Lettori fissi

domenica 16 giugno 2024

NON CI RESTA CHE DISTRUGGERE TUTTO
L'OCCIDENTE FALLITO GIOCA LA CARTA DELLA DISPERAZIONE 

di Alessandro Visalli



Pubblico questo fondamentale articolo di Alessandro Visalli che abbozza un quadro complesso e articolato delle dinamiche che influenzano la crisi sistemica che travaglia un Occidente collettivo in avanzata fase di declino, e spiega perché sta imboccando la via d'uscita - apparentemente folle ma di fatto obbligata - della guerra globale. 




Si intravede...


Comincia ad affacciarsi uno schema (1).  Il lungo ciclo, più che trentennale, nel quale in modo sostanzialmente sincrono con l’accelerazione del mondo unipolare negli anni Novanta e poi zero, intorno ad eventi altamente spettacolarizzati come il Protocollo di Kyoto (1997) e le successive COP, nel contesto delle denunce sempre più forti del IPPC circa l’incipiente cambiamento climatico, l’insorgenza della portante emozionale della lotta per un mondo più pulito ed equilibrato sembra essere sempre più sfidata da quella per un mondo più ‘democratico’, ovvero controllato dai Giusti. Si tratta, ovviamente, di due mobilitazioni dell’ansia, nelle quali la struttura è la medesima: il normale corso del mondo è minacciato da una crisi, da un avversario, che mette a repentaglio tutto, bisogna produrre una mobilitazione straordinaria prima che sia troppo tardi. Nessuno può volere altrimenti. Sembra, insomma, quasi che sia necessario un asse di orientamento per tenere in piedi il mondo nell’epoca del tramonto di tutti valori. Che una trascendenza si debba ogni volta imporre per colmare il vuoto nel quale cade, e da tempo, l’Occidente. 

Perché serve un nuovo schema? Cercandone le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il tramonto dell’egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente (2). Questo movimento, di portata storica, che arriva a conclusione di un ciclo di mezzo millennio, ha infatti conseguenze in ogni direzione, e talvolta inattese. Di una conseguenza inattesa vogliamo ora parlare, ma prima bisogna focalizzare qualche sfondo.


Una delle dimensioni della sconfitta (o del fallimento) è in direzione della pretesa, nutrita appunto da cinque secoli, di guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Può sembrare, a chi si sia formato nelle scuole dell’obbligo occidentali, con la loro specifica e intenzionale miopia, che in sostanza Occidente e modernità siano sinonimi, che la tecnica sia una conseguenza della rivoluzione scientifica e questa sia solo effetto del lavoro di alcuni geniali campioni (Galileo, Cartesio, Newton), tutti europei. Che quindi il potere e la ricchezza che l’Occidente ha conquistato sia un merito ed un diritto, che, anzi (supremo capolavoro) sia un regalo al mondo. Può derivarne che ci sia un quid (la tradizione greca? Quella latina? Il protestantesimo?) che è solo e proprio dell’Occidente che lo fa capace di dirigere il treno dell’umanità, una sorta di codice genetico (se pure culturale). Che, quindi, nessuno mai potrà eguagliarlo. 


Lo spettacolo del presente contraddice questa pretesa.


Proviamo a prendere ancora un poco di distanza e guardare dall’alto il punto in cui siamo: il mondo è intrappolato nelle conseguenze di un modo di essere e funzionare (preferisco questa formula alla più nota “modo di produzione”, che enfatizza troppo la produzione, con il suo portato di riduzionismo (3)) che sacrifica buona parte dell’umanità, e la stessa natura, alla creazione di valore astratto ed alla sua accumulazione come fonte del potere. 

Guardando la cosa a partire dall’esteriorità (ovvero dal piano fenomenico) abbiamo una violenta polarizzazione sociale nei ‘centri’ tradizionali, dinamizzati da flussi di segni di valore che tendono ad essere accumulati da ristrettissime élite, e che lasciano i più in condizioni di subalternità e degrado. Ed abbiamo un, anche più violento, sfruttamento della debolezza nelle ‘periferie’ interconnesse del “sistema mondo” (4). Ciò significa che nel “centro” prevalgono le condizioni economiche del “sottoconsumo” (5), mentre nelle “periferie”, o nei ‘centri’ sfidanti, prevale la “sovrapproduzione” (6). Dove, naturalmente, i termini “centro” e “periferia” non vanno pensati secondo il modello dei centri concentrici, ma sono intrecciati e spesso coesistono nel medesimo luogo. Il mondo è un luogo di squilibri. 

A connettere e rendere anche possibile la disgiunzione di una sovracapacità produttiva con un sottoconsumo è la finanza. Ovvero la traduzione dei rapporti sociali di dominazione dall’una come dall’altra parte in valore astratto che è scambiato su piattaforme estese all’intero pianeta e virtualmente prive di attriti (7). Più specificamente, sono gli effetti della costante riduzione dei tassi di interesse che hanno sostenuto, tramite l’espansione del debito e dei beni capitali come immobili e titoli, i consumi senza dover passare per il reddito a partire dagli anni Ottanta. In un contesto di riduzione degli investimenti in capitale fisso produttivo, determinato dalla competizione di modi di accumulare meno rischiosi sulla base del livello di concentrazione già raggiunto negli anni Sessanta e Settanta, questo ambiente economico ha determinato durante tutta la fase che si incuba negli anni Ottanta, per prendere struttura e velocità negli anni Novanta, la strana coesistenza di quota salari bassa e domanda alta. Tuttavia, la prima ha comportato una vasta sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. In questo senso abbiamo avuto ed abbiamo un mondo intrappolato in un’immane distruzione di energia umana e naturale, che la furia compulsiva di accumulazione di pochi mette sulla strada della sua distruzione. Due fattori cruciali rendevano possibile questo strano meccanismo: il continuo aumento del debito a fronte di una politica di erogazione di denaro espansiva; la centralità del dollaro che impediva ai tassi di interesse e al debito di diventare insostenibili. Chiaramente non funziona più. 


Sul piano tecnico lo schema generale della soluzione dovrebbe essere di rimettere in attività nei “centri”, creando buon lavoro e risolvendo il sottoconsumo, e avviare una necessaria distruzione controllata della sovracapacità (8) nelle “periferie”; trovando, al contempo un impiego utile alla sovracapitalizzazione che ingolfa le piazze finanziarie di tutto il mondo e che alimenta un disperato gioco alla prossima ‘bolla’ (9). Tutto questo, dal punto di vista dell’egemone occidentale sfidato, richiede di passare da una fase di ‘piccoli governi’ neoliberali al “Grande Governo”.

Il problema è che, nelle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche dell’Occidente, dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben sorvegliate mani, alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri finanziari, con qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi illimitati, non si può fare. La ragione è semplice: l’ultimo Rapporto Oxfam (10) mostra che le prime 150 multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti all’80% sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari di 800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi, o che i miliardari nel mondo (spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato negli ultimi soli tre anni il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le multinazionali che stanno ‘vincendo’ sono 14 compagnie petrolifere e del gas, che hanno triplicato i profitti fino a circa 200 miliardi di dollari, due marchi del lusso, con 10 miliardi, 22 società finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e pari a 36 miliardi, e 11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per 43 miliardi. Considerando i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da una società su centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale (80 milioni di persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la sola Apple ha un valore superiore al Pil della Francia. I primi cinque hanno un valore superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America Latina e dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock, State Street e Vanguard, insieme, hanno asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000 miliardi di dollari. 





Giovanni Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a punto uno schema interpretativo potente che vede lo sviluppo del sistema di produzione ed organizzazione ‘capitalista’ come una successione di ‘cicli’ per successiva espansione ed incorporazione in una dialettica tra “attori territoriali” e “attori economici”. Oppure, se si vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una “logica di potenza” ed una “logica capitalista”. Ancora in altre parole, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta concorrenza, allora i capitali generati vengono trattenuti in forma liquida, e non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove. Consentendo l’avvio di un ciclo di investimenti produttivi, l’incremento di efficienza e la distribuzione dei surplus accumulati.

Arrighi sposa qui, se pure in modo originale, la tesi di Marx per la quale nel modo di produzione capitalistico (dato che lo scopo è la produzione di capitale e non lo sviluppo delle forze produttive), il mezzo entra in conflitto [in particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine ristretto: la valorizzazione del capitale esistente (11). Il capitale entra dunque periodicamente in palese contraddizione con l’espansione materiale dell’economia-mondo (12), il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi (13)). 

A questo elevato livello di astrazione si può concludere che, nella dinamica che si genera tra la tendenza a ritirare il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto (14), e la sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto, ma, dice Arrighi, a potere o prestigio (15). 


Giovanni Arrighi




In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio potere.


Si tratta anche di una lotta per l’egemonia. 


La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge la leadership, che, come dicono Arrighi e Silver in Caos e governo del mondo (16), si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di interessi generali (17), questa capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza.


Questa divagazione mostra la questione in campo.


In definitiva una possibile via di uscita dalla crisi di sottoconsumo in Occidente e di sovrapproduzione incipiente in Oriente, che li portano in rotta di collisione, è di avviare una ‘distruzione controllata’ nella seconda area, per sgombrare la sovracapacità, e una serie di impieghi ‘distrattivi’ (rispetto alla logica ‘capitalista’) nella prima. Salvaguardando, ovviamente, e anzi trovando impieghi alla sovrabbondanza di capitali, in modo che non rischino un crollo per carenza di fiducia e quindi illiquidità. Ma un impegno di questa portata richiede necessariamente la costruzione di un’emergenza che metta a tacere gli ‘spiriti animali’ che guardano sempre a cortissimo raggio. Al contempo che mobiliti le coscienze. Qualcosa che sia in grado di ‘dare una direzione’ al mondo, di focalizzarne le emozioni e di promettere la salvezza.

Richiede soprattutto la produzione di egemonia, perché bisogna mettere a tacere questi ‘spiriti’, assai concretamente operativi.


Allora nel periodo 2000-20 la quadra, come fu negli anni Cinquanta la Guerra Fredda, veniva dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i capitali potevano forzatamente essere impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti l'iniziativa privata. In conseguenza, secondo questa influente e autorafforzante idea, nella parte diffusa della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia circolare’ si potevano impiegare i ‘superflui’, combattendo il sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si poteva riconvertire riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione. Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava “Keynesismo privatizzato” (18). Quindi, la riconversione ecologica e slogan come “Non c’è più tempo”, svolgevano sotto il profilo strutturale e socioeconomico questa funzione strutturale vista dal punto di vista delle élite.


In questo contesto, fino a questi ultimi anni, l'Unione Europea (lo sconfitto dentro il fallito, ed una delle più blindate roccaforti delle citate élite) ha sognato, come usualmente gli capita di porsi come guida di questa transizione ad un mondo pacifico e fondato su tecnologie smart e rinnovabili. Due pilastri reggevano questo sogno (o delirio, se preferite): la spinta interna a creare un grande mercato, che avviasse un ciclo di investimenti autosostenuto, e la dotazione di finanza attivata dalle opportunità. Entrambe le cose ci sono state, ma in misura episodica, incerta e insufficiente. Al contempo, però, i competitori sistemici (in particolare la Cindia) hanno seguito il medesimo piano, ma, al contrario della Ue lo hanno fatto davvero. Hanno creato un enorme mercato, i relativi campioni industriali, ed hanno mobilitato a tale scopo ciclopici investimenti pubblici e quindi anche privati. 


Hanno vinto, come si riconosce ormai ovunque.


La differenza, infatti, tra la carenza di azione e capitali, endemica in un sistema a trazione capitalista e monopolistico incapace di decidere (non ultimo per l'eccesso di concentrazione dei capitali e quindi per la cattura del sistema di decisione pubblico), e la loro disponibilità nei tempi necessari del sistema “Orientale”, è talmente vistosa che ormai tutti si rendono conto di non riuscire a competere (nelle tecnologie per le rinnovabili elettriche, negli accumuli, ora anche nell'automotive in cui ci rifugiamo nei dazi). Il confronto tra le disfunzionali società rette dalla valorizzazione privata, miope ed a cortissimo raggio, in quanto dominata dal cosiddetto ‘capitale fittizio’ (o finanziario, largamente astratto), verso le società comunitarie, capaci di direzione e capitalizzazione adeguata, porta al cambio di fase che si intravede.

Una rappresentazione plastica di questa situazione può essere ritrovata in questa immagine.



Le reti elettriche nel mondo, 2024.



Le reti elettriche di trasmissione in alta ed altissima tensione, mappate in questo sito (19), identificano la maggiore intensità di attività reali che ormai la Cina e l’India hanno raggiunto rispetto ad Europa ed Usa. Si noti, non è questione di popolazione, l’Africa è quasi assente, ma di attività energivore e di case moderne.


Per questo dalla fase in cui la soluzione era cercata attraverso uno sviluppo forzato degli investimenti (gara che abbiamo perso), si passa ad un’altra forma di “distruzione controllata” che è, contemporaneamente, anche una forma di missione e di scopo: alla guerra.


C’è però, una differenza.


Nel momento in cui l'Occidente collettivo va alla guerra servono diversi capitali, al posto di quelli della New Economy, bisogna ri-creare le condizioni della rivalsa del Grande Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare & Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone nell'avvio di millennio. Il GCI, allora, chiede e ottiene protezione. Anche questo significa passare da una fase “capitalista” ad una “territorialista”.

Questo conflitto tra capitali (la forma standard del modo di produzione capitalista) ha una rilevante conseguenza che si inizia a vedere: un allentamento delle retoriche della transizione e della modernizzazione smart e un relativo indebolimento delle relative politiche di spinta. L'emergere di controforze solo apparentemente volte alla mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con un’altra.


Già cinque anni fa, quando si affacciò il movimento di Greta Thunberg, in un post (20) avevamo scritto che restavano solo due alternative, o, due modalità di espansione della “logica territorialista” nelle condizioni concrete di potere ed egemoniche di un Occidente sempre più disperato e corrotto:


  • - gli investimenti di potenza militari (in espansione e tradizionalmente praticati, quando dal ‘keynesismo privatizzato’ del primo tipo si passa a quello ‘finanziario’ (21) e da questo, infine, terminati tutti gli escamotage, a quello “militare”);
  • - la deviazione dei capitali sulla lotta a qualche ‘nemico esterno’ che giustifichi impieghi “ineconomici” (ovvero il passaggio dal “keynesismo finanziario”, cioè l’economia del debito, al “keynesismo ambientale”). 


Bisogna essere chiari: entrambe le forme funzionano proprio perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il capitale in eccesso, facendo rientrare la “fase finanziaria” ormai senza uscita (per l’Occidente). Chi accusa la seconda forma di transizione forzata di essere irrazionale, in quanto distrugge capitale, non ne capisce la funzione sistemica e inconsapevolmente appoggia l’alternativa, la pura e semplice distruzione del mondo (sperabilmente nemico).

La cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza. Scoperto di avere perso siamo quindi passati, semplicemente, dallo schema per il quale si puntava a cambiare la “piattaforma tecnologica” (22), certi di essere i più bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto che non è così (che i Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna alle care vecchie armature. 

E’ per questo che le tecnologie della transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra non si può certo comprare dal nemico.


Quale la nostra agenda in questo tragico bivio? Sono convinto che la ricerca di una soluzione che non sia subalterna a questa costante ricerca dell’emergenza distrattiva, ma neppure alla sua semplice negazione oppositiva debba passare per i seguenti nodi:


  • - Ripensare l’Occidente in una comprensione multipolare e pluriculturale, che consapevolmente conduce a termine, nello spirito e nel concetto, la fase del dominio dell’ultimo mezzo millennio. Pensarsi eguali e non superiori.
  • - Immaginare la modernizzazione come cooperazione e non come lotta. Come confronto con l’Altro e la sua via, come pluralità di sentieri.
  • - Accogliere l’Altro come dono e non come un medesimo incompleto, superare l’autismo di una cultura incapace di guardarsi come parte del mondo, ma che si pensa come l’unico e vero mondo.
  • - Scegliere la traiettoria di uscita dalla trappola della finanziarizzazione che non comporti la distruzione del mondo. Che utilizzi il Grande Governo per impiegare il capitale sovrabbondante (e per lo più nominale o ‘fittizio’), sottraendolo al controllo di pochi, per nuovi cicli di investimento e distribuzione.
  • - Non farsi arruolare dai grandi giochi del capitale. Dal continuo gioco degli specchi, per il quale il nemico del GCI, viene venduto come il nostro.
  • - Unire le periferie. 
  • - Porre la questione di “cosa” e “perché” produrre. 
  • - Per quale uomo e quale vita.


Note


(1) Se dico ‘comincia ad affacciarsi’ intendo proprio che gli eventi degli ultimi anni sembrano materializzare lo spostamento emozionale dalla ricostruzione/rigenerazione che informa il periodo terminale degli anni Novanta, sincrono con l’ascesa dei nuovi competitori (ma quando non erano percepiti come minaccia, quanto come opportunità per riavviare o potenziare un ciclo economico e di modernizzazione), alla sconfitta/distruzione di un nemico esistenziale che è, contemporaneamente, anche un barbaro.  


(2) Si veda “La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”, Tempofertile 26 aprile 2024


(3) Se pure non attribuibile al testo di Marx, quanto alla sua ricezione.


(4) Uso questo termine nella tradizione di ricerca della “Scuola del sistema mondo”, oggetto del mio libro del 2020, Dipendenza, per Meltemi. 


(5) Effetto della carenza di domanda aggregata creata da una distribuzione delle risorse che finisce per spostarle verso la finanza interconnessa.


(6) Un eccesso di capacità produttiva che trova senso solo nella domanda esterna, determinando gli squilibri produttivi, commerciali e quindi finanziari che stanno squassando il mondo (da ultimo determinando anche i flussi migratori).


(7) Sul piano tecnico gli attriti sono ridotti dalla completa dematerializzazione del capitale, su quello tecnico dalla infrastruttura, enormemente energivora, della gestione dell’informazione, su quello normativo dalla deregolazione e dalla uniformazione.


(8) La simmetrica soluzione al sottoconsumo ed alla sovracapacità (ovvero il riequilibrio della estero-flessione, come dice ad esempio Dani Rodrik) è resa necessaria dall’equilibrio contabile d’area. Altrimenti l’investimento in un’area non riassorbirebbe i sottoconsumi, traducendosi in aggravamento della crisi fiscale e ulteriore estero-flessione e ipertrofia delle “periferie”. Lo schema porterebbe solo a maggiore finanziarizzazione ed aggravamento della crisi, quindi dello “stato di consolidamento” (Streeck) nel medio periodo. In altre parole, è un vincolo di “sistema mondo”.


(9) Per una delle migliori analisi di questi fenomeni, in un quadro categoriale keynesiano, si veda Massimo Amato, Luca Fantacci, Fine della finanza, Donzelli 2009.


(10) https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf  


(11) “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono”. Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, libro III, p. 350


(12) Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a questa tendenza è l’espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche, alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi “accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per attrarli a condizioni meno onerose.


(13) Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali, generando la contraddizione essenziale).


(14) A sua volta determinato per via di concorrenza. 


(15) Storicamente, nei vari cicli di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza i mercati, territori e popolazioni”.


(16) Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Torino 2003 (ed. or. 1999).


 (17) Ivi, p.30


 (18) Vedi Hyman Minsky, Keynes e l'instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed. or. 1975). 

(19)  https://openinframap.org/#2/20.59/-2.55 


(20) “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”, Tempofertile, 19 marzo 2019. - 


 (21) Per questo la classica analisi di Streeck “L’ascesa dello stato di consolidamento europeo”.  


(22) Chiamo "Piattaforma tecnologica" un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).

martedì 21 maggio 2024

LA GUERRA INFINITA DELL'OCCIDENTE AL TRAMONTO



Qualche settimana fa ho commentato su queste pagine il numero 3 della rivista Limes ("Mal d'America"), dedicato alla crisi egemonica degli Stati Uniti. L'appena uscito numero 4, dal titolo "Fine della guerra" (dove la parola fine va letta sia come il fine - lo scopo - che come la fine), che affronta nuovamente il tema da un altro punto di vista, mi è parso ancora più interessante, per cui credo sia giusto dedicargli un ulteriore riflessione. 

Come nel numero precedente, il punto di vista della rivista, pur critico nei confronti della (assenza di) strategia che caratterizza il modo in cui Stati Uniti ed Europa affrontano la duplice sfida di Russia e Cina, non è anti-occidentale. Si tratta piuttosto del tentativo di iniettare nel bagaglio ideale del blocco atlantico una robusta dose di realismo. Nel numero 3 si citavano come campioni di tale approccio personaggi quali George Kennan ed Henry Kissinger, due "monumenti" di un pensiero conservatore che mira al contenimento del nemico senza innescare una catastrofica Terza Guerra Mondiale. Nel numero 4 l'approccio viene riproposto, ma l'obiettivo di "moderare" il conflitto senza rinunciare ai propri obiettivi è qui associato, più che all'esempio di singole figure storiche, al paradigma di una disciplina, la geopolitica, che "educa al limite, frena le pulsioni più sconsiderate dei contendenti mentre li include nella stessa equazione in ossequio al principio di realtà" (la citazione è tratta dall'editoriale, cui mi riferirò qui in prevalenza, introducendo spunti da altri articoli che ne condividono lo spirito, mentre ignorerò quelli che esibiscono toni affini al mood propagandistico della stampa mainstream). 

Parto da una affermazione cruciale contenuta nell'editoriale: oggi la guerra non può più essere razionalizzata dal paradigma di Clausewitz, che la definiva come la continuazione della politica con altri mezzi. Il modello non funziona più perché la guerra "si è emancipata dalla politica". L'eclisse del politico, cioè dell'unico fattore in grado di determinare il fine della guerra, impedisce che se ne possa sancire la fine.  Introduco qui una prima riflessione critica. Più avanti vedremo come il carattere illimitato della guerra postmoderna venga associato al venire meno di un pensiero strategico occidentale ma, al tempo stesso, "Limes" non può né vuole rinunciare ad attribuire lo stesso peccato alla controparte: va bene criticare la logica bipolare buono/cattivo che ispira la propaganda occidentale, ma  ammettere che il "cattivo" siamo noi sarebbe chiedere troppo. Ecco perché, dopo Clausewitz, viene chiamato in causa il filosofo della violenza simmetrica, René Girard (1). Costui, com'è noto, teorizza che la radice della violenza interumana affonda nel "desiderio mimetico", cioè nell'identificazione con la (presunta o reale) volontà di potenza altrui. Si innesca così il meccanismo di "feedback positivo" analizzato da un altro autore di punta della scuderia Adelphi, Gregory Bateson (2). Un meccanismo imitativo che è replicabile all'infinito: violenza chiama violenza, "Fino a perdere il senso stesso della difesa e dell'attacco, dell'aggressore e della vittima". 



In questo modo si da per scontato che il "nemico" (Russia, Cina e tutti i popoli e le nazioni che si oppongono al dominio occidentale) sia mosso dalle nostre stesse pulsioni (volontà di potenza su tutte). Più avanti cercherò di mostrare come questo approccio, anche dandone per scontata la buona fede, sia frutto dell'incapacità di "vedere" l'altro. Eppure anche in questo "depistaggio" girardiano troviamo un passaggio rivelatore: l'uso illimitato della forza è sintomo "della tendenza all'estremo", scrive l'estensore dell'editoriale, che "da fine Settecento accelera il corso della storia". Genialità e cecità al tempo stesso della visione geopolitica: l'annotazione storica è più che azzeccata, ma come non cogliere che tendenza all'estremo e accelerazione temporale hanno a che fare anche e soprattutto con la cattiva infinità dell'accumulazione capitalistica? (3). 

Limes non coglie questa connessione ovvia per il punto di vista marxista, in compenso suggerisce che, tradotta in geopolitica, questa tendenza all'estremo ci parla del miraggio della occidentalizzazione del mondo "figlio della rivoluzione francese". Anche se sarebbe più corretto parlare di un parto della rivoluzione borghese, e non solo francese (perché non riconoscere i "meriti" delle rivoluzioni inglese e americana?), la scelta trova giustificazione nel fatto che i "diritti universali" (4) figli dell'89 parigino ed "esportati" in Europa sulla punta delle baionette delle armate napoleoniche, hanno affascinato l'idealismo hegeliano che vi ha scorto il compimento della storia umana (il "deragliamento della teleologia hegeliana" lo definisce l'editoriale di Limes). Dopo il crollo dell'Urss, che per quasi un secolo aveva messo in dubbio la narcisistica auto identificazione occidentale con il destino dell'umanità, Fukuyama (4) ha potuto rilanciare l'annuncio hegeliano. E' così scattata la trappola (vedi l'articolo di Fabrizio Maronta "L'incidente dell'Occidente") che "immagina il binomio democrazia liberale-capitalismo come forma definitiva e più alta della vicenda umana" e rafforza "la pericolosa convinzione che l'Occidente sia destino ineluttabile perché privo di alternative, dunque desiderabile da tutti e ovunque" (ibidem). 





Poco importa che più di meta dell'umanità non si dimostri impaziente di ricevere i nostri "doni". Se molte democrazie occidentali sono meno popolari di diverse autocrazie perché cinesi e russi (ma l'interrogativo vale per molti altri popoli) dovrebbero imitarci? L'interrogativo è cruciale perché - sorvolando su quella catalogazione del resto del mondo alla voce "autocrazie" - il fatto di non porselo fa sì che "noi occidentali continuiamo a concepire le guerre come estrema risorsa del progresso di cui ci siamo intitolati l'esclusiva". L'illimitismo dei limitati genera mostri, al punto che in nome dei diritti umani "ci si può anche suicidare con tutto il pianeta". 

La prospettiva del suicidio è tutt'altro che campata in aria, ove si consideri che, dopo la breve pausa in cui l'impero Usa ha potuto accarezzare il sogno di un dominio senza confini né alternative, è dopo che questo sogno è andato a sbattere contro un nuovo "muro" che non separa più Est da Ovest ma Nord da Sud, la reazione americana appare tanto folle quanto disperata. Folle perché non tiene conto di quel principio di realtà, in assenza del quale nessuna tregua (per tacere della pace) è negoziabile, disperata perché sopravvaluta la propria presunta superiorità a partire dal mancato riconoscimento del fatto (già messo in luce dal precedente numero della rivista) che "la potenza non dipende tanto dagli arsenali militari quanto dalla disponibilità di una collettività a battersi".  

Non dubito che qualche marxista "ortodosso" sarà a questo punto tentato di liquidare come "sovrastrutturali" le argomentazioni appena esposte, obiettando che io stesso le ho liquidate poco sopra, associando l'illimitatezza delle pulsioni imperiali a stelle e strisce al principio di illimitatezza che anima il processo di accumulazione capitalistico.  Perché inseguire fantasmi ideologici, dal momento che la ferocia con cui il blocco occidentale si precipita verso una Terza guerra mondiale è frutto della necessità imposta da una crisi economica di gravità tale che solo la guerra potrà risolverle? Replicherò a questo approccio meccanicista/economicista in sede di conclusioni. Prima intendo discutere gli altri due talloni di Achille (oltre a quello della sopravalutazione della propria superiorità militare) che indeboliscono il fronte occidentale, evidenziati dall'analisi di Limes: la perversione del principio di realtà da parte del principio di narrazione (storytelling) e il fondamentalismo religioso che si nasconde dietro l'esaltazione di presunti principi universali. 

L'articolo di Giuseppe De Ruvo ("La guerra postmoderna e il principio di irrealtà") punta il dito contro la svolta "narrativista" della nostra cultura. Si potrebbe dire che il suo ragionamento mette in luce un paradosso che chi scrive ha a più riprese evidenziato, criticando l'annuncio della fine dei grand récit di Jean François Lyotard (5): decretando la fine dei "grandi racconti" - o delle ideologie di emancipazione - gli accademici postmodernisti (e i loro volgarizzatori giornalistici) non hanno indebolito il potere suggestivo delle ideologie; lo hanno al contrario elevato all'ennesima potenza perché, relativizzando il valore di verità di tutti i discorsi, lo hanno rimpiazzato con le loro capacità "performative", cioè con la capacità di "produrre" verità, con buona pace del principio di realtà. "Il principio di realtà", scrive De Ruvo, "è stato assassinato dall'avvento dello storytelling e dal concetto di narrazione", per aggiungere qualche riga sotto: "viviamo ormai in uno 'storiverso', ovvero in un mondo in cui non si dà più analisi del reale...ciascuno si sceglie la narrazione che preferisce indipendentemente dalla sua aderenza ai fatti". La tragedia è che anche la guerra diventa narrazione slegata da ogni strategia, "tentativo di vincere la guerra raccontandola". 


Jean-François Lyotard



Purtroppo per gli Stati Uniti, la loro è una narrazione è fuori tempo: se il sogno americano non funziona più in casa, recita l'editoriale, figuriamoci se può funzionare fuori. Ma l'establishment a stelle e strisce non sembra preoccuparsene: continua a seminare il caos in nome di obiettivi tanto ambiziosi quanto irrealizzabili e finisce per credere alla sua stessa propaganda. Mentre politici e giornalisti europei, degradati a un ruolo ancillare nei confronti del partner d'oltreoceano, appaiono come cinici ripetitori di "verità"cui non credono, sull'altra sponda la propaganda assume infatti le vesti della fede. Il che ci porta all'eccezionalismo americano e alla sua radice fondamentalista, tema affrontato dall'articolo di Tony Smith ("La legge di Abramo"). Non è un caso, scrive Smith, se i destini di Usa e Israele appaiono strettamente intrecciati. Non è solo questione del ruolo di Israele in quanto cuneo politico-militare, avanguardia dell'imperialismo occidentale piantata nel cuore del Medio Oriente: il fatto è che Usa e Israele condividono le stesse attitudini teocratiche al puritanesimo, all'essenzialismo, all'eccezionalismo e al militarismo. Una comune cultura della vendetta (non della giustizia!) che è tratto distintivo dell'Antico Testamento: "i due paesi condividono attitudini religiose fondamentaliste per molti versi incompatibili con gli ideali democratici di eguaglianza e umanitarismo che pure ne informano la retorica". Una cultura, aggiungerei, che mentre trova espressione nel sincretismo della lobby neocons che mixa ispirazioni veterotestamentarie e calviniste, richiama alcuni tratti del fondamentalismo islamico, colorando di ipocrisia i discorsi che parlano di un ordine internazionale basato sul diritto.   

* * *

Vengo all'incapacità di vedere/riconoscere l'altro da sé che già sul precedente numero Limes addebitava all'Occidente in generale e agli Usa in particolare. Nel mio commento osservavo tuttavia che in molti articoli di quel fascicolo era riscontrabile la stessa incapacità (strutturale o intenzionale? Personalmente ritengo sia dovuta a entrambe le ragioni). Questo limite è ancora più evidente in questo nuovo numero. Il punto è la presunta simmetria fra i contendenti. Richiamavo sopra il riferimento a Girard e alla violenza mimetica: le idee di questo autore vengono usate per legittimare la tesi secondo cui la crescente resistenza del Sud globale all'impero euro-americano (più americano che euro) sarebbe causata dal fatto che la globalizzazione (oggi rigettata dall'America che l'aveva esaltata e difesa da una Cina che, secondo Limes, aspira a sua volta ad eleggersi a guida mondiale) avrebbe occidentalizzato i paesi emergenti, inducendoli ad adottare la stessa logica dell'Occidente. 

Nell'editoriale si cita una dichiarazione di Xi Jinping, proferita al fianco di Putin, in cui il presidente cinese diceva "stiamo vivendo cambiamenti che non abbiamo visto da cent'anni e noi li guidiamo insieme", dichiarazione che certificherebbe la volontà egemonica, simmetrica a quella del competitor americano, del dragone. Viene cioè ignorata come pura propaganda - narrazione simmetrica alle narrazioni occidentali - l'insistenza con cui il governo cinese sostiene di volersi impegnare nella costruzione di un mondo multipolare, in cui nessuna nazione possa arrogarsi il ruolo di egemone globale. Con lo stesso scetticismo viene accolto il discorso di Andrej Susenkov (decano della facoltà di relazioni internazionali dell'Università di Mosca), il quale, intervistato da Limes, attribuisce lo stesso obiettivo alla Russia, che "vuole che si arrivi a un nuovo sistema internazionale equilibrato, regolato da un principio di realismo e dalla consapevolezza di nuove condizioni che impediranno il dominio e l'egemonia di un unico paese", aggiungendo poco dopo che "Gli Stati Uniti non sono ancora in grado di rinunciare a una postura di dominio unilaterale dell'ordine internazionale", e rammaricandosi del fatto che l'Europa abbia smesso di agire in base ai propri interessi in ragione di un'autonomia sempre più limitata nei confronti degli Usa. 


Xi Jinping con Putin



E' evidente che i redattori di Limes, oltre a sottolineare la natura tattica e contingente della convergenza fra Russia e Cina, unite dalla necessità di far fronte all'aggressività americana ma divise da storie e interessi tradizionalmente conflittuali, non credono ai proclami di Mosca e Pechino, perciò, mentre invitano a scongiurare i rischi di escalation, propongono una variante aggiornata della teoria del contenimento di Kennan: l'idea è congelare il conflitto scommettendo sul fatto che una strategia attendista consentirebbe di sfruttare quella che definiscono "la freccia più acuta all'arco delle società aperte" vale a dire "il grande limite del decisionismo economico e più in generale del dirigismo", destinati alla lunga a mettere in crisi il progetto cinese. 

Questa speranza ci fa capire come nemmeno gli intellettuali più raffinati dell'establishment occidentale riescano a venire a capo del mistero cinese. Washington si era illusa che l'apertura cinese al mercato globale avrebbe indirizzato la Cina verso la fine del socialismo e la transizione alla liberal democrazia. Del resto il capitalismo americano non aveva forse goduto dei benefici della WalMart Economy (6), vale a dire della chance di usare il made in China come una droga per i lavoratori, mascherandone l'abbassamento del tenore di vita? Come è potuto succedere che questa sinergia cino-americana si sia rovesciata in un boomerang, creando le condizioni per la transizione della Cina da fabbrica del mondo a leader mondiale nei settori tecnologici avanzati e verso la conquista del primato negli investimenti diretti nel Terzo Mondo? Nemmeno Limes saprà rispondere a tale domanda finché resterà ancorata al dogma liberista della presunta superiorità delle "società aperte" rispetto alle economie miste ad alto intervento pubblico (il punto è che si pensa ancora alla Cina come a una variante del modello sovietico, ignorando l'alto tasso di flessibilità che le riforme della fine dei Settanta hanno introdotto nel meccanismo della pianificazione socialista (7)).

Altrettanto difficile sembra prendere atto del fatto che l'avversione cinese alla guerra non è un mero espediente propagandistico. Benché il nuovo numero di Limes ospiti un articolo di due accademici cinesi "americanizzati" (You Ji e Zhang Shu, "Pechino combatterà suo malgrado") nel quale si ribadisce che l'avversione alla guerra è una costante della lunga storia cinese, che anche i recenti conflitti di confine (India, Urss, Vietnam) hanno confermato che la Cina subordina gli obiettivi militari a quelli politici (i primi devono essere giustificabili e vantaggiosi, ma soprattutto limitati), e infine che la visione strategica della leadership cinese dà più importanza alla difesa che all'offesa. 

* * *

Concludo riprendendo, come promesso, il tema della idiosincrasia del marxismo ortodosso - leggasi meccanicista in filosofia ed economicista in materia storico sociale - nei confronti delle argomentazioni geopolitiche sul tipo di quelle appena analizzate. Il punto è che questo approccio è ancora impigliato nella opposizione schematica struttura/sovrastruttura, eredità mai smaltita del diamat staliniano. Secondo questa visione, le considerazioni di Limes sui punti deboli dell'Occidente, Usa in primis, come la sopravvalutazione della propria potenza militare, la perdita di senso di realtà generata dal paradigma postmoderno che rimpiazza i fatti con la narrazione, la fede religiosa nella propria missione di diffusione mondiale dei principi liberal democratici, ecc. sono puri orpelli ideologici che servono a mascherare gli interessi imperialistici del capitalismo a stelle e strisce. 

Questo approccio non dovrebbe più godere di alcuna legittimazione, dopo che il pensiero di due giganti del marxismo come Gramsci e Lukacs (per citare solo le figure più eminenti) ha restituito all'ideologia il suo carattere di potenza materiale, fondamento dell'egemonia delle classi dominanti non meno decisivo dei rapporti sociali di produzione nel determinare il corso della storia. La follia della strategia del caos americana, la determinazione suicida a spingere il conflitto fino alle soglie dell'olocausto nucleare, non si spiegano solo con gli interessi economici, con la necessità di fronteggiare la crisi con il keynesismo di guerra; oggi non si può guardare al rischio di conflitto mondiale con gli stessi occhiali con cui guardiamo alla Seconda guerra mondiale, perché una guerra totale non sarebbe più un mezzo per distruggere e successivamente ricostruire, riavviando il meccanismo inceppato dell'accumulazione, ma causerebbe la fine dell'umanità, capitalisti compresi. Da questo punto di vista spaventano assai di più le deliranti macchine propagandistiche di un Occidente che, come denuncia Limes, ha sostituito la realtà con i suoi sogni al limite del delirio mistico.

Ciò detto, è evidente che i deliri in questione possono prendere corpo perché la crisi capitalistica in corso è qualcosa di più di una banale crisi ciclica. Come scrive l'amico Alessandro Visalli in una mail che mi ha inviato qualche giorno fa (e che spero amplierà in un articolo da pubblicare su queste pagine) "Comincia ad affacciarsi uno schema. Cercandone le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il tramonto della egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente. Questo movimento, di portata storica, conclusione di un ciclo di mezzo millennio, ha conseguenze in ogni direzione e talvolta inattese". E più avanti, ragionando sul fatto che mentre il Nord del mondo "ha sognato di porsi come guida della transizione a un mondo fondato su tecnologie smart e rinnovabili", Cina e India lo hanno fatto, "mobilitando ciclopici investimenti pubblici e quindi anche privati", conclude che le nostre "disfunzionali società rette dalla valorizzazione privata, miope ed a cortissimo raggio" si rendono oggi conto di non riuscire a competere. Mi fermo qui, in attesa di ricevere il seguito di questa provocazione per avviare un dialogo più ampio e approfondito. 


Note

(1) Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.

(2) Cfr. G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.

(3) La "cattiva infinità" (rivisitazione marxiana di un concetto hegeliano) che anima il processo di accumulazione capitalistica è al centro dell'intera opera di Marx, il quale vi riconosce la causa ultima e inestirpabile delle crisi.

(4) A proposito dei cosiddetti diritti universali dell'uomo, che le rivoluzioni borghesi hanno elevato a principio assoluto, Marx scriveva che nessuno di essi "oltrepassa l'uomo egoista, l'uomo in quanto è membro della società civile,  cioè l'uomo ripiegato su sé stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità".   

(5) Cfr. J-F Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1980.

(6) Giovanni Arrighi, fra gli altri, ha analizzato la cosiddetta WalMart Economy in quanto dispositivo che, grazie ai prezzi contenuti dei prodotti cinesi importati in America e distribuiti dalla catena WalMart, ha permesso al capitale Usa di ridurre il costo di riproduzione della forza lavoro e di abbassare i salari senza provocare tensioni sociali. Su questa fase dell'interscambio cino-americano vedi, dello stesso Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.

(7) Sulle caratteristiche del socialismo in stile cinese vedi quanto ho scritto in Guerra e rivoluzione, vol. II ("Elogio dei socialismi imperfetti"), Capitolo Primo.  







 



 


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