme o rivoluzione, bensì fra riforme fine a sé stesse e riforme in quanto strumento per agevolare la transizione al socialismo. Ciò detto, la posizione di Caffè può essere classificata come appartenente al secondo tipo? In un certo senso sì (e ciò vale in parte anche per Keynes), senonché occorre poi definire cosa si intende per transizione al socialismo. Mi pare di poter dire che Caffè, perlomeno secondo la lettura di Fazi, identifichi il socialismo con l’economia mista configurata dai primi articoli della nostra Costituzione, vale a dire con una società in cui “l’obiettivo di guadagno del privato imprenditore venga conseguito non a scapito ma congiuntamente all’obiettivo sociale del benessere della collettività” (9). Si dà il caso che questa definizione si avvicini molto sia alla concezione del socialismo di un autore come Carl Polanyi (10), sia a quella di “socialismo del secolo XXI” sviluppata dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina. Ma, almeno sul piano di alcune politiche economiche, non è molto dissimile nemmeno dal regime economico cinese emerso dalle riforme del 1978. Senonché, se le somiglianze con la visione di Polanyi sono innegabili, con gli altri sue esempi esiste una differenza radicale:  Caffè non contemplava che il controllo statale sull’economia fosse imposto con la forza della costrizione giuridica, o addirittura con quella delle armi. La sua visione, radicalmente illuminista, voleva imporsi attraverso la persuasione psicologica più che tramite la coercizione legislativa (11). Di più: ironizzando nei confronti del massimalismo delle sinistre radicali, parlava di un atteggiamento che tendeva a confondere la necessità di ottenere la piena occupazione e un salario dignitoso con una  palingenesi sociale che, in pratica, finiva per coincidere con la promessa della felicità nel regno dei cieli (12). Insomma, la visione di Caffè (ignoro fino a che punto condivisa da Fazi) coincide di fatto con quella dei costituenti, i quali non rigettavano tutto l’armamentario del liberalismo, ma solo la sua declinazione economica; per dirla in poche parole: la Costituzione come perfetta sintesi di una nuova visione liberalsocialista, ed è appunto questo, come argomenterò più avanti, il punto debole della sua aspirazione utopistica.   

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Fazi sottolinea come le posizioni di Caffè siano rimaste eretiche e, di fatto, marginali anche durante il “trentennio glorioso”, che pure viene oggi presentato come l’era dell’egemonia keynesiana. Questo perché la tecnocrazia e l’establishment economico- politico del nostro Paese opposero fin dall’inizio una feroce resistenza contro la messa in pratica dei principi costituzionali, nei quali vedevano un progetto anticapitalistico.  Il quartier generale di questa opposizione fu la Banca d’Italia, prima  con Luigi Einaudi, poi con Guido Carli, il quale, come spiega nelle sue memorie, perseguiva un modello di sviluppo mercantilista, fondato sulle esportazioni cui demandava il compito di trainare l’economia. Un modello le cui implicazioni sul piano dei rapporti di forza fra capitale e lavoro sono evidenti: si tratta di attuare una politica salariale restrittiva e favorire i settori industriali in grado di reggere la concorrenza internazionale.

Queste posizioni, esplicitamente neoliberali, venivano “camuffate” e vendute a sinistra grazie all’apporto teorico della scuola neokeynesiana, la quale di keynesiano aveva ormai solo il nome, dal momento che compiva un inversione di centottanta gradi rispetto alla posizione di Keynes, nella misura in cui riconosceva la possibilità di realizzare il pieno impiego mediante l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, senza ricorrere all’intervento pubblico. Autori come Samuelson, Solow, Modigliani pervertivano l’insegnamento di Keynes del quale mantenevano esclusivamente la necessità di ricorrere all’intervento pubblico in caso di crisi, mentre adottavano il punto di vista liberale  secondo cui lo Stato, in condizioni “normali”,  deve limitarsi a creare le condizioni ideali per favorire l’aumento della competitività e della produttività. In questo modo il senso comune liberale, cacciato dalla porta con l’approvazione della Costituzione del 1948, rientrava dalla finestra, riabilitando il concetto di politica dei redditi, vale a dire la necessità che questi ultimi venissero adattati di volta in volta alle condizioni imposte dal mercato. L’obiettivo era convincere la sinistra e i sindacati che in periodi  di forte disoccupazione fosse giusto accettare la riduzione del salario perché ciò avrebbe favorito una ripresa occupazionale. 

Federico Caffè


La prima metà degli anni Settanta, nei quali Caffè è impegnato a contrastare la controffensiva liberale camuffata da neokeynesismo, sono anche quelli della fine del regime di Bretton Woods.(1971). Caffè, ricorda Fazi, non lo amava in quanto era convinto che i sistemi a cambi fissi siano congeniati in modo da far ricadere l’onere dell’aggiustamento sui paesi debitori; dal suo punto di vista, il sistema Bretton Woods agiva come un vincolo esterno ante litteram, che consentiva ai ceti dominanti di contrastare le politiche salariali o fiscali favorevoli alle classi lavoratrici, nel nome della salvaguardia della bilancia commerciale (13). Ecco perché, dal momento che il nuovo regime di cambi fluttuanti rischiava di danneggiare i Paesi esportatori come la Germania, i maggiori Paesi europei si impegnarono prontamente a ripristinare una qualche forma di cambio fisso, inaugurando (nel 1972) quel serpente monetario che consentiva  agli stati della Cee di fissare reciprocamente le loro valute con un margine predeterminato di fluttuazione (14). Sono infine gli anni in cui la Trilaterale lancia il rapporto sulla “crisi della democrazia” (1975), il cui obiettivo fondamentale era sfruttare la progressiva tecnicizzazione delle discipline economiche per legittimare la spoliticizzazione delle decisioni di politica economica: una materia tanto complessa non può essere lasciata nelle mani degli umori ondivaghi di un’opinione pubblica  sprovvista degli strumenti per comprendere quali sono le scelte giuste da compiere. Caffè si illude di poter contare sul PCI e sui sindacati per contrastare questa svolta concettuale, dietro la quale traspare il disegno di scatenare una guerra di classe dall’alto, ma le sue speranze saranno amaramente deluse.  

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La battaglia di Caffè, secondo Fazi, era persa in partenza. Già nel dopoguerra, infatti, Il PCI aveva sposato la linea monetarista suggerita da Einaudi e dalla Banca d’Italia che, in barba alla Costituzione, dava priorità indiscussa della lotta all’inflazione, anche a scapito dell’obiettivo della piena occupazione. Di più: fra gli anni Sessanta e Settanta furono alcuni teorici marxisti, come O’Connor (15), a sostenere che, dal momento che la capacità dello Stato di sostenere la domanda dipende dalla possibilità di tassare il surplus dei capitalisti, la caduta dei profitti – dovuta anche alla spinta in alto dei salari generata dal ciclo di lotte operaie – faceva sì che Stato non fosse più in grado di svolgere la sua funzione regolatrice. In questo modo, il credo neoliberista che denunciava i rischi associati all’intervento pubblico in economia e l’espansione della spesa pubblica per finanziare le politiche sociali, veniva fatto proprio  dalle sinistre. Così la controffensiva padronale iniziata nel 76 (con l’adozione di misure deflazionistiche, il blocco biennale della scala mobile, l’abolizione di alcune festività, l’aumento delle tariffe di elettricità, telefono e poste) trovò un’autostrada aperta e, grazie alla crescita della disoccupazione, indebolì il potere contrattuale dei lavoratori. Come se non bastasse, di lì a poco l’Italia avrebbe aderito allo SME, primo passo verso la moneta unica. 

I nodi vennero al pettine nel 76, durante un convegno del CESPE indetto dal PCI in cui si scontrarono Modigliani e Caffè. Delle posizioni di Modigliani si è già detto, quanto a Caffè era consapevole che la sua lotta non si limitava alla difesa della scala mobile, ma consisteva nel rilanciare i principi sanciti dalla Costituzione, secondo i quali il lavoro non è una merce ma un diritto e il dovere dello Stato consiste nel promuovere politiche monetarie, fiscali, industriali sociali tese a realizzare la piena e buona occupazione. Su un piano più generale Caffè contestava l’ideologia del “vincolismo”, che attribuiva alle multinazionali, il potere di imporre vincoli ineluttabili ai singoli Stati, espropriando i governi della funzione di decidere le politiche economiche e sociali. Ugualmente contestò l’adesione allo SME, nel quale individuava correttamente l’allineamento di fatto delle valute comunitarie al marco, il che implicava l’assunzione delle linee di politica economica restrittive in vigore in Germania. Infine difese il sistema delle partecipazioni statali – che pure aveva criticato – sostenendo che, piuttosto che privatizzare, occorreva estendere il controllo pubblico ai settori bancario e farmaceutico. Fiato sprecato. Pci e sindacati adottarono la linea Modigliani, accordando il proprio consenso alle politiche di compressione salariale e della spesa pubblica nonché all’incremento della produttività senza chiedere contropartite. inoltre, con la esiziale svolta dell’EUR, la CGIL arrivò a sposare la tesi per cui, dato che lo sviluppo dipende dalla capacità competitiva delle imprese sul mercato mondiale, occorreva affrontare lo shock dell’aumento dei prezzi delle materie prime agendo sull’unico ambito di riduzione dei costi disponibile: il salario. 

Qualche  anno più tardi, nel 1982, allorché quelle scelte scellerate avevano già prodotto i loro disastrosi quanto prevedibili effetti, determinando la disfatta della classe operaia, simbolicamente culminata con la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, Caffè indirizzò – sulle pagine dell’Espresso – una lettera aperta a Berlinguer nella quale gli rinfacciava di avere accettato la politica dei redditi in cambio di una illusoria legittimazione del suo partito come forza di governo. Il libro di Fazi la riproduce integralmente, mentre qui ne citiamo un lungo estratto “Gli effetti sull’economia italiana sono stati (…) quelli di un apporto di rilevante importanza a una gestione dell’economia di corto respiro, che va avanti giorno per giorno, ma senza che siano in vista traguardi plausibili. Frattanto la critica del cosiddetto assistenzialismo, in quanto si presta a deformazioni clientelari; il ripudio di ogni richiamo alla valorizzazione dell’economia interna, in quanto ritenuta contrastante con la ‘scelta irrinunciabile’ dell’economia aperta; il frequente indulgere al ricatto allarmistico dell’inflazione, con apparente sottovalutazione delle frustrazioni e delle tragedi ben più gravi della disoccupazione, costituiscono orientamenti che, seguiti da una forza progressista come quella del Partito Comunista  (…) possono contribuire ad allontanare, anziché facilitare, le incisive modifiche di fondo che sono indispensabili al nostro paese. In ultima analisi, ho l’impressione che l’acquisizione del consenso stia diventando troppo costosa, in termini di sbiadimento dell’aspirazione all’egualitarismo, della lotta all’emarginazione, dell’erosione dei principi del privilegio…” (16). Cinque anni dopo Caffè spariva senza lasciare traccia, assieme al suo insegnamento che Fazi si è meritoriamente incaricato di disseppellire.

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Facciamo un passo indietro. Poco sopra, citando l’ironia di Caffè nei confronti di coloro che confondono il socialismo con l’avvento del regno dei cieli, ho richiamato il dibattito nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento - primo Novecento in merito al dilemma riforme vs rivoluzione. Ho ricordato che Engels e Luxemburg spostarono giustamente l’attenzione su un’altra opposizione: riforme fine a sé stesse vs riforme come tappa sulla via della transizione al socialismo. Questo dibattito – cruciale – è tornato di attualità in campo marxista di fronte alla necessità di dare un giudizio sia sulla natura dei recenti processi rivoluzionari in America Latina (dove le forze socialiste sono salite al potere per vie legali), sia su quella del regime cinese dopo le riforme di apertura al mercato degli anni Settanta. La questione è di estrema complessità e non è questa la sede per sviscerarlo (17), per cui limito ad enunciarne alcuni nodi strategici. Se si accettano i seguenti presupposti 1) che il processo di transizione al socialismo sarà di lunghissima durata; 2) che esso potrà convivere con il mercato e dunque, inevitabilmente, con varie forme di lotta di classe, ne consegue che la transizione potrà assumere il carattere di un’economia mista con tratti non molto dissimili da quelli auspicati da un keynesiano radicale come Caffè. Il punto debole della visione di Caffè, a mio avviso, non consisteva tanto nel suo approccio teorico quanto 1) nella sua concezione “irenica” della lotta di classe (nell’idea cioè che i capitalisti possano essere convinti ad autolimitare il proprio potere attraverso argomentazioni etico-razionali); 2) nella convinzione che la transizione a una nuova civiltà si possa ottenere semplicemente applicando i principi della Costituzione del 48 (dimenticandone gli ampi margini di ambiguità che rispecchiavano un compromesso politico, sociale, culturale e geopolitico che solo in quella specifica contingenza storica poteva essere raggiunto). Quindi la questione non riguarda tanto il programma quanto i mezzi per attuarlo. La Cina non può essere il nostro modello, ma una cosa certamente ci insegna: espropriare i capitalisti del potere politico senza espropriarli di quello economico è un  miracolo che può essere realizzato solo da un regime guidato da uno stato-partito comunista. Una volta defunti i partiti socialdemocratici, il socialismo non è più un’alternativa al comunismo: è una via per marciare verso la “civiltà possibile” auspicata da Caffè che solo i comunisti possono imboccare.     


Note

(1) T. Fazi, Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, Milano 2022.

(2) T. Fazi, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale,  Meltemi, Milano 1918.

(3) Una civiltà possibile, cit. p. 30.

(4) Ibidem. 

(5) Ivi, p. 36.

(6) Ivi, p. 33.

(7) Ivi, p. 38.

(8) Ivi, p. p. 50/51.

(9) Ivi, p. 53.

(10) Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(11) Una civiltà…, cit., p. 53.

(12) Ivi, p. 58. Per una critica del comunismo come paradiso in terra vedi quanto ho scritto a proposito del Principio speranza di Bloch su queste pagine https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/07/glosse-al-principio-speranza-di-ernst.html . Per una riflessione più complessiva in merito a certi aspetti profetico escatologici dell’utopia marxista cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi su Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2020. 

(13) Ivi, p. 100.

(14) Ivi, pp. 103/104.

(15) Cfr. J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977. Curiosamente, la tesi di O’Connor non fu sfruttata solo da destra, cioè dal PCI che in essa vedeva la legittimazione della propria svolta in materia di politica economica, ma anche, da sinistra, cioè dai teorici operaisti e postoperaisti, i quali la citavano a conferma del fatto che lo sviluppo del capitalismo è interamente determinato dalle lotte operaie, le quali non sono solo in grado di influire sui processi di produzione, ma anche su quelli riproduttivi e sugli stessi dispositivi di funzionamento della macchina statale; di più: questa lettura “sovversiva” di O’Connor contemplava anche l’idea che il ciclo di lotte operaie degli anni 690 e 70 avesse definitivamente chiuso qualsiasi possibilità di integrare il proletariato nel sistema attraverso provvedimenti riformisti di ispirazione keynesiana.  

(16) Citata in Una civiltà…, cit. pp. 194/195.

(17) Me ne occupo estesamente in un libro sul Socialismo del secolo XXI a cui sto lavorando.

DODICI PROVOCAZIONI PER UN RINNOVAMENTO DEL MARXISMO Premessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politic...

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