Lettori fissi

lunedì 17 giugno 2024

LUCIANO CANFORA . UNO STORICO "SOVVERSIVO"

Per una lettura tendenziosa del "Dizionario politico minimo"



Luciano Canfora




Premessa


Il dizionario politico è un genere che l’editoria specializzata in Scienze Sociali ha proposto con una certa frequenza negli ultimi decenni, un fenomeno che può essere interpretato anche come reazione all’horror vacui generato dalla progressiva rimozione della politica - intesa come prassi orientata a cambiare lo stato presente delle cose - dall’orizzonte della realtà postmoderna, a mano a mano che viene surclassata da altre sfere dell’agire umano, a partire all’economia. Si tratta di un genere che non amo particolarmente, perché praticato perlopiù da accademici – filosofi, sociologi e politologi – che tendono a neutralizzare il carattere antagonistico del politico, “inscatolandolo” in lemmi infarciti di categorie astratte e trans-storiche (se non anti-storiche).


Ciò premesso, per i tipi di Fazi è appena uscito il “Dizionario politico minimo” di Luciano Canfora (a cura di Antonio Di Siena) (1), che ho invece decisamente apprezzato: in primo luogo, perché non si tratta di un “vero” dizionario, nel senso che il curatore, come spiega nella Introduzione, ha realizzato una lunga intervista a Luciano Canfora, articolandola su una cinquantina di parole chiave che, più che vere e proprie voci, sono “stazioni” di un percorso attraverso l’attualità storico-politica (2); in secondo luogo perché lo sguardo di Canfora, in quanto storico, si concentra sui fatti invece di perdersi in disquisizioni astratte; infine perché, grazie al lavoro del curatore (che pure attribuisce il merito alla chiarezza espositiva dell’intervistato), il testo risulta scorrevole e di gradevole lettura e - grazie anche alla lunghezza contenuta - si divora in poche ore. 


Quella che segue non è una recensione, bensì il tentativo di estrapolare dal libro quattro percorsi tematici (operazione esposta a inevitabili rischi di arbitrarietà e tendenziosità) che ho “ricavato” da una trentina voci (omettendo le altre) sfruttando le ridondanze e i legami incrociati che le interconnettono. Si tratta di quattro thread che evocano altrettanti grand reçit –  per usare la definizione di Jean-François Lyotard (3) – della modernità politica: democrazia, imperialismo, fascismo, sinistra.





1. Democrazia (vedi le voci democrazia, elezioni, élite, libertà, populismo, postdemocrazia, propaganda e libertà)


Ho esordito sottolineando come i filosofi siano spesso responsabili di definizioni trans storiche delle categorie politiche. Ciò è particolarmente vero nel caso del concetto di democrazia, che molti non esitano a descrivere come una categoria universale le cui “incarnazioni” storiche, dall’antica Grecia  ai giorni nostri, presenterebbero sostanziali affinità (4). Rispondendo alle sollecitazioni del curatore, Luciano Canfora si distanzia da questo approccio affermando a più riprese come il temine corrisponda a realtà concrete (storiche) radicalmente diverse nel tempo come nello spazio. In Atene, come nell’antica Roma, non è mai esistito qualcosa che possa essere anche lontanamente paragonato alle (differenti) forme di democrazia moderna, a meno che non si accetti l’idea che possano essere definite democratiche istituzioni che concedevano a un’infima minoranza la facoltà di partecipare al processo decisionale (ad alimentare l’equivoco, nota Canfora, ha contribuito la rappresentazione, da parte dei leader giacobini, della grande rivoluzione borghese come ritorno alle virtù politiche dell’antichità classica).  


Venendo ai giorni nostri, Canfora sfrutta le domande del curatore per demistificare l’operazione ideologica che interpone il doppio trattino del segno matematico di uguaglianza fra i termini di democrazia, libertà e capitalismo (libero mercato). Che democrazia e capitalismo stiano ai poli opposti di una contraddizione è evidente: mentre il secondo rivendica l’assoluto rispetto dell’interesse soggettivo, individuale (identificato con la libertà di iniziativa economica e la sacertà della proprietà privata), la prima si identifica con la decisione collettiva e la ricerca del bene comune. Quanto al carattere antitetico di democrazia e libertà (intesa come libertà dell’individuo da ogni forma di limitazione politica) non è stato solo Marx a evidenziarlo, dimostrando come l’uomo libero sia una mera astrazione filosofica (5), ma anche liberal borghesi come Alexis de Tocqueville, il quale ha anticipato (6) le preoccupazioni dei moderni fondatori del neo liberalismo (7) in merito ai rischi di “dittatura della maggioranza”.


I passaggi in cui emerge con chiarezza la maggiore lucidità dello sguardo storico rispetto alle letture sovradeterminate dall’astrazione filosofica e/o dall’ideologia sono, a mio avviso, soprattutto quelli dedicati al tema del rapporto fra democrazia e rappresentanza elettorale. Canfora cita l’illusione (condivisa dagli stessi padri fondatori del marxismo) secondo cui l’avvento del suffragio universale avrebbe determinato l’automatico capovolgimento dei rapporti di forza nella rappresentanza politica (e quindi nei rapporti di classe). L’illusione socialista trovava riscontro nella preoccupazione delle controparti borghesi che, com’è noto, fecero di tutto per ritardare l’estensione del suffragio. Per rendersi tuttavia conto, a “catastrofe” avvenuta, di poter agevolmente catturare il consenso dei ceti intermedi che coltivano l’illusione di poter entrare a  far parte della élite. 


Nel contempo i cultori dell’illusione “elezionista” venivano indotti a prendere atto della dura realtà che Lenin e Gramsci hanno contribuito, fra gli altri, a svelare: le idee delle classi dominanti diventano le idee dominanti di tutto (o della grande maggioranza del) popolo. Un meccanismo che rispecchia una banale verità: chi ha la forza (e gli strumenti: controllo dei mezzi di comunicazione, risorse economiche per alimentare massicce campagne propagandistiche, ecc.) per plasmare l’opinione pubblica è inesorabilmente destinato a vincere (con buona pace dei teorici della comunicazione che teorizzano la relativa autonomia dell’opinione pubblica dagli input mediatici (8)). 


Dove non arriva l’egemonia culturale si provvede a manipolare le regole del gioco: dal doppio turno che taglia fuori dalla competizione le “ali estreme” (vedi il caso francese), ai dispositivi truccati made in Usa che governano la “più grande democrazia del mondo” (denunciati, fra gli altri, da Bernie Sanders (9)), studiati per far sì che la rappresentanza sia sistematicamente monopolizzata dalla minoranza dei super ricchi, alle riforme “maggioritarie” che nel nostro Paese hanno affossato il sistema proporzionale per calpestare la volontà popolare e incentivare l’astensione. Insomma: siamo  lontani anni luce dalla grande illusione che fra fine Ottocento e inizio Novecento aveva sognato di seppellire le élite borghesi sotto una montagna di voti. Al punto che Canfora può ironizzare sul termine postdemocrazia coniato da Colin Crouch (10), definendolo come un concetto superato dalla realtà prima ancora che riuscisse ad affermarsi nel dibattito teorico-politico. 


Poco sopra citavo l’importanza del ruolo dei ceti medi nel garantire la difficilmente sormontabile (se non insormontabile) base di consenso alle élite dominanti. Canfora cita in proposito la proliferazione di nuovi strati di classe (sia verso l’alto che verso il basso, a smentita della previsione marxiana di una crescente polarizzazione operai/capitale) – fenomeno che contribuisce ad aumentare la complessità della lotta per la conquista del consenso e che, d’altra parte, può aprire  spiragli di contendibilità del potere in situazioni di crisi istituzionale. Ecco perché non si allinea al coro di condanne per il “populismo”. Nella suddetta situazione di articolazione della composizione di classe, argomenta, la parola popolo non rappresenta un arretramento ideologico rispetto alla parola classe, ma può anzi contribuire ad assemblare tutti questi segmenti in un nuovo progetto politico (11). Di qui la repulsione che suscita nelle stanze del potere costituito.      



2. Imperialismo (vedi le voci Cina, decolonizzazione, globalizzazione, internazionalismo, imperialismo, mondo multipolare, nazione, patria, rivoluzione, sovranità)


Ricavare da una serie di passaggi disseminati in varie parti dell’intervista un abbozzo di teoria dell’imperialismo sarebbe troppo (del resto non è quanto possiamo pretendere da un testo che nutre ambizioni più limitate). Eppure, scavando qua e là, è possibile evidenziare una rete di spunti significativi. Provo a sintetizzarli attraverso il seguente schema per punti.


a) In primo luogo Canfora valorizza la torsione - il salto di paradigma - che Lenin ha imposto alla teoria marxista. E’ vero che molti vedono nel Manifesto una geniale anticipazione del processo che oggi chiamiamo globalizzazione, ma non andrebbe dimenticato che Marx “vide e descrisse un mondo di 150 anni fa”, mentre fu Lenin a diagnosticare la realtà specifica dell’imperialismo in quanto espressione del tardo capitalismo e delle sue forme politiche, oltre che economiche. In particolare, Lenin era consapevole del fatto che nei centri metropolitani anche le classi subalterne partecipano del beneficio associato allo sfruttamento delle colonie – fenomeno che Marx intuì allorché fu indotto a prendere atto di come l’oppressione inglese ai danni dell’Irlanda rendesse impossibile una rivoluzione proletaria in Inghilterra, e che la scuola della dipendenza (12) ha approfondito a partire dal secondo dopoguerra. In Lenin questa presa di coscienza si traduce nella esaltazione del ruolo strategico delle lotte di liberazione nazionale nella lotta anticapitalista mondiale - tanto che, dopo il fallimento della rivoluzione in occidente, inizia a guardare all’Asia per conservare la speranza di una rivoluzione mondiale. 


b) A partire dal nodo appena evidenziato, Canfora fa un’affermazione forte che ribalta le letture dogmatiche (sia quelle nostalgico-agiografiche, sia quelle liquidatorie) dell’esito della Rivoluzione russa: quel grande evento storico, argomenta, non coincise con l’avvento del socialismo mondiale, bensì con il risveglio dell’Asia e poi di altri mondi dipendenti, in poche parole fu la scintilla che innescò il processo di decolonizzazione. A svelare la verità storica di quella svolta epocale è l’evoluzione della Rivoluzione cinese: dopo i disastri del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale – associati al sogno maoista di una transizione diretta dal sottosviluppo al socialismo – subentra il denghismo, che può essere descritto come una gigantesca NEP (13) (imposta, come quella voluta da Lenin mezzo secolo prima, della necessità di passare attraverso una fase caratterizzata dal capitalismo di stato e dalla reintroduzione di robuste dosi di economia di mercato). E’ ancora possibile parlare di socialismo? Canfora – contrariamente a chi scrive (14) – non si esprime chiaramente in merito, preferendo parlare di “socialismo nazionale” e accostando la via cinese a quella imboccata, fra gli altri, da Tito, Castro e Chavez, che definisce una scelta obbligata per chi voglia ottenere il consenso di popolazioni che aspirano all’emancipazione e al riscatto nazionale.


Deng Xiaoping 



c) Che la decolonizzazione sia di necessità patriottica, che il concetto di patria sia un carburante strategico della mobilitazione antimperialista, e che tutte le lotte di liberazione nazionale siano culminate nella nascita di nuovi stati-nazione, sono elementi indigesti per una sinistra occidentale ancorata al concetto astratto di internazionalismo. Purtroppo, annota Canfora, con un’altra delle affermazioni forti che rappresentano il meglio di questo dizionario-intervista, occorre ammettere che i soli, veri internazionalisti sono le classi dominanti, per le quali la dimensione mondiale, transnazionale, globale o comunque la si voglia definire, è il terreno ideale su cui sono certe di sconfiggere le classi subalterne, per le quali è invece lo stato nazionale l’unica dimensione in cui è possibile difendere i propri interessi e governare la società in caso di conquista del potere. La bandiera dell’internazionalismo, ove innalzata da una nazione in cui la rivoluzione ha vinto, rischia di legittimare operazioni imperialiste: dall’internazionalismo giacobino trasformato in imperialismo francese da Napoleone, all’internazionalismo socialista trasformato in imperialismo russo da Stalin. Quanto alle sinistre radicali nostrane e alla loro ideologia antistatalista e antinazionale, Canfora cita il loro fallimento di fronte alla tragedia del neocolonialismo, testimoniato dalla liquidazione sprezzante delle lotte dei popoli periferici in quanto “terzomondiste”, così come cita l’ideologia operaista della “fine del lavoro”, evidenziandone la complicità di fatto con il neocolonialismo: l’illusione che la fase del non lavoro sia a portata di mano, argomenta, è espressione di una situazione di benessere, “del privilegio di aree che se la passano bene”.



3. Fascismo (vedi le voci antifascismo, fascismo, Hitler, Mussolini, nazionalsocialismo, Quaderni dal carcere)


Non credo di essere lontano dal vero nell’affermare che l’analisi di Canfora sul fenomeno fascista deve molto al concetto gramsciano di rivoluzione passiva. Concetto che le sinistre e la filologia gramsciana dei marxisti accademici ha depotenziato offrendone una lettura dottrinale, astratta (associandola cioè alla capacità “in generale” delle élite conservatrici di risolvere una crisi catturando il consenso della classi subalterne attraverso una propaganda demagogica fondata su parole d’ordine “popolari”). Viceversa Canfora “incarna” questo modello astratto nella storia concreta delle “rivoluzioni” fascista e nazista. Non ignora cioè il fatto che sia i fascisti che i nazisti si presentarono alle origini come movimenti anticapitalisti. Il programma dei fasci del 1919, scrive in particolare, presentava caratteri non definibili altrimenti che sovversivi (non a caso, il Partito Comunista in clandestinità rivolse nel 36 un appello – che le nostre sinistre non amano ricordare – “ai fratelli in camicia nera”). 


Mussolini socialista



Quanto al nazional socialismo, il secondo termine dell’endiadi non fu scelto a caso, ma servì a evocare l’interconnessione programmatica fra difesa degli interessi nazionali e politiche sociali. Un accostamento che le forze social-comuniste aborrivano in quanto contrario ai dogmi dell’internazionalismo. Così Mussolini potè presentarsi come un socialista che tributava il dovuto rispetto al sacrificio delle masse popolari che avevano pagato un pesante tributo di sangue nel corso del Primo conflitto mondiale, mentre i comunisti si alienavano le simpatie dei reduci denunciando come “inutile” e privo di senso quel sacrificio (vedi il demenziale settarismo che impedì ai comunisti di accettare le profferte di alleanza degli Arditi del Popolo e vedi, aggiungerei, le critiche che il leader bolscevico Karl Radek rivolse del KPD, per non avere saputo contendere ai nazisti la capacità di mobilitare la rabbia del popolo tedesco contro le condizioni capestro imposte alla Germania dalle potenze vincitrici (15)). Dipingendo Mussolini come un pagliaccio e Hitler come un folle si sottovaluta la loro abilità politica nello sfruttare l’interesse nazionale come leva di mobilitazione di massa, così come si rimuove il fatto che nemmeno la componente “socialista” delle rivoluzioni passive in Italia e Germania è riducibile a mera propaganda: a modo loro, argomenta Canfora, l’IRI e le industrie a partecipazione statale hanno rappresentato una forma di “stato sociale” autoritario, e la politica economica del Terzo Reich, potremmo aggiungere, fu caratterizzata da aspetti non meno “keynesiani” di quelli del New Deal d’oltreoceano.



4. Sinistra (vedi le voci costituzione, diritti, Manifesto, Marx, politicamente corretto, sinistra, sovranità)


Si è visto come Canfora, parlando di democrazia, ponga l’accento sui diversi significati che il termine ha assunto nel tempo (e assuma nel contesto dei differenti approcci ideologici di chi lo evoca). Analogamente, sollecitato a definire il significato della parola sinistra, esordisce affermando che, quando parliamo di sinistra, “non abbiamo ben chiaro di cosa stiamo parlando”. La nebulosità semantica di un concetto storicamente associato (associazione che risale però a epoche lontane) a partiti e movimenti politici che si propongono di promuovere gli interessi delle classi subalterne, è ormai divenuta tale da poter fungere da abito pretaporter per i soggetti più improbabili. 


Mi limito qui a mettere in evidenza tre giudizi – più o meno espliciti – contenuti nel discorso che Canfora dedica all’argomento in alcuni passaggi del suo “dizionario minimo”. Il primo riguarda il percorso storico che ha condotto quello che è stato il più grande partito comunista occidentale a suicidarsi prima e a trasformarsi in una formazione liberale poi. La grande svolta ideologica che Togliatti ha imposto al PCI nel secondo dopoguerra,  riassumibile nei concetti di democrazia progressiva e riforme strutturali, ha offerto una cornice ideale – anche se non ha direttamente legittimato – che i suoi successori hanno sfruttato per imboccare una strada che ha fatto di quel partito un partito radicale di massa che si occupa dei diritti civili e trascura i diritti sociali. Questa mutazione è associata al processo parallelo – in questo caso di tipo strutturale e non ideologico – avvenuto nella composizione di classe del nostro Paese (e più in generale nei Paesi occidentali, non meno interessati al fenomeno dell’eclissi delle sinistre). Si tratta del processo già evocato nelle voci analizzate in precedenza: vale a dire la mostruosa dilatazione delle classi medie, enfiatesi fino costituire un corpaccione enorme che comprende “aristocrazie operaie, borghesia decaduta, libere professioni, crimine organizzato, lobbismo, clientele parlamentari” ecc. Le forze social-comuniste non sapendo analizzare né potendo arginare tale mutazione, vi si sono semplicemente adattate, cambiando il proprio bacino elettorale di riferimento (sappiamo bene, annota Canfora, che quella che un tempo si chiamava sinistra, e oggi propugna i diritti civili come principale battaglia, è oggi prevalentemente composta di benestanti).  


La svolta della Bolognina



Del resto, il riferimento sociale appena evocato vale anche per quella “nuova sinistra” che, nella seconda metà del secolo scorso, si è auto eletta ad alternativa rivoluzionaria della sinistra tradizionale. Forse è per questo che il giudizio di Canfora sulla cosiddetta New Left è ancora più severo: si è trattato, afferma lapidariamente, di “una rinascita dell’anarchismo in  forma puerile”. Il che è dimostrato dalla scelta di rivendicare, in contrapposizione al realismo e all’opportunismo delle formazioni “revisioniste”, la messa in pratica degli aspetti più datati (resi insostenibili dalla realtà storica) dell’utopia marxista. Parliamo dell’idea che ci possa essere una fine della storia, che lo stato si estingua e il lavoro si dissolva. Sposando questa utopia, commenta Canfora, lo stesso Marx finì per identificarsi con quei socialisti utopisti e anarchici contro i quali tanto aveva tuonato. Contro questa visione ottocentesca, Canfora ribadisce la propria convinzione che la storia non  finirà ma continuerà ad articolarsi in una serie di conflitti sempre diversi fra loro. 


Concludo con una questione dalla quale non mi è facile estrapolare un chiaro giudizio dell’autore (come ho fatto sin qui, forse forzandone talvolta le intenzioni). Mi riferisco ai passaggi in cui Canfora allude al presunto carattere “eversivo” della nostra Carta costituzionale. In quanto storico, non può non evocare il compromesso fra le diverse forze politiche che hanno contribuito alla sua stesura – compromesso che rispecchiava gli equilibri post bellici fra i due blocchi cui appartenevano le potenze vincitrici. Ciò premesso, ammette che, se uno volesse applicare l’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) dovrebbe instaurare una vera e propria rivoluzione sociale; così come ammette che il contenuto dell’articolo 5, che sancisce il principio secondo cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la effettiva partecipazione  del lavoratore all’organizzazione politica del paese”, è senza dubbio eversivo rispetto ai principi che reggono l’attuale ordine economico, sociale e politico Ciò vuol dire che condivide la tesi, cara ai militanti di ciò che resta delle sinistre radicali, secondo cui un programma anticapitalista potrebbe essere ancora oggi sintetizzato nella richiesta di mettere in pratica i primi articoli della Carta del 48? 


Come detto poco sopra, non so dare una risposta inequivoca a tale interrogativo (o forse non sono riuscito a coglierla in ciò che ho letto). Quel che mi pare certo è che Canfora, ragionando sulla progressiva esautorazione del dettato costituzionale da parte di governi che applicano pedissequamente le decisioni della UE, prende atto che il nostro Paese (come gli altri membri della Comunità) si ritrova oggi sotto il giogo di quella che è “a tutti gli effetti una carta che viene dall’alto e fa strame delle costituzioni nazionali”. E’ per questo che la questione della sovranità azionale appare ineludibile per qualsiasi progetto politico che si proponga di ricreare condizioni minime per poter intervenire sui rapporti di forza fra le classi sociali, in barba agli anatemi che partiti e media di regime, ma anche certi sedicenti oppositori radicali, lanciano quotidianamente contro il cosiddetto “sovranismo”.


Note


(1) Luciano Canfora, Dizionario politico minimo, (a cura di Antonio Di Siena), Fazi, Roma 2024.


(2) E’ una soluzione simile a quella che chi scrive ha adottato qualche anno fa curando un film-intervista con Mario Tronti, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo “Abecedario”.


(3) J-F Lyotard, La condizione postmoderna (trad. di Carlo Formenti), Feltrinelli, Milano 1980.


(4) Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano2019) cito un esempio tipico di questa tendenza dei filosofi a postulare una continuità sostanziale fra antica Grecia e mondo moderno (europeo), un filo rosso che legherebbe la civiltà greca all’Europa contemporanea, e più in generale all’Occidente, e marcherebbe a una netta distinzione fra nazioni e popoli “filosofici” e resto del mondo. Vedi il mio commento (pp. 187 e segg.) all’articolo di Roberto Esposito “Europa e filosofia” (aut aut, n. 378, 2018).


5) Per Marx l’uomo libero della società borghese è “l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità” (Opere scelte,Editori Riuniti, Roma, pp.961-962.


(6) Vedi le considerazioni critiche di Tocqueville sull’eccesso di democrazia che caratterizza le istituzioni americane in La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.


(7) L’autore contemporaneo che con più radicalità ha denunciato “l’eccesso di pretese” associato alla democrazia moderna è il guru del pensiero neoliberale Friedrich von Hayek (vedi, fra le altre opere, La società libera, Rubettino 2011).


(8) A sostenere la tesi secondo cui l’effetto manipolatorio dei media sarebbe assai meno efficace di quanto si creda sono stati, fra gli altri, autorevoli filosofi e sociologi della comunicazione di casa nostra, da Umberto Eco ad Alberto Abruzzese.


(9) Mi riferisco, in particolare alle critiche che Bernie Sanders rivolge alle procedure delle elezioni presidenziali americane (vedi Un outsider alla Casa Bianca, Jaka Book, Misano 2016).


(10) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.


(11) Sul dibattito teorico interno alle sinistre in merito al concetto di populismo, innescato dalle tesi del filosofo argentino Ernesto Laclau (vedi La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008 e Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017) chi scrive è intervenuto più volte (vedi Il socialismo è morto...op. cit. e Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023).


(12) Cfr. A. Visalli, Dipendenza,Meltemi, Milano 2020.


(13) Per un’accurata ricostruzione della storia della rivoluzione cinese e delle riforme postmaoiste degli anni Settanta, vedi D. A. Bertozzi, Cina Popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, l’Antidiplomatico 2021. Sulla NEP nella Russia rivoluzionaria dei primi anni venti, vedi fra gli altri R. di Leo, L'esperimento profano, Futura, Roma 2011, vedi anche l’antologia degli scritti economici di Lenin curata da Vladimiro Giacché L’economia della rivoluzione, il Saggiatore, Milano 2017.


(14) Ho espresso le mie idee - che risentono apertamente delle tesi espresse da Giovanni Arrighi nel suo capolavoro Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, Milano 2007) - sulla natura socialista dell’esperimento cinese nel secondo volume (“Elogio dei socialismi imperfetti”) di Guerra e rivoluzione, op. cit.


(15) Radek sostenne che i comunisti tedeschi avrebbero dovuto difendere gli interessi della Germania prostrata dalle condizioni imposte dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, rivolgendo la rabbia popolare contro la borghesia nazionale (complice di quelle vincitrici e colpevole di avere trascinato il paese in guerra), a differenza dei nazisti che negavano la lotta di classe attribuendo agli ebrei la responsabilità del disastro.

 

 


 


 






 








  

domenica 16 giugno 2024

NON CI RESTA CHE DISTRUGGERE TUTTO
L'OCCIDENTE FALLITO GIOCA LA CARTA DELLA DISPERAZIONE 

di Alessandro Visalli



Pubblico questo fondamentale articolo di Alessandro Visalli che abbozza un quadro complesso e articolato delle dinamiche che influenzano la crisi sistemica che travaglia un Occidente collettivo in avanzata fase di declino, e spiega perché sta imboccando la via d'uscita - apparentemente folle ma di fatto obbligata - della guerra globale. 




Si intravede...


Comincia ad affacciarsi uno schema (1).  Il lungo ciclo, più che trentennale, nel quale in modo sostanzialmente sincrono con l’accelerazione del mondo unipolare negli anni Novanta e poi zero, intorno ad eventi altamente spettacolarizzati come il Protocollo di Kyoto (1997) e le successive COP, nel contesto delle denunce sempre più forti del IPPC circa l’incipiente cambiamento climatico, l’insorgenza della portante emozionale della lotta per un mondo più pulito ed equilibrato sembra essere sempre più sfidata da quella per un mondo più ‘democratico’, ovvero controllato dai Giusti. Si tratta, ovviamente, di due mobilitazioni dell’ansia, nelle quali la struttura è la medesima: il normale corso del mondo è minacciato da una crisi, da un avversario, che mette a repentaglio tutto, bisogna produrre una mobilitazione straordinaria prima che sia troppo tardi. Nessuno può volere altrimenti. Sembra, insomma, quasi che sia necessario un asse di orientamento per tenere in piedi il mondo nell’epoca del tramonto di tutti valori. Che una trascendenza si debba ogni volta imporre per colmare il vuoto nel quale cade, e da tempo, l’Occidente. 

Perché serve un nuovo schema? Cercandone le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il tramonto dell’egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente (2). Questo movimento, di portata storica, che arriva a conclusione di un ciclo di mezzo millennio, ha infatti conseguenze in ogni direzione, e talvolta inattese. Di una conseguenza inattesa vogliamo ora parlare, ma prima bisogna focalizzare qualche sfondo.


Una delle dimensioni della sconfitta (o del fallimento) è in direzione della pretesa, nutrita appunto da cinque secoli, di guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Può sembrare, a chi si sia formato nelle scuole dell’obbligo occidentali, con la loro specifica e intenzionale miopia, che in sostanza Occidente e modernità siano sinonimi, che la tecnica sia una conseguenza della rivoluzione scientifica e questa sia solo effetto del lavoro di alcuni geniali campioni (Galileo, Cartesio, Newton), tutti europei. Che quindi il potere e la ricchezza che l’Occidente ha conquistato sia un merito ed un diritto, che, anzi (supremo capolavoro) sia un regalo al mondo. Può derivarne che ci sia un quid (la tradizione greca? Quella latina? Il protestantesimo?) che è solo e proprio dell’Occidente che lo fa capace di dirigere il treno dell’umanità, una sorta di codice genetico (se pure culturale). Che, quindi, nessuno mai potrà eguagliarlo. 


Lo spettacolo del presente contraddice questa pretesa.


Proviamo a prendere ancora un poco di distanza e guardare dall’alto il punto in cui siamo: il mondo è intrappolato nelle conseguenze di un modo di essere e funzionare (preferisco questa formula alla più nota “modo di produzione”, che enfatizza troppo la produzione, con il suo portato di riduzionismo (3)) che sacrifica buona parte dell’umanità, e la stessa natura, alla creazione di valore astratto ed alla sua accumulazione come fonte del potere. 

Guardando la cosa a partire dall’esteriorità (ovvero dal piano fenomenico) abbiamo una violenta polarizzazione sociale nei ‘centri’ tradizionali, dinamizzati da flussi di segni di valore che tendono ad essere accumulati da ristrettissime élite, e che lasciano i più in condizioni di subalternità e degrado. Ed abbiamo un, anche più violento, sfruttamento della debolezza nelle ‘periferie’ interconnesse del “sistema mondo” (4). Ciò significa che nel “centro” prevalgono le condizioni economiche del “sottoconsumo” (5), mentre nelle “periferie”, o nei ‘centri’ sfidanti, prevale la “sovrapproduzione” (6). Dove, naturalmente, i termini “centro” e “periferia” non vanno pensati secondo il modello dei centri concentrici, ma sono intrecciati e spesso coesistono nel medesimo luogo. Il mondo è un luogo di squilibri. 

A connettere e rendere anche possibile la disgiunzione di una sovracapacità produttiva con un sottoconsumo è la finanza. Ovvero la traduzione dei rapporti sociali di dominazione dall’una come dall’altra parte in valore astratto che è scambiato su piattaforme estese all’intero pianeta e virtualmente prive di attriti (7). Più specificamente, sono gli effetti della costante riduzione dei tassi di interesse che hanno sostenuto, tramite l’espansione del debito e dei beni capitali come immobili e titoli, i consumi senza dover passare per il reddito a partire dagli anni Ottanta. In un contesto di riduzione degli investimenti in capitale fisso produttivo, determinato dalla competizione di modi di accumulare meno rischiosi sulla base del livello di concentrazione già raggiunto negli anni Sessanta e Settanta, questo ambiente economico ha determinato durante tutta la fase che si incuba negli anni Ottanta, per prendere struttura e velocità negli anni Novanta, la strana coesistenza di quota salari bassa e domanda alta. Tuttavia, la prima ha comportato una vasta sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. In questo senso abbiamo avuto ed abbiamo un mondo intrappolato in un’immane distruzione di energia umana e naturale, che la furia compulsiva di accumulazione di pochi mette sulla strada della sua distruzione. Due fattori cruciali rendevano possibile questo strano meccanismo: il continuo aumento del debito a fronte di una politica di erogazione di denaro espansiva; la centralità del dollaro che impediva ai tassi di interesse e al debito di diventare insostenibili. Chiaramente non funziona più. 


Sul piano tecnico lo schema generale della soluzione dovrebbe essere di rimettere in attività nei “centri”, creando buon lavoro e risolvendo il sottoconsumo, e avviare una necessaria distruzione controllata della sovracapacità (8) nelle “periferie”; trovando, al contempo un impiego utile alla sovracapitalizzazione che ingolfa le piazze finanziarie di tutto il mondo e che alimenta un disperato gioco alla prossima ‘bolla’ (9). Tutto questo, dal punto di vista dell’egemone occidentale sfidato, richiede di passare da una fase di ‘piccoli governi’ neoliberali al “Grande Governo”.

Il problema è che, nelle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche dell’Occidente, dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben sorvegliate mani, alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri finanziari, con qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi illimitati, non si può fare. La ragione è semplice: l’ultimo Rapporto Oxfam (10) mostra che le prime 150 multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti all’80% sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari di 800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi, o che i miliardari nel mondo (spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato negli ultimi soli tre anni il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le multinazionali che stanno ‘vincendo’ sono 14 compagnie petrolifere e del gas, che hanno triplicato i profitti fino a circa 200 miliardi di dollari, due marchi del lusso, con 10 miliardi, 22 società finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e pari a 36 miliardi, e 11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per 43 miliardi. Considerando i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da una società su centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale (80 milioni di persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la sola Apple ha un valore superiore al Pil della Francia. I primi cinque hanno un valore superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America Latina e dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock, State Street e Vanguard, insieme, hanno asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000 miliardi di dollari. 





Giovanni Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a punto uno schema interpretativo potente che vede lo sviluppo del sistema di produzione ed organizzazione ‘capitalista’ come una successione di ‘cicli’ per successiva espansione ed incorporazione in una dialettica tra “attori territoriali” e “attori economici”. Oppure, se si vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una “logica di potenza” ed una “logica capitalista”. Ancora in altre parole, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta concorrenza, allora i capitali generati vengono trattenuti in forma liquida, e non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove. Consentendo l’avvio di un ciclo di investimenti produttivi, l’incremento di efficienza e la distribuzione dei surplus accumulati.

Arrighi sposa qui, se pure in modo originale, la tesi di Marx per la quale nel modo di produzione capitalistico (dato che lo scopo è la produzione di capitale e non lo sviluppo delle forze produttive), il mezzo entra in conflitto [in particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine ristretto: la valorizzazione del capitale esistente (11). Il capitale entra dunque periodicamente in palese contraddizione con l’espansione materiale dell’economia-mondo (12), il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi (13)). 

A questo elevato livello di astrazione si può concludere che, nella dinamica che si genera tra la tendenza a ritirare il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto (14), e la sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto, ma, dice Arrighi, a potere o prestigio (15). 


Giovanni Arrighi




In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio potere.


Si tratta anche di una lotta per l’egemonia. 


La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge la leadership, che, come dicono Arrighi e Silver in Caos e governo del mondo (16), si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di interessi generali (17), questa capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza.


Questa divagazione mostra la questione in campo.


In definitiva una possibile via di uscita dalla crisi di sottoconsumo in Occidente e di sovrapproduzione incipiente in Oriente, che li portano in rotta di collisione, è di avviare una ‘distruzione controllata’ nella seconda area, per sgombrare la sovracapacità, e una serie di impieghi ‘distrattivi’ (rispetto alla logica ‘capitalista’) nella prima. Salvaguardando, ovviamente, e anzi trovando impieghi alla sovrabbondanza di capitali, in modo che non rischino un crollo per carenza di fiducia e quindi illiquidità. Ma un impegno di questa portata richiede necessariamente la costruzione di un’emergenza che metta a tacere gli ‘spiriti animali’ che guardano sempre a cortissimo raggio. Al contempo che mobiliti le coscienze. Qualcosa che sia in grado di ‘dare una direzione’ al mondo, di focalizzarne le emozioni e di promettere la salvezza.

Richiede soprattutto la produzione di egemonia, perché bisogna mettere a tacere questi ‘spiriti’, assai concretamente operativi.


Allora nel periodo 2000-20 la quadra, come fu negli anni Cinquanta la Guerra Fredda, veniva dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i capitali potevano forzatamente essere impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti l'iniziativa privata. In conseguenza, secondo questa influente e autorafforzante idea, nella parte diffusa della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia circolare’ si potevano impiegare i ‘superflui’, combattendo il sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si poteva riconvertire riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione. Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava “Keynesismo privatizzato” (18). Quindi, la riconversione ecologica e slogan come “Non c’è più tempo”, svolgevano sotto il profilo strutturale e socioeconomico questa funzione strutturale vista dal punto di vista delle élite.


In questo contesto, fino a questi ultimi anni, l'Unione Europea (lo sconfitto dentro il fallito, ed una delle più blindate roccaforti delle citate élite) ha sognato, come usualmente gli capita di porsi come guida di questa transizione ad un mondo pacifico e fondato su tecnologie smart e rinnovabili. Due pilastri reggevano questo sogno (o delirio, se preferite): la spinta interna a creare un grande mercato, che avviasse un ciclo di investimenti autosostenuto, e la dotazione di finanza attivata dalle opportunità. Entrambe le cose ci sono state, ma in misura episodica, incerta e insufficiente. Al contempo, però, i competitori sistemici (in particolare la Cindia) hanno seguito il medesimo piano, ma, al contrario della Ue lo hanno fatto davvero. Hanno creato un enorme mercato, i relativi campioni industriali, ed hanno mobilitato a tale scopo ciclopici investimenti pubblici e quindi anche privati. 


Hanno vinto, come si riconosce ormai ovunque.


La differenza, infatti, tra la carenza di azione e capitali, endemica in un sistema a trazione capitalista e monopolistico incapace di decidere (non ultimo per l'eccesso di concentrazione dei capitali e quindi per la cattura del sistema di decisione pubblico), e la loro disponibilità nei tempi necessari del sistema “Orientale”, è talmente vistosa che ormai tutti si rendono conto di non riuscire a competere (nelle tecnologie per le rinnovabili elettriche, negli accumuli, ora anche nell'automotive in cui ci rifugiamo nei dazi). Il confronto tra le disfunzionali società rette dalla valorizzazione privata, miope ed a cortissimo raggio, in quanto dominata dal cosiddetto ‘capitale fittizio’ (o finanziario, largamente astratto), verso le società comunitarie, capaci di direzione e capitalizzazione adeguata, porta al cambio di fase che si intravede.

Una rappresentazione plastica di questa situazione può essere ritrovata in questa immagine.



Le reti elettriche nel mondo, 2024.



Le reti elettriche di trasmissione in alta ed altissima tensione, mappate in questo sito (19), identificano la maggiore intensità di attività reali che ormai la Cina e l’India hanno raggiunto rispetto ad Europa ed Usa. Si noti, non è questione di popolazione, l’Africa è quasi assente, ma di attività energivore e di case moderne.


Per questo dalla fase in cui la soluzione era cercata attraverso uno sviluppo forzato degli investimenti (gara che abbiamo perso), si passa ad un’altra forma di “distruzione controllata” che è, contemporaneamente, anche una forma di missione e di scopo: alla guerra.


C’è però, una differenza.


Nel momento in cui l'Occidente collettivo va alla guerra servono diversi capitali, al posto di quelli della New Economy, bisogna ri-creare le condizioni della rivalsa del Grande Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare & Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone nell'avvio di millennio. Il GCI, allora, chiede e ottiene protezione. Anche questo significa passare da una fase “capitalista” ad una “territorialista”.

Questo conflitto tra capitali (la forma standard del modo di produzione capitalista) ha una rilevante conseguenza che si inizia a vedere: un allentamento delle retoriche della transizione e della modernizzazione smart e un relativo indebolimento delle relative politiche di spinta. L'emergere di controforze solo apparentemente volte alla mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con un’altra.


Già cinque anni fa, quando si affacciò il movimento di Greta Thunberg, in un post (20) avevamo scritto che restavano solo due alternative, o, due modalità di espansione della “logica territorialista” nelle condizioni concrete di potere ed egemoniche di un Occidente sempre più disperato e corrotto:


  • - gli investimenti di potenza militari (in espansione e tradizionalmente praticati, quando dal ‘keynesismo privatizzato’ del primo tipo si passa a quello ‘finanziario’ (21) e da questo, infine, terminati tutti gli escamotage, a quello “militare”);
  • - la deviazione dei capitali sulla lotta a qualche ‘nemico esterno’ che giustifichi impieghi “ineconomici” (ovvero il passaggio dal “keynesismo finanziario”, cioè l’economia del debito, al “keynesismo ambientale”). 


Bisogna essere chiari: entrambe le forme funzionano proprio perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il capitale in eccesso, facendo rientrare la “fase finanziaria” ormai senza uscita (per l’Occidente). Chi accusa la seconda forma di transizione forzata di essere irrazionale, in quanto distrugge capitale, non ne capisce la funzione sistemica e inconsapevolmente appoggia l’alternativa, la pura e semplice distruzione del mondo (sperabilmente nemico).

La cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza. Scoperto di avere perso siamo quindi passati, semplicemente, dallo schema per il quale si puntava a cambiare la “piattaforma tecnologica” (22), certi di essere i più bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto che non è così (che i Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna alle care vecchie armature. 

E’ per questo che le tecnologie della transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra non si può certo comprare dal nemico.


Quale la nostra agenda in questo tragico bivio? Sono convinto che la ricerca di una soluzione che non sia subalterna a questa costante ricerca dell’emergenza distrattiva, ma neppure alla sua semplice negazione oppositiva debba passare per i seguenti nodi:


  • - Ripensare l’Occidente in una comprensione multipolare e pluriculturale, che consapevolmente conduce a termine, nello spirito e nel concetto, la fase del dominio dell’ultimo mezzo millennio. Pensarsi eguali e non superiori.
  • - Immaginare la modernizzazione come cooperazione e non come lotta. Come confronto con l’Altro e la sua via, come pluralità di sentieri.
  • - Accogliere l’Altro come dono e non come un medesimo incompleto, superare l’autismo di una cultura incapace di guardarsi come parte del mondo, ma che si pensa come l’unico e vero mondo.
  • - Scegliere la traiettoria di uscita dalla trappola della finanziarizzazione che non comporti la distruzione del mondo. Che utilizzi il Grande Governo per impiegare il capitale sovrabbondante (e per lo più nominale o ‘fittizio’), sottraendolo al controllo di pochi, per nuovi cicli di investimento e distribuzione.
  • - Non farsi arruolare dai grandi giochi del capitale. Dal continuo gioco degli specchi, per il quale il nemico del GCI, viene venduto come il nostro.
  • - Unire le periferie. 
  • - Porre la questione di “cosa” e “perché” produrre. 
  • - Per quale uomo e quale vita.


Note


(1) Se dico ‘comincia ad affacciarsi’ intendo proprio che gli eventi degli ultimi anni sembrano materializzare lo spostamento emozionale dalla ricostruzione/rigenerazione che informa il periodo terminale degli anni Novanta, sincrono con l’ascesa dei nuovi competitori (ma quando non erano percepiti come minaccia, quanto come opportunità per riavviare o potenziare un ciclo economico e di modernizzazione), alla sconfitta/distruzione di un nemico esistenziale che è, contemporaneamente, anche un barbaro.  


(2) Si veda “La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”, Tempofertile 26 aprile 2024


(3) Se pure non attribuibile al testo di Marx, quanto alla sua ricezione.


(4) Uso questo termine nella tradizione di ricerca della “Scuola del sistema mondo”, oggetto del mio libro del 2020, Dipendenza, per Meltemi. 


(5) Effetto della carenza di domanda aggregata creata da una distribuzione delle risorse che finisce per spostarle verso la finanza interconnessa.


(6) Un eccesso di capacità produttiva che trova senso solo nella domanda esterna, determinando gli squilibri produttivi, commerciali e quindi finanziari che stanno squassando il mondo (da ultimo determinando anche i flussi migratori).


(7) Sul piano tecnico gli attriti sono ridotti dalla completa dematerializzazione del capitale, su quello tecnico dalla infrastruttura, enormemente energivora, della gestione dell’informazione, su quello normativo dalla deregolazione e dalla uniformazione.


(8) La simmetrica soluzione al sottoconsumo ed alla sovracapacità (ovvero il riequilibrio della estero-flessione, come dice ad esempio Dani Rodrik) è resa necessaria dall’equilibrio contabile d’area. Altrimenti l’investimento in un’area non riassorbirebbe i sottoconsumi, traducendosi in aggravamento della crisi fiscale e ulteriore estero-flessione e ipertrofia delle “periferie”. Lo schema porterebbe solo a maggiore finanziarizzazione ed aggravamento della crisi, quindi dello “stato di consolidamento” (Streeck) nel medio periodo. In altre parole, è un vincolo di “sistema mondo”.


(9) Per una delle migliori analisi di questi fenomeni, in un quadro categoriale keynesiano, si veda Massimo Amato, Luca Fantacci, Fine della finanza, Donzelli 2009.


(10) https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf  


(11) “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono”. Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, libro III, p. 350


(12) Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a questa tendenza è l’espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche, alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi “accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per attrarli a condizioni meno onerose.


(13) Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali, generando la contraddizione essenziale).


(14) A sua volta determinato per via di concorrenza. 


(15) Storicamente, nei vari cicli di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza i mercati, territori e popolazioni”.


(16) Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Torino 2003 (ed. or. 1999).


 (17) Ivi, p.30


 (18) Vedi Hyman Minsky, Keynes e l'instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed. or. 1975). 

(19)  https://openinframap.org/#2/20.59/-2.55 


(20) “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”, Tempofertile, 19 marzo 2019. - 


 (21) Per questo la classica analisi di Streeck “L’ascesa dello stato di consolidamento europeo”.  


(22) Chiamo "Piattaforma tecnologica" un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).

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