Lettori fissi

martedì 22 agosto 2023

Pubblico un lungo estratto da un eccellente articolo di Francesco Galofaro (docente dell'Università IULM di Milano) sul ruolo geopolitico della Polonia nell'attuale contesto internazionale caratterizzato dalla guerra tra Ucraina e Russia. La versione integrale del testo è consultabile sul sito della rivista Cumpanis all'indirizzo https://www.cumpanis.net/la-polonia-alla-guida-delleuropa-centro-orientale/ 


LA POLONIA ALLA GUIDA DELL'EUROPA CENTRO-ORIENTALE  






La Polonia conta circa 40 milioni di abitanti, pari ai due terzi della popolazione italiana. Nonostante la crescita economica impetuosa, si tratta di un Paese ancora in gran parte poco sviluppato e segnato da grandi contrasti sociali. Nel 1991, per l’italiano medio la Polonia era un semisconosciuto Paese dell’est, patria di Giovanni Paolo II e di Lech Wałęsa, il leader delle battaglie sindacali che Solidarność ha portato avanti contro il governo comunista degli anni ’80. Oggi la Polonia è probabilmente più nota per il suo attivismo nella politica internazionale: guida blocchi di Paesi centro-orientali contro l’Europa a trazione franco-tedesca e contro la concezione liberale della democrazia, promuove un modello di Stato etico ispirato al cattolicesimo conservatore, paternalista e familista, nel tentativo di assoggettare al governo il potere giurisdizionale e il sistema dei media (...) .


1. Economia e politica

Tra tutti i Paesi dell’Est Europa, la Polonia è forse quello in cui si è registrato lo sviluppo economico e sociale più impetuoso. Negli anni 2000 si aveva l’impressione che il Paese fosse un unico, grande lavoro in corso: qui una nuova sopraelevata, là un parcheggio multipiano e un megacentro commerciale, mentre immensi grattacieli dalle curvilinee pareti a specchio sopravanzavano i monolitici edifici di epoca staliniana fino a cancellarli dal profilo urbano. La Polonia è forse l’unico Paese del Patto di Varsavia in cui il liberismo, il laissez-faire, le zone economiche speciali detassate abbiano realmente prodotto una crescita impetuosa. Tuttavia, essa si accompagna a tremende disparità tra città e campagna e tra centro e periferia. La destra clericale ha approfittato della totale assenza di politiche sociali e di ridistribuzione del reddito per battere i liberali: governa senza interruzione dal 2015 semplicemente perché sostiene la natalità con assegni familiari, dando respiro alle classi sociali impoverite dalla globalizzazione, senza danni per la crescita e senza cambiare l’ispirazione liberista di fondo delle politiche economiche. Tuttavia, questo modello economico, che aveva superato senza problemi la crisi dei subprime, è stato spazzato via dal conflitto russo-ucraino nel 2022, suscitando diverse incognite circa il futuro del Paese (...).


Negli anni 2000 la Polonia conobbe una crescita impetuosa, dovuta ad alcuni fattori. Il primo è senz’altro la massiccia emigrazione. All’epoca, alcuni partiti di destra francesi incitavano la popolazione a diffidare dell’idraulico polacco, che divenne perfino una figura ricorrente della commedia borghese. In Italia, le donne polacche furono a lungo considerate badanti per antonomasia. In questo modo i governi socialdemocratici e liberali non hanno dovuto far fronte alla povertà del Paese con politiche redistributive, mentre l’afflusso di capitali permetteva alle famiglie di far studiare i figli e costruire nuove case. Grazie alla qualità del suo sistema di istruzione superiore e universitario, alla caduta del comunismo si formò rapidamente una classe media preparata e a buon mercato quanto a stipendi, il che attrasse investimenti da parte di grandi società multinazionali. Inoltre, allora come ora la Polonia è un Paese in larga parte poco sviluppato, in cui – grazie a ingenti finanziamenti europei – si sono create infrastrutture, collegamenti, ferrovie, autostrade, fognature, acquedotti.


Nel periodo 2007-2015 ciò corrispose al governo della destra liberale ed europeista guidata da Donald Tusk, il cui non-modello di sviluppo era basato sul laissez faire. La grande borghesia di Varsavia ha subito preso a prestito idee e valori dal mondo anglosassone, inviando i propri rampolli nei college inglesi, considerando il proprio successo come frutto di intelligenza e preparazione, e la povertà crescente nel Paese come frutto dell’ignoranza e dell’idiozia congenita nelle campagne. È a questa stessa stupidità che i liberali imputano la vittoria, a partire dal 2015, della destra conservatrice e del suo mix di nazionalismo, conservatorismo e clericalismo. La realtà è che il Partito di Jarosław Kaczyński, Andrzej Duda e Mateusz Morawiecki ha semplicemente intercettato un malessere che i liberali si ostinano a non voler vedere, generato da un modello che premiava (e premia tuttora) le metropoli a danno delle province e delle periferie.


Dallo scoppio del conflitto in Ucraina, il tasso di crescita annuale del PIL polacco è crollato in pochi mesi dall’8% allo 0%. L’inflazione è schizzata fino a toccare quasi il 20%, per assestarsi negli ultimi mesi al 12%. Se possibile, il prezzo che la Polonia sta pagando alla guerra ucraina è anche più caro di quello italiano; eppure, mentre qui da noi l’opinione pubblica è piuttosto scettica sull’invio di armi all’Ucraina, quella polacca supporta entusiasticamente l’escalation in Europa.


Per comprendere i motivi del crollo economico, si può pensare alla Polonia come alla porta d’oriente europea (o un hub, per usare un barbarismo). Dalla Bielorussia e dall’Ucraina passava una delle infrastrutture ferroviarie della BRI (Belt and Road Initiative) grazie alla quale l’Europa scambiava merci con la Cina. È in funzione di questo ruolo, oggi pregiudicato, che la Polonia aveva ristrutturato il proprio sistema ferroviario negli anni 2010, avvalendosi di fondi europei e acquistando il Pendolino italiano (...).


Si calcola che oltre 3 milioni di rifugiati ucraini abbiano attraversato la Polonia nei primi mesi del conflitto. Da paese monoetnico, monoreligioso e monolinguistico la Polonia si è trasformata in pochi mesi in un crogiolo di culture, lingue e religioni; il mercato immobiliare e degli affitti è salito alle stelle; molti rifugiati – non essendo migranti economici – non si adattano a qualsiasi lavoro, moltiplicando le occasioni di conflitto entro le classi sociali (dunque: tra lavoratori, tra proprietari, tra industriali ecc.). L’accoglienza che il Governo ha riservato ai rifugiati, accompagnato alla propaganda russofoba, può suonare come una grossa contraddizione: la Polonia ha sempre fatto ostruzionismo rispetto a ogni tentativo dell'UE di redistribuire i migranti provenienti dai Paesi che affacciano sul Mediterraneo. I polacchi non si sono ammorbiditi neppure quando la proposta di redistribuzione proveniva da Giorgia Meloni, la quale presiede il gruppo europeo dei conservatori cui fa riferimento il governo polacco.


D’altronde, l’atteggiamento polacco nei confronti degli immigrati, come anche quello nei confronti di Russia e Germania, riposa sul mito del Commonwealth polacco-lituano, che esplorerò nella seconda parte di questo scritto. In base a questo mito, la missione storica della Polonia è incarnare il baluardo della civiltà europea contro le minacce esterne che provengono dall’Asia e dal mondo islamico. In questa visione del mondo, l’Ucraina è considerata come se fosse ancora parte integrante della confederazione polacco-lituana del XVI secolo. Al di là delle canzoni popolari polacche nostalgiche delle bellezze che popolano la verde Ucraina, gli ucraini sono stati per secoli una popolazione di servi della gleba mantenuti in uno stato di ignoranza e sfruttamento dalla nobiltà polacca. Questo spiega bene il successo, nell’opinione pubblica, dell’atteggiamento paternalista assunto dalla Polonia nei confronti dell’Ucraina, vista tutt’oggi come la terra della felicità perduta. 


2. Una cultura di frontiera

(...) Come ogni altra cultura, anche quella polacca è un modello del mondo, e lo suddivide in uno spazio interno [IN] ed esterno [ES]. Lo spazio esterno è valorizzato negativamente: è lo spazio della natura, della non cultura, dell’assenza di informazione: della barbarie, ma anche di quel che “minaccia la nostra società”. Nel caso della Polonia, è stato via via lo spazio del paganesimo, dell’ortodossia russa e delle scorrerie dei cosacchi, del protestantesimo tedesco e svedese, dell’Islam turco. Lo spazio culturale [ES] alla cultura polacca è sovente suddiviso tra Germania e Russia, con differenze importanti. Il mondo tedesco è ciò con cui si deve competere quanto a sviluppo, e con il quale sono possibili collaborazioni economiche. Il mondo russo è al contrario identificato con l’arretratezza, la burocrazia soffocante, l’oblomovismo. Tale suddivisione dello spazio culturale [ES] è geograficamente incorporata nella Polonia stessa, la quale è divisa in un ovest sviluppato e in un est arretrato: un retaggio attribuito alla spartizione operata da Prussia, Russia e Austria nel corso dell’800 e alle differenze rispettive nell’amministrazione pubblica e nelle politiche di sviluppo.


Quanto allo spazio IN, risultava molto chiaro come la Polonia operasse una seconda demarcazione tra un “centro” e una “frontiera”, collocandosi entro quest’ultima. Così, il grande numero di marchi e prodotti pseudo-italiani sul mercato polacco nel 2005 manifestavano un orientamento della cultura polacca, di “frontiera”, verso quella italiana, vista come “centro”, almeno in ciò che riguarda lo stile di vita della borghesia. In modo molto simile, nel periodo orleanista, la borghesia francese vedeva un modello nel parlamentarismo inglese: prendeva a prestito il lessico, la moda e perfino il modo di annodare le cravatte delle classi dominanti in Gran Bretagna (Greimas 2000).

In quanto frontiera, la cultura polacca ha il potere di scegliersi il proprio centro, ossia il proprio modello. Così, nel ‘300 i prestiti semiotici attestano un orientamento diretto al mondo germanico quanto alla stratificazione sociale e all’amministrazione cittadina (ispirata al Diritto di Magdeburgo). Nel 1518 Bona Sforza diviene regina di Polonia e il vettore cambia radicalmente, orientandosi verso l’Italia, da cui si importano architetti, urbanisti, scultori, musicisti, piante e usanze alimentari, e perfino le buone maniere: si traduce in polacco (o meglio si adatta) Il Cortegiano, di Baldassarre Castiglione. In seguito, l’aristocrazia polacca imparerà a parlare francese – precedendo di un buon secolo quella russa – e produrrà addirittura una letteratura in quella lingua, come testimonia il Manoscritto trovato a Saragozza, di Jan Potocki.


Si nota qui un’importante differenza tra la cultura polacca e quella russa. A uno sguardo superficiale, esterno, le due possono sembrare molto simili. Si parla una lingua slava; si mangiano piatti analoghi, come il barszcz; nelle fiabe la strega si chiama Baba Jaga; nelle chiese si venerano le icone … Le analogie in cui ci si imbatte, a livello fenomenico, sono davvero molte. Ma la cultura russa, come spiega bene Juri Lotman (2001), è in qualche modo double face. Ha un vettore di orientamento rivolto verso l’Europa, occidentalista, ed uno slavofilo, simmetricamente rivolto verso l’Asia. La sua bistabilità si può leggere nel campo della letteratura (Dostoevskij vs. Tolstoj); della musica (Musorgskij vs. Rimskij-Korsakov); in politica (Ivan il terribile vs. Pietro il grande) …


Al contrario della Russia, la Polonia si autorappresenta stabilmente come frontiera d’Europa. Così, il mito del risveglio dell’Asia ha un valore profondamente negativo nella letteratura polacca. Esso è auspicato nichilisticamente, alla stregua di un cupio dissolvi, in opere come Insaziabilità di Witkiewicz, Lucifero disoccupato di Aleksander Wat; in Russia esso rappresenta un mito largamente positivo e addirittura anticoloniale (Lenin 1974).


I libri di storia della mia generazione erano molto focalizzati sulla storia italiana e dell’Europa occidentale al di qua della cortina di ferro. Per motivi ideologici, sintetizzavano o ignoravano del tutto la storia di tutte le entità politiche ad est dello spazio germanico. Tra queste, la Confederazione polacco-lituana, sancita ufficialmente a Lublino nel 1569 dopo un processo di fusione delle dinastie regnanti nei due Paesi in atto da almeno due secoli. Al suo apogeo, la confederazione polacco-lituana giunse a comprendere un immenso territorio che includeva Boemia, Ungheria, Prussia orientale, Ucraina e Bielorussia occidentali. Inoltre, lo Stato polacco ha potuto affermarsi nei secoli solo a spese dello spazio culturale germanico e russo. A questo proposito si possono ricordare, per il loro valore simbolico, due grandi battaglie. Con la battaglia di Grunwald (1410) il regno polacco assoggetta lo stato teocratico dei cavalieri teutonici, destinato, dopo la riforma protestante, a trasformarsi nello Stato prussiano. Con la battaglia di Klušino (1610) le truppe polacche vittoriose entrarono a Mosca e imposero uno zar polacco ai boiardi russi.


Il mito della grande Polonia nacque, come è ovvio, dopo la sua scomparsa e fu trasmesso di generazione in generazione in primo luogo dalla letteratura. Nel corso dell’800 lo Stato polacco era stato smembrato e spartito tra Russia, Austria e Prussia. Nel corso del XIX secolo, il mito della grande Polonia venne costruito in romanzi storici come la “trilogia” di Henryk Sienkiewicz, nobel per la letteratura nel 1905. Come è noto, si tratta del periodo in cui il romanzo borghese aveva pienamente soppiantato il poema nell’espressione dell’epos. Più precisamente, nella periodizzazione proposta da Lukács (1935), il periodo in cui scrive Sienkiewicz è considerato come quello della crisi della borghesia e dei suoi eroi positivi, che prelude alla dissoluzione della forma-romanzo. Tuttavia, lo sguardo di Lukács si posa in via esclusiva sulla letteratura prodotta dai Paesi a capitalismo avanzato. Sienkiewicz è pressappoco contemporaneo di Zola, ma in Polonia il problema dell’unità nazionale prevale sul realismo sociale. In Polonia Sienkiewicz è considerato un positivista; i temi trattati e la funzione politica della sua letteratura possono ricordare romanzi italiani della generazione precedente quali Ettore Fieramosca di M. D’Azeglio (1833) (...).


In quanto “frontiera”, la cultura polacca ha inoltre ereditato il mito delle kresy. Il termine designa in particolare le terre perdute dell’Ucraina occidentale e, più in genere, Lituania e Bielorussia. Queste terre hanno dato alla Polonia i loro massimi scrittori, da Adam Mickiewicz (nato a Nowogródek, oggi in Bielorussia) a Bruno Schulz (nato e vissuto a Drohobyč, oggi in Ucraina). Lo spazio culturale polacco è dunque proiettato verso est: la Polonia pensa all’Ucraina con il medesimo atteggiamento che i Paesi occidentali hanno nei confronti delle proprie ex-colonie. I polacchi non dimenticano, ma soprassiedono sui tanti conflitti etnici di cui è costellata la storia del loro rapporto con gli ucraini. A mio parere, ciò avviene perché, fin dal primo sorgere del conflitto tra Ucraina e Russia, l’esercito ucraino ha rappresentato per i Polacchi una funzione culturale simile a quella delle truppe coloniali indigene (gli Àscari per l’Italia, i Goumiers per la Francia …): soldati leali, fidati e fedeli da utilizzare nel conflitto contro la propria nemesi storica.


Nella cultura polacca vi è un grande trauma mai superato: quello della spartizione, avvenuta in più fasi nel corso del XVIII secolo, che portò infine alla scomparsa di una statualità polacca indipendente. Russia, Prussia e  Austria suddivisero e incorporarono parte della Polonia entro i loro confini. Il romanticismo polacco culturale e politico coincide col tentativo di preservare la cultura polacca dalla germanizzazione e dalla russificazione, sotto forma di riconquista dell’indipendenza. Il più noto, se non il più grande poema epico polacco, Pan Tadeusz di Adam Mickiewicz, offre più di uno spunto di riflessione sull’attualità: i polacchi, divisi da ancestrali faide nobiliari, si uniscono per partecipare alla spedizione napoleonica contro la Russia nella speranza di ottenere l’indipendenza. La storia è inoltre ambientata in Lituania, la quale, come si è detto sopra, è una delle due “radici” del Commonwealth polacco.La Polonia coltiva tutt’oggi il mito delle sue insurrezioni fallite, del sacrificio fino all’ultimo uomo, delle struggenti Polonaise di Chopin. La partecipazione di patrioti polacchi al Risorgimento italiano è ancora viva nell’epica polacca (e pressoché dimenticata da noi). La composizione dell’inno nazionale polacco avviene a Reggio Emilia nel 1797, lo stesso luogo e lo stesso anno di nascita del Tricolore.


Il mito del grande passato polacco ha perduto il proprio valore in relazione alla riunificazione del Paese per caricarsi, in seguito, di altre valenze; è stato utilizzato dalla cinematografia socialista nel tentativo di ricostruire l’unità nazionale negli anni ’50, dopo le lacerazioni del Secondo conflitto mondiale; oggi è divenuto un mito nazionalista, che agita la paura del nemico per spingere all’attacco preventivo. Poiché dialetticamente ogni cosa si trasforma nel proprio contrario, l’epos romantico finisce così per alimentare una pericolosa torsione nazionalista. Anche in questo caso, il mito negativo della spartizione si perpetua anche attraverso le istituzioni scolastiche, le quali sono responsabili anche della sua interpretazione storica piuttosto acritica e autoassolutoria. La crisi e la scomparsa della grande Polonia viene spiegata con il complotto dei suoi nemici, e non attraverso il conflitto tra monarchia e la piccola nobiltà diffusa nelle campagne, avida di privilegi e per nulla disposta a sacrificarsi per l’ideale nazionale. Il mito negativo della spartizione continua a influire tanto sull’interpretazione del periodo comunista quanto su quello della Russia di Putin. Non è esagerato dire che, nonostante l’ingresso della Polonia nella NATO renda piuttosto improbabile questo scenario, ogni polacco considera un’invasione russa come una possibilità realistica al punto che, allo scoppio del conflitto Russa – Ucraina, alcuni giustificavano in questo modo la necessità di un attacco preventivo alla Russia, approfittando di un suo supposto indebolimento.


3. Lo spazio polacco

La Polonia è un Paese quasi del tutto privo di ostacoli naturali; nel corso della sua storia, le sue pianure sono state attraversate da ogni tipo di esercito, le città rase al suolo più volte, e nei secoli i suoi confini politici si sono spostati in continuazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale, ad esempio, ha perduto Leopoli e Vilnius a est, incorporando, a ovest, Stettino e Breslavia. Chiusa tra due fronti, la principale direttrice della politica estera polacca è (e rimane) evitare una saldatura degli interessi russi e tedeschi, i due sottospazi in cui la cultura polacca suddivide il mondo esterno [ES], come si è detto nella sezione precedente.


Nel periodo della guerra fredda, tutte le nazioni oltre Trieste erano considerate “Paesi dell’est”. Pertanto, alla caduta del muro di Berlino, era indispensabile per la Polonia e per altri componenti del defunto Patto di Varsavia trovare un’etichetta che li distinguesse dalla Russia e al contempo non li “schiacciasse” nell’orbita della Mitteleuropa germanica. Una soluzione fu proposta da Piotr Wandycz (2001), professore emerito alla Yale University e presidente dell’Istituto Polacco di Arti e Scienze d’America, trasferitosi negli USA nel 1939, quando l’Unione sovietica ha invaso la Polonia. Egli ha coniato l’espressione geografico-culturale “Europa centro-orientale”, a significare le specificità e le similitudini storiche di Paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Tutta la storia è storia contemporanea: proprio questi tre Paesi avevano dato vita, nel 1991, al gruppo di Visegràd, che ha in seguito aderito alla NATO (1999) e all’Unione europea (2004) costituendo un blocco geopolitico omogeneo e conservatore unito fino allo scoppio della guerra Russo-Ucraina. Inoltre, nel 2016 si è tenuta l’inaugurazione del Trimarium, un forum, giunto ormai alla settima edizione, comprendente, oltre alla Polonia, Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. L’idea geopolitica del Trimarium si fonda sull’Intermarium, teorizzato nel periodo tra le due Guerre dal dittatore polacco Józef Piłsudski per riunire in una confederazione i Paesi che affacciano su Baltico, Adriatico, mar Nero. Restano fuori da quest’area la Germania, a ovest; ad est, Bielorussia e Russia. L’Ucraina è divenuta partner ufficiale nel giugno 2022. Vediamo ancora una volta tornare in vita il mito della Confederazione polacco-lituana, travestito in abiti contemporanei.


Non è corretto identificare le direttrici della politica estera polacca e il governo conservatore che ha governato il Paese senza interruzioni dal 2015: le prime non cambiano a seconda dei governi e si dimostrano stabili e coerenti nel tempo: esse prevedevano l’ingresso nella NATO (e, in seguito, nella UE) per trasformare la Polonia nel bastione orientale dell’alleanza contro la Russia. Al contempo, la Polonia si è messa con successo a capo di un blocco antirusso per contare entro la NATO ed entro la UE. Si tratta ancora una volta dell’identità di frontiera della Polonia. Nel caso specifico, il vettore di orientamento della cultura polacca ha finito per selezionare gli USA come proprio centro. La talassocrazia statunitense è vista come una garanzia rispetto all’avversario russo; è inoltre un alleato per competere con la Germania, dato che gli Stati Uniti non vedono di buon occhio la sua autonomizzazione e il ruolo egemone che svolge nella UE. Nonostante le simpatie politiche e le affinità ideologiche dei conservatori polacchi per Donald Trump nel periodo della sua presidenza, al succedersi degli inquilini della Casa Bianca il vettore di orientamento non è mutato. Dunque, la fedeltà atlantica è vista come la leva per esercitare una supremazia regionale ai danni di Russia e Germania.


Il più grande fautore dell’ingresso della Polonia nella NATO fu Aleksander Kwaśniewski, l’ex leader comunista e, in seguito alla caduta del muro di Berlino, socialdemocratico il quale sconfisse Lech Wałęsa nelle elezioni del 1995 ponendo fine al governo di Solidarność, riportando così al governo una parte significativa della leadership ex socialista. Nel 2014, durante gli ultimi mesi della presidenza del liberale Donald Tusk, fu Obama ad annunciare uno stanziamento da un miliardo di dollari per spostare in Polonia il baluardo delle strutture difensive NATO contro la Russia. Tale politica non mutò dopo l’elezione di Trump: in seguito alla polemica tra il presidente USA e Angela Merkel sulle spese militari dell’alleanza, il neopresidente polacco Andrzej Duda, conservatore, invitò gli USA a ricollocare le truppe sul proprio confine orientale. Seguì un accordo, firmato il 12 giugno 2019, che comportava anche l’acquisto dei noti caccia F35 americani e una fornitura di otto miliardi di dollari del (peraltro carissimo) gas americano per far fronte ai pericoli comportati dal comune nemico, il gasdotto Nordstream tra Russia e Germania (Galofaro 2022). 


Nonostante la posizione dei democratici americani sui diritti sia quanto di più lontano dalla sensibilità degli elettori polacchi, anche il presidente Biden è elogiato nella misura in cui fornisce armi e supporto agli ucraini contro i russi. Insomma: che negli USA governino i democratici o i repubblicani e che in Polonia governino i liberali o i conservatori fa poca differenza: la politica filostatunitense della Polonia sceglie di schierarsi a favore di una talassocrazia lontana dai propri confini in funzione antirussa e antitedesca. Washington non può che vedere con favore il contrappeso polacco all’UE a trazione franco tedesca, la quale, prima della guerra, si era in qualche caso autonomizzata dagli interessi USA coltivando buoni rapporti con avversari quali Russia e Cina. Questo spiega i toni belluini cui la Polonia ci ha abituati fin dal principio del conflitto, e che hanno posto inizialmente in imbarazzo Berlino. D’altro canto, un’opera come il gasdotto Nord Stream simboleggiava – prima del misterioso sabotaggio che l’ha messa fuori uso – proprio quella convergenza russo-tedesca che la politica estera polacca ha da sempre temuto e osteggiato.


La Polonia è identitariamente anticomunista? La risposta è, a mio parere, negativa. Il comunismo è considerato alla stregua dello slavofilismo: una ideologia volta a celare, dietro un orizzonte ideale di fratellanza, nient’altro che le mire egemoniche della Russia. L’identità polacca si è mostrata estremamente flessibile proprio in reazione all’ideologia del nemico. Tra le due guerre fu una dittatura laica e anticomunista, dopo l’inglorioso conflitto polacco-sovietico (1919 – 1921) il quale fu, peraltro, voluto e scatenato proprio da Piłsudski per espandere la Polonia ai danni della Russia in piena guerra civile. Alla fine degli anni ‘70, quando si trattava di boicottare la Repubblica popolare, la Polonia si riconvertì in baluardo del cattolicesimo conservatore. A proposito di questo, il giudizio della Polonia post-comunista sul periodo del Patto di Varsavia è decisamente autoassolutorio, proprio come si è visto a proposito della spartizione. Nel discorso politico polacco, la storia della Repubblica popolare è descritta riduttivamente come un’occupazione quarantennale ad opera dei Russi e di una minoranza di collaborazionisti, trascurando del tutto l’elemento del consenso. Basandosi sulla propria esperienza personale, Hobsbawn (2011) descrive efficacemente i dirigenti polacchi della stagione politica che precedette il colpo di stato del generale Jaruzelski come una casta che, abbandonato il marxismo per il pragmatismo, riteneva di conoscere ed effettuare sempre e comunque la scelta migliore per il popolo. Detto questo, l’identificazione della Polonia comunista con uno Stato di occupazione russa con la “scusa” dell’ideologia risente ancora una volta del mito della spartizione polacca e ha lo scopo di porre un’equazione tra Vladimir Putin, Josif Stalin e la zarina Caterina II (...).


Conclusioni

Ricapitolo alcune caratteristiche della cultura polacca che ho presentato nel corso dell’articolo. La cultura Polacca si considera frontiera e baluardo dell’Europa. In quanto frontiera, nei secoli ha “scelto” il centro culturale rispetto al quale porsi come bastione: nel basso medioevo, si trattava della Germania dei Comuni medioevali; nel primo rinascimento, l’Italia; in età moderna, la Francia; oggi sceglie gli Stati Uniti d’America, in coerenza con la direttrice storica della sua politica estera, che cerca di affermare la propria esistenza impedendo una saldatura tra gli interessi germanici e quelli russi, visti come minaccia esterna. Tale politica si rende necessaria per affermare il diritto a esistere di una cultura che in passato era minacciata di assimilazione da parte di potenti vicini; tale lotta per l’esistenza è stata spesso travestita da missione storica, della quale la Polonia si sente investita: un buon esempio è il mito di Jan Sobieski, che accorse in aiuto dell’imperatore Leopoldo I contro le forze ottomane sconfiggendole nella Battaglia di Vienna (1683).


In questa chiave la Polonia si propone oggi come leader dell’Europa centro-orientale, ammodernando formule geopolitiche ispirate al mito della Confederazione lituano-polacca, il grande stato che dominò l’Europa centro-orientale tra il XIII e il XVIII secolo. In questa chiave, nell’attuale conflitto tra Ucraina e Russia, la Polonia guida i Paesi russofobi della NATO anche con lo scopo di contendere l’egemonia tedesca sulla UE sotto un profilo politico-militare. Tale caratteristica della politica estera polacca è strutturale: non dipende cioè dall’attuale maggioranza clerico-conservatrice, al punto che essa entra per certi versi in contraddizione con il progetto dei conservatori europei, guidati da Giorgia Meloni, di sostituire i socialdemocratici nell’alleanza coi popolari alla guida dell’Unione europea: tale sostituzione ha un senso solo se ridimensiona – e non puntella – l’egemonia tedesca sulla UE.


Come si è visto, le direttrici della politica estera polacca e le sue caratteristiche culturali pongono oggi il Paese di fronte a una grave incognita. Infatti, esse impongono il sacrificio del modello di sviluppo economico vincente, perseguito fin qui, alle esigenze di autoaffermazione politico-militare della Polonia come potenza regionale leader dell’Europa centro-orientale. Inoltre, impediscono di vedere le potenzialità che la Polonia potrebbe avere come porta d’oriente, terminale della Belt and Road Initiative cinese. Tale porta oggi è chiusa: la via della seta è stata dirottata verso altre rotte commerciali. Bisognerà vedere se la Polonia potrà resistere alla fine dello sviluppo economico, alle tensioni culturali derivanti dai tre milioni di rifugiati ucraini che ospita, all’impoverimento, e al dissanguamento determinato dal trascinarsi del conflitto russo-ucraino senza prospettive.


Riferimenti

Jakubowski, A., Komornicki, T., Kowalczyk, K. & Miszczuk, A. 2020, “Poland as a hub of the Silk Road Economic Belt: is the narrative of opportunity supported by developments on the ground?”, Asia Europe Journal. 18, pp. 367-396. 10.1007/s10308-020-00571-6.


Galofaro, F., “Moda e cultura italiana in Polonia: prestiti semiotici” in Il logos nella Polis, Aracne, Roma; “Polexit? Geopolitica del conflitto tra Polonia e UE”, https://www.marx21.it/internazionale/polexit-geopolitica-del-conflitto-tra-polonia-e-ue ; “Allargare la NATO a est? Lezioni dalla Polonia”, https://www.marx21.it/editoriali/allargare-la-nato-a-est-lezioni-dalla-polonia-editoriale


Gramsci, A., 1931-1932, “Quaderno 8 (XXVIII): Miscellanea e Appunti di filosofia”, in Quaderni dal carcere, Einaudi Torino 2014.


Greimas, A. J., La mode en 1830, PUF, Paris 2000.


Hobsbawn, E., Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, M Rizzoli, Milano 2011.


Lenin, V. I.  Il risveglio dell’Asia, Editori Riuniti. Roma 1974.


Lotman, J., Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 2001.


Lukács, G. “Problemi di teoria del romanzo: Relazione letta da Gyórgy Lukács alla Sezione di letteratura dell’Istituto di filosofia dell’Accademia comunista”, in V. Strada (a cura), Problemi di teoria del romanzo, Einaudi, Torino 1976.


Wandycz, Il prezzo della libertà. Storia dell’Europa centro-orientale dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna 2001. 


sabato 19 agosto 2023





CHE COSA HO IMPARATO DA MARIO TRONTI


Questo non è un necrologio. Odio questo genere letterario perché, avendo a lungo lavorato nella redazione cultura di un grande quotidiano, lo associo a quelli che in gergo giornalistico si definiscono “coccodrilli”, vale dire gli articoli “precotti” che ogni redazione conserva nel proprio data base, in attesa di sfoderarli per celebrare la morte di questo o quel personaggio famoso. Sono scritti che raramente si sottraggono alla retorica, all’abuso di luoghi comuni e al mix di distacco e artificialità che caratterizza un testo costruito “a tavolino”, privo cioè delle emozioni suscitate dall’evento reale della morte. Quello che segue è invece il tributo che sento di dovere al pensiero di un autore che ha contribuito non poco a indirizzare il mio lavoro teorico recente. Un tributo che non ha pretese di “oggettività” accademica, nella misura in cui ricostruisce il pensiero di Tronti enucleandone gli aspetti che più si avvicinano al mio punto di vista sul mondo attuale, mentre trascura quelli che sento meno affini. 







1. Operai e capitale. Ovvero la difficoltà di sbarazzarsi di una eredità ingombrante

La biografia teorica e politica di Tronti è caratterizzata da un paradosso: benché l’avesse “rinnegata” non molti anni dopo averla scritta, Operai e capitale (1) è rimasta la sua opera di gran lunga più conosciuta, e ha continuato a esercitare una profonda influenza anche dopo che l’autore ne aveva preso le distanze, segnando il punto di vista che intere generazioni di militanti hanno avuto, e hanno tuttora, in merito alle chance di superare il modo di produzione capitalistico. Dato che non mi interessa fare storia della teoria marxista degli anni Sessanta in Italia, mi limito qui di seguito a richiamare sinteticamente quelle che considero le tesi fondamentali contenute nel libro in questione: 1) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinano in misura sostanziale i tempi e le modalità; 2) il cosiddetto “operaio massa”, vale a dire la figura che il proletariato di fabbrica ha assunto nella fase fordista dell'organizzazione capitalistica del lavoro, sviluppa obiettivi, pratiche e metodi di lotta che esprimono una coscienza politica spontaneamente anticapitalista, rivoluzionaria. In altre parole, in questa fase storica il lavoro vivo incarna una politicità immediata; 3) le tradizionali organizzazioni operaie, a partire dal PCI, ignorano questa realtà per cui, invece di riconoscere le potenzialità rivoluzionarie della coscienza di parte inscritta nella propria base sociale, imboccano la via del “nazional popolare”, neutralizzano cioè la parzialità operaia per imbrigliarla in una strategia che riduce la parte al tutto e la subordina a un progetto di “democrazia progressiva”; 4) viceversa Tronti – al contrario di Gramsci e dei suoi successori – non vedeva più il Principe nel partito ma lo identificava direttamente con la classe, l’unico vero soggetto rivoluzionario; 5) corollario di tale visione non era la negazione di qualsiasi ruolo del partito rivoluzionario, bensì la sua trasformazione: da coscienza “esterna” alla classe a strumento deputato a coordinare e organizzare sul piano tattico la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.


2. La “conversione” di Tronti. Ovvero il riconoscimento della autonomia del politico

La presa di distanza dalle tesi appena descritte avviene, come si è detto, non molti anni dopo la pubblicazione di Operai e capitale. Pur non ripudiando il principio secondo cui sarebbero le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico, Tronti ammette che, nella misura in cui tale determinazione non esita in un processo rivoluzionario guidato e organizzato (come si vede, l’idea di un partito ridotto a svolgere mansioni puramente tattiche inizia a vacillare), il capitale è perfettamente in grado di sfruttare le stesse lotte operaie ai propri fini (Tronti non si è convertito alle tesi di Gramsci, ma qui è difficile non riconoscere le analogie con la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”). Questo iniziale riconoscimento della autonomia del politico si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista evidenzieranno il  nodo problematico che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene ricondotta a contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alcuna via di uscita dal processo di riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, essa stessa capitale, non riesce a divenire autonoma, per cui la teoria che vede nello sviluppo capitalistico una variabile dipendente delle lotte operaie mostra la corda. La via d’uscita va quindi  ricercata nella rivalutazione del ruolo del politico. Ma qui sorge un altro nodo problematico, visto che Tronti conserva una visione squisitamente novecentesca del politico. Per lui, come argomenta Franco Milanesi in un bel libro (2), il politico conserva il senso di visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione. La politica è tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico. Nel solco tracciato da Marx, Lenin e Schmitt, occorre riconoscere cha la politica è forzatura, invenzione, volontà di sconvolgere il flusso temporale; non è continuità nel progresso bensì successione di fratture, interruzioni, ribaltamenti, è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico. Come inquadrare questa visione nel contesto delle disastrose sconfitte della classe operaia negli anni Ottanta e successivi? 


Nell’ultimo Tronti (3) le implicazioni di questa svolta assumono toni tragici: negli anni Ottanta, argomenta, il movimento operaio non ha perso una battaglia, ha perso la guerra e, a seguito di tale sconfitta, è stata la politica stessa a tramontare, riducendosi a mera gestione amministrativa per conto del capitale. I governi sono sempre più tecnici e meno politici e le maggioranze parlamentari hanno il compito esclusivo di eleggere dei consigli di amministrazione dell’azienda-paese. I partiti non hanno semplicemente cambiato forma, hanno rinunciato alle ragioni stesse della propria esistenza, riducendosi a collettori di voti e ad agenzie di comunicazione. Questa visione radicalmente pessimista si estende all’intera realtà contemporanea e il suo innesco catastrofico coincide con il crollo del sistema socialista: è a partire da allora che nelle sinistre si diffondono sentimenti di condanna e di rifiuto nei confronti non solo delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico del 1917, ma dell’intero “secolo breve”, descritto come una sorta di museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (4). Viceversa per Tronti il Novecento è piuttosto un secolo “tragico” che imponeva decisioni e scelte di vita radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut, dello slogan socialismo o barbarie. L’ideologia postmoderna che emerge dal suo naufragio si sbarazza di questo spirito con le parole che annunciano la “fine delle grandi narrazioni” (5) o addirittura la “fine della storia”(6). Sparita la grande politica novecentesca che lacerava la continuità del flusso temporale costringendolo a procedere per fratture, ribaltamenti e catastrofi, la storia assume la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente. 

Tronti indica nella coppia amico/nemico il bersaglio preferito di questa reazione antinovecentesca che accomuna destre e sinistre, conservatori e progressisti: assistiamo una mobilitazione totale contro la visione dicotomica della società che conduce alla condanna senza appello del punto di vista antagonista che era stato a fondamento di un secolo di storia del movimento operaio. Il risultato è la mutazione della tragedia in farsa: la lotta politica scade a reality show, il che non neutralizza la ferocia della lotta di classe (basti pensare alla macelleria sociale perpetrata dalla rivoluzione neoliberale) né, tantomeno, quella dei conflitti internazionali: nelle nuove guerre che le potenze occidentali scatenano contro le nazioni e i popoli che si ribellano al loro dominio l’inimicizia non viene civilizzata, al contrario diviene assoluta, le “guerre umanitarie” contro gli “stati canaglia” ne trasformano i leader locali in altrettanti “mostri”. Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi, Assad (oggi Putin) vengono tutti rappresentati, sfidando il senso del ridicolo, come altrettanti Hitler. Che ne è della politica in questo contesto? Provo a rispondere riprendendo le riflessioni critiche di Tronti: 1) sul fallimento del 68 e dei movimenti che ne hanno ereditato lo spirito (postoperaisti, femministe ecc.); 2) sulla necessità di rivendicare la tradizione rivoluzionaria novecentesca come “rivoluzione conservatrice”; 3) sulla necessità di ricostruire una prospettiva dicotomica, antagonista, nell’era dell’eclissi del soggetto di classe. Svolgerò infine alcune considerazioni in merito alle ragioni della paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi. 





3. La deriva neoliberale del 68

I giovani del 68, argomenta Tronti, erano radicalmente anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva voler dire, e questo è ciò che in effetti ha voluto dire, liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro quella gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento, punteggiati da guerre e rivoluzioni scatenate dall’utopia del libero mercato. Negli anni Settanta può così trionfare quello che autori come Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (7): l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei nuovi movimenti, che si allontanano progressivamente dall’impegno per la difesa dei bisogni proletari, diviene adesione inconsapevole a una nuova cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull'edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale della razionalità del limite in qualsiasi campo dell’esistenza e dell’agire umani. 

Nel 68 Tronti non vede una svolta epocale, un grande inizio, bensì la fine, la conclusione del Novecento. Più che di un grande balzo trasformativo, si è trattato, alla fine dei conti, di un banale cambio di ceto politico, in seguito al quale la storia si è progressivamente convertita nello scorrere di “un tempo senza epoca”, nel quale ogni increspatura viene scambiata per una svolta epocale, mentre nessuna vera svolta è più possibile a fronte di una realtà caratterizzata dalla dittatura del presente, un presente che ignora passato e futuro. Se il grande Novecento è stato l’epoca delle grandi rivoluzioni – grandi anche nel loro tragico fallimento - la sua parte terminale è invece il tempo delle rivoluzioni immaginarie, fallite prima ancora di iniziare. Paradigmatico, in tal senso, il destino del femminismo, movimento nei confronti del quale Tronti confessa di avere inizialmente nutrito simpatia e interesse, almeno finché il “femminismo della differenza” è stato neutralizzato dal prevalere del proprio lato emancipatorio. Nel momento in cui l’emancipazione vince, la rivoluzione perde: avanzando verso l’uguaglianza fra generi le donne non sono salite ma scese sulla scala delle libertà; hanno acquisito nuovi diritti, ma i diritti qualsiasi società moderna è più che disposta a concederli, perché è consapevole che si tratta di un altro modo per assicurare il potere a chi comanda. Nella misura in cui l’emancipazione si è sviluppata in senso contrario alla differenza di genere, la politica della differenza si è piegata alla logica borghese di neutralizzazione e depoliticizzazione; la vittoria dell’emancipazione sancisce l’inclusione senza residui del femminile nel sistema. Si tratta un  destino condiviso da tutti i nuovi movimenti, i quali hanno finito per soccombere, più che di fronte alla repressione o a minacce totalitarie, al trionfo di una democrazia intesa esclusivamente come emancipazione individuale, di un progetto che mira a isolare l’individuo e a impedirgli di entrare in rapporto con altri individui, a costruire una massa atomizzata agevolmente manipolabile. 


Giudizi analoghi, tanto più amari in quanto implicano una dura autocritica delle sue antiche tesi, Tronti esprime nei confronti della deriva postoperaista. Si potrebbe dire, argomenta, che il “peccato originale” dell’operaismo è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, vale a dire l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione capitalistico. Si tratta di un principio di immanenza che si rovescia perversamente in principio di cattura, sintetizzato nello slogan secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, dopodiché, non essendoci più alcun fuori, non c’è alcuna possibilità di fuoriuscita. Da qui  l’illusione di poter battere il capitale sul suo stesso terreno, che è quello dell’accelerazione-intensificazione dello sviluppo (sociale, politico e culturale, oltre che economico). Illusione, argomenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. La critica di Tronti affonda fino al nocciolo duro della teoria operaista (e tocca qui i più espliciti accenti autocritici), vale a dire fino all’idea secondo cui la soggettività operaia rappresenta, al tempo stesso, l’unico vero motore dello sviluppo capitalistico e il principio immanente del suo rovesciamento. “Abbiamo forse caricato gli operai di un progetto eccessivo”, ammette (8), e la nostra illusione è svanita nel momento in cui è apparso chiaro che “la rude razza pagana” non ce l’avrebbe fatta a rovesciare il capitale. Né avrebbe potuto farcela, perché gli operai rappresentano sì una parte, ma una parte interna al capitale (si potrebbe dire che la scoperta trontiana dell’autonomia del politico, è stata la scoperta che aveva ragione Lenin: la coscienza spontanea degli operai non supera la coscienza tradeunionista e può divenire rivoluzionaria solo attraverso l’organizzazione politica). 


Il pessimismo tragico di Mario Tronti si oppone  all’ottimismo euforico di Antonio Negri, l’altro grande vecchio dell’operaismo italiano. Incapace di prendere atto della natura contingente del ciclo di lotte dell’operaio massa, e tantomeno disposto a rinunciare al dogma secondo cui è sempre la forza lavoro a determinare lo sviluppo del capitale, Negri cerca di proiettare il carattere spontaneamente antagonista dell’operaio massa su una successione di figure prive di consistenza reale: dall’operaio sociale alla moltitudine. Tronti liquida la metafora dell’ “operaio sociale” come un tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. Quanto alla moltitudine, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica. Negri e altri tentano di negare l’evidenza proponendo una lettura “biopolitica” dell’antagonismo fra capitalismo immateriale e lavoratori della conoscenza: visto che il capitale mette oggi al lavoro la vita stessa, il conflitto non è più fra capitale e lavoro, bensì fra capitale e umanità intera. Ma questa visione si regge su uno sfrenato ottimismo tecnologico che attribuisce al capitalismo immateriale il merito di avere realizzato la profezia dei Grundrisse: fine della legge del valore e transizione immediata al comunismo, resa possibile dal fatto che i lavoratori della conoscenza sono in grado di assumere il controllo di un processo lavorativo già compiutamente socializzato grazie alla loro cooperazione spontanea. Un discorso  che ignora il fatto che i mezzi di produzione e i prodotti immateriali sono in grado di confiscare più di ogni altro l’attività lavorativa umana e di egemonizzare le coscienze di lavoratori e consumatori (9). Contro  l’imperativo che impone di essere ipermoderni, celebrando ogni accelerazione nell’evoluzione tecnologica come un balzo in avanti verso il comunismo, si erge la diffidenza trontiana nei confronti della natura demonica della tecnologia, nonché l’invito a riconoscere il lato conservatore delle rivoluzioni novecentesche, la loro resistenza nei confronti dell’innovazione come arma di colonizzazione del sociale da parte  del capitale. 



4. Un rivoluzionario conservatore


La visione trontiana della rivoluzione presenta notevoli analogie (del resto rivendicate in più occasioni) con quella di Benjamin (10). Al pari del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti considera le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come  il compimento della rivoluzione borghese, come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista era profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, un punto di vista sintetizzabile nella convinzione che il progresso tecnologico, lo sviluppo delle forze produttive, avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata di quella capitalistica. Criticando questa illusione, Benjamin, citato da Tronti, diceva che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”. Lo stesso Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni (che per i postoperaisti diviene l'imperativo a essere assolutamente moderni) coincide di fatto con l’essere per lo sviluppo della società capitalista. Contro questa concezione continuista del progresso umano, secondo cui l’innovazione capitalistica è necessariamente destinata convertirsi nell’innovazione socialista, si contrappone il punto di vista discontinuista della rivoluzione d’ottobre guidata da Lenin, l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici, una  brusca interruzione che impone con la forza le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico e che fa sì, secondo Tronti, che la rivoluzione del 17 somigli più alle rivoluzioni conservatrici che a quelle borghesi. Questa auto rappresentazione del proprio pensiero come “rivoluzionario conservatore” si fonda oltretutto su un radicale pessimismo antropologico: diversamente da Rousseau e dai suoi emuli contemporanei di sinistra, Tronti non crede a una umanità che nasce “buona” ma poi viene corrotta dalla società (per cui basterebbe riformare quest’ultima per eliminare il male dal mondo), ma è convinto che il male sia radicato nella natura stessa dell’uomo, il che rende ancora più fondamentale la missione civilizzatrice del politico. 


Purtroppo, come si è visto, per Tronti l’appello alla centralità del politico non può che suonare nostalgico dopo la catastrofe antipolitica di fine Novecento. A venir meno, infatti, è stato lo spirito rivoluzionario di una classe che non si fondava sulla sua capacità di incarnare l’interesse generale di un popolo, di una nazione o dell’umanità intera bensì, al contrario, sulla natura costitutivamente di parte dei suoi interessi. Che ne è di questo punto di vista irriducibilmente di parte in un mondo in cui il soggetto operaio sembra essersi dissolto nella massa individualizzata? La risposta di Tronti suona decisamente spiazzante se non addirittura enigmatica laddove scrive che “il punto di vista operaio non esiste più, rimane il punto di vista” o, con parole ancora più radicali che “l’odio di classe non esiste più, resta l’odio”. Con queste due affermazioni, Tronti sembra dirci che, mentre la parte non dispone più di un soggetto, né di un progetto, che la rappresentino, esistono ancora la possibilità e la volontà di opporsi al tutto, all’ordine complessivo, alla “forma di vita” dominante così come essa si esprime in politica, in economia, nella cultura, nell'agire quotidiano. 


In altre parole, per sopravvivere a se stessa la politica dovrebbe transitare dalla contestazione dei rapporti di produzione alla contestazione di un’intera civiltà, lo spirito dell’inimicizia  non dovrebbe più rivolgersi solo contro il capitale, bensì contro l’intera civiltà occidentale. Così, dopo avere ironizzato sulla retorica dei principi e dei valori occidentali che accompagna le reazioni agli attentati degli integralisti islamici, Tronti afferma che quei valori e quei principi non sono i suoi e, benché non ritenga giusto attaccarli in quel modo, ciò non lo induce a difenderli in nome della difesa di uno stato di cose che considera turpe. Insomma: l’ultimo Tronti non è divenuto un pensatore pacifista, al punto che, ricordando le sue conversazioni con Miglio e Bobbio ai tempi in cui erano tutti e tre in parlamento, racconta come Miglio – con grande scandalo di Bobbio – avesse affermato di considerare la vendetta come la categoria politica più importante, e che lui, al contrario di Bobbio, si era riconosciuto in quell’affermazione, associandola al detto di Benjamin secondo cui non si combatte per le generazioni a venire, bensì per vendicare le sofferenze e i soprusi degli antenati asserviti. Questa postura vale anche per il tema della guerra, rispetto al quale Tronti dichiara  di non avere mai condiviso l’utopia di un mondo pacificato: meglio riconoscere che la dimensione della guerra fa parte della natura umana e che, più che esorcizzarla, occorrerebbe “civilizzarla” (tema squisitamente schmittiano). Una funzione venuta meno dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, eventi che hanno inaugurato l’era delle “guerre umanitarie” in cui il nemico è stato ridotto a criminale, legittimando qualsiasi mezzo per annientarlo. Donde il monito a una classe politica che, avendo smarrito la capacità di interpretare la geopolitica, non sa riconoscere, né tantomeno governare, le trasformazioni di un mondo che minaccia di innescare conflitti distruttivi non più fra nazioni ma fra interi continenti. A questo punto si fa pressante l’interrogativo sulle ragioni di quella che ho sopra definito la paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi. 





5. Perché questo “vecchio bolscevico” è rimasto con gli aborti politici partoriti dal PCI?

Sarò sincero: questa domanda per me resta a tutt’oggi priva di una risposta accettabile, per cui mi limito a elencare qui di seguito le motivazioni che lo stesso Tronti mi ha fornito nel lungo dialogo che  abbiamo avuto qualche anno fa (11), motivazioni che considero a dir poco inconsistenti, dopodiché  proverò a formulare una ipotesi sul vero errore di prospettiva che sta alla base di una scelta apparentemente inspiegabile. Le motivazioni addotte nell’occasione appena accennata sono sintetizzabili in quattro punti che ruotano attorno al concetto che Tronti sintetizza con la necessità di “essere bolscevichi”.


Uno. Essere bolscevichi, argomenta, significa essere maggioritari, scegliere di operare laddove si concentra la forza necessaria per cambiare le cose. E’ per questo motivo, sostiene che ha fondato la rivista Classe Operaia, prendendo le distanze dall’esperienza minoritaria di Quaderni Rossi, e quando anche Classe Operaia divenne una setta, ha deciso di rientrare nel PCI, perché convinto “che occorra sempre stare nel grosso della forza anche se non corrisponde alla mia idea”.


Due. Essere bolscevichi, aggiunge, vuol dire comprendere la necessità del professionismo in politica. Non la politica come mestiere, bensì la politica come beruf, il termine weberiano che compendia in sé i significati di professione e vocazione. Tronti considera necessaria la professione politica perché non crede nell’ottimismo democratico che attribuisce a tutti i cittadini la capacità di decidere, per cui rifiuta la retorica sulla democrazia partecipativa.


Tre. Essere bolscevichi significa inoltre diffidare dell’estremismo: “La politica cammina su due gambe, il conflitto e la mediazione, se cammina solo sulla prima abbiamo l’estremismo, se cammina solo sulla seconda abbiamo l’opportunismo” (evidentemente non ha saputo/voluto prendere atto che la politica delle formazioni in cui ha militato per decenni camminava solo su quest'ultima gamba)


Quattro. Essere bolscevichi significa infine essere realisti: ”Il realismo”, dice, “si misura sulla durata delle conseguenze che tu attribuisci al tuo agire”, per cui, se vuoi che tali conseguenze durino, a volte devi rinunciare a determinati principi e valori, perché è più probabile che tu riesca a realizzarli se il tuo progetto dura nel tempo, mentre, se ti intestardisci a volerli mettere in atto qui, subito e a qualsiasi costo, andrai quasi certamente incontro al fallimento. 


La mia ipotesi è che il vero motivo dell’abbaglio trontiano risieda nella quarta motivazione. Tronti ci dice di avere scelto di collocarsi laddove si concentra la forza per il cambiamento, sacrificando valori e principi ai vincoli dettati dalla contingenza storica in vista di una loro possibile, futura ripresa e realizzazione. Ma a quali vincoli “oggettivi” si riferisce? Mi pare evidente che qui entra in campo, in barba a molte delle intuizioni critiche formulate dallo stesso Tronti, una visione rimasta costantemente maggioritaria nel marxismo occidentale, vale a dire quella secondo cui nessuna volontà rivoluzionaria può avere ragione delle “leggi” economiche dello sviluppo capitalistico, nonché degli scenari geopolitici “sovradeterminati” da tali leggi. Così il “realismo” trontiano ricade però in una visione della storia come processo lineare, unidirezionale, animato da una necessità immanente, “naturale”, in palese contraddizione con le sue riflessioni sul politico come rottura del flusso “normale” degli eventi storici. 


Se qualcosa ho potuto imparare da Tronti è quindi solo grazie alle lezioni di altri maestri che, come Gyorgy Lukacs (12), mi avevano vaccinato contro le insidie del determinismo e del meccanicismo. Ecco perché, malgrado questa pur grave debolezza del Tronti “realista” – che gli amici delle sinistre radicali non gli hanno mai perdonato –, resto convinto che nessun progetto di ricostruzione di un punto di vista rivoluzionario possa prescindere dal suo contributo teorico su temi quali l’autonomia del politico, i disastrosi effetti dell’infatuazione del marxismo occidentale per il progresso tecnologico e lo sviluppo economico; la critica della svolta individualista delle culture di movimento (e la loro conseguente cattura da parte del campo liberale); la rivendicazione della tradizione novecentesca della logica amico/nemico e del punto di vista di parte associato alla lotta di classe. Per quanto riguarda in particolare quest'ultimo punto, mi preme citare tre frasi estratte da altrettanti scritti recenti: “il cemento dell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale, non uno stare con ma uno stare contro”; “compito del partito è oggi semplificare politicamente la complessità sociale. Tornare a dividere l’uno in due al di là di tutte le apparenze sistemiche”; “che una parte va ricostruita è indubbio, altrimenti non c’è partito né politica, ma quale parte parte, strutturata come, riferita a cosa, in quale forma organizzata”. Rispondere agli ultimi quattro quesiti è il compito di qualsiasi forza politica intenzionata a rilanciare una prospettiva anticapitalista.


Note 


(1) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

(2) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano 2014

(3) In questo scritto farò riferimento soprattutto alle seguenti opere di Tronti: Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011; Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015.

(4) Vedi, in particolare, M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

(5) Cfr. J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(6) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(7) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Cfr. M. Tronti (a cura di C. Formenti), Abecedario ( con due Dvd); DeriveApprodi, Roma 2016.

(9) Sulla capacità del neocapitalismo digitale di plasmare l’identità e la cultura di lavoratori e consumatori cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Vedi anche il mio Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(10) Per una ricostruzione del pensiero “antimoderno” di Benjamin vedi A. Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano 2023.

(11) Vedi Abecedario, op. cit.

(12) Cfr. La mia Prefazione a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. vedi anche C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022. 

  






  

mercoledì 26 luglio 2023



Le buche di Keynes. Per una prospettiva (almeno) socialdemocratica

di Emanuele dell'Atti



J. M. Keynes affermava che in tempi di disoccupazione è meglio occupare persone a scavare buche e a colmarle che non occuparle affatto. Ma al di là della celebre (ed efficace) affermazione, un aspetto centrale del pensiero dell’economista britannico, come è noto, è nell’idea dell’intervento pubblico riequilibrante a vantaggio della piena occupazione e del sostegno alla domanda.


Oggi, che di dissesti infrastrutturali ne abbiamo in abbondanza, non dovremmo nemmeno preoccuparci di scavare buche per creare lavoro. Basterebbe riempirle. Strade e autostrade impraticabili, reti idriche da potenziare, laghi e fiumi da bonificare, prevenzione del rischio idrogeologico, cura dell’ambiente. Potrebbe bastare questo, insomma, in un’ottica keynesiana, non bolscevica, per creare posti di lavoro e – se proprio siamo affezionati alla formula – “crescita economica”.


Solo che – dopo Maastricht e trattati seguenti – l’Italia si è privata degli strumenti per agire in questo senso, disapplicando e subordinando la Costituzione (keynesiana) alle norme comunitarie (anti-keynesiane). Il fine (dichiarato e perseguito: si leggano i trattati europei e si ripercorra la storia degli ultimi trent’anni) dell’Unione Europea, infatti, non è la piena occupazione, ma una certa e costante disoccupazione (unita al contenimento salariale) che possa tenere bassa l'inflazione. Obiettivo, peraltro, ugualmente non raggiunto. Come ben sappiamo.


L’UE non coincide con l’idea di cooperazione tra Stati. Essa non è un progetto democratico: è un dispositivo geneticamente neoliberale. È un’arena, un campo di gioco in cui domina la logica della competizione: non è un caso che non sia mai nato il tanto agognato esercito europeo e che non sia mai passato il disegno di una vera Costituzione politica europea. L’UE, in altri termini, non è diventata tale, cioè, per carenze o errori compiuti nel percorso: il suo scopo è – originariamente e costitutivamente – l’assenza di scopi. Un progetto “nichilista” privo di idealità sociali (cfr. D’Andrea 2022). L’UE, infatti, è stata progettata in un senso dichiaratamente anti-keynesiano e continuamente riprogrammata (dall’Atto unico del 1986, propedeutico al Trattato di Maastricht, fino al Fiscal compact del 2012) con l’obiettivo di spoliticizzare il mercato, subordinando ad esso la decisione democratica. 


C’è chi ne auspica una maggiore politicizzazione, battendosi “dall'interno” – come si ama dire – per farne una federazione politica vera e propria, che abbia come architrave l’emancipazione sociale e la solidarietà. Puro romanticismo. Dovrebbe infatti accadere ciò che non può mai accadere: cioè che tutti gli stati membri, nello stesso istante, siano d’accordo nel disapplicare i trattati e scrivere una Costituzione europea con a fondamento la subordinazione dell’interesse privato all’utilità sociale. Cioè l’esatta antitesi del progetto dell’UE.


Ma il fanatismo integrazionista e l’“europeismo retorico” (ibid.) impediscono ormai di ragionare. Sono una fede. E come tutte le fedi annebbiano il pensiero razionale. La flessione sotto ogni parametro economico (pil pro capite, indice di produzione industriale, occupazione) che ha caratterizzato la maggior parte degli stati europei, Italia in testa, negli ultimi decenni non viene in alcun modo messa in relazione all’accelerazione che l’integrazione europea ha subito a partire dal 1992, anzi, si sostiene che i problemi irrisolti derivino da una ancora scarsa integrazione: un “aggiustamento epistemologico” (o più semplicemente una forzatura) tipico di chi tenta di risolvere le anomalie emergenti in un paradigma rimanendo ostinatamente all’interno dello stesso paradigma, per usare un lessico kuhniano.  


L’europeismo retorico discende da un’ideologia integrazionista trasversale, eretta a bandiera in primo luogo dalla sinistra, rimasta orfana di fedi dopo aver abbandonato la prospettiva socialista. Essa ha infatti abbracciato integralmente la logica del “vincolo esterno” quasi come una misura espiativa e riparatoria rispetto al “senso di colpa” di essere stata per quasi tutto il XX secolo critica e oppositiva nei confronti delle logiche di mercato. Lo ha fatto recidendo qualsiasi legame con la propria tradizione “inter-nazionalista” e richiamandosi in maniera confusa a un mito fondativo – quello di Ventotene – estrapolandone, però, solo gli aspetti coreografici della cooperazione e della “pace perpetua” tra gli Stati e lasciando cadere tutti quegli elementi spoliticizzanti che già i due celebri autori del Manifesto – in particolare Altiero Spinelli – sostenevano con particolare enfasi (cfr. Somma 2022). 


L’esito è stata la creazione di una nuova linea di demarcazione tra sinistra e destra: “europeista” la prima, “nazionalista” la seconda. Facendo della più classica linea di demarcazione capitale/lavoro un aspetto meramente decorativo, utile solo per marcare il territorio. A fronte di una sinistra che obliterava il conflitto sociale sostituendolo con un’ideologia astrattamente europeista, perciò, la destra ha trovato un nuovo terreno su cui giocare la sua partita, cioè quello della difesa degli interessi nazionali, coincidenti, però, non certo con quelli delle classi lavoratrici, bensì con quelli del ceto imprenditoriale.


Nei fatti, tuttavia, anche le seducenti istanze della destra hanno dato prova di totale incapacità di tutela degli interessi nazionali. L’attuale compagine che ci governa, infatti, anche se ha costruito i suoi consensi sulla critica alla fede europeista, ha dimostrato (e continuerà a farlo) che nonostante i finti bracci di ferro propagandistici con la Commissione europea e nonostante le finte battaglie culturali per l’ “italianità”, non si distanzierà di un millimetro da questa matrice ideologica (oggi detta “agenda”) e dai suoi correlati operativi e procedurali (taglio della spesa pubblica, pareggio di bilancio, allarmismo economico) che – come segnalavano avveduti e inascoltati economisti come Federico Caffè – costituiscono una vera e propria tragedia per i lavoratori (non solo) italiani (Fazi 2022).


Chi si richiama convintamente ai valori del socialismo, perciò, oggi dovrebbe avere il coraggio di tematizzare la questione dell’integrazione europea con maggiore lucidità e individuare nuovi strumenti teorici che sappiano decifrare e decriptare il presente, togliendo i paraocchi ideologici e rinunciando, quando è il caso, alle vecchie categorie interpretative. Nel contesto odierno, infatti, “i nostri vecchi argomenti laici, illuministi, razionalisti, non sono solo spuntati e inutili, ma anzi fanno il gioco del potere” (Pasolini 1975: 127). Occorre allora un lavoro ancora più faticoso che in passato. Uno sforzo che sappia riconoscere le insidie che si annidano in ciò che viene presentato come “integrazione”, “opportunità”, “innovazione”. Che sveli e denunci ciò che il potere chiama “riforme” col fine di mascherare la staticità sociale: la “neolingua del circo mediatico” (Preve 1999: 40), infatti, mutando il significato delle parole, ha mutato anche il significato del termine “riformismo”, che cessa di significare “cambiamento graduale”, per diventare una sorta di lasciapassare per lo “smantellamento neoliberista del welfare state e delle conquiste centenarie del vecchio riformismo laburista e socialista” (ibid.). 


Il lavoro più urgente, quindi, è quello di recuperare una visione teorica sistemica. Da qui riattivare, nelle forme oggi realisticamente possibili, la categoria del  conflitto a sostegno di quella ampia maggioranza che non beneficia dei privilegi dell’economia di mercato e che paga il prezzo dello sviluppo in termini materiali, psicologici, esistenziali. Consapevoli, tuttavia, che il paradigma socioeconomico egemone non si supera dall’oggi al domani e che, probabilmente, è più realistico il ripristino di quel sistema di “economia mista” già sperimentato in Europa nel cosiddetto “trentennio glorioso” successivo al secondo conflitto mondiale e ben rappresentato in alcuni passaggi fondamentali della nostra (tradita) Costituzione.


Occorre dunque procedere con una gradualità tattica che – tenendo ferma la strategia di un orizzonte regolativo egualitario e socialista – si batta per la ricostituzione di una vera forza socialdemocratica. Una forza che non ripudi, d’un sol colpo, il mercato, che ne preservi talune dimensioni ma in un quadro costituzionale orientato all’utilità sociale (v. art. 41) e che rimetta in moto il conflitto redistributivo per recuperare terreno rispetto alle innumerevoli e cocenti sconfitte subite nella lunga e sfibrante “lotta di classe dall’alto” (Gallino) condotta negli ultimi trent’anni dai grandi gruppi economico-finanziari ai danni dei lavoratori e della dimensione pubblica in generale: si vedano, tra le altre cose, l’umiliante e grottesca metamorfosi della scuola in senso burocratico-aziendale e l’erosione lenta e costante della sanità e del diritto alla salute perpetrati negli ultimi decenni da governi di vario colore politico, in ossequio alle direttive (esplicite o implicite) di Bruxelles.


L’attuale sinistra è all’altezza del compito? La risposta è decisamente negativa. Anzi, l’attuale sinistra non ha nemmeno l’intenzione di riappropriarsi di quella tradizione di lotta ai meccanismi perversi della mercificazione totale che l’hanno caratterizzata nel secolo scorso. E tra l’altro è divenuto stucchevole e ozioso trastullarsi con la questione se esista ancora o meno la sinistra o se il Pd sia o no un partito di sinistra: la sinistra ha ormai completato la sua metamorfosi da tempo e oggi non rappresenta più i lavoratori. Essa è il principale garante dei dogmi neoliberali e, benché sul piano del significante rimarchi differenze valoriali e identitarie rispetto alla destra, sul piano del significato si mostra omologa alla sua controparte politica, discostandosene solo per questioni tecnico-procedurali, avendo come referente elettorale principalmente i ceti medio-alti. 


Una dinamica storicamente già nota, se pensiamo agli inizi della storia unitaria del nostro Paese, dove destra e sinistra erano espressione del medesimo ceto politico, quello che afferiva al campo liberale, con distinzioni poco nette, sicuramente non riconducibili alla più netta linea di demarcazione novecentesca. Le cose, come è altrettanto noto, cominciarono a cambiare solo con l’elezione del primo deputato socialista e la successiva fondazione del Partito dei lavoratori italiani (1892). Nasceva in Italia la prospettiva del socialismo. Che allora – come oggi – era ben altra cosa dalla “sinistra”.

La storia può cambiare solo con una sua rinascita.



Riferimenti bibliografici


D’ANDREA, Stefano (2022), L’Italia nell’Unione Europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato”, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino.


FAZI, Thomas (2022), Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Milano, Meltemi.


GALLINO, Luciano (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza.


PASOLINI, Pier Paolo (1975), Scritti corsari, Milano, Garzanti (ristampa 2021).


PREVE, Costanzo (1999), Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, Pistoia, Editrice Petite Plaisance.


SOMMA, Alessandro (2021), Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, Rogas edizioni.

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