Lettori fissi

venerdì 26 gennaio 2024

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI
POSTILLE A "GUERRA E RIVOLUZIONE"



In "Guerra e Rivoluzione" (2 voll. Meltemi, Milano 2023) ho affrontato alcuni temi "scabrosi" sui quali il marxismo occidentale non può esimersi di riflettere, se vuole uscire dalle secche in cui lo hanno impantanato decenni di opportunismo, settarismo e dogmatismo. Personalmente ritengo che l'opportunismo (vedi le ricorrenti tentazioni elettoralistiche e la conseguente disponibilità al compromesso con le borghesie liberali), benché pernicioso, abbia causato meno danni del settarismo e del dogmatismo, cioè della riproposizione rituale e ottusa di dogmi che un secolo di storia ha impietosamente falsificato. E' questo crampo ideale che ha impedito alle formazioni neo comuniste di radicarsi nel sociale e  raccogliere consensi (mi riferisco all'arruolamento di nuove leve di militanti, non a qualche manciata di voti) fra i lavoratori e le giovani generazioni. In questo articolo propongo alcuni approfondimenti relativi ai temi affrontati nel libro uscito qualche mese fa. Non toccherò - se non marginalmente - le questioni relative alle trasformazioni strutturali del tardo capitalismo e alle nuove forme di socialismo emerse in Cina e America Latina, perché si tratta di problemi sui quali sono già tornato su queste pagine, per concentrarmi invece: 1) sulla critica degli "ismi" (economicismo, progressismo, eurocentrismo, universalismo, ecc.) che hanno sterilizzato il marxismo occidentale; 2) sulla questione della forma partito. 


PS. In questa seconda parte ho cercato di ridurre al minimo l'apparato di note in quanto si tratta di un testo assai lungo (il doppio del precedente) quindi, se avessi applicato gli stessi criteri, le note sarebbero state più di cinquanta e forse avrebbero sfiorato il centinaio, appesantendo la lettura. Per riferimenti bibliografici più esaustivi rinvio alla bibliografia generale di "Guerra e rivoluzione". Mi preme infine precisare che l'ultimo libro di Alessandro Visalli ("Classe e partito", Meltemi 2023) ha ispirato molte delle riflessioni che troverete nelle prime pagine anche se non è citato direttamente.










II. CLASSE, PARTITO, STATO


1. Composizione di classe


a) Concetti generali


L'ortodossia marxista postula l’esistenza di un’unica classe sociale realmente rivoluzionaria, un Soggetto della Storia che, nella misura in cui vive uno stato di oppressione che non può essere superato nell’ambito del modo di produzione capitalistico, è “naturalmente” destinato a  rovesciarlo. Questa classe è la classe operaia. Nel corso del tempo questo dogma è stato messo in discussione da diversi punti di vista: si è detto che gli operai dei centri metropolitani hanno smesso di agire da motore della storia perché usufruiscono di una quota del surplus generato dallo sfruttamento dei popoli periferici, i quali hanno ereditato il compito di distruggere il capitalismo; oppure si è affidato il ruolo di guidare la lotta anticapitalista a nuovi soggetti come i lavoratori della conoscenza, il proletariato giovanile, le “moltitudini”, le donne, ecc. Eppure non è venuta meno la logica "essenzialista" che presume l’esistenza di un Soggetto “naturalmente” rivoluzionario. Sosterrò qui al contrario l'idea che occorra costruire una rete di gruppi sociali e comunità integrabili in un progetto condiviso di cambiamento sistemico. Di tale rete fa certo parte quella classe operaia che ha subito un radicale indebolimento dovuto ai processi di ristrutturazione tecnologica, decentramento produttivo, finanziarizzazione e mondializzazione dei capitali ecc., si tratta tuttavia di individuare nuove linee oppositive che possano rimpiazzare la classica opposizione bipolare padroni/operai, consentendo di tracciare un reticolo che perimetri il materiale sociale, culturale e antropologico delle masse mobilitabili contro il capitalismo. 


Partiamo dal reddito. La controrivoluzione liberista ha scavato un solco profondo fra una infima minoranza di super ricchi e una larga maggioranza di poveri e poverissimi: working poor, disoccupati e semioccupati, lavoratori precari (sia dipendenti che “autonomi”), piccoli e medi imprenditori, professionisti in via di proletarizzazione, indebitati, ecc. La povertà non è però un criterio sufficiente a definire il tipo di soggettività che ci interessa. Occorre distinguere fra chi vive esclusivamente del proprio lavoro e chi gode di altre fonti di reddito. La proprietà dei mezzi di produzione non è invece un fattore decisivo (a meno che si tratti di mezzi di produzione di massa): lo status sociale del rider non è definito dal fatto che il motorino con cui va in giro gli appartiene. Lo stesso vale per quei piccoli o piccolissimi esercenti di attività commerciali che le hanno avviate dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro dipendente. Nemmeno il lavoro autonomo è di per sé un criterio significativo, visto che la quota di lavoro fintamente autonomo è in costante crescita. 


Passiamo ai soggetti che, oltre a percepire un reddito da lavoro, godono di una piccola rendita (l’affitto di un appartamento ereditato o acquistato con i propri risparmi, buoni del tesoro o altro). Thomas Piketty ha dimostrato (1) che negli Stati Uniti e in Europa esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che godono di redditi sufficienti a garantire un livello di vita superiore a quello che potrebbero permettersi con la propria attività lavorativa. E' una classe media che, malgrado i processi di impoverimento generati dalla crisi, detiene un terzo del patrimonio nazionale nei vari Paesi occidentali, ed è di fatto alleata con le élite dei super ricchi, sia perché ne condivide in parte gli interessi, sia perché incarna una promessa di mobilità sociale agli occhi degli strati inferiori. 


Più complesso è il discorso sui nuovi strati professionali generati dalle tecnologie digitali, i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. I post operaisti sostengono che la rivoluzione digitale ha creato uno strato di lavoratori dotati di una elevata propensione alla cooperazione sociale e all’autonomia nei confronti del comando capitalistico, potenzialmente in grado di assumere il controllo diretto sulla produzione. In realtà la stragrande maggioranza di questi lavoratori sono semplici “operai”, espropriati della capacità di comprendere il processo produttivo totale in cui operano come ingranaggi individuali. Viceversa la minoranza di quadri inseriti nelle grandi imprese della New Economy sono funzionari del capitale che hanno il compito di sviluppare modelli e procedure di governo, controllo e comando sugli altri dipendenti, sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma, sui consumatori e più in generale sull’insieme dei rapporti sociali, per cui appartengono a tutti gli effetti alla élite neo borghese.

Resta da stabilire in che misura la posizione all’interno del processo di creazione di plusvalore determini l’appartenenza di classe. Quanto contano le distinzioni fra lavoro produttivo e improduttivo, manuale e intellettuale, materiale e immateriale, servizi e produzione, creazione e realizzazione del valore, ecc.?  Vediamo la coppia lavoro produttivo-improduttivo: il dibattito sul tema è inquinato dal pregiudizio in ragione del quale sarebbe produttivo esclusivamente il lavoro manuale. Ma nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx chiarisce che è produttivo il lavoro che genera plusvalore per il capitalista, senza distinzioni relative al tipo di attività svolta. Di più: a misura che la produzione diviene più complessa e integrata, e cresce il livello di cooperazione fra tutte le operazioni di un’impresa sempre più socializzata, l’attributo di lavoro produttivo va riconosciuto al lavoratore collettivo che la mette in funzione (2). 

In conclusione non resta che attenersi al criterio secondo cui appartiene alla classe proletaria chi vive della vendita della propria forza lavoro e non è in grado di determinarne il prezzo, pur tenendo presente che, se si scende al di sotto di questo livello di astrazione e si tiene conto della realtà concreta dell’attuale modello produttivo, diventa difficile definire chi appartiene “oggettivamente” alla classe operaia, e tenendo presente che definire chi appartiene  alla “classe in sé”, non equivale a definire l’insieme di coloro che costituiscono la “classe per sé”, cioè dei soggetti privilegiati cui una forza politica rivoluzionaria dovrebbe rivolgersi. 



b) Il conflitto centri/periferie


Si tratta di una opposizione scalabile a diversi livelli:  nazioni metropolitane versus nazioni periferiche; regioni ricche, densamente abitate e iper connesse versus regioni povere, scarsamente abitate e isolate, città versus campagna, ecc. Posizione geografica e alti livelli di mobilità fisica e virtuale offrono vantaggi competitivi mentre chi è catturato in aree periferiche a bassa mobilità e minore densità di valore ha scarse possibilità di contrattare il prezzo della propria forza lavoro. La differenza fra chi può “stabilire il proprio prezzo”, perché posizionato al centro, e chi lo subisce perché ingabbiato in un’area periferica, è un elemento strategico del conflitto di classe. Le grandi città sono diventate un privilegio riservato ai ricchi; alla mobilità fisica e sociale metropolitana si oppone la sedentarizzazione delle piccole e medie città periferiche, le quali vivono perlopiù di pubblico impiego e attività tradizionali, presentano tassi di disoccupazione più elevati, usufruiscono di servizi sociali più costosi e di qualità inferiore, dispongono di minori chance di mobilità sociale. Anche il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche è a tutti gli effetti una forma di conflitto di classe: l’interesse delle classi subalterne dei centri non coincide con quello delle classi subalterne delle periferie, il che vale anche per i processi di colonizzazione interna come quello del Meridione d’Italia da parte delle regioni del Nord. 


il geografo francese Christophe Guilluy



La dimensione spaziale-geografica del conflitto di classe è rappresentabile anche come antagonismo fra flussi e luoghi: il capitale globale e finanziarizzato – fatto di flussi accelerati di merci, servizi, capitali e persone che ignorano i confini  – opprime e sfrutta i territori in cui vive la grande maggioranza di quelli che non godono delle chance di mobilità fisica e sociale riservate alle élite. Questi due mondi, sostiene il geografo francese, Christophe Guilluy (3), sono disconnessi e contrapposti al punto che la loro somma “non fa più società”. Le metropoli generano i due terzi del Pil e la loro spina dorsale non è più costituita da strati sociali tradizionali, bensì da una neo borghesia emergente. Tutte le chance si concentrano in questi spazi in ragione del loro superiore tasso di integrazione nell’economia mondiale. La cultura di questa neoborghesia metropolitana, fondata sulle metafore del movimento e del progresso, che esalta i diritti dell’uomo (ma non i diritti sociali) e pratica un multiculturalismo e un antirazzismo venati di ipocrisia, trova espressione politica nelle sinistre liberal progressiste, e la sordità nei confronti del risentimento delle maggioranze periferiche esposte alla marginalizzazione è alla radice dello tsunami populista. 

 


c) Nota sul lavoro digitale 


La rivoluzione digitale degli anni Novanta ha ispirato l’esaltazione del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie: è nato il mito della cultura hacker, alimentando il sogno di una società democratica, “orizzontale”, fondata su una rete di libere comunità autogestite, cosmopolite, emancipate dai vincoli del potere politico e delle sue regole (4); si sono celebrati i “lavoratori della conoscenza” come nuova avanguardia rivoluzionaria. Queste teorie, cieche nei confronti del contenuto di classe della tecnica in generale e delle tecnologie digitali in particolare,  hanno partorito un’utopia che attribuisce ai knowledge workers sia le competenze che la consapevolezza di poterle sfruttare per assumere il controllo sulla produzione e riproduzione sociali. Nel primo decennio del Duemila queste utopie sono state spazzate via dalla crisi che ha accelerato il processo di concentrazione monopolistica dei settori high tech, spegnendo le aspettative sul presunto potenziale emancipativo e democratizzante della Rete. 


Altrove (5) ho descritto le modalità di attacco ai rapporti di forza delle classi lavoratrici rese possibili dalla colonizzazione digitale della totalità delle relazioni sociali, politiche ed economiche. Non si sono rimodellare solo organizzazioni aziendali e relazioni industriali, ma anche ritmi e stili di vita, identità individuali e collettive, bisogni, desideri e aspirazioni, rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro, ecc; si sono messi al lavoro gli utenti-consumatori, mobilitati per generare i big data su cui si fondano i modelli di business delle Internet Company; si è creata una frattura fra uno strato privilegiato di tecnici iperspecializzati e la massa della forza lavoro: i primi deputati a organizzare il tempo di vita e di lavoro dei secondi per esaltarne la produttività; si è accelerato il processo di individualizzazione dei lavoratori attraverso la creazione di complesse catene del valore che scendono fino agli schiavi della gig economy (autisti Uber, runner delle società di delivery, addetti ai call center ecc.). Il tutto rendendo sempre più difficile l'attivazione di relazioni indipendenti e dirette fra i diversi frammenti del corpo di classe, ora unificato esclusivamente dai centri di comando che ne coordinano dall’alto lo sfruttamento.





Concludo con una considerazione di tipo culturale-antropologico. Il processo di frammentazione sociale non colpisce solo le classi lavoratrici ma l'intero corpo sociale, il quale esplode in una nuvola di atomi individuali, sempre più isolati e incapaci di sviluppare relazioni solidali e comunitarie. Il proliferare di identità sostitutive non solo dell'identità di classe, ma anche dei tradizionali legami di appartenenza di genere, familiari, professionali, religiosi, di prossimità territoriale, ecc. è una conseguenza di tale fenomeno. Anomia e solitudine si combattono inventando nuove "tribù", nel tentativo di auto situarsi in una cornice simbolica condivisa. La mentalità liberal progressista esalta queste pratiche come un processo di "emancipazione" dai legami sociali tradizionali, nei quali l'individuo si trovava "gettato" fin dalla nascita, senza possibilità di scelta, laddove l'individuo postmoderno può optare liberamente fra diverse chance. Si tratta di pura illusione, soprattutto nel caso di soggetti schiacciati verso il basso della piramide sociale da uno status di classe che ora non appare più convertibile in identità condivisa, solidarietà, ecc. Per questi soggetti, le alternative che consentono di ottenere un surrogato di riconoscimento e autostima sono precarie, irrisorie, posticce, instabili. La cultura dominante definisce pomposamente questi fenomeni "resilienza", laddove si tratta di meri espedienti di sopravvivenza. Il basso profilo culturale e valoriale, e la mancanza di aspettative sul futuro che caratterizza la maggior parte delle persone si proietta anche sui loro investimenti politici: non è un caso se i nuovi movimenti hanno dismesso ogni velleità di cambio sistemico e ambiscono solo a condizionare il potere per "limitare i danni", dando per scontato che le logiche socioeconomiche di base sono immodificabili e, se si cerca di aggredirle, si generano danni peggiori. Per inciso: l'intero apparato linguistico politicamente corretto che permea di sé il discorso politico, le istituzioni formative, l'industria culturale e la comunicazione mediatica (giornali, tv, cinema, pubblicità, ecc.) lavora a pieno ritmo per neutralizzare, o per deviare su falsi bersagli, il tasso di aggressività generato dalle condizioni di frustrazione in cui le masse si trovano a dover vivere.          



2. Populismo e sovranismo


a) la teoria populista


Altrove (6) ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe tende ad assumere nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Ho inoltre sostenuto che il populismo non è un’ideologia. Non esiste un corpus ideale comune ai movimenti populisti paragonabile a quelli che definiscono i campi liberale e socialista. Ho infine sostenuto che il populismo non è di per sé regressivo, fatalmente destinato ad assumere connotati “di destra”. Il merito di avere sfatato questo luogo comune spetta a Ernesto Laclau (7) un autore in cui convergono suggestioni marxiste, strutturaliste e poststrutturaliste. Al netto di questo eclettismo, Laclau descrive lucidamente le trasformazioni che i sistemi liberal democratici hanno subito negli ultimi decenni.  In primo luogo, respinge la tesi per cui il populismo sia solo una tecnica di manipolazione delle masse per sovvertire il sistema liberal democratico e rimpiazzarlo con regimi totalitari. Questa accusa rilancia suggestioni alla Gustave Le Bon, il quale attribuiva alle folle e ai loro comportamenti un carattere patologico, caratterizzato da fenomeni di “contagio” psicologico. Perché non pensare, replica Laclau, che il contagio non sia un morbo, ma l’espressione di un contenuto comune condiviso da un gruppo di persone, difficile da verbalizzare in via diretta ed esprimibile solo attraverso rappresentazioni simboliche? Ma soprattutto: perché non pensare che il contagio incarni una richiesta di democrazia radicale che il sistema non può soddisfare? 





L’ultimo interrogativo, assieme al concetto di  “momento populista”, è il nucleo essenziale del pensiero di Laclau. Il momento populista è frutto di una situazione in cui un sistema egemonico non è più in grado di rispondere in modo differenziale alle domande che gli arrivano dal corpo sociale. Si instaura così una “catena equivalenziale” fra le domande inevase;  esistono "un accumulo di domande inascoltate e una crescente incapacità del sistema istituzionale di assorbirle in modo differenziale per cui tra di loro si stabilisce una relazione di equivalenza, radicalizzando il conflitto fra sistema istituzionale e popolo: “Più l’ordine sociale è stabile e indiscusso, scrive Laclau, più le forme istituzionali prevarranno e si organizzeranno in un sistema sintagmatico di posizioni differenziali. Più il conflitto tra gruppi definisce la scena sociale, maggiormente la società sarà divisa in due campi, fino a raggiungere il limite di una totale dicotomizzazione dello spazio sociale a partire da due posizioni: noi e loro". Il populismo nasce nel momento in cui si forma un confine amico/nemico fra popolo e potere, il che avviene se e quando le domande assumono la forma di rivendicazioni. A questo punto si danno le condizioni per unificare i soggetti che avanzano le rivendicazioni tramite il riconoscimento di obiettivi e nemici comuni. 

 

Mentre il marxismo indica le radici dei conflitti sociali e la possibilità di unificarli nelle contraddizioni immanenti ai rapporti di produzione, per Laclau le rivendicazioni condividono l’opposizione a un regime oligarchico (élite, casta, ecc.) vissuto come “cattivo”, quindi la possibilità di una loro unificazione si dà esclusivamente sul piano simbolico. Occorre ammettere che le caratteristiche di molti movimenti sociali nati negli ultimi decenni sono più simili a quelle così descritte che a quelle teorizzate dalla tradizione marxista; tuttavia questo modello teorico non consente di distinguere fra rivoluzioni dotate di potenziale emancipativo e rivoluzioni passive. Altri elementi di ambiguità sono frutto dell'uso improprio delle categorie gramsciane, a partire dal concetto di egemonia: Laclau non pensa all’egemonia di una determinata classe o blocco sociale, bensì alla capacità di una particolare rivendicazione di incarnare simbolicamente l’intera catena equivalenziale. Una volta assunto tale ruolo, essa può emanciparsi dal proprio limite corporativo ed estendere la catena a gruppi sempre più eterogenei fino a costruire un blocco sociale. La lotta per il potere non si vince costruendo alleanze di classe ma grazie alla ”performatività” di un linguaggio in grado di integrare il contenuto simbolico di tutti i discorsi della catena equivalenziale.  


Pur attribuendo al linguaggio un ruolo centrale, Laclau riconosce che per costruire un popolo occorre qualcosa in più: servono legami erotici, processi di identificazione che si sviluppino sia in orizzontale (identificazione reciproca fra i membri del gruppo) sia in verticale (identificazione fra i membri del gruppo e il leader). Nessuna insorgenza populista può vincere se resta confinata in una dimensione di aggregazione orizzontale: il movimento deve dotarsi di una dimensione verticale che può assumere tanto l’aspetto dell’organizzazione quanto quello dell’identificazione con il leader. Mentre tornerò più avanti su questo intersecarsi dei vettori orizzontale e verticale, concludo riassumendo le ragioni per cui ritengo che il contributo di Laclau sia utile pur con tutti i suoi limiti. In particolare accolgo le seguenti suggestioni: 1) se è vero che gli attuali sistemi politici sono post democratici (8), il momento populista interpreta una rivendicazione di democrazia radicale che la società rivolge a un sistema politico dal quale non si sente più rappresentata; 2) il popolo non è un’entità preordinata bensì una costruzione politica; 3) è giusto riconoscere l’autonomia della sfera politica, a condizione di precisare che tale autonomia non è assoluta né è confinabile nella cornice simbolico-discorsiva in cui Laclau la inscrive, ma è frutto del lavoro di un soggetto politico capace di interpretare e rappresentare  il conflitto di classe. 



b) Il fallimento dei populismi di sinistra: il caso di Podemos


La “materia prima” da cui nasce Podemos è mista: alcuni circoli dell’Università Complutense di Madrid; La Tuerka, un talk show settimanale di successo; i movimenti sociali del 2011-2013 (15M e Mareas); i contatti dei fondatori con esperienze latinoamericane. Anche la composizione ideologica è variegata: movimenti studenteschi inspirati al modello delle Tute Bianche, quadri comunisti e della sinistra radicale, leader dei movimenti sociali. Campolongo e Caruso (9) insistono sul ruolo de La Tuerka,sottolineando come Podemos sia stato il primo partito della sinistra radicale ad assumere lo spazio mediatico come terreno strategico. In effetti, fu il suo successo come protagonista di talk show a fare di Iglesias il leader indiscusso di Podemos. E' invece sbagliato descrivere Podemos come una proiezione politica del 15M, movimento che rifiutava qualsiasi tipo di rappresentanza politica organizzata, in quanto i suoi fondatori erano convinti assertori della “autonomia del politico”, e miravano a costruire una macchina elettorale capace di usare il fermento sociale come carburante di un progetto maggioritario. Le energie sono concentrate sull’obiettivo di vincere le elezioni e andare al governo e lo strumento strategico è la comunicazione.. Il risultato migliore di questa strategia fu raggiunto con le politiche del 2016, allorché Podemos superò il 20%. Dopodiché, preso atto dell’impossibilità di conquistare da soli la maggioranza, venne accettata l’idea di stringere alleanze e si decise di formare una coalizione con Izquierda Unida. Imposta questa scelta contro Inigo Errejon che voleva l'alleanza con il PSOE, Iglesias teorizzò la fine del ciclo populista e la necessità di passare “dalla guerra di movimento alla guerra di posizione”. Di fronte a questa svolta “gramsciana” era lecito sperare che il partito assumesse connotati apertamente socialisti, impegnandosi a mettere radici del sociale. Ma Iglesias, trovandosi ad affrontare la crisi catalana e l’emergenza della destra neofranchista,  decide di cercare l’alleanza con il Psoe. Inizia così un tira e molla con questo partito, finché Sanchez accetta di formare un governo di coalizione in cui Podemos viene relegato in un ruolo marginale. 

La “narrazione”, di Podemos ha attraversato due fasi. Nella prima l’obiettivo era aggregare una serie di domande sociali eterogenee attorno un nucleo simbolico da costruire attraverso la figura del leader e le campagne mediatiche. Si puntava a raccogliere un consenso trasversale sganciato da specifici settori sociali e ideologici:  giovani, donne, studenti, lavoratori dipendenti autonomi e precari, pensionati, commercianti, piccoli e medi imprenditori, professionisti, artigiani, escludendo solo "i potenti che comandano senza presentarsi alle elezioni”. Nella seconda fase si recupera un linguaggio anticapitalista e ci si candida a riparare i guasti generati dalle politiche neoliberiste attraverso un programma di tipo socialdemocratico radicale: transizione energetica, nuovo modello produttivo, reindustrializzazione, finanziamenti per la modernizzazione tecnologica, riforma fiscale, costituzione di una banca nazionale interamente pubblica, abolizione dell’articolo costituzionale che sancisce l’obbligo della parità di bilancio. Alla svolta ideologica non si accompagna però una svolta organizzativa: il partito resta caratterizzato da una forte centralizzazione, mentre l’articolazione territoriale, basata su circoli, non svolge un ruolo significativo: siamo in presenza di un partito “leggero” e verticale, tipico dei movimenti personalizzati e mediatizzati degli ultimi decenni.


L'accordo fra Sanchez e Iglesias



La composizione dell’elettorato riflette queste scelte: Podemos offre rappresentanza alle classi medie colte e in particolare ai loro strati giovanili, e raccoglie consenso nei grandi centri urbani più che in provincia. Il partito è votato soprattutto da studenti e lavoratori qualificati mentre, pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta indietro rispetto al Psoe. Il progetto originario di costruire una maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale è fallito, ma neanche il successivo tentativo di dare vita a una sinistra radicale di tipo nuovo si può dire riuscito. Il vizio che più di ogni altro ha penalizzato il progetto è stato il comunicazionismo: dal momento in cui ha assunto lo spazio mediatico come terreno strategico della propria prassi, Podemos ha imboccato una china pericolosa che ha generato una progressiva atrofia della capacità di elaborare pensiero strategico; infine il deficit organizzativo gli ha impedito di acquisire una conoscenza reale della società.  Invece di radicalizzare lo scontro di classe, Podemos ha continuato a mescolare la retorica “cittadinista” con l’eredità libertaria e orizzontalista dei movimenti post sessantottini. Così è riuscita ad approdare al governo, ma in posizione subordinata rispetto al Psoe, del quale oggi condivide tanto le politiche antipopolari imposte dalla Ue quanto la linea imperialistica della Nato. Una strategia che ha pagato con il prosciugamento della base elettorale.


c) Sovranismo, questione nazionale e marxismo


In un breve e denso saggio (10) Carlo Galli parte dalla constatazione che la sovranità dei moderni non è legittimata da fattori trascendenti, ma deve far fronte alle sfide che la storia lancia a un ordine politico frutto di costruzione, e non di fattori naturali e/o tradizionali. Questa “infondatezza” fa sì che l’ordine politico non si possa mai dare per scontato: per quanto non riconosca altro potere sopra o accanto a sé e rivendichi il monopolio della violenza legittima, esso “non riesce mai a spoliticizzare del tutto la società”, la quale produce ininterrottamente nuovo disordine e nuove esigenze di ordine. Detto in altre parole, “il potere costituente non è mai del tutto costituito”,  esiste sempre la possibilità che un popolo o una classe sociale “sfondino” lo spazio pubblico, generando una nuova sovranità. Questo principio di sovversione è ciò che rende indigesta la categoria di sovranità alle destre liberali, e fa sì che le destre reazionarie possano esaltarla solo neutralizzandone la tensione interna. Esistono poi fattori universalistici che si oppongono alla sovranità in quanto essa vive di limiti, confini, determinazioni: il diritto e la morale, che si presumono universali, ma soprattutto l’economia liberista per la quale la legittimazione dell’ordine politico è inutile, anzi è di ostacolo, nella misura in cui si considera capace di autolegittimazione. 


Per parte sua la sinistra condanna la sovranità nazionale in quanto arbitraria, repressiva, autoritaria, “di destra” e ne invoca il superamento da parte di istituzioni sovranazionali, senza rendersi conto che queste ultime incarnano una “sovranità al quadrato” ben più arbitraria, autoritaria e antidemocratica. Detto che “descrivere il mondo globalizzato come un mondo privo di centri di potere sovrano, scrive, è veramente dire il falso”, Galli aggiunge che sovranità nazionale non vuol dire necessariamente nazionalismo, e che distinguere fra interno ed esterno non vuol dire necessariamente xenofobia, bensì volontà di definire lo spazio in cui i cittadini possono liberamente decidere in merito alle scelte che influiscono sulla loro vita. Infine confuta l’accusa secondo cui  la rivendicazione di sovranità sarebbe espressione di un’ideologia “antipolitica”, di destra: la verità è che siamo di fronte alla richiesta di restituire alla politica il controllo sugli “spiriti animali” dell’economia, e se oggi tale richiesta viene intercettata dalle destre, la responsabilità ricade su una sinistra cieca nei confronti delle devastazioni sociali prodotte dal liberismo.  


Negli scritti sparsi di Marx ed Engels sul tema delle rivendicazioni di sovranità nazionale, la premessa era che andavano sostenuti solo quei movimenti nazionali che favorivano lo sviluppo delle forze produttive accelerando la formazione della classe operaia. In base a tale criterio, Marx ed Engels sostennero l’irredentismo polacco e quello irlandese (11). Viceversa di fronte alla colonizzazione dell’India, Marx cullò l’illusione – smentita dalla storia – che essa avrebbe riscattato l’India dalla sua “arretratezza”, promuovendone lo sviluppo industriale, civile e sociale. Posizioni ondivaghe dalle quali è difficile estrarre un modello. Del resto, dall'epoca in cui Marx ed Engels svolgevano queste riflessioni ci separa un secolo di lotte di liberazione dei popoli coloniali, sostenute dai Paesi socialisti sulla base di una riformulazione teorica dei rapporti fra lotta di classe e lotta fra nazioni; ci separa il fallimento delle previsioni secondo cui la rivoluzione sarebbe avvenuta nei paesi industrialmente avanzati; ci separa la sconfitta del proletariato occidentale da parte della contro rivoluzione liberale seguita al crollo dell’Unione Sovietica; ci separano infine la crisi del processo di globalizzazione, il prepotente ritorno di uno stato nazione dato per morto e sepolto, e la ripresa dei conflitti fra grande potenze che ci stanno trascinando verso la Terza guerra mondiale.


Il dibattito marxista sulla questione nazionale è stato lungo e articolato fino agli anni Settanta del Novecento, dopodiché la (presunta) fine dell’epoca coloniale (12) ha fatto sì che le sinistre occidentali trasformassero il tema in un tabù politico, accusando chi lo riesumava di essere populista, reazionario e nazionalista. Questa polarizzazione si è inasprita a mano a mano che procedeva il processo di costruzione della Unione Europea, dividendo il campo marxista in tre grandi aree: gli entusiasti del progetto unitario, i favorevoli con riserve critiche, i contrari. Fra i più accaniti sostenitori “da sinistra” spicca Antonio Negri, il quale nel 2005, durante la campagna per il referendum francese sull’approvazione del progetto di Costituzione europea, a un intervistatore che gli chiedeva perché un “contestatore radicale” come lui si era dichiarato per il sì, rispose: “Perché la Costituzione è un mezzo per combattere l’Impero, la nuova società capitalistica globalizzata. L’Europa ha la possibilità di essere una barriera contro il pensiero unico dell’unilateralismo economico” (sic!)  E aggiunse: “Si sa, lo spirito della Costituzione ha una base in salsa liberale...e allora? Sì, è imbottita di difetti, di lacune, ma introduce diritti nuovi attraverso la carta dei diritti fondamentali. Bisogna essere pragmatici”. E ancora: “È ormai solo sul terreno europeo che possono porsi la questione del salario come quella del reddito, la definizione dei diritti come quella delle dimensioni del welfare, il tema delle trasformazioni costituzionali interne ai singoli paesi come la questione costituente europea. Oggi, fuori da questo terreno, non si dà realismo politico” (13). Peccato che von Hayek abbia detto che l’unificazione europea era la soluzione ideale per stroncare le velleità dei lavoratori di contrattare salari, redditi e diritti...


Ai marxisti che sostengono che gli interessi di classe devono prevalere su quelli della nazionalità, citando il detto del Manifesto che recita gli operai non hanno patria, Lenin replicava: “Avete preso una sola citazione dal Manifesto e pare che vogliate applicarla senza riserve, giungendo fino a negare le guerre nazionali. Tutto lo spirito del marxismo esige che ogni situazione venga esaminata soltanto a) storicamente; b) solo in connessione con le altre; c) soltanto in connessione con l’esperienza concreta della storia. [...] La tesi sulla patria e sulla sua difesa non può essere egualmente applicabile in tutte le condizioni. Nel Manifesto comunista si afferma che gli operai non hanno patria. Giusto. Ma non vi si afferma solo questo. Vi si afferma che nella formazione degli Stati nazionali la funzione del proletariato è alquanto particolare. Se si prende la prima tesi (gli operai non hanno patria) e si dimentica il suo nesso con la seconda (gli operai si costituiscono in classe nazionalmente, ma non come la borghesia), s’incorre in un grave errore" (14). 



3. Comunismo, libertà, democrazia


a) Oltre l’utopia classica


Scrive Lukács ne l'Ontologia dell'essere sociale : “Tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato […] l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità”. Alla luce di eventi quali il crollo del socialismo in Russia e lo straordinario successo del socialismo “in stile cinese”, non possiamo accontentarci di questa riflessione. La catastrofe sovietica ha tolto credibilità alla versione “classica” dell’utopia comunista, mentre l’esito dell’esperimento cinese ha generato un modello inedito di transizione al socialismo. Per ricordare quanto il modello in questione sia lontano dalla tradizione marxista, riprendo  le argomentazioni di Vladimiro Giacché.  


Analizzando la Critica al Programma di Gotha di Marx e l’ Anti Duhring di Engels, Vladimiro Giacché ricorda che per i "classici" il socialismo non era caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. Un punto di vista che né Lenin né Bucharin misero in discussione negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917. Tuttavia, già nel 1921-23, Lenin criticò chi sosteneva che si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo senza una lunga fase di transizione caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. Quanto alla Cina, scrive Giacché: “se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non può considerarsi tale né la Cina di Mao, né tantomeno quella di Deng e dei successori”. Per alcuni questo basta a mettere in dubbio la natura socialista della Cina. Eppure Lenin nel 1918 aveva   dichiarato: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet” (15). 


Deng Xiaoping nel 1978



Resta il dubbio se la Cina sia un Paese in transizione verso un modello già proprio di altri Paesi o un modello a sé stante. Giovanni Arrighi ha affrontato la questione (16) sostenendo che  il fenomeno cinese si spiega solo accettando che possa esistere uno sviluppo di mercato non di tipo capitalistico. Dal punto di vista marxista ortodosso, questa è una eresia. Ma Arrighi ci invita a prendere atto della necessità di un cambio di paradigma. La previsione “globalista” di Marx in merito all’avvento di un mondo appiattito sul modello occidentale non si è avverata, in compenso la storia ci ha consegnato la gigantesca novità di un Paese di un miliardo e mezzo di persone che è riuscito a sfruttare tre fattori strategici: 1) una millenaria tradizione fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene della comunità, 2) la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata dall’ideologia marxista-leninista, 3) un uso del mercato sottoposto al ferreo controllo dello Stato-partito. Nel contempo, la via delle riforme imboccata da Deng e successori non ha messo in discussione il ruolo centrale delle imprese di Stato né, tanto meno, il ruolo guida del PCC, che mantiene il controllo su stato, società ed economia, sbarrando alla neo borghesia cinese l'accesso al potere politico.


Le riflessioni di Rita di Leo (17)  sulla NEP consentono a loro volta di stabilire un’analogia con la svolta riformista del PCC . Quando capisce che “gli uomini del lavoro non erano in grado di gestire i luoghi del lavoro appena conquistati”, Lenin rompe con l’estremismo di quei dirigenti che pensavano di realizzare la transizione al socialismo dalla notte al giorno, ed elabora una strategia per “comprare” gli esperti che avevano gestito il potere per conto dei padroni fino alla rivoluzione ed  erano i soli a disporre delle conoscenze necessarie a far funzionare l’economia e l’amministrazione. Lenin, conclude,  “andava in cerca di una teoria del socialismo che non poteva essere quella classica”, adottando un programma che si potrebbe definire come una sorta di “uso bolscevico del capitalismo”. 

Il nodo centrale è il ruolo dello Stato nella transizione al socialismo. Per Lenin e per i dirigenti cinesi tale ruolo è insostituibile e decisivo; mentre per i critici “da sinistra” del socialismo reale, questa centralità dello Stato è la prova che siamo in presenza  di forme di capitalismo di stato che non possono emancipare il lavoro dallo sfruttamento. La questione è al centro del dibattito anche in America Latina: intervenendo sul tema l’ex vicepresidente boliviano Linera critica l’ideologia “antistatalista” delle sinistre radicali, ribadendo che la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne passa necessariamente attraverso la lotta per ottenere il controllo dello Stato. Chi nega tale evidenza scambia lo Stato per uno “strumento” ignorandone la natura di relazione sociale: lo Stato “è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e si stabilizzano”; è “il processo di formazione di egemonie e blocchi di classe”, non un Moloch da abbattere, bensì un campo di forze su cui è fondamentale che le classi subalterne si misurino per assumerne il controllo” (18).


Le esperienze rivoluzionarie che si sono sviluppate in Asia e America Latina condividono insomma un secco scostamento dai modelli  “classici” della rivoluzione socialista. Ma in quale misura un rinato movimento comunista occidentale può ispirarsi al modello cinese e/o al modello latinoamericano? Se la storia ci ha insegnato qualcosa è che non esistono modelli. Ecco perché Samir Amin ha rimpiazzato il concetto astratto di modo di produzione con quello di formazione sociale: non esistono il capitalismo e il socialismo, esistono formazioni sociali capitaliste e socialiste concrete, che presentano caratteristiche peculiari determinate da storia, tradizioni e culture dei Paesi in cui si sono evolute. Compito dei comunisti occidentali, oltre ad analizzare la composizione e le contraddizioni di classe del proprio Paese, è quindi capire quali sono i fattori che ne influenzano la cultura e la storia, comprese le forme ideologiche assunte dal conflitto politico. Il che non esclude che vi sia qualcosa da imparare dalle esperienze altrui, a partire dalla ridefinizione dei rapporti del movimento socialcomunista con la democrazia e il liberalismo.  



b) Socialismo e democrazia


Le Costituzioni approvate in Bolivia, Ecuador e Venezuela hanno evidenziato la difficoltà di far convivere le nuove istituzioni di democrazia diretta e partecipativa con le tradizionali regole della democrazia rappresentativa. Le situazioni di guerra civile strisciante che caratterizzano la vita politica di quei Paesi ci fanno capire che la convivenza in questione è una forma di dualismo di potere destinata prima o poi a sciogliersi con la prevalenza di uno dei due sistemi. Vedi la contraddizione fra i tempi lenti dei processi trasformativi del sistema economico e sociale e i tempi rapidi imposti dalle scadenze elettorali, contraddizione che alimenta il rischio che una sconfitta elettorale distrugga di colpo anni di lavoro. In poche parole: mantenere le regole della democrazia borghese ha un costo elevato per le forze rivoluzionarie, costrette a compiere uno sforzo enorme per conservare il consenso della maggioranza anche nei momenti di crisi che le obbligano ad adottare provvedimenti impopolari. 


Come è possibile, in tali condizioni, progredire sulla via della transizione al socialismo, e che tipo di democrazia può sostenere il processo? L'ipotesi di Linera (19) è quella di un progressivo esaurimento delle istituzioni della democrazia rappresentativa parallelamente al progressivo rafforzamento della democrazia diretta e partecipativa. Una prospettiva che sembra ipotizzare una evoluzione in senso “consiliare” del sistema politico, associata a un processo di costruzione comunitaria “dal basso”, rispetto alla quale partito e stato avrebbero il compito di facilitatori. Ecco perché, benché critico nei confronti dell’antistatalismo di principio delle sinistre radicali (vedi sopra), sostiene che “non vi è possibilità alcuna di realizzare il socialismo per via statale” e rilancia l’utopia della estinzione dello stato, anche se sul modo in cui ciò dovrebbe avvenire resta sul vago: il salto a una fase successiva della costruzione del socialismo potrà avvenire solo se e quando “la società stessa si metterà in marcia per democratizzarsi”. Probabilmente questa visione risente dell’esperienza della prima fase della rivoluzione boliviana, caratterizzata dalla democrazia di base dei cabildos, ma il golpe del 2019 ha dimostrato che senza il monopolio dello stato/partito sul potere le utopie di costruzione dal basso possono essere spazzate via da un giorno all’altro. 


Veniano al tema della democrazia cinese. La Cina rappresenta la smentita della tesi secondo cui la democrazia liberale di tipo occidentale è il sistema verso cui ogni nazione evolve quando si integra nel mercato mondiale e raggiunge certi livelli di benessere. Ma ai cittadini cinesi non interessa la concezione procedurale della democrazia, in quanto preferiscono misurare il grado di democrazia del proprio sistema in relazione al livello di sicurezza che lo Stato-partito può garantire e alla sua capacità di servire gli interessi della maggioranza del popolo. Il che fa sì che, grazie agli straordinari risultati ottenuti, il livello di legittimità del sistema politico sia ben più elevato di quello che i cittadini occidentali concedono ai rispettivi governi. Ciò detto, è falso che in Cina non esistano forme di democrazia. Nel 2008 novecento milioni di persone hanno esercitato il diritto di voto partecipando alle elezioni dei comitati di villaggio; né le candidature a tali elezioni sono riservate al PCC, bensì aperte a candidati indipendenti che svolgono funzioni di controllo sulle strutture locali del partito. Oltre a queste forme di democrazia di base va ricordato che nell’Assemblea Nazionale del Popolo sono presenti altri partiti politici e rappresentanze delle minoranze etniche. Inoltre operai e contadini se ritengono che i loro interessi non sono riconosciuti, organizzano lotte che riescono a imporre ai vertici dello stato/partito cambiamenti di linea (20). Daniel Bell (21) definisce questo sistema di governance “meritocrazia democratica verticale” , definizione che giustifica descrivendo le procedure di selezione della leadership: affrontato il duro ostacolo dei percorsi universitari, i candidati alla carriera politica o a quella statale possono accedere ai livelli più bassi di governo solo superando gli esami per il pubblico impiego, mentre ogni successiva promozione dipende dalla qualità delle prestazioni realizzate. Questo percorso a ostacoli dura tutta una vita, il che fa sì che ai vertici approdino i quadri più sperimentati, che hanno sviluppato autoconsapevolezza, senso del limite ed empatia, imparando a vivere per la politica e non di politica. Ciò detto, non è possibile ignorare la distanza fra un sistema politico come quello cinese, il quale mixa i principi e i valori comunitari della cultura marxista con quelli della tradizione confuciana, e il nostro, che ha alle spalle secoli di individualismo. Viceversa avremmo molto da imparare dalle esperienze rivoluzionarie latinoamericane, e dai loro tentativi di promuovere un eutanasia dolce, non violenta, della democrazia borghese e di rimpiazzarla progressivamente con istituti di democrazia diretta e partecipativa. 



c) Comunismo e liberalismo 


Il rifiuto radicale di ogni forma di liberalismo dovrebbe essere un elemento caratterizzante del movimento comunista. Tutte le varianti - classiche e postmoderne, di destra e di sinistra - di questa ideologia condividono infatti principi e valori, come l’individualismo e la concezione occidentale – illuminista, borghese ed eurocentrica – dei diritti civili e individuali nonché dei diritti “universali” dell’uomo, ispirati alle visioni anticomuniste di autori come Popper ed Hayek. Senza dimenticare che, in nome di tali principi e valori, si sono commessi e si continuano a commettere i peggiori crimini nei confronti delle classi lavoratrici e delle popolazioni del mondo. Questa posizione non è però condivisa dalla maggior parte degli intellettuali e dei militanti che si dichiarano comunisti, e  anche marxisti intelligenti e dotati di lucido spirito critico nei confronti della civiltà occidentale criticano Marx per il suo intransigente rifiuto dei valori liberali. 


Lukács ricorda che per Marx il diritto borghese non si situa mai oltre una concezione economica dell’eguaglianza: il compratore rivendica il diritto a prolungare la giornata lavorativa, il venditore rivendica il diritto a limitarne la durata: diritto contro diritto entrambi consacrati dalla legge di scambio delle merci, ma fra diritti uguali decide la forza. Quanto ai diritti dell’uomo, Marx li liquidava così : “Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. Eppure persino Domenico Losurdo ha scritto che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene (22). Alle critiche dei liberali, ricorda, la cultura comunista ha reagito in due modi: da un lato, contrapponendo alla libertas minor (la libertà negativa, o libertà da, ritagliata sul diritto dell’individuo proprietario) la libertas maior (la libertà positiva, o libertà di, ritagliata sui diritti collettivi della comunità dei produttori); dall’altro lato ha elaborando quel concetto di democrazia progressiva che Losurdo sintetizza così: “Coniugare potere ed egemonia operaia e Stato di diritto, farla finita con la vulgata marxista che liquidava come irrilevanti le libertà formali sancite dalla rivoluzione democratico borghese". Secondo Losurdo, questa tesi di Togliatti era frutto dell'idea che i comunisti, piuttosto che negare o svalutare le conquiste di cui erano stati protagonisti liberali e democratici, avrebbero dovuto universalizzarle e farle valere anche nella materialità dei rapporti economici e sociali. Chi scrive pensa invece che fosse giusto il primo punto di vista,  condiviso da Marx, il quale, polemizzando con l’anarchismo, sostenne che mettere al centro la libertà individuale significa non saper guardare al di là di una società di imprenditori privati.


Domenico Losurdo



Ritengo che questi equivoci rispecchino l’idea che la rivoluzione socialista rappresenti l’attuazione dei principi e dei valori della rivoluzione democratico borghese, inattuati in quanto penalizzati dal dispositivo di limitazione che li confina all’ambito della tutela dei diritti di proprietà e delle libertà negative. Ciò è tre volte sbagliato: 1) perché la storia non è una ordinata successione di fasi; 2) perché rivoluzione borghese e rivoluzione socialista sono fenomeni strutturalmente diversi, in quanto la borghesia conquista il potere politico dopo avere già conquistato quello socioeconomico, mentre il proletariato è privo di qualsiasi potere, per cui può vincere solo distruggendo le forme di potere esistenti; 3) perché la tesi di Togliatti rimuove il fatto che la libertà liberale non è limitata all’ambito economico ma coincide totalmente, per forma e struttura, con tale ambito, per cui non è applicabile ad altri contesti. 

Cadendo in questa trappola, i comunisti hanno stipulato accordi con le destre liberali per sbarrare la strada alle destre estreme; si sono accodati agli obiettivi dei movimenti sociali post comunisti accettandone i principi e i valori individualisti e antistatalisti nell’illusione di poterli egemonizzare, finendo al contrario per esserne egemonizzati, scelte che sono costate loro la perdita del consenso delle masse popolari. Per tacere del fatto che esistono partiti e movimenti che si definiscono comunisti che, in nome della difesa dei principi della liberal democrazia e dei diritti universali dell’uomo, accusano di totalitarismo i Paesi socialisti e alla guerra imperialista che Stati Uniti, Ue e NATO stanno conducendo contro la Russia e tutti i Paesi che non accettano l’egemonia occidentale oppongono un generico pacifismo, evitando di schierarsi con il fronte mondiale della resistenza antimperialista.   


4. Costruire il partito di classe 

a) La paranoia "orizzontalista"

La prima generazione di movimenti post comunisti, partoriti dalla crisi delle sinistre "alternative" dei Settanta  (gruppuscoli marxisti leninisti, operaisti, prima ondata femminista), al pari di quelli nati dopo il crollo dei socialismi reali e confluiti nel calderone di un'area culturale ampia e variegata (successive ondate femministe, movimento no global, ecopacifisti, ecc.) condividono il rifiuto  radicale nei confronti di ogni organizzazione di tipo verticale. Forma partito,e forma stato vengono  espulse dal patrimonio ideale dei nuovi movimenti, in quanto "politicamente scorrette". Una lucida analisi dei paradossi e delle contraddizioni generati da questa postura ideologica si deve, curiosamente, al filosofo brasiliano Rodrigo Nunes (23), che pure è stato fra i co-organizzatori del World Social Forum. E' lui a usare il termine "paranoia orizzontalista" e a definirlo come ossessione del rischio che l'organizzazione sia associata alla possibilità della sua appropriazione da parte di interessi particolari, ma soprattutto al rischio che il potere di fare cose si trasformi in potere sugli altri, che la potentia si converta in potestas. Ma ciò, argomenta, significa considerare la questione solo dal punto di vista del suo possibile eccesso, ignorando le implicazioni della sua assenza.  


Il primo effetto collaterale della mania di percepire l'organizzazione sempre e solo come un rischio, consiste nel fatto che ogni tentativo di migliorare il coordinamento fra i soggetti impegnati in un determinato progetto politico viene attribuito a intenzioni maligne, dopodiché si perde ogni possibilità di agire concretamente. Uno altro aspetto paradossale del fenomeno consiste nel fatto che, sebbene la cultura dei nuovi movimenti abbia abbandonato il determinismo (le cose succedono perché mosse dalla necessità storica), la rinuncia alla fede teleologica e la consapevolezza che solo  l'agire soggettivo può cambiare il mondo non la inducono a riconoscere la necessità dell'organizzazione. Probabilmente perché ciò implicherebbe riconoscere che nessun soggetto può agire isolatamente ma deve operare come parte di una unità più grande e, dal momento che tale riconoscimento comporterebbe accettare dei limiti alla propria libertà, viene respinto in quanto incompatibile con i principi e i valori libertari. In poche parole, ci stiamo negando i mezzi con cui pensare l'azione collettiva organizzata proprio nel momento in cui, avendo perso la fede nella sua necessità storica e riconosciuto il ruolo della contingenza, ne avremmo più che  mai bisogno. 

Un ulteriore aspetto paradossale della paranoia orizzontalista consiste nella rimozione degli effetti della legge dell'oligarchia di Robert Michels che, scrive Nunes, non funziona solo per i partiti ma anche per i movimenti, ivi compresi quelli di ispirazione anarchica. Il punto è che ciò che definiamo spontaneo è sempre in qualche misura organizzato, quindi l'orizzontalità pura non esiste nella misura in cui nulla può accadere in assenza di una struttura organizzativa, ancorché informale. Ma soprattutto: può esistere una struttura organizzativa libera da ogni principio gerarchico? No, risponde Nunes, perché anche se si predica la necessità che l'azione sia "distribuita", questo vuol dire solo che essa non si organizza attorno a un unico centro, ma non è mai del tutto dispersa o decentralizzata. Quanto appena affermato è evidente ove si considerino le modalità di organizzazione e mobilitazione che sfruttano le tecnologie digitali, a torto considerate come orizzontali e democratiche "per natura". La verità è che non esiste nulla nei network in quanto tali che li renda necessariamente egualitari: i nodi più connessi monopolizzano infatti le relazioni (come ben sanno i professionisti del marketing online e gli esperti di campagne elettorali), il che significa che, nel momento in cui ci si connette, si è già di fatto organizzati (per di più senza essere consapevoli di questa manipolazione incorporata nelle stesse modalità di funzionamento del medium). I movimenti possono assumere forma di nuvola o di rete, dopodiché è solo il loro grado di centralizzazione che può variare, ma che non può mai essere azzerato.


Assieme alla narrazione di Internet come medium "democratico", nota Nunes, sono i paradigmi delle scienze della complessità (biologia molecolare, teoria dell'informazione,  cibernetica, teoria dei sistemi, ecc.) ad alimentare il mito dell'auto organizzazione, ma chi pretende di applicarli alla prassi dei movimenti politici rimuove il fatto che essi sono assiologicamente neutri, sono associabili alle posizioni politiche più disparate, in quanto l'unico obiettivo che conta per un sistema naturale che si auto organizza è la propria stabilità. Analoga critica può essere rivolta alle tesi negriane sulla capacità auto organizzativa della moltitudine, alla quale vengono associate finalità rivoluzionarie, immaginando che l'auto organizzazione incorpori una teoria della giustizia. Ma la verità  scrive Nunes citando Laclau, è che le moltitudini non sono mai spontaneamente "moltitudinarie", mentre possono divenirlo solo grazie all'azione politica. Il soggetto politico non è mai frutto di germinazione spontanea ma di costruzione politica e, da questo punto di vista, aggiunge inopinatamente Nunes, Lenin era più avanti della Luxemburg sulla via del superamento del determinismo marxista.


Dalla critica della paranoia orizzontalista alla conversione neo leninista? Non esattamente. L'amico Nunes è in cerca di una terza via fra tradizione centralista/verticalista del marxismo leninismo e orizzontalismo dei nuovi movimenti: riconosce l'inevitabilità che dalla prassi delle lotte emergano forme di leadership, ma ritiene che la funzione del leader non implichi necessariamente la posizione del leader, per cui il leader carismatico sarebbe rimpiazzabile con forme di leadership distribuita; riconosce che emergono nuove forme di egemonia, ma pensa che  egemonia e autonomia si escludano a vicenda; infine ritiene che il collettivo non sia altro che (sic!) una certa configurazione degli individui che lo compongono, rischiando così di riprecipitare nel calderone individualista/libertario che neutralizza ogni possibilità di cambiare lo stato di cose presente. 



b) A proposito del partito di classe  


Preferisco parlare di come costruire il partito di classe piuttosto che parlare di come ri-costruire il partito comunista. Non solo perché in Italia il secondo argomento suona iettatorio, visti i non entusiasmanti precedenti degli ultimi decenni, ma anche perché, nell’attuale contesto storico, costruzione della classe e costruzione del partito vanno di pari passo. Il concetto di costruzione associato a quello di classe può suonare bizzarro alle orecchie di chi è abituato a ragionare a partire dai dogmi della tradizione marxista, i quali descrivono la classe come un’entità che esiste "in sé e per sé", una realtà oggettiva generata dai rapporti sociali di produzione. Ma se è vero, come è vero, che la classe operaia occidentale appare oggi come un’entità fantasmatica, un anacronismo otto-novecentesco, dopo che decenni di guerra di classe dall’alto, ristrutturazioni tecnologiche, delocalizzazioni, “riforme” giuridiche e istituzionali, tradimenti di partiti e sindacati convertiti al neoliberalismo l’hanno trasformata in una nebulosa di atomi individuali espropriati del proprio status professionale e giuridico, ma soprattutto inconsapevoli di appartenere a un’unica entità sociale che condivide interessi, bisogni e aspettative; se è vero tutto questo, ciò vuol dire che la classe va appunto costruita; un compito titanico anche solo sul piano della ricerca teorica ed empirica degli strumenti necessari a realizzarlo. 


L'impresa non spetta alla sociologia accademica, ma a un'organizzazione politica radicata nei vari spezzoni in cui la classe è stata divisa in misura tale da poter condurre un lavoro di analisi sul campo – quella che tempo fa si chiamava conricerca - e di generalizzazione teorica dei risultati. L'organizzazione politica in questione dovrebbe essere un rinato partito comunista, che allo stato dei fatti non esiste, per cui costruzione della classe e costruzione del partito sono processi necessariamente intrecciati. Il partito può nascere e crescere solo selezionando i soggetti più coraggiosi e intelligenti generati dai nuclei di resistenza anticapitalista che continuano a esistere, malgrado la situazione di arretramento e sconfitta del proletariato. Non credo che tale processo possa venire “dal basso”, come frutto di una aggregazione spontanea delle avanguardie di lotta; tuttavia non credo nemmeno che possa essere pilotato dall'alto adottando il modello leninista nella sua forma “classica”, anche se penso che se ne possa salvare lo spirito attraverso la costruzione di un “piano superiore” fatto di quadri politici e intellettuali organici, capaci di elaborare teoria e coordinare l’azione politico-organizzativa.


Questa fase sarà di lunga durata, né ci si può illudere di poterla abbreviare volontaristicamente, pur se la situazione di crisi economica e politica mondiali richiederebbero tempi brevi. Nel frattempo ogni velleità di costruzione di un blocco sociale rivoluzionario rischierebbe di essere prematura e controproducente. E' vero che le rivoluzioni asiatiche e latinoamericane ci offrono esempi di costruzione di ampi fronti di classe anti imperialisti e anticapitalisti, ma si tratta di modelli nati da composizioni di classe, storie e tradizioni politico culturali radicalmente diverse dalle nostre. Qui non esistono larghe masse contadine, né una piccola e media borghesia realmente “progressiva”, dato che un buon 30/40% della popolazione – comprese le classi medie “riflessive rappresentate dalle sinistre - è parte integrante del blocco sociale egemonizzato dalle élite neoliberali. Qui da noi costruire il blocco sociale vorrà dire per un lungo periodo rinsaldare gli spezzoni in cui le classi lavoratrici sono state separate, mentre solo in una fase successiva sarà possibile ragionare sulle eventuali alleanze. Il fallimento dei populismi di sinistra, come si è visto, è stato causato dall’inversione di tale priorità, che ha indotto questi movimenti a scommettere prioritariamente sulle classi medie. Il che non significa che dai populismi di sinistra, in particolare da quelli dell'America del Sud, non ci sia alcunché da imparare. A partire dalla capacità di elaborare slogan capaci di mobilitare diversi strati sociali su obiettivi specifici e di sviluppare un linguaggio accessibile alle masse e non appesantito da anacronismi novecenteschi.



c) L'eredità avvelenata dell'eurocomunismo 


Ciò che più colpisce, esaminando la base culturale dei partitini neo comunisti nati dalla dissoluzione del PCI. è la scarsa capacità di capire come il più grande partito comunista occidentale abbia potuto trasformarsi, in tempi relativamente brevi, non in un partito socialdemocratico, ma direttamente in un partito neoliberale. La riflessione teorica viene rimpiazzata dai sentimenti di rabbia, delusione, risentimento, e dalle accuse di tradimento nei confronti del gruppo dirigente. Ma come è nato quel gruppo dirigente? Qui si brancola nel buio; vedi il fatto che non è raro ascoltare panegirici di un leader come Enrico Berlinguer, l’uomo che ha officiato il compromesso storico con la DC e, dopo avere proclamato l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, ha dichiarato di sentirsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO; l'uomo che, prima di presentarsi ai cancelli della Fiat nel 1980, quando la battaglia era già persa, ha benedetto la svolta opportunista della CGIL, svolta che nei decenni successivi è divenuta  resa totale nei confronti di tutte le “riforme” volute dai padroni e dai loro rappresentanti politici.  


Se non si riesce a fare i conti con la figura del fondatore dell’eurocomunismo, figurarsi se ci si possono aspettare critiche nei confronti dell’eredità teorico politica del “migliore”. Eppure l'interpretazione del concetto gramsciano di “nazional popolare” elaborata da Togliatti ha inciso non poco sugli sviluppi successivi: per decenni la base si è illusa che la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni” fosse un diversivo tattico, laddove sovvertiva la storica visione marxista del rapporto fra riforme e rivoluzione. Prima Engels e poi  Luxemburg avevano chiarito che la vera alternativa non è fra riforme e rivoluzione, ma è quella fra riforme come mezzo per preparare la rivoluzione e riforme come fine a sé stesse. Il nodo non è nemmeno l’alternativa fra rivoluzione violenta e conquista del potere per via pacifica bensì: si va al potere per governare il sistema, sia pure “democratizzandone” istituzioni e meccanismi, oppure perché lo si considera il primo passo verso un cambiamento sistemico? Leggendo le Costituzioni entrate in vigore dopo le rivoluzioni venezuelana e boliviana si capisce che il loro obiettivo era il secondo; l’ascesa al potere immaginata da Togliatti prevedeva invece di realizzare una convivenza (quella che Berlinguer avrebbe riproposto attraverso la formula del Compromesso storico) con i partiti borghesi che non avrebbe consentito di avviare un cambio di sistema (del resto ritenuto impossibile a causa della nostra collocazione geopolitica). Non si tratta di accusare il PCI di essere stato “statalista” – come fecero le sinistre radicali il cui antistatalismo ha provocato disastri peggiori - bensì di capire come quel riformismo, che non metteva in discussione la natura, le funzioni e gli obiettivi di questo Stato, limitandosi a rivendicare l'applicazione dei principi della Costituzione del 48, abbia ispirato una lunga serie di compromessi con il nemico di classe. 





Questo connubio di elettoralismo ed opportunismo è l'eredità che il PCI ha trasferito a Rifondazione e a tutti gli altri "cespugli" neo comunisti: a mano a mano che perdevano voti ed iscritti, cresceva lo spasmodico impegno per conquistare uno straccio di deputato, senatore, consigliere regionale o municipale. Le scarse risorse organizzative ed economiche venivano investite per realizzare a qualsiasi costo  tale obiettivo, piuttosto che per ricostruire il partito di classe. Questa ossessione, alimentata dalle piccole ambizioni di un personale politico di qualità decrescente, ha provocato la frammentazione e la competizione fra "marchi" concorrenti, fino all’esito grottesco delle pletore di simboli con la falce e il martello che decorano i cartelloni e le schede elettorali. Inutile aggiungere che queste formazioni non hanno mai avviato una seria riflessione sul rinnovamento teorico del marxismo, sulle ragioni del crollo sovietico e del successo cinese, sulla crisi del sistema capitalistico globale, né tantomeno sulle trasformazioni socioculturali subite dalle classi lavoratrici. 


Va detto che anche l'evoluzione delle sinistre antagoniste degli anni Settanta è stata pesantemente condizionata dalla svolta eurocomunista: dopo averla combattuta in nome di una ideologia "marxista leninista" che Lenin avrebbe catalogato come estremismo infantile (24), e dopo essere stati asfaltati dalla controffensiva capitalista, si sono "sciolte" nei movimenti postmoderni dei decenni successivi, convertendosi a loro volta al liberalismo, sia pure in versione progressista. La loro confluenza con i reduci del PCI dopo il "suicidio" della Bolognina ha creato i presupposti dell'esperimento bertinottiano, un calderone in cui si sono mescolati i peggiori difetti del vecchio PCI (elettoralismo e tatticismo opportunistico) con i peggiori difetti del movimentismo (estremismo parolaio, individualismo, democraticismo piccolo borghese, autoreferenzialità delle classi medie riflessive). Questo tentativo di “sciogliere il partito nel movimento”, sopravvissuto a stento al disastro di Genova 2001, si è trascinato stentatamente seguendo la stessa sorte degli altri cespugli, perdendo cioè iscritti e voti fino a sfiorare l'estinzione. 



d) Esiste un'alternativa alla forma partito leninista?


Abbiamo appena visto come persino un filosofo movimentista come Nunes esprima la convinzione che stiamo vivendo un "momento Lenin", nel senso che, nell'attuale contesto storico, solo un riequilibrio dell'organizzazione in senso verticale potrebbe garantire di ottenere qualche risultato concreto. Ma è immaginabile che si possa dare un'organizzazione leninista senza assumerne le forme, le procedure e i metodi "classici"? E' quanto hanno tentato di fare alcuni populismi di sinistra come Podemos, il cui fallimento, descritto in precedenza, certifica che l'impresa è ardua. In Italia, lo spazio politico ed elettorale liberato dalla trasformazione delle sinistre tradizionali in partiti neoliberali è stato occupato dall’M5S, il quale, più che una vera e propria sinistra populista, è stato il collettore delle velleità “sovversive” di strati piccolo borghesi vecchi e nuovi, penalizzati dalla crisi ed entrati in stato di ebollizione fin dai tempi di Tangentopoli, ma ha agito anche da megafono della rabbia delle classi lavoratrici, pescando militanti ed elettori dalle forze politiche che le avevano tradite. 


Da quando questa falsa alternativa ha perso la propria energia propulsiva, la galassia dei partitini neo comunisti accarezza l’illusione di poterne ereditare l’effimero consenso popolare. Il progetto è chiaro: si punta a intercettare parte della base elettorale dei grillini e a usarla come scorciatoia per bypassare il duro e faticoso lavoro quotidiano necessario per selezionare le avanguardie presenti nei vari fronti di lotta, formarle come quadri politici, riunificare le disiecta membra del movimento comunista, elaborare un programma  credibile e forgiare gli strumenti organizzativi per attuarlo. Riemergono i vecchi vizzi – opportunismo, codismo, elettoralismo, demagogia – aggravati dall’urgenza di rispondere alle sfide imposte dalla crisi economica e politica mondiali. Si accorda eccessivo credito al movimento No Vax, senza distinguere la sacrosanta rabbia popolare che lo ispira  dai deliri complottisti e pseudoscientifici di taluni suoi esponenti. Si strizza l’occhio ai movimenti sovranisti di destra, progettando improbabili intese elettorali con ambigui interlocutori per conquistare un seggio a qualunque prezzo.  Si crede di poter costruire su queste fondamenta di sabbia un chimerico partito di massa, senza “perdere tempo” a costruire un partito di quadri. Le componenti più sane di quest'area, che pure si spendono per riunificare le disiecta membra della diaspora comunista, evitano di inseguire chimere elettorali e si sforzano di contribuire all'analisi dell'attuale contesto storico (per la verità più sul piano internazionale che su quello interno), scontano una serie di limiti penalizzanti: l'età media elevata fa sì che prevalgano sentimenti nostalgici per un passato glorioso e lo spirito di testimonianza, il che, da un lato si rispecchia nel linguaggio anacronistico (retorico e poco comprensibile dalle masse dei lavoratori e dai giovani); dall'altro lato, induce a riproporre modelli organizzativi e procedure obsolete (tesseramento, comitati centrali, segreterie, commissioni di lavoro, sezioni, attivi, ecc.), il tutto condito dall'immancabile e rituale richiamo ai principi del centralismo democratico, non considerando che la scarsa consistenza numerica dei gruppi coinvolti rischia di fare apparire tutto ciò come la messa in scena di memorie di un passato felice. 


Certo tutto ciò non basta a dimostrare l'impossibilità di ricostruire un partito leninista, in quanto si potrebbe obiettare che i fallimenti appena descritti sono imputabili ai limiti soggettivi del quadro dirigente. Personalmente sono convinto che il punto sia invece il fatto che l'attuale contesto storico (a partire soprattutto dai mutamenti della composizione di classe e della cultura di massa) impone di esplorare nuove soluzioni; rilancio quindi l'interrogativo di cui sopra: è possibile raccogliere la sfida del "momento Lenin" senza riproporre paro paro il modello partitico leninista? Non ho la presunzione di poter offrire una risposta chiara e univoca, per cui mi limito ad abbozzare alcune riflessioni partendo dalle ipotesi che Mimmo Porcaro ha formulato in alcuni articoli pubblicati fra i primi del secolo e la fine del suo secondo decennio. Nel 2003 (25) Porcaro, ragionando sul concetto di partito di massa, distingue fra partito di integrazione di massa e partito elettorale di massa: il primo si propone di acculturare le classi subalterne e selezionare gruppi dirigenti alternativi a quelli dominanti, il secondo è una macchina elettorale che serve a far eleggere un gruppo dirigente la cui formazione può anche avvenire fuori dal partito. Posto che l'evoluzione sembra puntare in quest'ultima direzione, commenta: "più dello sforzo di migliaia di militanti vale oggi il lavoro di una singola agenzia pubblicitaria" e aggiunge che si va verso una cultura politica "capace solo di adattarsi ai processi sociali e non di intervenire su di essi per trasformarli". 


Per uscire da questa situazione, scrive nello stesso articolo, serve elaborare un nuovo modello di partito che definisce "partito connettivo di massa". Si tratta di riconoscere che unificare tutta l'azione sociale in un unico soggetto politico è divenuto impossibile, per cui occorre un organismo in grado di connettere vari tipi di azione e diverse associazioni della società civile autonome dal partito, ma mentre al partito spetta il compito di connettere le lotte con la sfera del potere statale, gli altri organismi sono "single issue". In un articolo del 2006 (26) la differenza viene ribadita introducendo due nuovi concetti: da un lato il partito formale, con il suo statuto, le procedure di reclutamento, l'ideologia e il nome ufficiale, dall'altro il partito reale che comprende anche le associazioni popolari, i sindacati, cooperative,  gli organi di stampa, i circoli intellettuali, ecc. Fra i due momenti possono esservi scambi di ruolo, nel senso che entrambi possono svolgere la funzione di connessione a seconda del contesto. Una delle preoccupazioni che ispirano tale modello sembra essere quella di sedare le paranoie orizzontaliste (vedi sopra), in quanto se la funzione di direzione non genera "una casta intoccabile di dirigenti" non esiste il timore che dia automaticamente luogo a concentrazioni di potere.


La sensazione è che in quegli anni l'autore desse in un certo qualche modo credito al progetto di partito "ibrido", una sorta di contaminazione fra partito classico e movimenti, associabile all'esperimento bertinottiano. Ma già in un testo del 2012  (27) assistiamo a una svolta: concetti come democrazia progressiva, contropotere operaio, soggetti "desideranti", moltitudine, scrive Porcaro, danno per scontato che il capitalismo sia "per natura" destinato a estinguersi. Questa  visione di un processo storico animato da un principio immanente di necessità, nota, è un tratto paradossalmente comune a neostalinisti e teorici della moltitudine, anche se per i primi il "motore" del processo è lo sviluppo delle forze produttive mentre per i secondi è la cooperazione sociale dei "cognitari". A completare l'illusione di un progressivo svuotamento del potere dello stato e del capitale è l'idea che, nella misura in cui la globalizzazione mette in crisi gli stati nazione, si dia  la possibilità di una trasformazione mondiale immediata del modo sociale di produzione. Contro questa visione irenica, Porcaro rivendica la necessità di rimetter le classi e lo stato al centro dell'analisi, il che implica tornare alla lezione di Lenin, che non vuol dire, aggiunge tuttavia, tornare al leninismo: "Lenin, scrive, è la continua ridefinizione della situazione sulla base della dinamica della lotta di classe e degli spazi che di volta in volta si aprono o si chiudono. E’ l’attenzione per la singolarità, irripetibilità di ogni momento storico, continuo movimento di rottura di convinzioni, linee politiche e forme organizzative che tendono inerzialmente a ripetere problemi e soluzioni". L'invito è chiaro: se essere leninisti non vuol dire ripetere per inerzia linee politiche e forme organizzative che non rispondono più alla concretezza del momento storico, ciò significa che anche il modello "leninista" di partito può e deve essere superato. Ma qual è l'alternativa? 


Cinque anni dopo (2017) Porcaro prende atto (28) che il partito connettivo, a parte alcune esperienze latino americane (tornerò fra poco su questo tema), non ha mai raggiunto risultati significativi. Prende inoltre atto che, nel frattempo, sono nati partiti come Podemos e M5S, che definisce "partiti di mobilitazione civile", i quali, secondo alcuni, sarebbero la forma partito più adeguata alla realtà contemporanea, ma quell'essere "adeguata" significa che è anche quella più capace di trasformarla? Non essendone affatto convinto, Porcaro lancia la sua ipotesi: se è vero che è la strategia a produrre la connessione e non il contrario, occorre costruire il partito strategico che, scrive, "non può identificarsi con i movimenti né pretendere di portare la coscienza dall’esterno, deve essere un centro di elaborazione autonomo che si mantiene esterno al movimento proprio per condensare e sistematizzare le idee giuste che nel corso delle lotte vengono continuamente prodotte e poi dimenticate", quindi aggiunge che "può essere un piccolo e agile partito legato a tutte le altre componenti del fronte, oppure un gruppo dirigente trasversale composto da cellule presenti in tutte le organizzazioni del movimento". Circa un anno prima chi scrive aveva dato alle stampe La  variante populista (29) un saggio in cui esprimevo concetti abbastanza simili, tentando di immaginare come avrebbe potuto funzionare un'organizzazione di avanguardia capace di egemonizzare, reindirizzandola verso obiettivi compatibili con una mutazione sistemica radicale, la base dei movimenti populisti in vista della loro più che probabile crisi (30). Negli anni successivi, da un lato l'evoluzione della situazione internazionale, caratterizzata dalla pandemia del Covid, dal precipitare della crisi e dall'inizio di quella che Papa Francesco ha giustamente definito Terza guerra mondiale a pezzi; dall'altro lato la crisi endogena che ha trascinato nel caos il nostro sistema politico, hanno reso irrealistico questo scenario. Dopodiché  restano a mio avviso invariate le sfide teoriche che ho sin qui cerato di descrivere.    


5. A mò di nota finale


Poco sopra ho affermato che costruzione della classe e costruzione del partito sono processi  intrecciati; ho inoltre sostenuto che porre la questione del blocco sociale rivoluzionario prima che questi due processi abbiano raggiunto un adeguato livello di maturazione è sbagliato perché tende a regalare l’egemonia alle classi medie "riflessive". Le rivoluzioni bolivariane sembrerebbero smentire tale tesi, in quanto sono state guidate da movimenti populisti le cui caratteristiche possono evocare il concetto di partito connettivo di cui parlava Porcaro qualche anno fa (vedi sopra). Senonché i movimenti in questione sono il prodotto di condizioni socioeconomiche, culturali e storiche assai diverse dalle nostre: si tratta di rivoluzioni antiliberiste, antimperialiste e di emancipazione nazionale e razziale, realizzate  in contesti regionali che hanno favorito la convergenza di interessi fra masse contadine di etnia india, classe operaia e sottoproletariato urbano e piccola e media borghesia progressiva su obiettivi radicali di riforma costituzionale, redistribuzione della ricchezza e cambiamento di matrice produttiva; a guidarle sono stati leader rivoluzionari di grande capacità politica come Chávez; Morales e Linera, temprati da lunghe e dure esperienze di lotta, i quali hanno saputo innovare creativamente la teoria socialista e mobilitare avanguardie politiche esperte e affidabili; infine il processo rivoluzionario ha potuto usufruire di strutture di democrazia diretta e partecipativa sorte nel corso di lotte precedenti. I partiti comunisti locali, caratterizzati da posizioni ideologiche dogmatiche, sono stati invece incapaci di assumere un ruolo egemonico, finendo integrati in partiti come Il PSUV venezuelano e il MAS boliviano.


Morales e Chavez



Il tentativo di "clonare" queste esperienze nei Paesi a capitalismo avanzato, messo in atto da Podemos, è fallito perché ha puntato a “costruire un popolo” prima di lavorare all’unificazione delle classi lavoratrici e alla costruzione d’un partito radicato nel sociale; ha tentato di egemonizzare i movimenti di massa attraverso l’uso dei nuovi media digitali e non organizzandone politicamente le avanguardie; ha cercato di ottenere in tempi brevi una maggioranza elettorale e conquistare il governo senza capire che la guida del governo, in assenza di un progetto di mutamento sistemico, sarebbe stata effimera e non avrebbe consentito di modificare i rapporti di forza fra le classi. Questa linea politica, oltre a produrre gravi compromessi su temi strategici, come l’atteggiamento nei confronti del blocco atlantico e delle sue guerre imperialiste e la mancata tutela degli interessi popolari nei confronti delle politiche neoliberiste della UE, ha progressivamente eroso anche il consenso elettorale. Qui come in America Latina i comunisti, organizzati nei partiti tradizionali hanno svolto un ruolo marginale. In Spagna come in Italia (così come in tutti i Paesi occidentali) non è tempo di celebrazioni nostalgiche né di adagiarsi nella speranza che i successi dei comunisti in Cina e in altri Paesi del Sud del mondo possano risolvere i nostri problemi. Siamo di fronte a un'alternativa secca: evoluzione o estinzione. 


Note 


(1) Cfr. T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Seuil, Paris 2013.


(2) Tutto ciò non impedisce che in una società socialista il criterio possa mutare, nella misura in cui si presume che qui la produttività del lavoro sia definita in base alla sua utilità sociale, per cui attività come il marketing, la pubblicità, ecc. che per il capitalista sono produttive, sarebbero considerate improduttive


(3) Cfr. La France périphérique, Flammarion, Paris 2014 e No society.  La fin de la classe moyenne occidentale, Flammarion, Paris 2018. 


(4) Un’ideologia che non mette in discussione il sistema capitalista, visto che l’iniziativa privata e il libero mercato restano dogmi indiscussi, una sorta di anarco-capitalismo che è servito da legittimazione ideologica ai vari Bill Gates, Steve Jobs, Sergej Brin, Jeff Bezos, Zuckerberg per costruire i loro imperi monopolistici.


(5) Cfr. Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.


(6) Cfr.  La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016.


(7) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; vedi anche Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017 e, con C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985.


(8) Per dirla con Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013), il divorzio fra tradizione liberale – basata su governo della legge, protezione dei diritti umani e rispetto delle libertà individuali – e tradizione democratica – caratterizzata dalle idee di uguaglianza, identità fra governanti e governati, sovranità popolare – è un fatto compiuto e irreversibile. 


(9) Cfr. F. Campolongo, L. Caruso, Podemos e il populismo di sinistra, Meltemi, Milano 2021.


(10) Cfr. C. Galli, Sovranità, il Mulino, Bologna 2019.


(11) È noto che Marx cambiò radicalmente posizione sulla questione irlandese, ammettendo di avere a lungo pensato che l’Irlanda si sarebbe potuta liberare solo dopo il trionfo della classe operaia inglese, per poi convincersi che, al contrario, la classe operaia inglese si sarebbe potuta emancipare solo dopo la liberazione nazionale dell’Irlanda. Questa svolta segna la fine della fiducia “ingenua” di Marx sulla vocazione “naturalmente” rivoluzionaria del proletariato, nella misura in cui coincide con la presa d’atto del ruolo soporifero che il colonialismo è in grado di esercitare nei confronti della coscienza del proletariato delle potenze coloniali.


(12) Samir Amin ha demolito questa idiozia dimostrando che il colonialismo non è mai finito, ha solo cambiato forma generando ancora più miseria e oppressione di quello “classico”. 


(13) Citato in A. Barile, Unione europea e questione nazionale nel pensiero marxista, in «Rivista di Studi Politici», n. 1/2017, pp. 135-165.


(14) V. I. Lenin, Opere complete vol. XXXV, Editori Riuniti, Roma 1959, p. 172. A questa posizione di Lenin si opponevano Trotsky e la Luxemburg, i quali negavano a priori la possibilità di attribuire alla questione nazionale pari dignità rispetto a quella della lotta di classe.   


(15) In Economia della rivoluzione, raccolta di testi di Lenin a cura di V. Giacché, il Saggiatore, Milano 2017.


(16) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.


(17) Cfr. R. Di Leo, L'esperimento profano, Futura, Roma 2011.  


(18) Citazione tratta da A. G. Linera, Democrazia, Stato, Rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.


(19) Cfr. A. G. Linera, op. cit.


(20) Cfr. R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019.


(21) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019

(22) Cfr. D. Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci, Roma 2021.


(23) Cfr. R. Nunes, Neither Vertical nor Horizontal, Verso, London 2021.


(24) Cfr. V. I. Lenin, L'estremismo malattia infantile del comunismo,Edizioni Lotta Comunista, 2005.


(25) M.Porcaro, "Condizioni preliminari per l'azione efficace dei partiti della sinistra radicale in Europa", Contributo alla IV Conferenza europea della Fondazione Rosa Luxemburg, Varsavia, Ottobre 2003.


(26) Cfr. "Mimmo Porcaro: il partito connettivo"  https://bellaciao.org/it/Mimmo-Porcaro-il-partito-connettivo 


(27) Cfr. M. Porcaro,  "Occupy Lenin" https://www.infoaut.org/seminari/occupy-lenin-lultimo-saggio-di-mimmo-porcaro 


(28) Cfr. M. Porcaro, "Machiavelli 2017", https://contropiano.org/documenti/2017/04/07/machiavelli-2017-partito-connettivo-partito-strategico-090665 


(29) Vedi nota 6


(30) Negli ultimi anni Venti del 2000 il sottoscritto, assieme ad Alessandro Visalli, a Mimmo Porcaro e ad altri amici e compagni hanno tentato, a partire dal contesto problematico definito dai testi citati nelle ultime pagine di questo articolo, di dare vita a un processo aggregativo denominato "Nuova Direzione", tentativo fallito sia per l'acuirsi di una serie di fattori di crisi politica economica e culturale, sia per il sorgere di dissidi interni in merito alla tattica da seguire.     





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