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mercoledì 5 luglio 2023

Senza partito niente coscienza di classe
Senza classe niente partito rivoluzionario




Questa non è una recensione. Il nuovo libro di Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo (1), tratta troppi argomenti perché li si possa esaurire nell'angusto spazio di una recensione, ancorché corposa. In questo articolo mi limito quindi ad affrontare due temi teorici che reputo cruciali: la ridefinizione del concetto di classe (e il suo impatto sul concetto di partito) e il background "religioso" della civiltà capitalistica (e la sua capacità di "contaminare" il discorso socialista). Da queste pagine restano quindi fuori temi quali il lascito delle grandi rivoluzioni otto-novecentesche, nonché l'alternanza fra capitalismo di mercato e capitalismo politicamente regolato, associata all'alternanza fra fasi di crisi e fasi di ripresa economica, temi ai quali il lavoro di Visalli dedica ampio spazio.


1. Classe e partito: due questioni inscindibili

"Lo spettro che si aggira per l'Europa" evocato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti era in larga misura un'entità virtuale (decenni più tardi, al tempo della Comune, gli insorti saranno in larga misura garzoni di bottega e artigiani, più che operai in senso moderno), ma presentava già una consistenza materiale sufficiente a inquietare una borghesia timorosa di dover abbandonare il trono sul quale si era da poco seduta. Oggi, dopo che la controrivoluzione neoliberale ha espropriato il proletariato occidentale della propria identità sociale, culturale e politica, lo spettro di cui sopra sembra persino più evanescente di quello evocato un secolo e mezzo fa. Per parafrasare il sottotitolo di Visalli, potremmo dire che il fantasma del collettivo si presenta ormai come un'ombra dispersa fra una miriade di soggettività incapaci di "fare corpo". Nel secolo scorso, i marxisti rivoluzionari potevano disquisire sui metodi migliori per risvegliare la coscienza politica di una classe "oggettivamente" rivoluzionaria, ancorché frenata dalla tendenza spontanea a non oltrepassare i limiti del tradunionismo; oggi si tratta piuttosto di reintrodurre in una massa polverizzata in atomi individuali la consapevolezza di appartenere a un'unica classe sociale dotata di interessi, bisogni e aspettative comuni. Visalli indaga i presupposti teorici che renderebbero concepibile la realizzazione di un simile obiettivo.



L'analisi parte da due punti fermi. Il primo consiste nel rifiutare gli approcci "sostanzialisti", termine con il quale Visalli si riferisce ai dogmi economicisti e "oggettivisti" di un marxismo dogmatico che considera la classe operaia come una sorta di realtà "a priori", un dato di fatto che trascende le condizioni storiche concrete. Contro questa posizione scrive, citando la lezione di Labriola, (2), "le classi sociali non emergono dalla terra" non esistono come entità astratte, bensì "nascono storicamente entro e attorno una determinata forma di produzione, al punto di congiunzione di volontà e necessità". Da ciò discende il secondo punto fermo: la questione della classe è inevitabilmente intrecciata a quella dell'agire politico, vale a dire a quella del partito, si costituisce assieme all'azione, al progetto politico.

Antonio Labriola


Il rifiuto dell'approccio sostanzialista non comporta la negazione dell'esistenza di interlocutori sociali concretamente definibili, atteggiamento che appartiene piuttosto alle correnti culturali che si ispirano alle filosofie post strutturaliste e post moderne. Ecco perché il libro dedica molte pagine a smontare le tesi di André Gorz e dei teorici postoperiasti (3), i quali pontificano di una presunta "fine del lavoro" equivocando il senso della profezia marxiana contenuta in un noto frammento dei Grundrisse, laddove si afferma che, raggiunto un certo livello di sviluppo delle forze produttive, la teoria del valore-lavoro non può più essere applicata, dal momento che l'unico motore della produzione di ricchezza diviene il general intellect, vale a dire l'insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche generate dall'individuo sociale.

Come ho scritto in varie occasioni (4), polemizzando con questa corrente di pensiero, i teorici postmoderni si sono illusi di riconoscere nelle utopie dei profeti della rivoluzione digitale, come Yokai Benkler (5) e Manuel Castells (6), la conferma che la appena citata profezia marxiana si era ormai trasformata in realtà di fatto. Per tutti costoro, i cosiddetti "lavoratori della conoscenza" (categoria costruita estendendo a dismisura un campo limitato a esigue minoranze, quali le comunità degli sviluppatori opensource e i membri delle culture hacker) sarebbero le avanguardie rivoluzionarie di una forza lavoro dotata di consapevolezza e competenze tali da potersi affrancare dalle vestigia di un capitalismo ridotto a spettrale residuo del passato, a una sorta di sovrastruttura parassitaria, priva di reali funzioni produttive, che sopravvive solo imponendo con la forza "leggi" economiche desuete a una comunità produttiva che sarebbe ormai in grado di autogestirsi liberamente. Nella sua variante "accelerazionista" (7) il mito guarda con speranza alle tendenze più estreme del turbo capitalismo digitale che, sostiene, a mano a mano che prevarranno sulla "Old Economy", finiranno per estinguersi a causa del loro stesso trionfo.

Il secondo punto fermo coincide con una visione che associa classe e partito in un unico processo costituente, visione in nome della quale Visalli ingaggia un'altra battaglia cruciale: quella contro la sostituzione del concetto di classe con quello di popolo. In questo caso il bersaglio polemico è la coppia Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (8) e il loro rifiuto di identificare il soggetto del conflitto sociale nelle classi lavoratrici. Questi autori rimpiazzano infatti il proletariato con il popolo, un soggetto che considerano come una costruzione puramente linguistico-discorsiva operata da leader carismatici capaci di tradurre il coacervo delle domande inevase dal sistema liberal democratico in una "catena equivalenziale", che "si fa" popolo nella misura in cui identifica nelle élite dominanti il nemico comune. Questa costruzione intellettuale si fonda su una peculiare rilettura del concetto gramsciano di egemonia, non più riferito al dominio ideologico-culturale delle classi dominanti sulle classi subalterne, bensì alla capacità di una particolare rivendicazione di sovradeterminare gli altri anelli della catena equivalenziale.

Laclau e Mouffe


A offrire una parvenza di validità a questa tesi, argomenta Visalli, hanno contribuito la crisi economica iniziata nel 2008 e il suo aggravamento, associato alla pandemia del Covid19. Questi due "cigni neri" hanno destabilizzato le procedure e le istituzioni del regime neoliberale, riducendone la facoltà di generare consenso e ottenere legittimazione. La società è così entrata in un momento Polanyi (8), ha cioè iniziato a reagire agli effetti distruttivi del neoliberismo su tutti gli aspetti della vita sociale. L'individualismo edonista, che per decenni era riuscito a narcotizzare le velleità di opposizione, mascherando la realtà di una rapida e vertiginosa crescita delle disuguaglianze, ha iniziato a perdere colpi a mano a mano che si esaurivano le condizioni di sicurezza e fiducia che lo rendevano possibile. Purtuttavia la consapevolezza che solo l'azione collettiva (leggi la lotta di classe) può rovesciare i rapporti di forza vigenti non è a tutt'oggi riuscita a riemergere.

Assieme alla sfasatura temporale fra "il vecchio che muore e il nuovo che non riesce a nascere", Visalli evoca il monito di Gramsci sui rischi di rivoluzione passiva associati a queste fasi di transizione che, in assenza di un credibile progetto politico alternativo, appaiono senza sbocco. L'ondata populista (di destra e di sinistra: Sanders e Trump negli Stati Uniti, Corbyn in Inghilterra; Podemos e Vox in Spagna, M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia) se da un lato conferma questa diagnosi gramsciana, dall'altro sembrerebbe corroborare le tesi di Laclau e Mouffe, se non fosse che questi movimenti, non essendosi posti l'obiettivo del rovesciamento del regime neoliberale, bensì quello di un suo addolcimento (a sinistra), o quello della restaurazione dei suoi principi e valori originari "traditi" da caste politiche corrotte (a destra) sono quasi del tutto rifluiti sotto i colpi della reazione delle élite dominanti.

Ma se il momento populista esaurisce la sua spinta propulsiva, il momento Polanyi con le sue laceranti contraddizioni, permane e si radicalizza. E quindi crescono i rischi. Il crollo dei sistemi tecno-scientifici di protezione provocato dal covid, scrive Visalli, ha imposto il ritorno dello stato in forme autoritarie, provocando la rabbia e il rifiuto delle classi medie sedotte da ideologie antipolitiche e dal sovversivismo di destra. Ma il peggio è che la mobilitazione contro il virus ha lasciato il posto alla mobilitazione totale in vista di una Terza guerra mondiale fra le potenze occidentali e i Paesi che si oppongono alla loro egemonia, di cui la guerra tra Ucraina e Russia è il primo atto. Il keynesismo di guerra torna dunque a proporsi come soluzione di ultima istanza a una crisi senza sbocco. In questa situazione tragica, scrive Visalli, il lavoro intrecciato e parallelo di ricostruzione della classe e del suo partito diventa l'obiettivo prioritario e irrinunciabile, mentre al discorso populista va riconosciuto il merito di avere evidenziato il problema di ridefinire una soggettività antagonista non più descrivibile nei termini classici della opposizione bipolare operai/padroni.

Sbarazzarsi di questo dogma che, pur essendo già discutibile ai tempi di Marx (il quale era del resto consapevole di descrivere un modello astratto a partire dall'osservazione dal processo di accumulazione originaria in Inghilterra), è rimasto in auge per più di un secolo, non è compito agevole. Visalli lo affronta rimpiazzando lo schema bipolare con una rete complessa in cui si intrecciano una serie di "diagonali" che descrivono altrettanti criteri di selezione. Da un lato resta importante, anche se non esclusivo, il criterio delle differenze quantitative e qualitative di reddito, per cui la condizione di chi ha come unica fonte di reddito la vendita della propria forza lavoro - né è in grado di determinare il prezzo di questa "finta merce" - funge da fattore unificante dell'arcipelago dei frammenti (lavoro precario, "uberizzato", finto autonomo, intermittente, terziarizzato, ecc.) in cui l'offensiva neoliberale ha fatto esplodere la classe operaia tradizionale. Dall'altro lato, occorre leggere queste nuove forme a partire dalle catene produttive globali, che dimostrano come la legge del valore si sia ampliata e complessificata, in barba a coloro che ne decretano la fine (vedi sopra). Lo sfruttamento classico viene così a intrecciarsi con il conflitto fra centri, periferie e semi periferie, tanto a livello nazionale (9) che a livello globale, uno scenario che già Lenin aveva abbozzato nelle sue tesi sull'imperialismo e che i teorici dello scambio ineguale e della dipendenza hanno ripreso ed approfondito (10). Senza tenere conto di quest'ultimo scenario resterebbe incomprensibile il fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute in Paesi ex coloniali e hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine, più che le minoranze operaie (un motivo in più per superare il modello classico della opposizione binaria fra capitalisti e proletariato industriale).

Quale formula organizzativa dovrebbe adottare un partito rivoluzionario per unificare questo complesso intreccio di contraddizioni, evitando la scorciatoia del populismo? Visalli sembra dirci che, al di là degli inevitabili adeguamenti di formule organizzative e linguaggi, sono ancora il gramsciano Partito Principe e il Che fare di Lenin a indicare la strada da imboccare: posto che riunificazione della classe e ricostruzione del partito sono processi interconnessi, resta il fatto che in quella magmatica materia grezza che sono le attuali classi subalterne, potenzialmente antagoniste ma attualmente ridotte alla passività, la coscienza politica, intesa come consapevolezza non solo dei propri interessi immediati ma anche del proprio ruolo nel contesto delle relazioni fra tutte le classi sociali, può penetrare solo dall'esterno. Senza dimenticare la lezione di Lukács (11), secondo cui questa coscienza importata diventa reale autocoscienza di classe solo se e quando la massa proletaria se ne appropria effettivamente, il che dovrebbe renderci consapevoli della necessità di incorporare gli strati proletari più combattivi e politicizzati già nelle prime fasi di costruzione dell'organizzazione.


2. Il capitalismo come religione

L'influsso dei fattori religiosi sulla cultura capitalista non è argomento inedito. E' nota la tesi di Max Weber (12) che identifica nell'etica protestante (in particolare in quella calvinista) le radici storiche dello spirito del capitalismo e le ragioni del ritardo con cui tale spirito ha potuto trionfare nei paesi di cultura cattolica, o ha dovuto essere importato dall'esterno in quelli di cultura islamica, confuciana e buddista.

Non meno note sono le critiche rivolte a tale tesi, a partire da quella di Samir Amin (discussa in un precedente articolo su questa pagina (13)) il quale, da un lato rovescia il punto di vista weberiano, sostenendo che sono state piuttosto le religioni ad adattarsi, prima o dopo, a seconda delle differenti condizioni storiche, all'evoluzione dei rapporti sociali; dall'altro lato critica il materialismo volgare di quei marxisti che hanno eretto a dogma la battuta marxiana sulla religione come "oppio dei popoli", ricordando come in determinati contesti storici e geografici (vedi il ruolo della Teologia della Liberazione in America Latina) la religione abbia svolto al contrario un ruolo rivoluzionario. Senza dimenticare le pagine (14) in cui Lukács analizza la storia del cristianesimo e l'alternanza fra ruolo progressivo e ruolo reazionario che ne ha contraddistinto differenti fasi evolutive. E senza dimenticare che un grande filosofo marxista (ancorché eretico) come Ernst Bloch (15) ha addirittura visto nella rivoluzione bolscevica il compimento di un annuncio profetico inaugurato dal cristianesimo, proseguito dalle eresie medievali e culminato nell'utopia socialista.

Visalli affronta il tema da un altro angolo visuale, adotta cioè il punto di vista di Walter Benjamin, il quale, in alcuni testi (16), più che occuparsi del rapporto fra capitalismo e religione, descrive il capitalismo stesso in quanto religione. Il capitalismo, scrive Visalli seguendo le tracce di Benjamin, "serve alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini cui un tempo davano risposta le religioni". In altre parole: non si tratta di leggere l'influenza di credenze religiose secolarizzate sui valori della civiltà capitalistica, bensì di capire come proprio il radicale processo di secolarizzazione messo in atto da tale civiltà abbia creato un vuoto di senso che lo stesso capitalismo ha finito per riempire. Ma di che religione stiamo parlando? Siamo di fronte a un culto, risponde Visalli sempre ispirandosi a Benjamin, che si fonda quasi esclusivamente sulla ritualità, che è mero rito, ripetizione di gesti e pratiche senza una vera teologia; un culto che introduce nel mondo la dismisura, la cattiva infinità dell'accumulazione di ricchezza (in forma di denaro) fine a se stessa, che è illimitatezza di un desiderio disperato il cui fine ultimo non è la buona vita bensì la creazione di valore economico. Siamo infine di fronte a una religione mortifera, sia perché opprime il lavoro vivo per accumulare oggetti, lavoro morto, sia perché non offre redenzione bensì la disperazione di una colpa irredimibile che indossa la maschera del debito.


Walter Benjamin

Ma il vero motivo per cui Visalli adotta questa lettura benjaminiana del capitalismo come culto religioso è il fatto che, adottando il punto di vista del grande eretico della Scuola di Francoforte su questo tema, è possibile mettere sotto accusa i feticci del progresso e del lavoro industriale; feticci che ispiravano la socialdemocrazia tedesca fra fine 800 e primo 900, ma che sono rimasti saldamente incastonati nella cultura di tutte le correnti - tanto riformiste che rivoluzionarie, tanto nel passato quanto nel presente - del marxismo mainstream.

Nella misura in cui il socialismo si converte ai valori dell'industrialismo progressista, non considerandoli semplicemente come strumenti per sottrarre milioni di persone alla povertà (vedi il caso della Cina socialista), bensì ipostatizzando la tecnica e lo sviluppo delle forze produttive come fattori determinanti, se non esclusivi, della transizione a un nuovo modo di produzione e a una nuova civiltà, ci si è già inconsapevolmente esposti al rischio di abbracciare la fede borghese nella natura salvifica della crescita illimitata.

Superare questo approccio, argomenta Visalli, implica rivisitare criticamente alcuni dogmi del marxismo mainstream (compresi certi passaggi dei testi marxiani). Dall'esaltazione positivista, evoluzionista e progressista del ruolo rivoluzionario della tecnica, dello sviluppo delle forze produttive, deriva infatti una visione della rivoluzione come l'esito necessario, "naturale" di presunte leggi immanenti alla storia. Abbandonare questa visione significa seguire Benjamin nel suo tentativo di ridefinire il senso del progetto rivoluzionario. La metafora benjaminiana dell'angelo della storia (17), rappresentato come una figura che il vento trascina verso un futuro cui essa volge le spalle, mentre contempla il cumulo delle rovine e delle vittime che il progresso si lascia dietro, ispira l'idea della rivoluzione come "estrema difesa davanti al disastro", più che come approdo di una evoluzione spontanea verso un futuro predestinato. Così concepita, la rivoluzione non può essere altro se non la rottura del continuum storico nell'attimo dell'azione, il "balzo di tigre" (per citare un'altra metafora benjaminiana) che spezza la continuità della dominazione.


Note

(1) A. Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023.

(2) Le idee di Antonio Labriola (vedi in particolare, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 2019) esercitano una forte influenza sul pensiero di Visalli che ritiene questo autore un anticipatore di Gramsci.

(3) Cfr. A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma 1998 e L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Quanto ai teorici postoperaisti il riferimento è soprattutto ad Antonio Negri.

(4) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, EGEA, Milano 2011 e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013 (anche se sul tema mi ero già espresso in lavori precedenti così come sono tornato in lavori successivi).

(5) Cfr. Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007.

(6) Cfr. M. Castells, L'età dell'informazione: economia, società, cultura, 3 voll., Università Bocconi Editore, Milano 2002-2003.

(7) Cfr. N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Editions, Roma 2018.

(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; E. Laclau, La ragione populista, Latera, Roma-Bari 2008; E. Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017.

(9) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.

(10) La questione della territorializzazione del conflitto di classe nei paesi a capitalismo avanzato è associata al tema del processo di gentrificazione dei centri metropolitani e del parallelo processo di periferizzazione delle città minori. Per quanto riguarda il caso francese cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.

(11) Per una dettagliata ricostruzione della storia della teoria della dipendenza vedi A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(12) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997; ma soprattutto vedi Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023.

(13) Cfr. M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991; vedi anche M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.

(14) "Samir Amin: una spallata contro l'eurocentrismo" https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/06/samir-amin-una-spallata-contro.html

(15) Cfr. G. Lukács, Ontologia, op. cit.

(16) Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, 3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019.

(17) Visalli discute soprattutto due testi di Benjamin: le "Tesi di filosofia della storia", in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962 e Strada a senso unico, Einaudi Torino 1983.

(18) vedi nota precedente.














martedì 27 giugno 2023

STRADE SENZA USCITA
Note a margine di tre saggi sulla civiltà tardo-capitalistica



Intervengo, senza pretese di esaustività, su tre lavori di altrettanti amici che ho avuto modo di leggere di recente. I temi affrontati dagli autori non sono immediatamente riconducibili gli uni agli altri: Onofrio Romano (Go Waste. Depensamento e decrescita, ORTHOTES, Napoli-Salerno 2023) critica i limiti delle teorie della decrescita e individua nel concetto battagliano di dépense una più efficace alternativa al feticismo della crescita; Lelio Demichelis (La società fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering, LUISS, Roma 2023) rilancia la tesi secondo cui il mondo contemporaneo sarebbe completamente sovradeterminato dalla tecnica; infine Roberto Finelli (Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale, Rosenberg & Sellier,  Torino 2022) individua nella radicalizzazione dell'umanesimo la possibilità di attribuire un segno positivo alla rivoluzione digitale. Discorsi paralleli più che convergenti, nei quali chi scrive ha però ritenuto di riconoscere alcuni tratti comuni che, come cercherò qui di dimostrare, indirizzano i tre autori su strade senza uscita che non offrono strumenti atti a scalfire le fondamenta della civiltà tardocapitalista.  



1. Onofrio Romano. Cercando un'alternativa nel pensiero di Bataille







La critica del concetto di decrescita che troviamo nel testo di Onofrio Romano viene dall'interno dello stesso paradigma decrescitista (Romano è stato allievo di Serge Latouche, nonché parte attiva del dibattito interno all'area di pensiero inaugurata da questo autore).  Le accuse sono molte e radicali: il progetto della decrescita non rappresenta una reale alternativa all'esistente; la lotta contro il feticcio della crescita è collocata esclusivamente nella sfera dell'immaginario, per cui si dà per scontato che, una volta destituito di ogni valore il concetto di crescita (si tratta di "decolonizzare" il discorso pubblico dal linguaggio economicista), tutto andrà a posto. Infine manca un disegno chiaro di ciò che dovrebbe essere una società della decrescita.


In effetti, argomenta Romano, tale disegno non può che mancare, ove si consideri che la contestazione della crescita non mette in questione i capisaldi del regime socio-istituzionale di cui quest'ultima è il prodotto. Il che, aggiunge Romano, nasce dal fatto che il bersaglio centrale della contestazione è il modo in cui è organizzata la sfera produttiva e non le ragioni profonde (sociali, antropologiche, politiche e culturali) che giustificano e legittimano tale organizzazione. Per dirla altrimenti: nel momento in cui il progetto si appiattisce nel faccia a faccia con la sfera produttiva, il suo discorso finisce per rispecchiare, sia pure per negazione, l'immaginario economicista dal quale pretenderebbe di affrancarsi. 


Se poi analizziamo la prassi dei movimenti che si ispirano all'ideologia della decrescita, ritroviamo i limiti e i vizi dei movimenti politici post sessantottini, a partire dalla sfiducia totale nei confronti di ogni forma di potere - istituzionale, partitica, ecc. - considerate negative  di per sé e oggetto di controllo e sorveglianza dal basso più che di conquista (1). Si aggiungano: l'idea che l'unico vero cambiamento non può essere che il frutto di percorsi soggettivi di auto trasformazione (autocoscienza, partire da sé, ecc.); l'idea secondo cui l'unica azione efficace è quella che si compie qui e ora, al di fuori di ogni velleità di cambiamento sistemico di lungo periodo; l'idea che l'ambito più appropriato dell'agire è la dimensione del locale, in quanto unica sede appropriata della costruzione di "alternative" dal basso, di piccoli mondi "orizzontali"; infine l'illusione alimentata dai discorsi sulla presunta "smaterializzazione" della produzione associata alla rivoluzione digitale (2), illusione alimentata dalla rimozione del fatto che l'economia dei servizi prospera sullo spreco di enormi quantità di risorse materiali ed energia (illusione eurocentrica, nella misura in cui ignora la divisione internazionale del lavoro fra centri e periferie del mondo globalizzato).


In precedenti lavori (3) Onofrio Romano aveva associato questa vocazione impolitica, se non esplicitamente antipolitica, delle sinistre occidentali a quello che potremmo definire l'inceppamento di un dispositivo che ha accompagnato l'intera storia del capitalismo dalle origini alla fine del trentennio postbellico, caratterizzato dal compromesso capitale/lavoro associato al modo di produzione fordista. Il dispositivo in questione consiste nell'alternanza fra fasi caratterizzate dall'abbandono del processo di riproduzione sociale ai meccanismi del mercato e fasi caratterizzate dal controllo e dalla regolazione politica di tali meccanismi. Allorché gli effetti del liberismo selvaggio mettono a rischio le condizioni stesse della riproduzione sociale, scatta una reazione difensiva che consegna allo Stato il compito di restaurare le condizioni di una convivenza relativamente pacifica fra le classi sociali. 


Perché, a mezzo secolo dalla controrivoluzione  neoliberale che ha spazzato via le conquiste economiche politiche e sociali del "trentennio dorato" e precipitato larga parte della popolazione mondiale in condizioni paragonabili a quelle del tardo Ottocento, non si vede traccia di un contro movimento verso nuove forme di regolazione politica dei mercati? Ciò, argomenta Romano, non può essere spiegato solo in base ad argomentazioni di tipo economico, politico e sociale: le vere radici del fenomeno, a suo avviso, sono di tipo antropologico- culturale: il richiamo alla necessità di proteggere la società dall'aggressione del mercato non funziona più perché, o almeno non tornerà a funzionare finché, persistono le cause profonde che hanno consentito al messaggio neoliberale di fare breccia nelle coscienze e nei cuori delle larghe masse popolari. 


Semplificando drasticamente, secondo Romano tali cause consistono nell'incapacità delle generazioni sessantottine e post sessantottine di farsi carico delle chance di "vita sovrana" (liberata cioè dai vincoli della lotta per la mera sopravvivenza) che la società welfarista aveva reso disponibili. Posto di fronte alla sfida della proliferazione delle scelte possibili, all'eccesso di surplus energetico, il vivente, invece di rispondere alla chiamata arretra, accetta (o almeno subisce passivamente) il balzo indietro impostogli dal discorso neoliberale, si adagia nel nuovo stato di emergenza esistenziale imposto da politiche sistematicamente mirate a cancellare ogni genere di protezione sociale. Il soggetto torna così a essere ossessionato dal problema della sopravvivenza individuale, il che lo induce a riconoscere nella crescita illimitata l'unica condizione in grado di risolvere i suoi problemi. "La crescita, scrive Romano, non costituisce altro che la traduzione prosaica della pulsione alla manifestazione illimitata di sé: avere di più moltiplica la mia capacità di essere ciò che voglio essere" (pag. 79).


Di fronte alla seduzione della retorica "desiderante" (4), le armi della narrazione decrescitista sono spuntate. L'eccesso edonistico-individualista predicato dal liberalismo - in barba alla sua irrealizzabilità per la grande maggioranza - suona più attrattivo dello spettro della catastrofe ecologica agitato dai decrescitisti, che altro non sembrano promettere se non "un ritorno all'antico consolante terrore di una Natura onnipotente che ci libera dalla nostra insopportabile autonomia" (pag. 86). Si predica la necessità di difendere la vita, ma si omette di affrontare la domanda sul senso della vita, un vuoto che le pratiche e i riti del consumo si incaricano di camuffare.  


Per non combattere battaglie perse in partenza, argomenta Romano, il pensiero della decrescita deve recuperare l'ispirazione antiutilitarista di precursori come Polanyi e la sua critica della "anomalia" della società di mercato rispetto alle precedenti forme sociali in cui l'economia non era un sistema autonomo dalla (e dominante sulla) totalità sociale, o come il teorico dello scambio-dono, Marcel Mauss, o come l'antropologo Marshall Sahlins che oppone alla modernità ossessionata dalla scarsità (artificiale!) un mondo primitivo basato sull'abbondanza, su società "ricche" e consapevoli di essere tali che, mentre producevano il necessario per soddisfare i propri bisogni, consumavano ciò che eccedeva tali bisogni, il surplus, per rafforzare i legami comunitari. 


Il pensatore che ha elevato a sistema filosofico questo approccio e che, secondo Romano, andrebbe assunto come ispiratore  di un paradigma realmente alternativo, è George Bataille, la cui opera, scrive, "costituisce uno dei tentativi più coerenti e radicali di smascherare l'insostenibilità di un consorzio umano fondato sulla riduzione delle cose e delle persone alla loro funzione produttiva" (pag. 93). Bataille ha il merito di avere attribuito all'abbondanza e non alla scarsità il ruolo di problema centrale di una umanità che deve tornare a coltivare l'arte dello spreco: l'energia che eccede la capacità di impiego da parte degli esseri viventi non va accumulata a profitto di impieghi futuri, bensì dissipata, come avveniva negli antichi rituali del potlach. La dépense, il consumo "improduttivo" associato alle attività ludiche non è meno importante del consumo necessario alla conservazione della vita e alla continuità delle attività produttive. 


La critica di Onofrio Romano al pensiero della decrescita, in particolare laddove afferma che tale pensiero contribuisce a rafforzare quel principio di scarsità che è il pilastro dell'economia classica e della narrazione legittimante sulle virtù del capitalismo, mi pare convincente, viceversa ho serie difficoltà a riconoscermi nel vitalismo battagliano, nell'invito del filosofo francese a non arretrare davanti alle provocazioni della "parte maledetta", di un sovrappiù che spaventa il soggetto in quanto lo pone di fronte alla sfida della libertà di scelta, alle chance di "vita sovrana". 


A rendermi perplesso non è solo e tanto il "culturalismo" di questo approccio, lo spostamento della opposizione alla civiltà del capitale dal terreno della lotta di classe alle contraddizioni di tipo antropologico: il vero punto è, a mio avviso, che la pratica dello spreco e del consumo improduttivo sono del tutto compatibili con la logica del tardo capitalismo. Se Weber ha identificato nella sobrietà dell'etica protestante una delle radici del capitalismo moderno, la società neoliberale che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni ha totalmente sovvertito tale mentalità: la dépense è prassi quotidiana, anche se non viene più celebrata in riti collettivi, ma è inglobata e "privatizzata" nelle insulse pratiche del consumismo postmoderno. Del resto Romano ne è consapevole, ma non rinuncia a voler rintracciare in tali pratiche uno dei "pochi territori nei quali è possibile ancora scorgere delle posture anti utilitaristiche". Riconosce che si tratta di una versione dequalificata, barbara e aberrante di dépense, nondimeno sembra attribuirle un potenziale eversivo. Presumo che dia per scontato che tale potenziale possa esprimersi solo se politicamente orientato, ma da dove può venire l'orientamento politico se la postura di cui parliamo è parte integrante di una mentalità individualista, orizzontalista e antipolitica?


Strada senza uscita. Tanto più ove si considerino altre implicazioni della "parte maledetta", decisamente più inquietanti del consumo improduttivo: parte integrante della dépense, infatti, sono fenomeni come il lutto, la guerra e tutte le pulsioni distruttive della psiche umana analizzate dalla psicanalisi. Vitalismo e immaginario mortifero sono sempre convissuti, nella produzione estetica come nelle ideologie di estrema destra. Il che non significa appioppare a Bataille (come si è fatto con Nietzsche) l'etichetta di ispiratore dell'immaginario fascista, ma basta per limitare il suo contributo alla critica della società capitalista all'ambito della retorica della scarsità.



2. Demichelis. Abbagliato dalla fascinazione mortifera della tecnica





Introducendo (5)  L'ontologia dell'essere sociale, il capolavoro dell'ultimo Lukács, insistevo sul concetto di "complesso di complessi", con il quale il filosofo ungherese definisce la totalità sociale. Tale concetto è associato a una visione innovativa del marxismo, in quanto riconosce a ogni ambito della vita sociale una logica autonoma, non riducibile al dogma meccanicista che attribuisce all'economia la capacità di "sovradeterminare" tutte le relazioni umane. Una visione analoga, come ho mostrato in un articolo apparso su questa pagina (6), a quella di Samir Amin, che esprime un'idea simile con il termine di sottodeterminazione (7). Lukács e Amin appartengono al gruppo di quegli autori che hanno tentato di superare criticamente le interpretazioni economiciste del marxismo, senza rinnegare la validità del tentativo marxiano di definire una teoria della totalità sociale a partire dalle forme assunte dai suoi meccanismi riproduttivi (forme non riducibili alle "leggi" dell'economia, ma spiegabili solo con l'insieme delle relazioni - politiche, ideologiche, culturali e non solo economiche - fra le diverse componenti sociali). 


Sul fronte opposto, registriamo una serie di approcci che, paradossalmente, mentre si propongono di superare il marxismo, ne conservano il nucleo metodologico meno vitale, vale dire il riferimento a una sfera della vita sociale la cui logica sarebbe in grado di sovradeterminare quella di tutte le altre. Banalmente, al posto dell'economia viene eletto un altro insieme di fenomeni capace di imporre la propria legge alla totalità delle relazioni umane. Negli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla rivoluzione digitale, questo ruolo assolutamente centrale, determinante, della vita sociale viene attribuito alla tecnica. L'ultimo lavoro di Lelio Demichelis, che si muove da tempo in questa direzione sulle tracce di autori come Gunther Anders ed Emanuele Severino, rappresenta uno dei prodotti più radicali di questa corrente. Nello spazio contenuto di un articolo, non posso discutere tutti gli argomenti di un saggio corposo qual è La società fabbrica, per cui mi limito a richiamarne alcuni aspetti funzionali al discorso che intendo qui sviluppare.


Partiamo dal titolo: "La società fabbrica". Si tratta di una citazione dal lessico del linguaggio operaista degli anni Settanta che aveva coniato il termine "città fabbrica", con il quale si alludeva al fatto che l'organizzazione del lavoro fordista si proietta nel territorio, nel senso che i quartieri dormitorio dell'operaio massa, vere e proprie "fabbriche" per la riproduzione della forza lavoro, rappresentano un prolungamento del regime disciplinare instaurato dai principi e dai metodi del taylorismo. Questa scelta terminologica ci fa capire che Demichelis non vede una sostanziale discontinuità tra taylorismo fordista e taylorismo digitale: a suo avviso, quest'ultimo è la continuazione del paradigm industrialista/capitalista/positivista/taylorista con altri mezzi di connessione. Se di cambio di paradigma si può parlare è perché il processo di "fabbrichizzazione" si è esteso dalla città alla totalità sociale. Il modello della fabbrica, con i suoi principi ispiratori di efficienza e produttività, si estende alla totalità dei rapporti sociali, sempre più mediati da un apparato comunicazionale che incorpora la stessa logica, pur presentandosi come il compimento delle aspirazioni di libertà e di realizzazione individuale del soggetto. 


A favorire questa autorealizzazione illusoria, secondo Demichelis,  è la "ingegnerizzazione" dell'inconscio individuale e collettivo resa possibile dai media digitali. Anche quest'ultima scelta terminologica è rivelatrice, nella misura in cui rivela che per l'autore: 1) il motore del processo di trasformazione è la tecnica, 2) i suoi effetti vanno ricercati soprattutto, se non esclusivamente, al livello della psiche individuale e collettiva.


Partiamo dal primo punto. Per poter attribuire alla tecnica il ruolo di agente principale, se non unico, del mutamento di paradigma, escludendo come secondari fattori come le contraddizioni del sistema capitalista, la lotta di classe, la politica ecc., Demichelis deve "liberarla" da ogni condizionamento esterno. E infatti scrive che "l'errore di Marx è stato quello di pensare che l'essenza della tecnica fosse capitalistica o che la tecnica non avesse una propria essenza" (pag. 256), e altrove aggiunge che "Weber distingueva fra economia e tecnica mentre per noi sono un sistema integrato" (pag. 21). Le due asserzioni appena citate sembrerebbero contraddittorie (la tecnica è una potenza autonoma o è integrata all'economia?); ma non è così: in effetti quello che Demichelis ci dice è che non solo la tecnica è dotata di una propria essenza, ma che tale essenza sovradetermina l'economia a mano a mano che le due sfere di integrano reciprocamente. Ci dice  infine che l'apparato produttivo del capitale e la sua razionalità non sono utilizzabili per altri scopi essendo incorporati nell'essenza della tecnica (pag.19, sottolineatura mia).


A partire da quest'ultima considerazione Demichelis si azzarda ad affermare che capitalismo e comunismo sono fondati sulla medesima (ir)razionalità strumentale, calcolante-industrialista quale paradigma per l'intera società. Tale affermazione può forse sfruttare certe affermazioni di Lenin e Gramsci in merito alla natura "progressiva" dei metodi tayloristi, e alla possibilità/necessità che il proletariato se ne appropri per accelerare la costruzione del socialismo, come può sfruttare l'esaltazione dello sviluppo delle forze produttive come fattore determinante della transizione dal capitalismo al socialismo da parte delle versioni deterministe/meccaniciste di certi teorici. Ma la tesi cade non appena messa a confronto con la sterminata produzione del pensiero marxista non dogmatico (Lukács, Samir Amin, Giovanni Arrighi, Benjamin e i francofortesi, per fare solo qualche nome). Una produzione che incorpora nella critica alla civiltà capitalista tematiche storiche, sociali, politiche, antropologiche, culturali, ambientali mantenendo ben salda, al tempo stesso, la consapevolezza del condizionamento che tutti questi fattori, non solo quello economico, esercitano nei confronti della tecnica.


Posto che per Demichelis il metacorpo tecno-capitalistico non avrebbe più necessità di uno stato (addio alla questione del potere politico), e posto che in questa società non può esistere un'autentica soggettività antagonistica (addio alla questione della soggettività rivoluzionaria), non si vede come il nostro possa intravedere una qualche chance di cambiamento. La sua risposta rinvia ai luoghi comuni decrescitisti/ambientalisti che abbiamo appena visto demolire da Onofrio Romano:  per salvarci occorre una rivoluzione culturale e antropologica; potremo trasformare la società solo se e quando saremo veramente riusciti a trasformare l'uomo; occorre educarci a un pensiero riflessivo/sensuale/gentile/meditante e responsabile, ovvero saggio; dobbiamo costruire un progresso diverso in nome della sobrietà (evoca il concetto berlingueriano di austerità), del senso del limite e della pace con la Terra e fra gli uomini; l'uomo deve scoprire e riconoscere in se stesso ciò che è Giusto e Buono. Insomma un mix di cultura green, etica cattolica, pacifismo, femminismo; Berlinguer più Latouche più Papa Francesco, più Gandhi, con contorno di Kant. Il fatto che dei soggetti storici concreti che dovrebbero compiere tutti questi miracoli si dica poco o nulla è un chiaro indizio del fatto che anche questa è una strada senza uscita.



3. Finelli. Verso l'integrazione finale del genere umano?







Il lavoro di Roberto Finelli ha un taglio più propriamente filosofico, ed è questo il motivo per cui sarò costretto a fargli ancora più torto di quanto ne abbia fatto ai saggi discussi nei due precedenti paragrafi, nel senso che potrò qui affrontare solo alcuni dei temi trattati nel libro, semplificando al tempo stesso le complesse argomentazioni dell'autore. In particolare mi limiterò a discutere 1) la sua distinzione fra i concetti di tecnica e tecnologia (anche in riferimento all'uso fattone da Marx), 2) la sua visione relativa alla contraddizione fra effetti perversi del processo di "virtualizzazione" del soggetto postmoderno e potenziale delle tecnologie digitali in quanto strumento di creazione/unificazione di una "cosmopoli" planetaria. 


Il primo punto è quello che più ha suscitato il mio interesse in quanto affronta la questione della distinzione di senso fra i termini di tecnica e tecnologia dal punto di vista della loro evoluzione storica, più che dal punto di vista lessicale. Posto che il significato originario (prodotto della filosofia classica) di tecnologia è quello di tecnica del discorso, del corretto scrivere e parlare (retorica), Finelli descrive come nella cultura tedesca del Settecento, specificamente nella scienza dell'amministrazione e della politica dei principati tedeschi, esso si sia trasformato fino a rappresentare una voce del curriculum dei burocrati (funzionari statali e dipendenti pubblici) in quanto disciplina deputata a fornire una conoscenza precisa delle attività artigianali e manifatturiere, della loro classificazione, articolazione e distinzione in base a tipologie di prodotti, ai loro rapporti con l'agricoltura e altre aree sociali e amministrative (Cfr. pag. 78). Nella visione di questa cultura, nota come cameralismo tedesco, la produzione materiale veniva insomma messa in relazione con la totalità del territorio, con i costumi e con le istituzioni dello stato. Si tratta dunque, nota Finelli, di una concezione assai diversa da quella propria del liberalismo inglese, il quale considerava il mercato nella sua specificità e autonomia dallo stato politico. In poche parole, la cultura tedesca del Settecento, a differenza di quella coeva d'oltremanica, manteneva ancora un profondo legame con il significato classico di economia come amministrazione della casa (cfr. pag 82). 


Se ho ben capito, Finelli mette in relazione (mi perdonerà se salto troppi passaggi della sua argomentazione) con il modo diverso con cui a sua volta Marx usa, benché non si tratti di differenze sistematiche, i suddetti termini. Ecco quanto scrive in merito: "a me sembra che tecnica nel contesto marxiano rimandi essenzialmente a una prospettiva antropologica di produzione di beni in quanto valori d'uso: alla capacità cioè della specie umana di confrontarsi produttivamente, secondo gradi diversi a seconda delle diverse epoche storiche e delle diverse formazioni economico-sociali, con la natura come oggetto di lavoro (8)...Laddove  Technologie sembra riferirsi non a una struttura in qualche modo invariante della specie rispetto ad altre specie, ma al particolare luogo storico in cui l'invarianza antropocentrica della tecnica viene risignificata in una rete di relazioni tra macchione, forza lavoro e comando d'impresa... (pag. 93). 


Il filosofo che più di ogni altro ha saputo valorizzare la fecondità di questa distinzione concettuale, di questa contraddittoria coesistenza di livelli temporali (da un lato l'invarianza dell'attività lavorativa - pur nelle radicali trasformazioni delle sue modalità - come ricambio organico uomo-natura; dall'altro la contingenza della forma storica che essa assume nella società capitalistica) è Gyorgy Lukács (9). Viceversa, Finelli non mi pare che sfrutti pienamente questa potenzialità nel condurre la sua critica all'infatuazione postmoderna per una rivoluzione digitale presentata come una leva in grado di sovvertire, non solo il sistema economico e politico, ma la stessa natura umana. Questo perché preferisce utilizzare, a tale scopo, gli argomenti della teoria psicoanalitica e di altri paradigmi scientifico-filosofici.   


Dopo avere elencato i deliri degli apologeti della rivoluzione digitale (la metafisica dell'informazione che descrive tutta la realtà, compreso l'universo, come un mondo fatto di bit; la retorica della "infosfera", cioè di una conoscenza generata da dispositivi automatici, intelligenze e memorie artificiali capaci di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita; la contaminazione fra uomini e macchina fino alla generazione di inedite forme di soggettività "post umana", ecc.) Finelli li demolisce con argomentazioni quali l'irriducibilità della vita organica alla processualità macchinica, o quella fra mondo del discreto e mondo del continuo; oppure riferendo la nascita del pensiero alla necessità di soddisfare le esigenze e le pulsioni del corpo (principio di piacere) nel confronto con la complessità della realtà esterna (principio di realtà). 


Non posso che essere d'accordo con queste critiche ai sogni di smaterializzazione del mondo e della vita ma, dal momento che in questo lavorio del negativo viene a mancare (o resta sullo sfondo) il momento dell'agire collettivo, della prassi politica (non a caso Finelli, pur criticando le filosofie del postmoderno, ne riconosce il "prezioso" contributo nel denunciare i dogmatismi identitari, compresa la celebrazione della collettività di classe) il rischio di cedere alla seduzione del paradigma digitale è in agguato non appena si cerchi di coglierne il lato positivo. Così affiora l'illusione di poter restituire alle nuove tecnologie lo statuto ontologico della strumentazione, illusione destinata a venire frustrata dall'intreccio inestricabile fra evoluzione delle tecnologie in questione, interessi di classe, configurazioni di potere economico e politico, miti di legittimazione dell'esistente, ecc. 


Così Finelli finisce di fatto per dare credito alle utopie dei guru della New Economy (10), che già negli anni Novanta profetizzavano l'avvento  di una umanità sempre più aperta a una comunicazione universale, e/o allo scenario elaborato dal sociologo Ulrich Beck (11) il quale parlava di società cosmopolita abitata da cittadini del mondo, visioni che Finelli associa all'ideale kantiana di integrazione finale del genere umano. Ma la realtà di un mondo sempre più de-globalizzato e riprecipitato negli orrori della guerra imperialista ci offre la dolorosa conferma del fatto che la via di uscita promessa dal sottotitolo del libro di Finelli, è invece, al pari delle precedenti, una strada senza uscita. 


4 Considerazioni conclusive  


E' evidente che i tre lavori che ho messo qui a confronto presentano fra loro evidenti differenze di contenuto e di metodo, per cui il loro accostamento può apparire arbitrario. E tuttavia mi pare si possa affermare che essi presentano anche alcune analogie di fondo che viceversa giustificano il fatto di averle accostate. Tutti e tre propongono una critica radicale della logica del mondo esistente, concentrandosi il primo sul tema della crescita, gli altri due su quello delle tecniche digitali e del loro impatto sulla soggettività umana; tutti e tre tendono a spostare il focus della critica dall'analisi dei rapporti di forza tra classi sociali (rapporti di produzione e relativi conflitti economici e politici) ai temi dell'antropologia culturale e della psiche individuale e collettiva; tutti e tre restano confinati in una modalità di pensiero radicalmente eurocentrica, nel senso che la civiltà e la cultura descritte sono quelle del mondo euro atlantico, ma soprattutto nel senso che si dà per scontato che tale civiltà e tale cultura siano condivise dalla totalità del pianeta senza contraddizioni né residui;  tutti e tre indicano come via d'uscita dall'impasse in cui si dibatte il mondo attuale un cambiamento radicale della cultura e della mentalità individuali e collettive ma, al tempo stesso, nessuno di essi indica quale dovrebbe essere l'agente di tale cambiamento, il quale, a meno di cadere nell'idealismo assoluto, non può essere altri che un soggetto collettivo concreto, vale a dire storicamente determinato. Ecco perché mi sono permesso di definirle strade senza uscita.  


Note 


(1) Su questa visione "impolitica" dei nuovi movimenti e sul loro rifiuto radicale di porsi la questione del potere cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012. 


(2) Sulla retorica della presunta smaterializzazione dell'economia postmoderna cfr. A. Gorz, L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.


(3) Cfr. in particolare O. Romano, La libertà verticale, Meltemi, Milano 2019. 


(4) Mi riferisco in particolare alle elucubrazioni filosofiche del duo Deleuze, Guattari cui hanno ampiamente attinto i teorici post operaisti come Antonio Negri 


(5) Cfr. la mia Prefazione a G. Lukács, Ontologia dell'essere sociale,4 voll., Meltemi, Milano 2023.


(6) Cfr. "Samir Amin. Una spallata contro l'eurocentrismo",  https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/06/samir-amin-una-spallata-contro.html 


(7) Nell'articolo citato alla nota precedente definivo così questo concetto: "Per Amin, ogni istanza (sociale) segue una logica propria, indipendentemente dal fatto che il suo stato sia quello di determinata in ultima istanza (l'economico nei sistemi capitalisti) o di dominante (il politico nei sistemi tributari, il culturale nel futuro comunista). Tali logiche non sono necessariamente complementari: entrano in conflitto e non si può predeterminare quale di esse prevarrà".


(8) E' la classica definizione marxiana del lavoro come ricambio organico organico uomo-natura che troviamo nel Libro I del Capitale. 


(9) Cfr. Ontologia, op. cit.


(10) Sulle utopie dei guru della New Economy cfr. quanto ho scritto in vari lavori; vedi, in particolare,  Felici e sfruttati, EGEA, Milano 2011 e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013


(11) Cfr. U. Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna 2003.

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