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giovedì 16 febbraio 2023

IL MARX "TEOLOGO" DI ENRIQUE DUSSEL





Argentino di Mendoza, filosofo ed esponente di punta della Teologia della Liberazione, il quasi novantenne Enrique Dussel insegna Etica alla UNAM di Città del Messico dopo avere vagabondato fra diverse università europee (Madrid, Parigi, Friburgo) e lavorato per due anni in un kibbutz israeliano. Una parte cospicua della sua monumentale produzione intellettuale è dedicata ad una meticolosa esegesi del testo marxiano che Dussel concepisce come una sorta di teologia occulta, intrecciata con, e nascosta dietro, le argomentazioni della critica dell'economia politica, in un impasto inestricabile di analisi scientifica e giudizio etico sui mali della civiltà capitalista. Fra i testi tradotti in italiano segnalo, fra gli altri, L'ultimo Marx (Manifestolibri, Roma 2009) e Le metafore teologiche di Marx (Shibboleth, Roma 2018). L'influenza della Teologia della Liberazione in generale (1) e di Dussel in particolare sui processi rivoluzionari latinoamericani degli ultimi decenni è innegabile, al punto che, senza conoscerne alcune  idee fondamentali, è difficile afferrare il senso del processo politico che in America Latina va comunemente sotto il nome di socialismo del secolo XXI, così come è difficile capire le ragioni per cui i partiti marxisti tradizionali (siano essi stalinisti, trozkisti o maoisti) non sono stati alla guida dei processi in questione. Ecco perché ritengo utile integrare l'analisi che il mio ultimo libro (2) dedica alle rivoluzioni bolivariane con questo articolo sul pensiero di Dussel.  Mi occuperò qui in particolare del libro Le metafore teologiche di Marx. 


1. La formazione teologica di Marx

La tesi di fondo di Dussel è che le innumerevoli citazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento che si possono trovare in tutte le opere di Marx, tanto nelle giovanili quanto nelle mature (quelle che Dussel chiama metafore teologiche), non sono semplici espedienti retorici che servono solo a chiarire concetti filosofici di non agevole lettura, ma compongono la trama di una vera e propria "teologia negativa", un impianto etico e non solo euristico dunque, che ha come obiettivo la demistificazione del culto feticistico del dio-capitale. Laddove Marx, sulle tracce di Feuerbach,  definisce la religione come "oppio dei popoli", argomenta Dussel, il vero bersaglio non è la religione ebraico cristiana, ma la sua versione secolarizzata, ibridata e imbastardita dai principi e dai valori dell'economia politica borghese e depurata dalla carica sovversiva del profetismo ebraico e del cristianesimo delle origini. Ma se quello di Marx è un ateismo sui generis, scrive Dussel, ciò non significa che il filosofo di Treviri sia l'autore di una teologia alternativa, il suo pensiero "religioso" non oltrepassa infatti l'orizzonte di quell'utopia antropologica che è il comunismo realizzato. Prima di approfondire questi concetti, dobbiamo però seguire Dussel nel suo tentativo di definire le fonti da cui Marx avrebbe attinto il materiale della sua teologia negativa, fonti che Dussel rintraccia nelle esperienze formative del giovane Marx.


Dopo avere ricordato che Marx si era preparato per divenire professore associato del teologo Bruno Bauer, esponente di spicco della sinistra hegeliana, e che nella storia della sua famiglia vi erano stati molti rabbini (benché il padre, diversamente dalla madre, si fosse convertito al cristianesimo), Dussel aggiunge che da ragazzo Marx frequentò un seminario luterano di Tubingen, noto per la sua vicinanza alla corrente pietista. Dussel insiste molto su questa impronta pietista che, a suo avviso, ha influito non poco sulle idee che il filosofo avrebbe sviluppato nel corso della vita successiva. In particolare, sostiene Dussel, Marx avrebbe ereditato dal pietismo la priorità della prassi (Spener, il fondatore del pietismo tedesco, diceva che "la realtà della religione consiste non in parole, bensì nei fatti"); la valorizzazione e il riconoscimento della dignità del corpo, della carne (il sacrificio non è sintomo di santità bensì della falsità degli dei che si venerano); la ricerca della giustizia qui sulla terra, perché è dall'ingiustizia che origina il male, per cui le esigenze di chi soffre vanno soddisfatte qui e adesso); infine la profezia dell'avvento di una società perfetta, di una nuova età dell'oro (3). 


Il giovane Marx in una litografia



Prima di diventare socialista, scrive Dussel, Marx era un piccolo borghese democratico radicale che lottava per la libertà contro l'autoritarismo dello stato prussiano, e criticava quelle chiese che avevano favorito la confusione fra stato poliziesco e religione cristiana (4), fondando la propria critica tanto sulla tradizione del profetismo ebraico quanto su quella dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali. La rottura di tale tradizione, secondo Dussel, va fatta risalire alla svolta in ragione della quale la Chiesa iniziò a distinguere fra usura e interesse, la prima in quanto vizio di avidità sfrenata il secondo in quanto lecita ricerca di profitto. E' in quel momento che si apre il varco alla colonizzazione della religione da parte del capitale, mentre spetterà successivamente ai padri fondatori del liberalismo moderno consacrare la santità della proprietà nel contesto di un utilitarismo "cristiano" (Locke) e sacralizzare la concorrenza nel mercato, riconoscendovi un campo teologico provvidenziale (la mano invisibile di Adam Smith). La "teologia negativa" del Marx socialista smaschera questi falsi profeti, svelando il volto osceno del dio che costoro venerano. 



2. Ateismo come critica del feticismo      


Dussel non ha dubbi: il concetto di feticismo - feticismo della merce, feticismo del denaro, feticismo del capitale - è il filo rosso che salda in un unico monumentale blocco l'intera opera di Marx, dai Manoscritti economico filosofici all'ultima stesura del Capitale (5), e questo filo rosso è intessuto sia di fibre analitico-filosofiche che di fibre etico-religiose, in un inestricabile intreccio. Il feticcio (in portoghese fetiço, fatto da mano umana (6)) è opera e prodotto dell'uomo che oggettiva in esso il proprio potere creativo, è oggettivazione della vita umana che, con l'affermarsi dei rapporti capitalistici di produzione, si erge come un potere autonomo, alieno, davanti al produttore.   La natura "sensibilmente sovrasensibile" della merce inscena la commedia del valore di scambio, relegando dietro le quinte le relazioni sociali fra persone (7) per affidare il ruolo dei protagonisti alle relazioni fra cose; ciò che nelle società precapitalistiche appariva il dominio di una persona su un'altra, nella società capitalistica appare come il dominio delle cose sulle persone; se prima il mio lavoro era espressione vitale, sotto le condizioni del dominio della proprietà privata è sacrificio della vita, produzione dell'oggetto in favore di un potere estraneo. 


Per Marx il feticismo non resta confinato nel mondo delle merci: è una bolla che si gonfia a dismisura, fino inglobare la totalità delle relazioni sociali: è feticismo del denaro che, da mero strumento, mezzo di circolazione, si erge progressivamente a dio del mondo delle merci, ne incarna l'esistenza celeste; è feticismo del capitale che appare in tutta la sua potenza nell'interesse, che si presenta come creazione di valore dal nulla, come "emanazione" del capitale che in questa forma cancella ogni mediazione e diviene appunto capitale-feticcio; è infine (e questo è l'aspetto meno percepito del feticismo, annota Dussel) feticizzazione dello stesso lavoro vivo, nella misura in cui esso appare, agli occhi del capitalista ma anche a quelli dello stesso operaio, una merce come tutte le altre. Il processo di feticizzazione è progressivo: ce n'è di meno ai livelli più profondi della produzione, tocca il culmine ai livelli più superficiali della circolazione. 


Enrique Dussel



Ma perché, secondo Dussel, la critica filosofica dell'economia politica non può essere disgiunta dalla critica religiosa, dalla condanna etica del capitalismo come struttura "satanica"? Basta accostare la denuncia marxiana del feticismo del capitale con la maledizione di Mosè contro il vitello d'oro, la condanna profetica del cedimento del popolo ebraico alla tentazione idolatrica? Certamente no, ma Dussel va più a fondo nello scavo nelle metafore teologiche del testo marxiano: lavoro, terra e denaro feticizzati, trasformati in false merci (8), nella triade profitto, rendita, salario, rappresentano una trinità satanica, i tre volti di Moloch, la parodia di un cristianesimo rovesciato. Il valore che partorisce valore, che assume progressivamente gli attributi di un dio auto-creatore a partire dal nulla, che si auto erige a potere civilizzatore, fonte di libertà, divinità provvedente; il denaro che si trasforma in dio è il rovesciamento di Cristo (9), è l'Anticristo, è la Bestia dell'Apocalisse, Moloch, Mammona, Baal. Al contrario di Nietzsche, scrive Dussel, Marx non dice che Dio è morto, perché il capitale è un dio vivo e vegeto che esige sacrifici umani; il sangue-vita del lavoratore si sacrifica al feticcio e viene transustanziato nella vita-sangue del capitale (in lavoro morto). Il cristiano può accettare il dominio del capitale solo perché ha rimosso l'impegno del cristianesimo originario per la liberazione di poveri e oppressi e/o perché la scienza economica borghese occulta la realtà di ingiustizia e sfruttamento che si cela dietro le leggi "naturali" del mercato; ma non appena il credente prende coscienza della contraddizione antagonista tra cristianesimo e capitalismo non ha altra scelta se non imboccare la via tracciata dalla Teologia della Liberazione, che altro non è se non quella della critica marxiana del capitale feticcio. 


La "simpatia" (in senso filosofico-metafisico, non psicologico) fra la marxiana critica dell'economia politica e la tradizione ebraico cristiana affonda le radici, secondo Dussel, nella comune visione materialista. Si è detto della valorizzazione della dignità del corpo nel cristianesimo primitivo (Cristo è il dio che si è fatto carne e sangue), così per Marx il lavoratore non è mai riducibile, se non nella mistificazione feticista, a merce forza-lavoro: è pura e semplice possibilità di lavorare presente e racchiusa nella vivente corporeità del lavoratore; l'altro del capitale, ciò che è effettivamente non capitale, è il lavoro stesso. L'accumulazione primitiva, il processo che, separando il produttore dal mezzo di produzione, consente di trasformare il lavoro vivente in merce forza lavoro, occupa, nella teologia materialista di Marx, il posto del peccato originale. 


Ciò detto, a Dussel non sfugge il fatto che il discorso di Marx non è  riducibile a una sorta di religione "travestita" da critica scientifico-filosofica (10). E' vero che invita a "comprendere ermeneuticamente" il senso della fitta trama di metafore teologiche presenti nel testo marxiano come "sistema", cioè non come meri esempi isolati bensì come frutto di una logica che lascia intravvedere una teologia speculativa in potentia. Ed è vero che sostiene che il Dio negato da Feuerbach e Marx è il dio-feticcio di Hegel e del capitalismo industriale e colonialista europeo, aggiungendo che essere "atei" nei confronti di questo dio "è condizione per potere adorare il Dio dei profeti di Israele". E' però altrettanto vero che non può non riconoscere che, mentre enuncia il momento negativo della dialettica profetica, la negazione della divinità del feticcio, Marx non arriva  a formulare un momento affermativo, se non come visione antropologica di un mondo (il comunismo realizzato) in cui l'uomo sarà liberato dall'oppressione dei sacerdoti del dio feticcio. 


Tornerò più avanti sull'ultimo punto. Prima vorrei anticipare alcune delle conclusioni politiche che Dussel trae dai ragionamenti fin qui esposti, conclusioni di assoluto rilievo in merito all'influenza che la Teologia della Liberazione ha svolto e tuttora svolge nei processi rivoluzionari latinoamericani. Nel libro che stiamo discutendo Dussel rilancia un tema già trattato ne L'ultimo Marx: si chiede cioè cosa avrebbe pensato Marx delle lotte di liberazione dei popoli di Asia, Africa e America Latina, lotte in cui la resistenza all'imperialismo e al colonialismo attingono ai valori di profonde e radicate religioni ancestrali. Probabilmente, risponde, non avrebbe disprezzato la creatività simbolica di quei popoli, al contrario dei marxisti ortodossi latinoamericani, che hanno allontanato le masse dal marxismo per restare fedeli a un ateismo giacobino e borghese, ma avrebbe ragionato su come sfruttare quelle energie creative nella lotta anticapitalista (11). La questione, come ho sostenuto in precedenti occasioni (12), è fondamentale per capire perché il socialismo bolivariano non è nato da lotte guidate dai partiti marxisti tradizionali, bensì da rivoluzioni "spurie", delle quali i populismi di sinistra e i movimenti indigenisti sono stati i veri protagonisti, assumendo  carattere socialista solo in un secondo tempo. Ma anche su ciò tornerò più avanti. 



3. Due osservazioni aggiuntive


Valorizzando le metafore teologiche e l'atteggiamento antidogmatico dell'ultimo Marx, Dussel cerca di piegarne il discorso in modo da renderlo funzionale al proprio progetto filosofico, che non può fare a meno di una fondazione teologica in senso stretto, e non in senso puramente metaforico. Quest'ultima affermazione trova conferma laddove scrive che "la negazione della divinizzazione feticistica deve essere propedeutica all'affermazione di un Assoluto alterativo che permetta di avere un punto di appoggio di esteriorità sufficiente per poter effettuare nuove critiche in ogni ordine futuro possibile (sottolineatura mia)". Dal che deriva: 1) l'ateismo sui generis di Marx non basta, nel senso che, per soddisfare le aspettative di Dussel, la teologia negativa del filosofo di Treviri deve essere necessariamente fatta evolvere in teologia positiva; 2) se il fine di una auspicata religione materialista è instaurare il regno di Dio qui sulla terra, il regno in questione non può coincidere con il comunismo, il quale, come domanda di salvezza evocata da una situazione feticizzata, "è un limite, un orizzonte contro fattuale, un'idea regolativa, un concetto utopico o anche il contenuto di un'economia trascendentale, non un momento o figura della storia"; 3) infine questa relativizzazione del valore storico dell'utopia comunista rispecchia l'esigenza di integrare quest'ultima in un orizzonte profetico che non si limiti a negare il dominio del capitale, ma si proponga di liquidare ogni forma di dominio, a partire da quella statuale ("all'origine della monarchia di Israele si vede chiaramente il confronto tra il profetismo e il potere politico", scrive, per poi aggiungere che "il profeta è un resto escatologico di esteriorità che permette sempre di poter criticare il sistema"). 


Come si vede non si tratta tanto e solo di criticare il miope dogmatismo dei partiti marxisti latinoamericani, bensì l'intera esperienza del socialismo reale che, a causa della mancanza di un dio alterativo, si è posto come "realizzazione sacrale insuperabile di un'ordine che non poteva più trovare in nessuna esteriorità il punto di appoggio della sua propria critica". In poche parole, la visione politica di Dussel può essere definita come un'utopia religiosa, anarco-comunista e comunitaria (con chiaro riferimento al modello delle comunità ancestrali amerindie). Tale definizione trova riscontro nel curioso tentativo di Dussel di mettere in opposizione le categorie marxiane di sociale e comunitario. Così scrive: "il carattere feticista del valore si comprende a partire dal carattere sociale del lavoro opposto al carattere comunitario (presuntamente originario NdA) dello stesso"; e ancora: "il carattere sociale - termine negativo che indica la perversione della relazione - del prodotto-merce gli viene dato dalla non comunità dello scambio e del mercato e la socialità della merce socializza i produttori isolati"; per finire: "il lavoro sociale è perversione del lavoro comunitario e il prodotto merce è la perversione del prodotto immediatamente sociale". 


Chiunque abbia letto con attenzione le opere di Marx sa tuttavia che in esse non esiste alcuna connotazione negativa né dell'aggettivo né tantomeno del sostantivo sociale. Al contrario: il processo di socializzazione imposto dal modo di produzione capitalistico, pur con il  prezzo di miseria e sofferenza che impone al lavoratore ridotto a "produttore isolato", viene considerato come il presupposto della transizione un livello più elevato, autoconsapevole e solidale di socializzazione; né l'idea marxiana di comunismo può essere assimilata a quella del ritorno a un comunitarismo delle origini sul cui carattere idilliaco Marx non ha mai nutrito illusioni. Il che non toglie che le provocazioni di Dussel possano contribuire al rinnovamento di un marxismo che, soprattutto qui in occidente (13), sta sempre più sprofondando in uno sterile dogmatismo eurocentrico.   


4. Qualche considerazione conclusiva


Non dubito che attribuire valenza positiva alle provocazioni teologiche di Dussel possa far storcere il naso ai puristi, in quanto cedimento nei confronti d'una indebita commistione fra il diavolo (la religione ebraico cristiana) e l'acqua santa (il materialismo storico e dialettico), commistione che spesso è stata usata dai pensatori di destra per negare la scientificità dell'opera marxiana (14). Resto tuttavia del parere, contro i fan della scuola althusseriana, che non sia possibile estrarre dai testi di Marx un'analisi scientifica "pura", separandola dal giudizio morale sul capitalismo in quanto "male". A ciò si aggiunga che in Marx convivono diversi "regimi narrativi", per dirla con Costanzo Preve (15), uno dei quali presenta una innegabile aura provvidenzialistica. 


Ma il vero punto è un altro: sempre Preve sostiene giustamente l'impossibilità di ricostruire il significato "autentico" del pensiero marxiano, nella misura in cui l'incorporazione del discorso originario in qualche tipo di neoformazione ideologica (in questo caso nel discorso della Teologia della Liberazione) "è una forma necessaria di esistenza del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico sociale"; simili ideologie non sono liquidabili come "falsa coscienza" ma sono strumenti di lotta forgiati su misura di precisi contesti storici, culturali e socioeconomici. Poco sopra parlavo dell'influenza della Teologia della Liberazione sui processi rivoluzionari latinoamericani, ma la relazione è dialetticamente rovesciabile, nel senso che l'interpretazione del pensiero marxiano da parte della Teologia della Liberazione è il frutto di cinque secoli di sfruttamento e oppressione coloniale da parte dei colonizzatori spagnoli e portoghesi, di una storia in cui a difendere le popolazioni autoctone sono state a lungo solo certe comunità cristiane (soprattutto gesuiti e francescani), le quali, per potere integrare e proteggere le culture indigene, hanno accettato o addirittura favorito il sincretismo fra la propria fede e le culture tradizionali, il che ha fatto sì che un certo "marxismo teologizzato" si sia rivelato uno strumento di lotta più efficace del marxismo "ingessato" dei partiti di sinistra tradizionali (che perlopiù reclutano i propri militanti nelle fila della piccola borghesia urbana europeizzata).


Ciò non significa che le tesi di Dussel siano esenti da critiche. Penso soprattutto alla curiosa attribuzione di valore negativo che, secondo lui, il termine "sociale" avrebbe nel testo di Marx (vedi sopra). Quello che è oggi probabilmente il più raffinato teorico marxista latinoamericano, l'ex vicepresidente boliviano Linera, ha il merito di avere allargato il concetto di antagonismo di classe, inglobandovi le comunità ancestrali andine che, pur non essendo direttamente e pienamente integrate nel processo di accumulazione capitalistico (e quindi compromesse nelle forme di socialità astratta che ciò implica), sviluppano un rapporto di opposizione antagonista con il capitalismo nella misura in cui questo aggredisce le condizioni su cui si fonda la loro possibilità di riprodursi (16). Questo è in sintonia con il punto di vista di Dussel, tuttavia lo stesso Linera, polemizzando con l'estremismo "comunitarista" dell'ambientalismo indigenista e delle sinistre radicali urbane (17), non esita a sostenere le ragioni della socializzazione, intesa come conoscenza dei rapporti fra tutte le classi e come coscienza della necessità di fondere gli interessi delle classi subalterne in un blocco sociale, ma anche come potere statuale, in quanto lo stato, scrive, non è il Moloch, il male assoluto, bensì il terreno di cui le classi subalterne possono e devono assumere il controllo per migliorare le proprie condizioni di vita. 


Restando in tema: è chiaro che il punto di vista di Dussel non può essere simpatetico con la via cinese al socialismo che attribuisce allo stato/partito il controllo assoluto sul sistema politico, economico e sociale. Tuttavia ciò significa ignorare che il "socialismo in stile cinese" è, al pari del socialismo del secolo XXI latinoamericano, il prodotto di una rivoluzione antimperialista e anticoloniale basata sulla commistione fra il marxismo-leninismo e le millenarie tradizioni culturali cinesi, come il confucianesimo e il taoismo. Criticarlo dal punto di vista di un marxismo teologizzato e comunitarista significa assumere, di fatto, la stessa postura eurocentrica che Dussel rimprovera ai marxisti ortodossi dell'America Latina, nella misura in cui la tradizione ebraico cristiana viene considerata superiore a quella confuciano-taoista.


Ma il nodo problematico su cui mi preme richiamare soprattutto l'attenzione è quello dell'utopia comunista. Si è detto che Dussel parla di "un'idea regolativa, un concetto utopico o anche il contenuto di un'economia trascendentale, non un momento o figura della storia". Mi pare chiaro che questa de storicizzazione dell'orizzonte utopico non è dovuta al fatto che Dussel non vuole sacralizzare un'aspettativa "terrena", in quanto ciò sarebbe in contraddizione con la sua teologia materialista, con l'affermazione che il regno di Dio inteso come liberazione degli ultimi dalla sofferenza deve essere realizzato qui e ora, sulla terra e non in cielo. Credo che il vero motivo sia la diffidenza di Dussel nei confronti del potere politico che aspira a realizzare l'utopia. Il suo punto di vista, come si è visto, accomuna il dominio del capitale al dominio dello stato come due figure del male, per cui la "parusia" del comunismo va allontanata in un futuro indefinito perché il suo annuncio possa agire come motore di un processo di auto emancipazione delle masse. 


Ernst Bloch



Per spiegare perché ritengo che questa visione sia sbagliata, ma contenga al tempo stesso elementi di verità, riprendo qui sinteticamente le riflessioni che, in lavori precedenti (18), ho sviluppato a partire dal confronto fra il pensiero di Ernst Bloch (19) e quello dell'ultimo Lukács (20). Bloch affronta il tema dell’utopia armato della sua vasta erudizione: parte dall’antica Grecia per approdare a Owen, Fourier e Proudhon passando per Gioacchino da Fiore, Thomas More, Campanella, il tutto seguendo il filo rosso dell'idea secondo cui la fede nell’avvento di un mondo nuovo e migliore è il primus movens di ogni progetto rivoluzionario. Dopodiché, pur non ignorando la reticenza di Marx a descrivere – se non a grandi linee – le caratteristiche di una società comunista, non si trattiene dallo snocciolarne con toni enfatici le meraviglie (21): scrive che si tratterà d’un mondo caratterizzato da una comunità “assolutamente non antagonistica”, di “un unico movimento in avanti nel mondo trasformabile e implicante felicità”. In fondo al tunnel del presente dal quale usciremo grazie alla lotta di classe, aggiunge, brilla “la pace lontana, la lontana occasione di essere solidali con tutti gli uomini, amici di tutti”; “da tutte le dissonanze del tempo s’innalza la quiete cristallina, come quiete della fine della storia”; un futuro di abbondanza, pace, amore universale e felicità del tutto simile alla terra promessa delle grandi religioni “dove fluiscono realmente e simbolicamente latte e miele”. La sua narrazione assume quindi una palese intonazione religiosa, per cui l’utopia socialista appare come il momento culminante di un processo di secolarizzazione/umanizzazione del messianesimo, mentre certe sue frasi appaiono in piena sintonia con il pensiero di Dussel, come quando scrive che “l’ateismo è tanto poco il nemico dell’utopia religiosa da formarne il presupposto: senza ateismo il messianesimo non ha luogo". La differenza è che, al contrario di Dussel, Bloch non allontana la parusia, non riduce il comunismo a un'idea regolativa, ma è convinto di vivere alle soglie della sua realizzazione terrena. Invece finirà amaramente deluso dall'esperienza del socialismo reale fino ad allontanarsene, quasi a dare ragione ai caveat di Dussel. 


Di tutt'altro tenore le riflessioni sull'utopia dell'ultimo Lukács, il grande filosofo marxista che, pur non avendo mai smesso di criticare lo stalinismo, non si è neanche allineato al coro degli intellettuali dissidenti, coltivando fino alla morte la speranza che fosse possibile riformare dall'interno il sistema socialista (il che implica che non ha mai condiviso il punto di vista di coloro che demonizzano il potere politico e statuale in quanto tali). Partiamo con il dire che il suo approccio al tema si fonda sulla assoluta centralità che il lavoro assume nel suo sistema filosofico: a fondare la possibilità (non la necessità! Lukács respinge la visione deterministica secondo cui il comunismo sarebbe l'esito necessario di presunte "leggi" storiche) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che lavoro contiene in sé fin dall'inizio la possibilità di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo. La possibilità di un tempo "liberato" (che è in ultima istanza ciò che Lukács identifica, sulle tracce di Marx, con il comunismo) si fonda su questa peculiarità del lavoro. 


Gyorgy Lukács



Il regno della libertà, scrive Lukács citando il Marx del III Libro del Capitale,"comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna". Ciò non può avvenire nel socialismo, dove la libertà può consistere solo nel controllo (necessariamente mediato politicamente!, NdA) dei produttori associati sul processo produttivo, cioè nel superamento di una condizione in cui esso li domina come una forza cieca. Ma il salto al regno della libertà (che in Lukács non evoca significati religiosi) è una prospettiva concreta o solo un'idea regolativa, per dirla con Dussel?  


La risposta di Lukács a tale quesito è indiretta e va a mio avviso cercata laddove il filosofo ungherese scrive che l'impossibilità dell'utopia di tradursi in realtà "non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato […] l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità." Per concludere: per  Lukács l'utopia comunista è sì un'idea regolativa, ma non nel significato teologico che gli attribuisce Dussel, bensì nel senso di un'ideologia politica (per Lukács, come per Gramsci, l'ideologia è potenza materiale) che può guidare la lotta delle classi subalterne per migliorare le proprie condizioni di vita, ma che mai approderà alla "fine della storia" sognata da Bloch, a un mondo ideale, un paradiso in terra libero da tutti i conflitti. 



Note


(1) Vedi anche H. Assmann, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.

(2) C. Formenti, Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023. Vedi, in particolare, il terzo capitolo della Prima Parte del Secondo Volume.

(3) Marx avrebbe ereditato dal  pietista Oetinger la visione di una società senza conflitti, in cui verrà superata la funzione dello stato. 

(4) Confusione di cui troviamo tracce nella Filosofia della religione di Hegel.

(5) In questo senso la visione di Dussel è radicalmente diversa da quella degli autori che giustappongono il Marx "idealista" degli scritti giovanili al Marx "scientifico" del Capitale. 

(6) I navigatori portoghesi chiamarono così gli idoli adorati dalle tribù africane con cui vennero in contatto.

(7) Dussel parla del "relazionismo" di Marx: ogni qualvolta qualcosa si costituisce come un assoluto, scatta il problema ontologico del feticismo: un ente può porsi come assoluto solo nella misura in cui è stata tolta la sua "relazione con". 

(8) A proposito del concetto di false merci cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione,Einaudi, Torino 1974.

(9) nel senso che mentre Cristo si fa servo, il denaro da servo si muta in dio.

(10) Anche se, in alcuni passaggi, Dussel è molto vicino a cedere a questa tentazione, per esempio laddove afferma che in Marx sarebbe all'opera una sorta di "inconscio religioso".

(11) "L'ultimo Marx" che Dussel evoca nei suoi libri, e al quale attribuisce una flessibilità mentale ben maggiore di quella dei suoi cattivi allievi, è il Marx dialogante con i populisti russi, disposto a prendere in considerazione le potenzialità rivoluzionarie della cultura cultura comunitaria ancestrale dei contadini russi (cfr. K. Marx. F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960;  vedi anche P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976)  

(12) Vedi, in particolare,  Guerra e rivoluzione, op. cit., vol. II, Parte Prima, cap. 3.

(13) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(14) Vedi, fra gli altri E. Voegelin (Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1976) autore che accosta l'immaginario marxiano a quello delle mitologie gnostiche, il che varrebbe in particolare per l'eresia valentiniana, che affidava all'uomo la missione di riscattare una divinità caduta e immemore della propria identità originaria (cfr. in merito il mio Immagini del vuoto, Liguori, Napoli 1989). Una relazione indiretta fra marxismo e religione si può estrarre anche dall'accostamento fra profetismo e carisma religiosi e profetismo e carisma politici operato da Max Weber (cfr. Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982). 

(15) Cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(16) Cfr. Forma valor y forma comunidad, Traficantes de suenos, Quito 2015.  

(17) Cfr. Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(18) Cfr. Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2020; vedi anche Guerra e rivoluzione, cit., Volume I, capitolo 1.

(19) Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, 3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019.

(20) Cfr. G.  Lukács, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012; vedi anche la mia Prefazione alla nuova edizione dell'opera, di prossima pubblicazione per i tipi di Meltemi. 

(21) Da notare che, quando scriveva queste cose, Bloch viveva ancora un’esperienza diretta del socialismo reale e ne tesseva le lodi, anche se poi ha poi finito per allontanarsene. 

lunedì 23 gennaio 2023

GUERRA E RIVOLUZIONE
(PREFAZIONE)


Il testo che anticipo in questo post è la Prefazione del libro "Guerra  e rivoluzione" il cui primo volume, "Le macerie dell'impero" sarà in libreria fra pochi giorni per i tipi di Meltemi, mentre il secondo, "Elogio dei socialismi imperfetti" seguirà fra un paio di mesi. 







L'autore del lavoro che vi apprestate a leggere verrà verosimilmente accusato di eccessiva ambizione: sia per le dimensioni dell'opera (due volumi per un totale di diverse centinaia di pagine), sia per la vastità dei temi trattati (presa di distanza da certi dogmi cari alla tradizione marxista; impatto della controrivoluzione neoliberale sulla mutazione dei sistemi politici e della composizione di classe, nonché sulla morte delle sinistre in Occidente; rinascita del progetto socialista in Oriente e nel Sud del mondo; abbozzo di linee strategiche per la ricostruzione di un movimento comunista occidentale). Forse l'accusa non è priva di fondamento, tuttavia ritengo che la mia vera colpa consista nel non essere stato abbastanza ambizioso, considerato che la situazione del movimento anticapitalista in Occidente è oggi talmente tragica da poter essere affrontata solo coltivando un'ambizione smisurata. A discolpa del fatto di essere rimasto al di sotto di quanto richiederebbe la situazione, posso addurre due giustificazioni: in primo luogo, i miei limiti soggettivi mi hanno impedito di approfondire ulteriormente l'analisi; inoltre, quand'anche le mie capacità fossero state maggiori, le sfide con cui ardisco qui misurarmi richiederebbero l'apporto di una mente collettiva che oggi, dopo decenni di sistematico smantellamento di partiti, istituzioni, centri di ricerca (nonché di frammentazione organizzativa di quanto ne restava), non esiste più. 


Perché mi sono imbarcato in cotanta impresa? Perché sono convinto che sia urgente trovare il coraggio (non dubito che molti lo definiranno piuttosto arroganza) di porvi mano. Mi si potrebbe obiettare che non mancano corposi - e ben più autorevoli del mio - contributi sugli argomenti sopra citati: da Gyorgy Lukács e Costanzo Preve sui fondamenti del marxismo a Giovanni Arrighi, David Harvey, Samir Amin e molti altri sull'evoluzione del capitalismo; da Alvaro Linera sulle rivoluzioni latinoamericane a Domenico Losurdo sulle chance di rinascita di un comunismo occidentale, per tacere delle decine di autori che troverete citati nel libro, fra cui Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, ai quali sono debitore per i loro suggerimenti e contributi critici (Giacché è autore della Postfazione, Romano, Somma e Visalli dei saggi pubblicati in Appendice al Secondo Volume). Cionondimeno rivendico il merito di essermi impegnato a fondo per interpretare criticamente le teorie, le analisi e le ipotesi di tutti questi autori  (aggiungendovi spero non poco del mio) per costruire una visione coerente della grande transizione epocale che stiamo vivendo in questo primo quarto di secolo. In che misura vi sia riuscito giudicherà il lettore. 


Passo a una sommaria descrizione dei contenuti. Il primo capitolo ragiona sulla cassetta degli attrezzi indispensabili per condurre un'analisi del presente, e sulla esigenza di tagliare certi rami secchi (1) che appesantiscono il plurisecolare albero del marxismo. In particolare, seguendo le lezioni di Lukács e Preve (2), viene messa in discussione l'idea del socialismo come esito necessario di presunte leggi immanenti alla storia, una visione che nasce da una lettura “economicista” del marxismo che, da un lato sopravvaluta il peso di fattori oggettivi quali lo sviluppo delle forze produttive, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc. e subisce l'influenza del progressismo e dello scientismo positivista borghesi, dall'altro lato sottovaluta il ruolo del fattore soggettivo, il solo in grado di sfruttare la possibilità (non la necessità) di trasformazione sistemica associata alle situazioni di crisi radicale, economica, politica e culturale. 


Veniamo agli altri quattro capitoli della Prima Parte (che occupa interamente il Primo Volume). Nel secondo vengono descritti gli scenari della guerra di classe dall'alto (3) che, a partire dagli anni Ottanta, le élite capitalistiche occidentali hanno scatenato contro le classi subalterne, i cui effetti devastanti si sono evidenziati con particolare evidenza e crudezza durante la crisi del 2008, hanno subito un ulteriore aggravamento con la pandemia del Covid19 e hanno trovato una prevedibile conseguenza in quella guerra russo-ucraina che, mentre segna la fine della globalizzazione, minaccia di essere il prodromo di una nuova guerra mondiale. Il terzo ricostruisce le radici storico ideali del neoliberalismo moderno dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi, un avversario che le sinistre occidentali sono state incapaci di fronteggiare, prima perché lo hanno scambiato per una recrudescenza del liberalismo classico, senza coglierne il potenziale dirompente e innovativo, poi perché si sono arresi alla sua fascinazione, al punto di sposarne i principi teorici e i valori ideologico-culturali. Nel quarto capitolo si respingono le tesi di coloro che hanno abbandonato la categoria dell'imperialismo, ritenendola superata dal processo di globalizzazione, dopodiché si ricostruisce il ciclo egemonico dell'imperialismo americano dalle origini al trionfo degli anni Novanta che, grazie alla caduta dell'Unione Sovietica, sembrava averne decretato l'irreversibile e incontrastato dominio. Si descrive poi come questo nemico dell'umanità stia reagendo alla sfida mortale lanciatagli dall'ascesa cinese, vale a dire cementando un blocco occidentale con le ex colonie britanniche e la UE per imporre con la forza delle armi la continuazione del proprio ciclo egemonico. Quanto al processo di unificazione europea, ne viene evidenziata la natura di progetto anti popolare e antisocialista, finalizzato a espropriare le classi subalterne dei singoli Paesi degli  strumenti istituzionali per difendere i propri interessi. Un progetto ispirato all'ordoliberalismo tedesco che, mentre è riuscito a ridurre le nazioni mediterranee allo status di semi periferia, ha fallito l'obiettivo di costruire un blocco imperiale autonomo dagli interessi statunitensi, come conferma il ruolo subalterno che la Ue sta svolgendo nel conflitto russo-ucraino. 


Il quinto capitolo avanza una tesi radicale: per le classi lavoratrici, e per tutti i soggetti interessati a ricostruire una prospettiva comunista, le sinistre occidentali, - sia quelle socialdemocratiche, che oggi sarebbe più corretto definire social-liberali, sia quelle “radicali - sono a tutti gli effetti dei nemici. Nemici di classe, in quanto rappresentano gli interessi materiali degli strati sociali medio alti che abitano i centri delle grandi metropoli gentrificate, nemici ideologici in quanto alimentano culture – femminismo liberale, pacifismo ed ecologismo depurati da qualsiasi velleità anticapitalista, retorica del politicamente corretto, priorità dei diritti individuali e civili sui diritti sociali, celebrazione della democrazia borghese quale unico modello possibile di democrazia, ecc. - che appaiono non solo compatibili con, ma perfettamente funzionali alla, conservazione dell'esistente. Per tale motivo non è più possibile considerare tali forze come compagni di strada (e nemmeno come alleati, se non per limitate e contingenti esigenze tattiche) di un progetto di emancipazione dal dominio del capitale. 


Mentre la Prima Parte rappresenta la pars destruens dell'opera, la Seconda e la Terza (che nell'indice del Secondo Volume compaiono in realtà come Prima e Seconda Parte) ne rappresentano, assieme alla Postfazione e ai tre saggi in Appendice, la pars construens, nella misura in cui analizzando lo stato attuale, le prospettive di tenuta e le possibilità di sviluppo futuro del processo di costruzione del socialismo nel mondo attuale. 







La Seconda Parte si articola su tre capitoli. Il primo è interamente dedicato alla Cina ed è finalizzato a rovesciare l'immagine di questo Paese che la cultura occidentale, senza distinzione fra destre e sinistre, si sforza di accreditare attraverso le narrazioni di leader politici, media ed “esperti” di ogni risma, vale a dire l'immagine di un esperimento socialista fallito, regredito a forme di capitalismo selvaggio e sfociato in un regime oppressivo e totalitario. Partendo dalle straordinarie intuizioni di Giovanni Arrighi (4) e avvalendomi delle analisi di altri autori, sia cinesi che occidentali, cerco di dimostrare come le riforme degli anni Settanta, che per gli “esperti” di cui sopra hanno segnato l'inizio della fine del progetto socialista, siano stati viceversa il punto di partenza di un grandioso esperimento che, pur fra successi e sconfitte, avanzate e ritirate, contraddizioni e conflitti di ogni genere, ha saputo raccogliere i frutti dell'era maoista superandone gli errori e la ricerca di scorciatoie illusorie, dando vita a una originale forma di economia mista in cui ai capitalisti viene lasciata la libertà di accumulare profitti evitando tuttavia che possano tradurre la loro ricchezza in potere politico. Questa impresa, che ha consentito di riscattare 800 milioni di cittadini dalla povertà, è stata possibile mantenendo il ferreo controllo del Partito sullo Stato, e di quest'ultimo sui settori strategici dell'economia (a partire dalle banche). Il tutto senza rinunciare a garantire – contrariamente a quanto ventilato dalla propaganda occidentale – ampi margini di partecipazione democratica a livello locale. L'esperimento cinese impone ai teorici marxisti di analizzare scientificamente le dinamiche di formazioni sociali in cui la politica mantiene il controllo e il comando sull'economia. È quanto ha tentato di fare Rita Di Leo (5) nella sua indagine sulle ragioni del crollo dell'Unione Sovietica. Delle sue riflessioni mi avvalgo nel secondo capitolo per abbozzare un tentativo (necessariamente embrionale) di analisi storica del socialismo reale, con l'obiettivo di farla finita  con la damnatio memoriae - tutta ideologica – del grandioso esperimento della Rivoluzione bolscevica e di avviare una indagine scientifica sulle radici lontane della tragedia dell'89-91. 


Nel terzo capitolo vengono prese in esame le rivoluzioni bolivariane in America Latina, con particolare attenzione ai casi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador e al contributo teorico dell'ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera (6). Prendendo spunto da queste esperienze, cerco  di aggiornare il dibattito sull'opposizione fra via rivoluzionaria e via riformista al socialismo (un tema “classico” che, fra fine Ottocento e primo Novecento, ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Federico Engels e Rosa Luxemburg, e successivamente ha provocato la rottura di Lenin con la Seconda Internazionale) ragionando sulle differenti sfide che devono affrontare regimi come quelli latinoamericani, nati dalla conquista del potere per vie legali, rispetto a quello cinese, frutto della vittoria militare sul nemico di classe.


La Terza Parte credo sia quella destinata a suscitare più controversie, nella misura in cui affronta l'impegnativo compito di definire le premesse teorico-pratiche di una possibile ricostruzione del movimento comunista occidentale. Finché si parla del resto del mondo la discussione può restare nei limiti di un confronto di idee relativamente pacato, ma quando de te fabula narratur, non appena cioè si mettono i piedi nel piatto, affrontando le cause e gli errori soggettivi, e non le cause oggettive (o presunte tali) della disastrosa sconfitta del movimento comunista in Europa, il dibattito è destinato a surriscaldarsi, tanto più se chi lo innesca non esita a mettere in discussione consolidati articoli di fede teorico-ideologici e a chiamare in causa responsabilità ed errori di intellettuali e leader storici “canonizzati”. Ciò premesso, passo a riassumere il contenuto dei quattro capitoli che lo compongono. 


Il primo parte da un assunto a mio avviso irrinunciabile: se è vero che il partito comunista deve essere un partito di classe, e se è vero che decenni di controrivoluzione neoliberale e di tradimenti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio hanno ridotto il proletariato occidentale a un coacervo di soggetti sociali espropriati di qualsiasi identità condivisa e anzi in conflitto reciproco (generazionale, di genere, etnico, culturale, ideologico, ecc.) se non addirittura a una massa indistinta fatta di singolarità individuali, è chiaro che costruire il partito di classe è un compito  indistinguibile da quello di ricostruire un'identità e una coscienza di classe. Di tale compito si discute tanto nel primo quanto nel quarto capitolo, ma con taglio differente. Nel primo si abbozza un ritratto schematico della composizione di classe emersa da decenni di offensiva del nemico. Si tratta necessariamente di primi appunti, preliminari a una ricerca scientifica che potrà essere realizzata solo da un intellettuale collettivo a stretto contatto con l'oggetto della ricerca (cioè con la classe stessa: è quanto un tempo si chiamava conricerca). Nel quarto – di cui dirò più avanti - si mettono sotto accusa quei micropartiti che, invece di dedicarsi alla costruzione del partito di classe, preferiscono spendere le proprie energie in fallimentari imprese elettorali, anche stringendo alleanze spurie e praticando in modo spregiudicato l'arte del compromesso per conquistare a ogni costo “un posto al sole” nelle pieghe del sistema istituzionale borghese. 


Il secondo capitolo smonta i concetti di populismo e sovranismo, che la narrazione del partito unico neoliberale e dei media sotto il suo controllo sfrutta per demonizzare le forme che il conflitto politico e sociale tende ad assumere in assenza di forze capaci di elaborare una strategia antisistema. Polemizzando con le tesi di Ernesto Laclau (ma anche riconoscendone il contributo di analisi empirica delle forme che il conflitto tende ad assumere nell'attuale contesto postdemocratico), sostengo che il populismo è una forma spuria di lotta di classe senza coscienza di classe, il che la espone al costante rischio di convertirsi in “rivoluzione passiva” (7). Analoga considerazione vale per il cosiddetto sovranismo che, più che una ideologia che ripropone anacronistiche velleità nazionaliste, rappresenta una forma di reazione popolare all'uso capitalistico delle istituzioni sovranazionali per sottrarre alle classi subalterne la capacità/possibilità di utilizzare lo stato-nazione come terreno di contrattazione delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Contestualmente il capitolo ritorna su alcuni nodi della discussione teorica sulla questione nazionale che ha attraversato l'intera storia del marxismo, da Marx ai giorni nostri passando per Lenin. 


Il terzo capitolo, dopo una discussione introduttiva in merito alla necessità di riformulare in termini più realisti e concreti il processo di transizione al socialismo, sfrondandolo dell'afflato profetico che lo ha spesso caratterizzato, si addentra in due questioni strettamente intrecciate fra loro: il rapporto fra socialismo e democrazia e quello fra ideologia comunista e ideologia liberale. In particolare, viene rigettata l'idea secondo cui alla rivoluzione socialista spetterebbe il compito di attuare le promesse di emancipazione umana già formulate ma mai messe in atto dalle rivoluzioni borghesi, idea cui oppongo la tesi della sostanziale incommensurabilità fra i due processi rivoluzionari: mentre la borghesia conquista il potere politico dopo essersi già impadronita di quello economico, sociale e culturale, il proletariato, non essendo nella condizione di far crescere progressivamente il proprio controllo su economia, società e cultura nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici fino a consentire una transizione relativamente indolore a un nuovo tipo di formazione sociale, è indotto a perseguire una discontinuità radicale del processo storico; il che comporta, fra le altre cose, che la democrazia socialista debba assumere forme necessariamente diverse da quella borghese. Infine contesto la tesi secondo cui il movimento comunista dovrebbe riconoscere e far proprie le conquiste e i valori della miglior tradizione liberale, a partire dall'affermazione dei diritti universali dell'uomo e della necessità di una rigorosa tutela della libertà individuale. Contro tale visione richiamo l'irriducibile differenza fra libertas minor, l'idea di libertà sulla quale si fonda l'ideologia liberale, e libertas maior, l'idea di libertà propria di un movimento come quello comunista, che dà maggior peso alla rivendicazione dei diritti collettivi rispetto a quella dei diritti individuali; un punto di vista più volte ribadito da Marx, il quale metteva in luce come porre al centro la libertà individuale significhi non saper guardare al di là di una società di imprenditori privati. È per avere rimosso questa verità che i comunisti occidentali hanno creato le premesse della propria disfatta: stipulando alleanze e compromessi con le destre liberali per sbarrare la strada alle destre estreme (una scelta assurda in una fase storica in cui la vera minaccia è il potere oligarchico delle élite neoliberali); sposando i principi e i valori individualisti dei nuovi movimenti (femministe, ecologisti, pacifisti generici, Lgbt, ecc.) nell’illusione di poterli egemonizzare e finendo al contrario per venirne egemonizzati; associandosi al coro dei partiti liberali e dei media occidentali che definisce totalitari Paesi come Cina, Cuba; Venezuela, Bolivia, Corea e Vietnam; infine non riuscendo, di fronte alla guerra imperialista che Stati Uniti, Ue e NATO stanno conducendo contro la Russia e tutti i Paesi che non accettano l’egemonia occidentale, ad andare al di là di un generico pacifismo e a schierarsi senza ambiguità con il fronte mondiale della resistenza antimperialista.


Torno al quarto capitolo e a quanto ne avevo anticipato poc'anzi. Denunciando i vizi di elettoralismo e opportunismo dei partitini sedicenti comunisti, sostengo che si tratta di deviazioni  che hanno radici lontane, nella misura in cui non risalgono solo alla svolta eurocomunista, ma chiamano in causa le contraddizioni intrinseche alla visione togliattiana del partito di massa e ai concetti di democrazia progressiva e di lunga marcia attraverso le istituzioni. In particolare, a proposito dell'alternativa partito di massa/partito di quadri, parto dalla già citata tesi secondo cui costruzione del partito e ricostruzione della classe sono processi intrecciati. L'idea di costruire la classe può apparire controintuitiva a chi è abituato a concepirla come un'entità astratta, che esiste a priori, ma ciò significa ignorare gli effetti della radicale destrutturazione cui il proletariato occidentale è stato sottoposto. Per essere all'altezza dell'impresa il partito dovrebbe nascere e crescere reclutando i soggetti più coraggiosi e capaci fra i nuclei di resistenza che permangono malgrado lo stato di arretramento delle lotte. Ciò non significa teorizzare una costruzione “dal basso”, perché la concezione leninista (e gramsciana) del partito resta sostanzialmente valida, significa però che il vertice del partito, fatto di intellettuali organici e dirigenti organizzativi, dovrà poggiare su una solida base di quadri intermedi di estrazione quanto più possibile proletaria (8). Partito di quadri e non partito di massa dunque, almeno nelle sue prime fasi di vita (per inciso: tutti i partiti comunisti che hanno vinto una rivoluzione sono diventati partiti di massa dopo la vittoria).Ma soprattutto non è il caso di nutrire velleità di costruzione di un blocco sociale prima che la classe abbia raggiunto livelli di unità e autocoscienza politica sufficienti a garantirne l'egemonia nei confronti di eventuali alleati: i populismi di sinistra hanno fallito proprio perché si sono posti quale  obiettivo prioritario l'alleanza con le classi medie, finendone sistematicamente egemonizzati. 


Ragionare sul programma politico di un partito che oggi non esiste, rischia di essere un esercizio puramente letterario. Tuttavia in quest'ultimo capitolo ho ugualmente voluto tratteggiare alcune linee possibili (generalissime) di un programma di transizione a una primissima fase socialista (pensate per il contesto italiano, ma soprattutto ancorate alla visione pragmatica che emerge dalle esperienze di costruzione del socialismo nel mondo non occidentale). Qui di seguito ne sintetizzo alcune: 1) puntare a un'economia mista in cui lo Stato detenga il controllo pieno e diretto sulla Banca centrale, sui movimenti di capitale, sui settori produttivi strategici e sui servizi essenziali; programmazione flessibile orientata alla realizzazione della piena e buona occupazione; politica fiscale fortemente progressiva e potenziamento del welfare con priorità a sanità, educazione e sistema assistenziale; 2) un’Assemblea Costituente che riscriva la Carta fondamentale approfondendo, ampliando e aggiornando i principi di quella del 48 e depurandola dalle pseudo riforme introdotte dai regimi liberali; 3) promuovere istituzioni di democrazia diretta e partecipativa e tornare a un sistema elettorale fondato sul sistema proporzionale; 4) uscire dalla NATO e dalla UE per recuperare quella piena autonomia nazionale che è condizione irrinunciabile sia per difendere la sovranità popolare e la democrazia, sia per riscattare la nostra economia dalla colonizzazione di cui è stata oggetto negli ultimi decenni. Si tratta di punti inspirati in particolare dalle esperienze delle rivoluzioni pacifiche avvenute in America Latina, la cui praticabilità presuppone una crisi sistemica tanto radicale da impedire alle élite dominanti di stroncare sul nascere il processo di trasformazione. Parliamo ovviamente di tempi lunghi, caratterizzati dal rischio permanente di una riconquista del potere da parte delle classi dominanti, che quindi presuppongono una formidabile capacità egemonica necessaria a conservare il consenso popolare anche nei momenti critici, capacità che solo un partito forte, organizzato e radicato nella società sarebbe in grado di garantire. 


Per sintetizzare, le tesi avanzate in questo lavoro possono essere raggruppate in tre grandi aree tematiche. In primo luogo: a 175 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, e dopo una lunga sequenza di rivoluzioni socialiste fallite (tutte quelle avvenute nei Paesi sviluppati) e riuscite (tutte avvenute in Paesi in via di sviluppo ed ex coloniali) dovrebbero indurci a prendere atto del fatto che la rivoluzione ha vinto (Lenin docet) solo negli anelli più deboli della catena del mondo capitalista, mentre nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive le élite dominanti sono riuscite a mantenere l'egemonia sulle classi subalterne (anche e soprattutto grazie ai sovraprofitti garantiti dall'oppressione e dallo sfruttamento dei Paesi periferici e semiperiferici). Ciò impone di abbandonare definitivamente sia il dogma che associa la possibilità di trasformazione rivoluzionaria a “condizioni oggettive” di natura prevalentemente, se non esclusivamente, economica (economicismo), sia quel groviglio di evoluzionismo, progressismo, eurocentrismo (giustificabili ai tempi di Marx, demenziali nella attuali condizioni storiche) che sostanzia l'illusione di un processo storico orientato da una sorta di necessità immanente. Non avendo compiuto questo passo, le sinistre occidentali, tanto moderate che radicali, da un lato non hanno capito letteralmente nulla del salto storico compiuto dal capitalismo contemporaneo (considerando irreversibile il processo di globalizzazione, non comprendendo che l'imperialismo non era finito ma aveva solo cambiato forma e sottovalutando sia la novità ideologica che la potenza manipolatoria del  neoliberalismo); dall'altro lato hanno intensificato piuttosto che superato la propria vocazione eurocentrica (riconoscendo la democrazia liberale quale unica forma possibile di democrazia; condannando come totalitari i regimi socialisti dell'Est e del Sud del mondo; sposando senza riserve tutti i diversivi ideologici che le élite dominanti hanno adottato per dividere le classi subalterne: femminismo liberale; ecopacifismo depurato da ogni velleità antisistemica; linguaggio politicamente corretto; retorica del “diritto di avere diritti” (9)). Secondariamente: contrariamente a chi le considera fallite in quanto “degenerate” in regimi autoritari, rivoluzioni come quella cinese, vietnamita, cubana, venezuelana e boliviana, pur non potendo essere assunte a modello (dato che ogni Paese può e deve costruire il proprio processo rivoluzionario in base alle sue concrete caratteristiche storiche, sociali e culturali) ci offrono insegnamenti fondamentali sia sul piano teorico che pratico. In particolare: la transizione al socialismo è un processo lungo complesso e contraddittorio, in cui permangono la lotta di classe e in cui l'economia di mercato può svolgere un ruolo positivo, a condizione che resti sotto il controllo dello Stato; il proletariato non è necessariamente l'unico soggetto rivoluzionario ma anche le grandi masse contadine, i popoli oppressi e altre classi subalterne possono giocare un ruolo strategico, a condizione che il partito comunista sia in grado di egemonizzarle; infine, nell'attuale contesto di scontro frontale fra l'imperialismo americano e il suo vassallo europeo e il resto del mondo, i Paesi socialisti – e in particolare la Cina – devono essere difesi e sostenuti con ogni mezzo. In terzo luogo: il movimento comunista occidentale va ricostruito letteralmente da zero, e il suo primo compito sarà  ricostruire un'avanguardia delle lotte in grado di incarnare l'unità e la coscienza di strati di classe riscattati dalla condizione di frammentazione dovuta a decenni di sconfitte. Ciò significa liquidare i vizi di elettoralismo e opportunismo ereditati dalla deriva eurocomunista e superare la mentalità di piccola setta degli attuali micropartiti; significa non accodarsi a movimenti di massa a carattere prevalentemente piccolo-medio borghese, nell'illusione di egemonizzarli pur non avendone la capacità né la possibilità; significa assumere una chiara posizione antimperialista in campo geopolitico, schierandosi senza se senza ma a fianco di tutte le forze che lottano contro il progetto di conservare con la forza l'egemonia mondiale di Stati Uniti ed Europa; significa infine impegnarsi in un serio lavoro di analisi e ricerca scientifica sull'attuale composizione di classe, sulle prospettive programmatiche di una transizione nella concreta situazione storica dei Paesi occidentali e sulle riforme istituzionali che dovrebbero accompagnarne il processo.  


Post scriptum. In merito ai commenti, agli arricchimenti e alle osservazioni critiche contenute nei contributi di Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, che ancora ringrazio, rinvio alla mia Postilla finale inserita nell'Appendice al Secondo Volume.


Carlo Formenti

 

Genova, Novembre 2022   


Note

(1) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.

(2) Vedi, in particolare, G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pigreco, Milano 2012 (una nuova edizione dell’opera è in via di pubblicazione presso Meltemi con una mia Prefazione) e C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.

(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(4) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XX secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

(5) Cfr. R. Di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011; Cent’anni dopo. 1917-2017 da Lenin a Zuckerberg, Futura, Roma 2017; L’età della moneta, Il Mulino, Bologna 2018.

(6) Cfr. Á.G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(7) Questo concetto, coniato da Gramsci, si riferisce a quei moti sociali delle classi subalterne che, in quanto privi di una prospettiva rivoluzionaria, finiscono egemonizzati dalle élite dominanti e sortiscono effetti contrari ai loro stessi interessi.

(8) Vedi quanto scrive in merito Alvaro Cunhal ne Il partito dalle pareti di vetro, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2020.

(9) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

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